Francia
(XV, p. 876; App. I, p. 620; II, i, p. 969; III, i, p. 670; IV, i, p. 855; V, ii, p. 313)
Geografia umana ed economica
di Piergiorgio Landini
Negli anni Novanta, le tematiche ambientali, e in particolare quelle concernenti i rischi naturali, sono divenute oggetto in F. di ampie e approfondite ricerche, sollecitate, da un lato, dai movimenti di opinione e, dall'altro, dalla crescente frequenza di eventi calamitosi come, per es., le precipitazioni di eccezionale intensità. A queste ultime si deve il fenomeno delle inondazioni, che il fitto reticolo idrografico porta a interessare gran parte del territorio e, con notevole pericolosità, oltre il 20% delle 36.000 unità amministrative comunali. Di fronte agli eccessi idrologici - fra cui, all'opposto, si segnalano le crisi di siccità che colpiscono soprattutto il bacino della Garonna nel periodo estivo - la 'politica delle acque' messa in atto è risultata assai difforme tra le varie regioni.
Mentre, infatti, il bacino della Senna risulta sufficientemente dotato di laghi-serbatoi, in grado di contenere almeno in parte le piene, la preoccupazione di salvaguardare le caratteristiche naturali del bacino della Loira ha fortemente condizionato e ritardato gli interventi di regimazione; a sua volta, nel bacino del Rodano, ai classici sbarramenti fluviali destinati alla produzione di energia idroelettrica non ha fatto riscontro una pianificazione organica tendente, appunto, a limitare il pericolo delle alluvioni. Altro problema assai vivo è quello dell'erosione e del dissesto legato alla dinamica geomorfologica. Movimenti più o meno rilevanti del terreno interessano il 10% dei comuni francesi, ubicati nelle valli alpine, nei bacini sedimentari e lungo i litorali, ma anche nei bassopiani alluvionali e nei versanti collinari dell'Aquitania, della Champagne e dell'Alsazia. Vanno ancora tenuti presenti i fenomeni di subsidenza, legati alla presenza di miniere abbandonate, che si manifestano nell'antico bacino carbonifero del Nord.
Anche in materia di copertura forestale è in atto un vivace dibattito, alla cui base sta, comunque, un incremento della superficie boschiva del 30% nell'ultimo quarantennio del 20° secolo, che l'ha portata a sfiorare i 16 milioni di ha, esclusi i pioppeti. Questi, considerati piuttosto piantagioni e assai diffusi nelle regioni occidentali e settentrionali, sono espressione della forestazione industriale, da molti contestata; come pure gli estesi rimboschimenti di resinose effettuati tanto in alta montagna (Pirenei, Massiccio Centrale) quanto in pianura (Lande, Bacino di Parigi), accusati di avere stravolto il paesaggio naturale e compromesso le attività agro-pastorali, e che risultano i più esposti all'azione distruttrice delle 'piogge acide'. Vi è, poi, una miriade di piccoli appezzamenti boscati (circa 3,5 milioni di ha), che rappresentano il 25% della superficie forestale: da molti ritenuti un impedimento alla razionalizzazione di uso del suolo, essi formano tuttavia un patrimonio di grande rilevanza di fronte ai progetti di ricostituzione dell'ecosistema, tutela della biodiversità e creazione di una rete di aree verdi, anche periurbane. Per quanto concerne, infine, i rischi ambientali antropogeni, ovvero derivati dal processo di industrializzazione e a lungo cumulati in un paese a economia matura, va sottolineato come la decisa opzione per l'energia nucleare (giunta al 75% del totale) abbia drasticamente ridotto le emissioni prima generate dalle fonti di energia termica convenzionale: unitamente al processo di delocalizzazione e diffusione delle attività produttive, ciò ha contribuito ad allentare, specie nelle aree urbane 'critiche', la morsa dell'inquinamento idrico e atmosferico, i cui effetti di lungo periodo restano, tuttavia, difficilmente reversibili.
Popolazione
La tendenza all'incremento demografico è proseguita negli anni Novanta (60.163.693 ab. secondo una stima del 1999), ma si è anche confermato un pur lieve rallentamento della crescita, dovuto alla diminuzione della natalità (scesa al 12‰), mentre il saldo migratorio ufficiale dovrebbe stabilizzarsi intorno a 50.000 unità all'anno. Le proiezioni elaborate dall'Istituto nazionale di statistica, secondo lo scenario - ritenuto il più attendibile - di una prosecuzione del trend recente, vedono la popolazione francese raggiungere i 61.700.000 ab. nel 2010, i 63.450.000 ab. nel 2020 e i 65.100.000 ab. nel 2050. Limitandosi al breve periodo, si manterrebbe dunque un tasso di accrescimento intorno al 3‰ annuo; successivamente, esso dovrebbe progressivamente ridursi al 2,5‰.
All'interno del paese, i contrasti attualmente esistenti tenderebbero viceversa ad accentuarsi. Incrementi superiori alla media e compresi fra il 7 e il 12‰ annuo riguarderebbero le regioni meridionali e centrali, mentre la regione parigina, insieme all'Alsazia, al basso bacino della Loira e all'Aquitania, si collocherebbe sul valore medio; per contro, regioni come il Poitou-Charentes farebbero registrare un'inversione di tendenza intorno al 2005, passando a valori negativi, e altre (Alvernia, Champagne-Ardenne, Limosino, Lorena e Nord-Pas-de-Calais) subirebbero perdite più o meno marcate lungo l'intero periodo. Per effetto della distribuzione attuale della popolazione, ciò significa che i due terzi dell'incremento complessivo verrebbero assorbiti da 4 regioni su 22 (Île-de-France, 23%; Provenza-Alpi-Costa Azzurra, 17%; Rodano-Alpi, 16%; Languedoc-Roussillon, 10%) e, scendendo in un maggiore dettaglio territoriale, addirittura l'82% verrebbe assorbito solo da 20 dei 96 dipartimenti. Allo stesso modo tenderebbe ad aumentare la concentrazione urbana, anche se le città non riuscirebbero, nelle aree demograficamente più deboli, a compensare le perdite registrate dalle zone rurali (così, per es., nella Charente, nella Dordogna e nel Massiccio Centrale). L'eccedenza naturale, pur in flessione, resterebbe sensibile, e pari all'85% dell'intero bilancio francese, nell'Île-de-France, Nord-Pas-de-Calais e Rodano-Alpi, tuttavia con un'accentuazione del saldo migratorio già ora negativo per le prime due regioni, mentre la terza, insieme al Sud (dall'Aquitania alla fascia mediterranea), vedrebbe fortemente aumentare la propria capacità di attrazione degli spostamenti interni: il problema è di capire se tali influssi riguarderanno popolazione giovane, in età lavorativa o anziana. Altro tema fondamentale è, infatti, quello dell'invecchiamento strutturale: nel 2010 l'incidenza delle classi di età al di sotto dei 20 anni scenderà, nel complesso, al 24% del totale contro il 28% del 1990, mentre quella delle classi oltre i 60 anni passerà dal 19 al 23% (ma al 30% in una quindicina di dipartimenti) e l'aumento della speranza di vita media vi accrescerà il numero degli abitanti con oltre 75 anni di età (quasi il 9%, e punte del 14% in regioni come il Limosino). La senilizzazione interesserà particolarmente la fascia geografica compresa fra la Borgogna, il Massiccio Centrale e l'Aquitania rurale, ma anche dipartimenti mediterranei come la Costa Azzurra (in cui, tuttavia, dovrebbe essere almeno parzialmente compensata dall'immigrazione di popolazione attiva) e, fatto nuovo, le regioni dell'Ovest; viceversa, l'Île-de-France e le regioni settentrionali dovrebbero essere più al riparo dagli effetti connessi alla dinamica naturale, all'immigrazione estera e all'emigrazione stessa di anziani verso il Sud.
L'economia francese, pur mantenendo la sua complessiva solidità, ha attraversato, negli anni Novanta, fasi alterne di recessione e di espansione: il PIL ha subito una flessione dell'1,3% nel 1993, per poi tornare a crescere del 2,8% nel 1994 e, in media, del 2% circa nel 1995-97. Il valore del reddito pro capite (che ammontava a quasi 25.000 dollari USA nel 1998) colloca il paese all'undicesimo posto della graduatoria mondiale, anche se, considerando il potere d'acquisto, esso perde alcune posizioni; riferendosi all'indicatore di sviluppo umano elaborato dall'ONU con l'aggiunta di altri parametri socio-economici (sanità, istruzione, urbanizzazione, ambiente), la F. si attesta, viceversa, nei primissimi posti. Il contributo dei singoli settori alla formazione del PIL è ulteriormente variato a favore del terziario: l'agricoltura, infatti, è scesa al 2% e l'industria, nel suo complesso, al 26% (di cui il 21% va attribuito al comparto manifatturiero), mentre i servizi coprono il restante 72% (1996).
Permane, specialmente ai livelli superiori (e con particolare riferimento al settore quaternario), il formidabile squilibrio fra Parigi e il resto del paese: la capitale concentra tuttora il 90% del potere finanziario; netto è il divario anche nell'insieme delle attività di base, per le quali si collocano al secondo rango le 'metropoli regionali' (Lione, Marsiglia, Bordeaux, Nantes, Lilla, Nancy, Strasburgo e Tolosa). La politica di organizzazione del territorio, in precedenza basata sul tentativo di rafforzare queste città come poli di equilibrio, ha ricevuto una significativa modificazione di indirizzo a partire dal 1995, e punta ora sulla diffusione della rete di comunicazioni autostradali e ferroviarie ad alta velocità, dei servizi avanzati e dell'innovazione. Il modello della 'tecnopoli' si è andato affermando nelle regioni meridionali (Sophia Antipolis, presso Nizza; Tolosa; Grenoble) come in quelle centro-settentrionali (Rennes; Nancy), anche a sostegno delle aree in crisi (Lilla).
A sua volta, il modello localizzativo dell'industria si è evoluto nella direzione non più solo del decentramento di segmenti produttivi dalle grandi agglomerazioni, ma soprattutto della valorizzazione di fattori locali (imprenditorialità, generi di vita, qualità dell'ambiente), dando impulso a 'distretti' specializzati nei rami tessile, alimentare, del cuoio e del legno, meccanico ed elettromeccanico (specie nelle regioni dell'Ovest), delle materie plastiche (Rodano-Alpi) e in lavorazioni ad alta tecnologia sviluppatesi su quelle tradizionali (per es., l'orologeria nella valle dell'Arve).
La popolazione attiva si ripartisce, fra i tre grandi settori, in misura quasi identica alle percentuali di composizione del PIL, con un lieve sovradimensionamento nel primario (4,5% nel 1996), che ha tuttavia ridotto la propria incidenza sulle esportazioni (15,5%). L'ulteriore diminuzione dell'occupazione industriale (26% degli attivi) stenta ormai a trovare assorbimento nel terziario, e il tasso di disoccupazione, dopo un lieve calo nel 1995 (11,5%), è risalito al 12,4% nel 1997 per poi ridiscendere all'11,8% nel 1998.
Le difficoltà emerse nel 1997 per l'adeguamento ai parametri dell'Unione monetaria europea non hanno certo favorito la risoluzione di questo come di altri problemi sociali (per es. la riforma del sistema pensionistico), accentuati, in prospettiva, dal trend demografico e da provvedimenti come l'abolizione del servizio militare obbligatorio, che anticiperebbe l'ingresso dei giovani in un mercato del lavoro già apparentemente saturo. Positivi, al contrario, i grandi investimenti nel settore dei trasporti, soprattutto ferroviari: la rete ad alta velocità, dall'originaria direttrice N-S (Parigi-Lione), si estende ora verso le regioni economicamente meno sviluppate dell'Ovest (Parigi-Bordeaux) e verso Est, per la saldatura alla rete europea. Tale integrazione, legata anche all'articolato sviluppo delle idrovie (da tempo i porti mediterranei situati alla foce del Rodano sono funzionalmente integrati con quelli del Nord, posti alla foce del Reno e della Schelda, lungo i corridoi lotaringico e alsaziano) e favorita dall'apertura (1994) del tunnel che passa sotto il Canale della Manica, configura uno scenario di grande interesse per il recupero di centralità da parte del Nord industriale in declino e, complessivamente, per la crescita dei flussi commerciali e turistici internazionali. La bilancia degli scambi con l'estero (per il 60% nell'ambito dell'Unione Europea) è tornata attiva nel 1992 e l'anno successivo ha toccato un rapporto del 103% fra esportazioni e importazioni, ripetuto e anche aumentato negli anni successivi. Ancora sensibilmente aumentato è il numero dei visitatori stranieri, che hanno superato i 60 milioni annui.
bibliografia
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D. Noin, L'espace français, Paris 1996⁹; V. Gervaise, B. Quirin, E. Cremieu, Le nouvel espace économique français, Paris 1997.
Tra le riviste si segnala, per l'ampia documentazione, L'Information géographique.
Politica economica e finanziaria
di Giuseppe Smargiassi
Anche nel corso degli anni Novanta, le politiche economiche della F. hanno mantenuto l'obiettivo prioritario della stabilizzazione del tasso di cambio del franco con il marco tedesco, secondo le linee definite dalla politica del 'franco forte' avviata all'inizio degli anni Ottanta. L'adeguamento ai criteri di convergenza stabiliti dal Trattato sull'Unione Europea ha inoltre rafforzato l'orientamento restrittivo delle politiche monetarie e di bilancio, e la volontà di collocare la F. nel nucleo dei 'paesi forti' dell'Unione economica e monetaria (UEM) si è tradotta nella scelta di privilegiare la stabilità dei cambi rispetto al conseguimento di altri obiettivi come la crescita e l'occupazione.
Quest'orientamento è emerso in modo evidente in occasione della crisi valutaria che nel settembre 1992 ha investito il Sistema monetario europeo (SME), nel corso della quale la Banca Centrale di Francia ha insistito nella difesa a oltranza del franco dagli attacchi speculativi, nonostante l'enorme perdita di riserve valutarie e la forte crescita dei tassi di interesse che ciò ha comportato. Le autorità monetarie francesi, grazie anche al sostegno della Bundesbank, sono riuscite ad assicurare la stabilità del franco, ma al prezzo di una contrazione del PIL (−1,3% nel 1993) accentuata dalla grave recessione economica che in quel periodo colpiva gran parte delle economie europee. Il mantenimento della parità con il marco, inoltre, ha posto le esportazioni francesi in una situazione di svantaggio nei confronti dei prodotti provenienti da paesi, come Italia e Gran Bretagna, che, usciti dallo SME, hanno lasciato fluttuare la propria moneta. Al debole andamento della domanda interna (la cui crescita nel 1993 è risultata praticamente nulla) si è aggiunto così il brusco rallentamento delle esportazioni che ha frenato l'attività produttiva e spinto il numero dei disoccupati nel 1993 al tasso dell'11,7%.
Di fronte all'emergenza occupazionale, la scelta del governo e delle autorità monetarie è stata quella di mantenere inalterata la stretta monetaria attuando nel contempo una serie di provvedimenti volti a tamponare la crescita della disoccupazione. Sono state così introdotte facilitazioni fiscali per le assunzioni, riduzioni degli oneri sociali a carico delle imprese, misure a favore dell'apprendistato e della riqualificazione professionale, sussidi ai disoccupati e altri interventi finanziati con trasferimenti pubblici. I provvedimenti in favore dell'occupazione sono risultati nel complesso inefficaci, dal momento che parte della crescita del numero dei disoccupati dipendeva dai processi di disinvestimento avviati dalle imprese e accelerati dalle condizioni monetarie restrittive. Queste ultime, d'altronde, motivate dalla necessità di favorire il processo di adeguamento all'UEM, hanno prodotto, nella fase di recessione economica, risultati opposti a quelli previsti.
In effetti, fino al 1991 il quadro delle variabili macroeconomiche della F. risultava pienamente coerente con i parametri stabiliti dal Trattato sull'Unione Europea: dopo il 1993, invece, l'attuazione delle politiche restrittive ha amplificato la flessione del PIL e accelerato il deterioramento delle finanze pubbliche. Così, le minori entrate fiscali dovute alla recessione, la crescita del servizio del debito conseguente all'aumento dei tassi di interesse, gli alleggerimenti fiscali concessi alle imprese e i trasferimenti stanziati in favore dei disoccupati hanno spinto il disavanzo pubblico in rapporto al PIL al 5,7%, ben oltre, quindi, la soglia del 3% richiesta per l'ingresso nell'UEM. Nella seconda metà del 1993, nonostante le ripetute tensioni sul mercato dei cambi, la situazione economica della F. ha mostrato segni di miglioramento. La recessione economica, avendo spinto verso il basso il livello delle importazioni, ha permesso alle partite correnti di raddoppiare in valore rispetto al 1992. Inoltre, la debolezza stessa della domanda interna ha fatto scendere il tasso di inflazione (2,2% nella media del 1993) offrendo alle autorità monetarie l'opportunità di ritoccare verso il basso i tassi di interesse a breve termine.
I segnali di una vera e propria ripresa economica, comunque, si sono manifestati solo nel 1994, nel corso del quale il PIL ha fatto registrare una variazione positiva del 2,8% dovuta in larga misura alla crescita della domanda mondiale e in particolare all'aumento delle importazioni tedesche. I consumi privati interni sono rimasti invece sostanzialmente deboli, anche per effetto della modesta dinamica salariale che ha favorito una nuova discesa del tasso di inflazione (2,2%) e aperto nuovi margini all'utilizzo degli strumenti monetari in funzione di sostegno all'attività produttiva. È stato così possibile stimolare una certa crescita degli investimenti produttivi, anche se non sufficientemente forte da arrestare il continuo incremento del tasso di disoccupazione che, alla fine del 1994, ha raggiunto il 12,2%. Sul fronte dei conti pubblici, invece, la persistenza del disavanzo di bilancio su valori vicini al 6% ha provocato una crescita accelerata del debito pubblico, che ha subito in quattro anni un incremento di oltre 15 punti percentuali in rapporto al PIL, portandosi nel 1994 al valore del 56,1%.
Nel 1995, il rallentamento della crescita economica (scesa al 2,1%) ha messo in evidenza le sempre maggiori difficoltà da parte delle autorità preposte al controllo dell'economia nel realizzare simultaneamente i due obiettivi della lotta alla disoccupazione e del rientro del disavanzo pubblico. Il nuovo governo guidato da A. Juppé si è così trovato di fronte al problema di come reperire le risorse per il finanziamento dei programmi di sostegno all'occupazione senza compromettere l'obiettivo di riportare il deficit pubblico (4,9% nel 1995) in linea con i valori richiesti dal Trattato sull'Unione Europea. In questo contesto di scelta, l'azione di politica economica del governo si è mostrata incerta e a tratti contraddittoria. Alla priorità accordata in un primo momento al problema dell'occupazione ha fatto seguito un piano di interventi che, nella realtà, non si è scostato molto dalle direttrici già tracciate dai governi precedenti. I provvedimenti adottati - che prevedevano sovvenzioni e premi in denaro alle imprese in cambio di nuove assunzioni, la fiscalizzazione degli oneri sociali, la diffusione del lavoro interinale, la riduzione dell'orario settimanale di lavoro, l'incentivazione del part-time e altre misure di deregolamentazione del mercato del lavoro - sono stati ben presto ridimensionati, essendosi mostrati eccessivamente onerosi (per il loro finanziamento è stato previsto un aumento dell'IVA dal 18,6 al 22,6%), e decisamente deludenti sotto il profilo della creazione di nuovi posti di lavoro.
Sul fronte dei conti pubblici, invece, gli sforzi del governo si sono indirizzati in particolare sui piani di ristrutturazione di alcuni comparti dell'amministrazione pubblica (quali le ferrovie e i trasporti aerei) e soprattutto sulla proposta di riforma del sistema di previdenza sociale, il cui disavanzo era ritenuto una delle principali cause dell'elevato livello del debito pubblico.
Il piano di riforma di Juppé, presentato nell'autunno del 1995, si proponeva due obiettivi: l'eliminazione entro il 1997 del deficit della previdenza sociale, passato dai 15 miliardi di franchi del 1992 agli oltre 60 miliardi del 1995, e l'estinzione entro tredici anni dell'enorme debito accumulato, che nel 1995 aveva superato i 300 miliardi di franchi. Tra le misure da adottare si prevedeva: l'introduzione di nuove procedure di controllo delle spese sanitarie, l'innalzamento degli anni di contribuzione pensionistica dagli originari 37,5 a 40 per il settore pubblico, la tassazione degli assegni familiari, l'introduzione di un nuovo prelievo (contribution sociale généralisée) destinato a sostituire i contributi dei lavoratori dipendenti, l'aumento dello 0,5% dell'imposta sui redditi. Colpendo in modo generalizzato tutti i gruppi sociali, le proposte del piano di riforma hanno suscitato un diffuso malcontento, sfociato poi, nel dicembre del 1995, in una serie di massicce mobilitazioni di piazza. L'incalzare degli scioperi ha convinto Juppé ad abbandonare il programma di riforma pensionistica, a rivedere il piano di riassetto del settore sanitario e previdenziale e a rimodulare così gli obiettivi quantitativi del piano.
Il fallimento delle iniziative di riforma pensionistica e l'insorgere di una 'minirecessione' all'inizio del 1996 - in gran parte dovuta all'ondata di scioperi del dicembre 1995 - hanno riproposto l'urgenza del risanamento della finanza pubblica e spinto il governo, fino a quel momento ancora incerto sulla 'scelta europea', a concentrare gli sforzi sull'adeguamento ai parametri richiesti per l'ingresso nell'UEM. Questa scelta non si è tradotta però in un piano organico di interventi, dal momento che l'unico provvedimento adottato di un certo rilievo è consistito nel blocco degli stipendi e della spesa pubblica, riportati sui livelli del 1995. Il governo è comunque riuscito ad abbassare drasticamente il deficit di bilancio ricorrendo ad alcuni artifici contabili, come il rilevamento dei fondi pensionistici della società France Télécom, in quel momento in fase di privatizzazione. Quest'operazione, contestata anche dalla Commissione dell'Unione Europea, ha permesso di trasferire sul bilancio statale alcune decine di miliardi di franchi e di portare il rapporto tra disavanzo pubblico e PIL al 4,1% alla fine del 1996. Relativamente alla politica monetaria, l'orientamento della Banca Centrale di Francia è rimasto in linea con l'obiettivo del franco forte. Pertanto, nonostante il sensibile calo del tasso di inflazione (giunto all'1,8% nel 1996, anche se in leggera crescita rispetto al 1995, in seguito agli aumenti dell'IVA decisi in quell'anno), le autorità monetarie hanno proseguito con la politica di rigido controllo degli aggregati monetari, consentendone la crescita soltanto in risposta alle riduzioni dei tassi di interesse che la Bundesbank ha avviato a partire dalla seconda metà del 1995.
Nel 1997 l'economia francese ha fatto registrare una nuova ripresa (2,3%), favorita soprattutto dalla crescita della domanda estera. Il rafforzamento del dollaro sul marco e sul franco ha restituito competitività alle esportazioni francesi, permettendo la formazione di un ampio attivo sia di parte commerciale sia di parte corrente. La domanda interna è rimasta invece sostanzialmente stagnante: la sua debole variazione (0,6%) ha comunque favorito la discesa del tasso di inflazione che si è portato su uno dei livelli più bassi (1,1%) registrati dagli anni Cinquanta. A fronte di questi risultati positivi, si è verificata però un'ulteriore crescita del tasso di disoccupazione che alla fine del 1997 ha raggiunto il 12,4%.
Con l'insediamento del nuovo governo presieduto da L. Jospin, nella primavera del 1997, si è assistito a un mutamento delle strategie, ma non dei fini della politica economica francese. Sul fronte dell'occupazione, il governo ha varato un piano triennale volto alla creazione di 700.000 posti di lavoro (metà dei quali nel settore pubblico) finanziato in larga misura dallo Stato, e ha lanciato la proposta di riduzione della settimana lavorativa a 35 ore a parità di salario. L'obiettivo della convergenza verso la moneta unica rimaneva prioritario, e le misure adottate dal governo per contenere il deficit pubblico hanno riguardato l'aumento temporaneo dell'aliquota sui profitti societari, l'innalzamento delle imposte sui capital gains e il taglio di spese pubbliche nel settore della difesa. Le misure di politica economica ricordate sopra e altre riguardanti gli accantonamenti di alcune aziende pubbliche hanno permesso alla F. di entrare nel novero dei paesi partecipanti alla moneta unica europea sin dall'inizio (gennaio 1999). Nel 1998, la crescita del PIL è stata abbastanza forte, guidata dal sostenuto incremento della domanda interna. L'inflazione ha continuato a decrescere e alcune indicazioni positive sono emerse nel mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione è di nuovo sceso sotto il 12%, mentre l'occupazione è aumentata di circa l'1,4%, riavvicinandosi ai tassi degli ultimi anni Ottanta.
bibliografia
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G. Ross, La politica economica e sociale di Chirac e Juppé: dalle ambiguità iniziali alla sconfitta elettorale, in Europa/Europe, 1997, 2, pp. 131-62.
Storia
di Francesca Socrate
Alla metà degli anni Novanta, la situazione sociale e politica della F. presentava forti elementi di continuità con la sua storia precedente e, al contempo, importanti fattori di novità. A partire dagli anni Settanta, la società francese aveva attraversato trasformazioni profonde che, insieme a una forte urbanizzazione, avevano prodotto un ampliamento di nuovi settori produttivi (soprattutto nel settore terziario), la dilatazione di un'area di pauperismo assistita, l'aumento massiccio di lavoratori extracomunitari, il progressivo slittamento della conflittualità dai confini sociali a quelli più propriamente etnico-culturali. Il quadro politico mostrava, accanto alla persistenza degli schieramenti tradizionali della F. del secondo dopoguerra (la destra moderata dei neogollisti, dei liberali e dei democristiani, e, a sinistra, i comunisti e i socialisti), presenze nuove, come gli ecologisti o gli estremisti di destra del Front national (FN) guidato da J.-M. Le Pen.
Seppure con dimensioni mutate e mutati rapporti di forza fra loro, i due raggruppamenti della destra e della sinistra continuavano a essere composti ciascuno da due partiti principali. La destra moderata si componeva dell'Union pour la démocratie française (UDF) - frutto della fusione attuata nel 1978 tra liberali e democristiani sotto la guida di R. Barre - e dei neogollisti del Rassemblement pour la république (RPR), nato nel 1976 a opera di J. Chirac.
Con un potere elettorale basato essenzialmente sul notabilato locale, negli anni Ottanta l'UDF aveva sostenuto una linea fortemente liberista deviata poi, sul finire del decennio, verso un'impostazione più vicina a istanze socialdemocratiche. Anche il RPR, che nel corso degli anni Ottanta aveva registrato un rafforzamento elettorale e la perdita del suo tradizionale carattere interclassista a vantaggio di ceti borghesi solidi e privilegiati, aveva operato uno slittamento a destra rispetto alla linea gollista originaria per volgersi verso un conservatorismo culturale e un sostanziale liberismo. A sinistra, il partito comunista si era avviato ormai dai primi anni Ottanta a un drammatico declino, mentre quello socialista, nonostante le profonde e ricorrenti crisi, si era ormai consolidato quale forza politica egemone dello schieramento. La crescita elettorale del partito socialista, nel corso degli anni Settanta, era stata il riflesso di quel profondo mutamento della società francese che aveva visto la comparsa di nuove classi medie (insegnanti, operatori sociali, tecnici, quadri intermedi, impiegati) le quali, dotate prevalentemente di un alto livello scolare, sostituivano ai valori tradizionali dell'ideologia conservatrice quelli di un nuovo 'liberalismo culturale' (libertà nei rapporti familiari, tolleranza, edonismo, rispetto dell'autonomia individuale), nel quadro di una più generale secolarizzazione della morale. La sinistra non comunista aveva trovato in questi nuovi ceti, portatori di elementi di modernità, un'ampia base elettorale cui si erano affiancati, soprattutto a fronte del tramonto storico del Parti communiste français (PCF), ampi settori delle classi popolari. Ma dalla metà degli anni Ottanta le perduranti difficoltà economiche del paese, gli alti tassi di disoccupazione, i problemi di integrazione sociale che la forte presenza di lavoratori extracomunitari portava con sé - fenomeni rimasti sostanzialmente irrisolti durante i governi socialisti - provocarono una crisi di consenso nei confronti del Parti socialiste (PS). Ampie fasce dell'elettorato giovanile abbandonarono i socialisti a favore del movimento ecologista e rilevanti settori della tradizionale base popolare passarono al FN di Le Pen, mentre gravi scandali colpivano importanti esponenti del partito coinvolti in casi di corruzione. La risposta 'politica', che nel dicembre 1989 si tradusse in una legge sull'amnistia per i reati relativi ai finanziamenti ai partiti e alle campagne elettorali precedenti il giugno 1989, inasprì la crisi dei rapporti del PS (e del sistema dei partiti nel suo complesso) con l'opinione pubblica e soprattutto con la magistratura, che accusò il ceto politico di minacciare gravemente l'autonomia del potere giudiziario. Le tensioni razziali che esplosero in forme gravi nelle periferie urbane (1990-91), il terrorismo corso che riprese con violenza nel 1990 e l'ostilità di parte dei Francesi alla partecipazione alla guerra del Golfo (gennaio-febbraio 1991) costituirono ulteriori atti di accusa contro la classe dirigente socialista che, nonostante i cambiamenti operati al vertice del governo e dello stesso partito, non riuscì ad arrestare il proprio declino.
Il vecchio schema bipolare aveva nel frattempo subito un processo di frazionamento, con la comparsa sulla scena politica del FN, all'estrema destra, e del movimento ecologista, a sinistra, insieme ad altri gruppi nati nel 1992 come forme di contestazione dei partiti (Autre Europe, guidato dall'ex esponente dell'UDF Ph. de Villiers, e il Mouvement des citoyens, MDC, nato da una scissione del PS operata da J.-P. Chevènement).
Il FN di Le Pen combinava insieme motivi diversi della tradizione dell'estrema destra francese. Nato nel 1972 dall'unione del filone nazionalista e dell'ala conservatrice guidata da Le Pen, il FN conobbe un esordio poco significativo dal punto di vista elettorale fino a che, perduti alla fine degli anni Settanta i caratteri più duri dell'estremismo di destra, cominciò ad assumere toni più moderati nel quadro di una forte connotazione nazional-populista, conquistando fin dal 1983 una consistente presenza elettorale che crebbe ulteriormente negli anni successivi. La linea del FN fu da allora caratterizzata da un liberismo economico corretto da un 'capitalismo popolare' a protezione dei ceti medi contro le élites economiche tradizionali, da una domanda di democrazia referendaria e plebiscitaria e dalla richiesta di uno Stato forte. La connotazione più significativa del FN è stata comunque, fin dall'inizio, un'ideologia nazionalista, antisemita, razzista e xenofoba, secondo la quale gli immigrati sono sempre stati indicati come la minaccia più grave all'identità nazionale del paese cui rispondere con un aumento delle nascite e con l'affermazione del principio della 'preferenza nazionale', sia nelle assunzioni di lavoro sia nell'erogazione delle varie forme di assistenza sociale. In politica estera, il FN ha sempre assunto una posizione antieuropeista in nome di una 'Europa delle patrie'.
In questo contesto sociale e politico, nel marzo 1993 si tennero le elezioni legislative, in un clima difficile per la coalizione di governo guidata dal socialista P. Bérégovoy: nel corso del 1992 diversi esponenti politici, soprattutto socialisti, erano stati indagati per corruzione e altri illeciti di carattere finanziario.
Le elezioni videro così il crollo del PS, che precipitò da 252 a 54 seggi (un crollo che ebbe come tragico epilogo, un mese dopo, il suicidio dello stesso Bérégovoy), mentre la sinistra nel suo insieme non raggiunse che il 20,3% dei voti. Trionfarono invece il RPR (247 seggi) e l'UDF (213 seggi); il PCF scese a 23 deputati, mentre il FN e i due gruppi ambientalisti (Les Verts e Génération écologie) che si erano presentati uniti, pur realizzando un buon risultato percentuale (rispettivamente, il 12,41% e il 7,63% al primo turno), non ottennero seggi. Il raggruppamento di centro-destra si trovava così ad avere, con l'ausilio delle piccole formazioni alleate, ben 484 seggi contro i 70 della coalizione a guida socialista (PS, Mouvement des radicaux de gauche e gli altri gruppi minori della sinistra): si era venuta dunque nuovamente a creare una situazione di coabitazione tra un presidente e un gabinetto appartenenti a opposti schieramenti, fenomeno che ha caratterizzato la vita politica francese degli ultimi decenni a partire dal biennio1986-88 (quando con F. Mitterrand presidente, J. Chirac era primo ministro).
Il nuovo governo di centro-destra, guidato dal neogollista E. Balladur, pose tra i suoi primi obiettivi la riduzione del deficit e della disoccupazione: ma le misure adottate tra il 1993 e il 1994 non si dimostrarono efficaci, mentre una più severa legislazione sull'immigrazione e il conferimento agli immigrati della cittadinanza francese, accanto ad alcuni tentativi di ridurre gli ambiti di intervento dell'assistenza pubblica, incontrarono una forte opposizione sociale. Anche per quanto riguarda le relazioni internazionali, il governo Balladur fu da più parti attaccato per l'intervento militare in Ruanda (aprile 1994); tale intervento sembrava servire da copertura al tradizionale appoggio che la F. aveva da sempre offerto alle forze governative, nonostante fosse stato ufficialmente motivato dalla necessità di creare una 'zona di sicurezza umanitaria' per i profughi della guerra civile in corso nel paese fra le forze governative, costituite dalla maggioranza etnica hutu e il Front patriotique rwandais (FPR), espressione della minoranza tutsi. Sempre nell'ambito della politica internazionale, in quello stesso periodo furono ufficialmente riaperti i rapporti tra F. e Repubblica Popolare di Cina, interrotti più di un anno prima a causa della decisione francese di vendere armi a Taiwan. Fra l'autunno 1994 e la fine del 1996, infine, il terrorismo islamico - a opera soprattutto degli estremisti dei Gruppi islamici armati (GIA) - tornò alla ribalta, colpendo con drammatica regolarità: ultimo esempio fu l'attentato esplosivo a un treno della linea metropolitana fra Parigi e le zone limitrofe (dicembre 1996), mai rivendicato, ma attribuito comunque al GIA. Nell'aprile-maggio 1995 si tennero le nuove elezioni presidenziali.
In seguito alla grave sconfitta elettorale del 1993 il PS, in una serie di tentativi di rinnovamento, aveva visto alternarsi alla guida del partito prima M. Rocard (ottobre 1993) e, dopo il successivo smacco elettorale nelle europee del giugno 1994, un esponente dell'ala più di sinistra, H. Emanuelli. In attesa delle presidenziali, dopo l'ipotesi presto sfumata di una candidatura moderata di J. Delors, il partito aveva candidato L. Jospin (febbraio 1995). Legato a Mitterrand, che aveva sostituito alla guida del partito fra il 1981 e il 1987, dal 1993 Jospin aveva manifestato un atteggiamento critico verso la politica presidenziale e aveva più volte sollevato la questione morale all'interno del partito. Il suo programma elettorale prevedeva una riduzione dell'orario di lavoro, una riforma fiscale, la riduzione degli oneri sociali sui bassi salari per rilanciare l'occupazione. Fin dai risultati del primo turno (aprile 1995), Jospin conquistò un successo elettorale inaspettato (23,3% dei voti), che sembrò indicare un cambiamento di tendenza per i socialisti, mentre il risultato finale (47,4%) lo candidava a futuro leader della sinistra. Quanto al RPR, la campagna presidenziale fu segnata dalla competizione interna tra i due principali esponenti del partito, Chirac e Balladur, a tutto vantaggio, al primo turno, del candidato socialista Jospin. Chirac, anche se con poco scarto, riuscì ad avere la meglio su Balladur (20,8% contro 18,6%), mentre il dato più rilevante fu il 15% dei voti ottenuto da Le Pen, significativo di un ritorno all'estrema destra in quel momento di crisi. Nel ballottaggio fu a ogni modo Chirac ad avere il sopravvento (il 52,6% contro il 47,4%), divenendo così il nuovo presidente della Repubblica.
In seguito al risultato elettorale, la sostituzione di Balladur con il collega di partito A. Juppé segnò l'avvio di una politica fortemente neoliberista - sollecitata anche dall'esigenza di accordarsi ai dettami del Trattato di Maastricht -, che si tradusse in forti tagli alle spese per i servizi sociali, alle pensioni e ai salari del settore pubblico. Tale politica scontentò fortemente una consistente parte dell'elettorato e provocò, nella seconda metà del 1995, una serie di manifestazioni e scioperi nel pubblico impiego. Nonostante il rimpasto di gabinetto attuato da Juppé in novembre e la revoca della riforma del sistema pensionistico il mese successivo, la politica restrittiva del governo continuò a suscitare critiche fino a tutto il 1996, mentre tornavano alla ribalta nuovi scandali politico-finanziari che coinvolsero, tra gli altri, tre ex ministri del gabinetto Balladur.
Al di là della politica interna, altre questioni impegnarono la F. di Chirac e Juppé tra il 1995 e il 1997. Appena un mese dopo la sua elezione Chirac annunciò la ripresa degli esperimenti nucleari (sospesi da Mitterrand nel 1992) negli atolli di Mururoa e Fangataufa: una decisione che, duramente attaccata dall'opinione pubblica in F. e soprattutto all'estero, e interrotta solo nel gennaio 1996 dopo il sesto test (ne erano previsti otto), sembrò segnalare una svolta nella politica estera da parte del nuovo presidente. In contrapposizione alla linea di Mitterrand, caratterizzata da un convinto europeismo, da un avvicinamento agli Stati Uniti e da un rapporto preferenziale con la Germania, Chirac sembrava voler resuscitare, con un'arma dalle più alte valenze simboliche come l'arma nucleare, quella grandeur del passato gollista che sembrava fortemente ridotta, se non perduta, riproponendo almeno sul piano militare un primato rispetto a una Germania ormai economicamente e politicamente al centro dell'Europa, recuperando la propria autonomia decisionale dagli Stati Uniti (i duri attacchi di Clinton ai test non riuscirono a fermare Chirac), rivendicando, insomma, per la F. un ruolo primario nel consesso mondiale. Sempre sul piano internazionale, Chirac ribadiva l'intenzione di mantenere una presenza attiva in Africa (le sue prime visite di Stato si svolsero nel luglio 1995, in Marocco, in Costa d'Avorio, nel Gabon e nel Senegal), portando il paese a un impegno economico (cooperazione, aiuti allo sviluppo, scambi culturali) e a un'apertura di dialogo con le organizzazioni regionali africane.
La crisi della politica di governo si venne a sommare a un generale clima di incertezza e di pubblica insoddisfazione, che si traduceva fra l'altro in un generale aumento del consenso nei confronti delle ali estreme dello schieramento politico; Chirac pensò di sfruttare il momento sciogliendo l'Assemblea nazionale e indicendo elezioni politiche anticipate per il maggio-giugno 1997, in modo da rafforzare con il consenso elettorale la traballante coalizione di governo prima che il malcontento portasse a una rimonta delle sinistre.
Il partito socialista si era nel frattempo riorganizzato sotto la guida di Jospin e, appoggiandosi su una leadership rinnovata anche dal punto di vista generazionale, aveva ridefinito la propria linea secondo un'impostazione decisamente socialdemocratica, che attribuiva un ruolo decisivo allo Stato nel perseguire una politica di redistribuzione del reddito, di lotta alla disuguaglianza sociale, di creazione di posti di lavoro per i giovani, di arresto delle privatizzazioni, di riduzione della settimana di lavoro a 35 ore, di riduzione dei privilegi fiscali per le imprese e i redditi da capitale. In vista delle elezioni politiche, Jospin aveva anche provveduto a garantire il 30% delle circoscrizioni elettorali alle donne, mentre nel gennaio 1997 aveva concluso un accordo con Les Verts e il Parti radical socialiste (PRS).
La destra moderata, invece, costretta ad affidarsi al poco popolare capo di governo Juppé (ma pronta ad accettare le sue dimissioni dopo la sconfitta al primo turno), fu penalizzata anche dal rifiuto di Le Pen di appoggiare il centro-destra al ballottaggio. I risultati elettorali premiarono così la sinistra nel suo insieme e i socialisti in particolare (che ottennero rispettivamente il 44,3% e il 25,6% al primo turno, e 319 e 241 seggi dopo il secondo turno), mentre il centro-destra dovette accontentarsi di 256 seggi; un deputato del FN e un indipendente completavano la formazione. Il raggruppamento del PS e alleati (uniti ai 38 seggi del PCF e ai 7 degli ecologisti) aveva così raggiunto la maggioranza parlamentare, recuperando fasce di elettorato composte da impiegati, operai, disoccupati, anche se la demarcazione sociale, sempre più sottile fra l'elettorato dei diversi partiti, sembrava comunque confermare la tendenza in atto ormai da tempo a un lento declino strutturale dei legami tra ideologie e appartenenze sociali.
In giugno Jospin assunse la guida di un governo di coalizione dei diversi gruppi della sinistra: socialisti, comunisti, MDC, Verdi e radicali. Si inaugurò così un nuovo periodo di coabitazione tra un presidente di centro-destra e un primo ministro di sinistra, il quale aveva tra l'altro, fin dalla campagna elettorale, sostenuto una linea statalista e particolarmente attenta ai problemi sociali. A livello internazionale il successo di Jospin si inquadrava comunque in quel processo generale che aveva portato all'affermazione della sinistra in 13 su 15 paesi dell'Unione Europea (solo del maggio 1997 era stata l'elezione del laburista T. Blair in Gran Bretagna): una sinistra caratterizzata, anche se con accenti diversi, dall'intenzione di coniugare un'apertura all'economia di mercato con la coscienza della necessità di una riaffermazione del ruolo dello Stato. Tale coscienza era particolarmente forte in Jospin, che più degli altri avvertiva l'esigenza di una politica sociale che non doveva essere sacrificata sull'altare del rinnovamento economico e dell'integrazione europea.
Ma i gravi problemi sociali e politici del paese si ripresentarono di lì a poco. Tra il novembre 1997 e il gennaio 1998 riesplosero le tensioni nelle periferie urbane segnate dai problemi dell'immigrazione, prevalentemente nord-africana, e della disoccupazione; nell'aprile 1998 la nuova legge per regolarizzare la posizione degli immigrati clandestini (i cosiddetti sans papiers, problema al centro della vita politica francese dal 1996) venne approvata con l'astensione dei comunisti e il voto contrario dei Verdi, mentre il mese successivo la stessa Assemblea varava la legge sulla durata legale della settimana lavorativa in 35 ore, da sottoporre però all'approvazione della Corte costituzionale in seguito al ricorso dei partiti del centro-destra. Le stesse elezioni regionali e cantonali del marzo 1998, vinte peraltro dalla sinistra seppure di stretta misura, registrarono un forte astensionismo (42,5% alle regionali), fenomeno che, pur nelle sue oscillazioni, aveva contraddistinto la vita politica francese negli ultimi due decenni, riflettendo una disaffezione verso la politica da parte di un elettorato deluso dalla corruzione di tanta parte del ceto politico, dall'aumento della disoccupazione nonostante la ricchezza crescente del paese, dalle ripetute dimostrazioni di debolezza della classe dirigente. Per il centro-destra, la crisi emblematicamente rappresentata dalla persistente forza elettorale del FN si ripropose in quelle elezioni, quando alcuni esponenti dell'UDF stabilirono - contro la posizione dello stesso gruppo dirigente nazionale - un'alleanza elettorale con il FN. Stigmatizzata da Chirac, dal segretario del RPR Ph. Séguin e dai vertici dello stesso RPR, l'intesa raggiunta con Le Pen - d'altronde già attuata in alcune occasioni elettorali nel corso degli anni Ottanta - provocò una grave lacerazione all'interno della destra moderata, segnalando uno scollamento tra il centro e la periferia del partito; di contro, essa sembrò contribuire a una legittimazione politica del FN, in parte favorita dal passaggio dalla fase intransigente della leadership di Le Pen a quella più moderata del suo vice, B. Mégret (soprattutto sul tema della 'preferenza nazionale').
Nell'ottobre 1998 il gabinetto Jospin si trovò ad affrontare una forte protesta giovanile, espressa, da un lato, da una minoranza molto attiva di studenti che chiedevano un maggiore impegno del governo nel campo dell'istruzione (locali idonei, professori in maggior numero, fondi speciali) e, dall'altro, da gruppi provenienti da fasce sociali emarginate (soprattutto immigrati delle periferie urbane), protagonisti di episodi di violenza nel corso delle numerose manifestazioni che si susseguirono per settimane in tutto il paese. Quanto alla questione dei sans papiers, dopo la legge dell'aprile che aveva consentito solo a una parte degli immigrati irregolari di evitare l'espulsione, nel novembre 1998 il ministro per l'Occupazione e la solidarietà sociale, M. Aubry, elaborò una nuova normativa. Preso atto dell'interesse dei paesi di emigrazione al recupero di una parte delle proprie energie lavorative e, al contempo, della resistenza degli immigrati a un'espulsione definitiva dal paese d'accoglienza, la circolare stabiliva che gli irregolari che avessero accettato di rimpatriare avrebbero potuto beneficiare di un contratto di formazione professionale gratuita in F. per mestieri concordati con i paesi di provenienza, nonché di visti temporanei multipli per poter tornare in F. dopo almeno sei mesi di lavoro nel paese d'origine.
Mentre si acuiva il contrasto fra potere politico e magistratura, e i partiti politici affrontavano una profonda fase di revisione, tra il 1998 e il 1999 la posizione di Jospin si rafforzò notevolmente: nonostante la recrudescenza della crisi corsa e i contrasti sorti all'interno dell'alleanza di governo e nella stessa opinione pubblica di fronte all'intervento nella guerra contro la Iugoslavia (marzo-maggio 1999), la coalizione governativa ottenne una netta affermazione nelle elezioni europee (giugno 1999), unico caso tra i governi di centro-sinistra dei paesi europei appartenenti alla NATO.
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