Kafka, Franz
Le allucinazioni della quotidianità
L’opera di Kafka è inseparabile da Praga, la «città degli strambi e dei visionari» in cui il grande scrittore del Novecento trascorse la sua tormentata vita. Oppresso dal mondo familiare e lavorativo, divorato da un invincibile senso di colpa, Kafka ha trasferito nella scrittura le sue ossessioni, creando meravigliose parabole sulla condizione dell’uomo
Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento a Praga risiedevano oltre 400.000 cittadini cechi e una minoranza di circa 34.000 tedeschi. Mentre la popolazione ceca era formata prevalentemente dalle classi sociali più povere da cui provenivano le bambinaie, le governanti e le cuoche che, come anche i testi di Kafka ci raccontano, erano al servizio delle famiglie tedesche benestanti, la minoranza tedesca era composta da ricchi borghesi, direttori di banca, professori, ufficiali dell’esercito e impiegati dello Stato.
Accanto ai Cechi e ai Tedeschi, che disponevano di istituzioni culturali (teatri, università e scuole, giornali) rigorosamente separate per lingua e nazionalità, un’altra presenza, quella ebraica, dava un carattere del tutto particolare alla capitale boema. Kafka, nato nel 1883 da un commerciante originario della provincia ceca e da una ebrea-tedesca, visse questa condizione di doppia estraneità: rispetto ai Cechi in quanto Tedesco, ma anche rispetto ai Tedeschi in quanto ebreo.
Praga, che nel tardo Cinquecento con l’imperatore Rodolfo II, i suoi astrologhi, i suoi maghi e i suoi scienziati era diventata un centro dell’alchimia e dell’occultismo, era ancora all’epoca di Kafka il «cuore irrequieto della Mitteleuropa». «Praga non molla. Non molla noi due» – scriverà Kafka a un amico – «Questa mammina ha gli artigli. Bisogna adattarsi o... in due punti dovremmo appiccarle il fuoco, e così sarebbe possibile liberarci. Pensaci un po’ fino a carnevale». In queste parole è contenuto tutto il significato dell’intenso ma insieme complesso rapporto di Kafka con la sua città.
Vestito di scuro con la bombetta nera, Kafka percorreva ogni giorno le strade e i vicoli della città vecchia per raggiungere, poco lontano, gli uffici dell’istituto di assicurazioni dove svolse per anni la sua attività. Colpito dalla tubercolosi fu costretto a vivere passando di sanatorio in sanatorio fino al momento della morte, nel 1924. Da questo lavoro di impiegato, che Kafka sentì sempre come «terribile doppia vita» e come ostacolo alla scrittura, l’unica possibile via d’uscita gli sembravano essere le dimissioni o la pazzia.
Molti dei suoi personaggi, il procuratore di banca Josef K. del romanzo Il processo (uscito postumo nel 1925), il commesso viaggiatore Gregor Samsa del racconto La metamorfosi (1916), l’impiegato nei Preparativi di nozze in campagna, conducono la stessa esistenza opprimente di Kafka e sono sopraffatti dalle stesse angosce.
Nonostante si senta oppresso dalla quotidianità della vita familiare e professionale, Kafka avverte un costante senso di colpa proprio per la sua incapacità di adempiere i doveri imposti dalla legge borghese e da quella ebraica, rappresentata dal padre. Anche il progetto di un matrimonio, che Kafka non realizzò mai, e il complicato rapporto con le donne della sua vita contribuirono ad accrescere questa sensazione di inadeguatezza e di fallimento.
Il contrasto con il padre, che attraversa in modo traumatico tutta l’esistenza di Kafka e costituisce uno dei motivi centrali della sua scrittura, non è soltanto il segnale della contrapposizione tra generazioni che caratterizzò in particolare gli anni a cavallo tra la Prima guerra mondiale. Nel racconto La condanna (1912) e poi nella Lettera al padre (1919) la figura paterna è il simbolo di una istituzione autoritaria, la famiglia, ma anche di una categoria: gli ebrei emancipati, socialmente affermati e passati attraverso il cosiddetto processo di assimilazione, vale a dire integrati nella realtà dell’Impero austro-ungarico. La ribellione contro l’onnipotenza dell’autorità paterna finisce così con un fallimento e nel racconto si conclude con una sentenza di condanna del giovane da parte del padre.
Anche il frammento di romanzo America, pubblicato nel 1927 dopo la morte di Kafka e a cui il suo autore aveva destinato il significativo titolo Il disperso, è legato, attraverso le vicende del sedicenne Karl Rossmann allontanato dalla famiglia per una colpa commessa e inviato in America, al tema del rapporto con il padre.
Il senso di colpa che tormenta Kafka è trasferito nella sua scrittura nell’immagine del tribunale, un’istituzione superiore, misteriosa e potente che fa da sfondo inquietante al Processo. Il romanzo si apre in modo sconcertante: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato» e il protagonista si ritrova senza alcuna spiegazione coinvolto in una vicenda giudiziaria, condannato e, alla fine, giustiziato «come un cane». Le cancellerie collocate nelle soffitte di quartieri alla periferia della città, i quaderni sformati e ingialliti che contengono gli atti del giudice istruttore, l’aria soffocante delle sale d’attesa e dei corridoi fanno del tribunale, con le sue procedure segrete che sfuggono anche ai dipendenti, un’enorme rete in cui l’innocente accusato resta accalappiato: «Anch’io sono un impiegato abituato all’aria degli uffici» – dice Josef K. – «ma qui sembra davvero passare il limite».
Come il tribunale, anche il luogo misterioso del romanzo Il castello (postumo, 1926) è la rappresentazione simbolica di un’autorità superiore, incombente, che fa del protagonista un accusato e un estraneo rispetto al resto della comunità degli abitanti del villaggio. Il castello appare lontano e irraggiungibile al geometra K. che, pure, afferma di essere stato chiamato per la misurazione del suo territorio. Allo stesso modo della parabola contenuta nel Processo, dove il guardiano seduto davanti alla porta della Legge impedisce l’ingresso all’uomo di campagna, i tentativi fatti da K. per stabilire un contatto con il mondo del castello sono destinati al fallimento.
Nella Metamorfosi di Kafka il principio su cui sono costruite molte fiabe, vale a dire la trasformazione del protagonista in un animale, operata da esseri del mondo magico per allontanare l’eroe da un pericolo, diventa l’assurda condizione con cui inizia il racconto: «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto». Ma in Kafka il ritorno all’aspetto umano non avviene e nella storia, che sembra raccontare un incubo notturno, lo scarafaggio Gregor muore senza essere tornato uomo e viene miseramente e freddamente spazzato via con una scopa dalla domestica, proprio come un fastidioso insetto.
Se i racconti e i romanzi di Kafka descrivono esperienze di un’inquietante assurdità e assomigliano piuttosto a sconvolgenti allucinazioni, la scrittura è sempre lucida, straordinariamente precisa e realistica nei dettagli. Fatti inauditi vengono descritti come momenti della più normale quotidianità della quale comunque, accanto alle ossessioni, fanno parte anche scene e aspetti comici: le figure dei due furfanti che si accompagnano a Karl Rossmann, i due aiutanti dal «carattere ridicolo e puerile» nel Castello e perfino alcune scene del Processo che si svolgono nelle cupe soffitte del tribunale.