SCHUBERT, Franz Peter
Compositore, nato a Vienna il 31 gennaio del 1797; morto ivi il 19 novembre del 1828. Il padre faceva a Vienna, nella parrocchia di Lichtenthal, il maestro di scuola elementare, ma era di razza campagnola, figlio di contadini della Moravia: come era di razza campagnola Maria Elisabetta Vietz sua moglie; cosa che non è priva d'importanza per la definizione e la comprensione dei caratteri essenziali della musica del figlio.
Sembra accertato che Sch. abbia cominciato a manifestare la sua natura musicale e il suo amore per la musica all'età di cinque anni. Certo è che quando ne ebbe otto, e già da due anni frequentava la scuola elementare, il padre, buon dilettante di musica, cominciò egli stesso a insegnargli a suonare il violino. A undici anni il piccolo musicista, che per tre anni aveva studiato il violino col padre e il pianoforte da sé, e aveva avuto lezioni di organo e di teoria da Michael Holzer, direttore del coro parrocchiale di Lichtenthal, non solo sonava speditamente il violino e la viola, il pianoforte e l'organo, ma già componeva canzoni e pezzi per pianoforte e per varî strumenti. In quel tempo (1808), in seguito a un esame sostenuto davanti a A. Salieri e a J. v. Eybler, egli fu accolto come soprano nel coro della cappella imperiale ed entrò convittore nel convitto civico dove rimase sino al 1813; cinque anni durante i quali ebbe agio di udire ed eseguire e studiare e conoscere moltissima musica: musica strumentale e musica da chiesa soprattutto, ma anche le opere teatrali allora più stimate e ammirate (di Gluck, di Mozart, di Cherubini, di Spontini) e oratori famosi (di Haydn, di Winter, e forse di altri maestri).
Nell'autunno del 1813 lo Sch. intraprese gli studî occorrenti a conseguire il diploma di maestro di scuola elementare: a ciò lo aveva indotto il padre perché egli potesse sottrarsi al servizio militare, al quale i maestri di scuola non erano obbligati e che aveva allora, in Austria, la durata di quattordici anni. Nel 1814 fu aggregato come maestro assistente alla scuola tenuta dal padre. S'intende che i nuovi studî e la nuova occupazione non gli fecero abbandonare più di quel che fosse strettamente indispensabile la sua attività musicale.
Già prima d'iniziare il suo ufficio d'insegnante elementare (continuato regolarmente sino al 1818) lo Sch. aveva scritto la sua prima Sinfonia, una Messa, numerosi pezzi di vario genere - sinfonici, da camera, per pianoforte solo -, alcuni cori e numerose canzoni (Lieder) per canto e pianoforte, alcuni dei quali su testo italiano (di Metastasio), certo per consiglio e pressione di Salieri, che dello Sch. fu per molto tempo insegnante amorevole e rimase sempre convinto estimatore.
A dimostrare quale già fosse la potenza creatrice e la perizia tecnica dello Sch. pur quasi fanciullo, basterà dire che uno dei suoi Lieder più perfetti, Margherita all'arcolaio, fu scritto nel 1814, quand'egli non aveva che diciassette anni. E a dimostrare qual fosse, già in quel tempo, la prodigiosa facilità della sua vena e la sua rapidità di compositore basterà dire che in un solo anno (1815) egli poté scrivere due Sinfonie, un Quartetto, due Sonate e molti brevi pezzi per pianoforte, due Messe, e centoquarantaquattro Lieder per canto e pianoforte (perfino quattro o cinque in un solo giorno), una trentina dei quali - compreso il Re degli Elfi, un capolavoro - su poesie di Goethe.
Nel 1818 lo Sch. rinunciò definitivamente al suo posto d'insegnante elementare, che rimase l'unica carica ufficiale da lui avuta. Amici ed estimatori del suo ingegno tentarono in seguito, più volte, di indurlo a chiedere o accettare altre cariche - di organista, di maestro di cappella, e simili -, ma egli o rifiutò recisamente di presentare la sua candidatura o non si curò affatto di riuscire quando altri l'aveva posta per lui. Tale e tanta trascuratezza degl'interessi della vita pratica è stata da molti biografi attribuita a modestia, o a timidezza o ad antisocievolezza. A parer nostro sarebbe più giusto dire che lo Sch. sentiva istintivamente di non potersi impegnare in nessuna attività ufficiale, perché essa avrebbe limitato la sua libertà di creatore. Egli era nato soltanto per concepire e scrivere musica: altro non poteva fare, neanche se il fare altro potesse procurare a lui povero la ricchezza o l'agiatezza.
Nascere dal popolo, manifestare già durante la fanciullezza attitudini e doti per l'arte, dell'arte apprendere teoria e pratica e segreti superando più o meno ardui ostacoli, accendersi per ogni nuova rivelazione di bellezza, e per ogni nuova conquista di bellezza impegnare tutte le proprie forze, sperare troppo nella corrispondenza dell'altrui sentimento e troppo soffrire di ogni immeritata delusione: tale, su per giù, la storia della giovinezza di molti artisti, e tale la storia anche della giovinezza dello Sch.; irradiata e riscaldata, sì, da un amore per l'arte che non avrebbe potuto essere più puro né più ardente né meglio corrisposto, ma continuamente umiliata dalla povertà, da strettezze miserande, e dall'incomprensione dei contemporanei e da frequenti amare delusioni.
Sino al 1818 non solo lo Sch. non poté udire una sua composizione eseguita in pubblico, ma neppure poté trovare un editore che gli volesse pubblicare almeno qualcuno dei suoi Lieder, e non poté perciò trarre dall'opera sua nessunissimo guadagno materiale. Gli editori Breitkopf e Härtel, ai quali lo Spaun, amico dello Sch., aveva mandato una copia del Re degli Elfi per proporne la pubblicazione, fecero esaminare il manoscritto da un altro Franz Schubert, direttore d0orchestra a Dresda, il quale rispose chiedendo chi fosse mai l'arrogante che, avendo scritto un sì meschino lavoro, aveva osato firmarlo col medesimo nome di lui.
Amici, lo Sch. ne ebbe parecchi anche da giovane, che lo ammiravano e gli vollero bene (J. von Spaun, compagno di convitto, il poeta J. Mayrhofer, A. Hüttenbrenner, F. von Schober, J. Gahy); ma gli mancò, oltre il plauso, quel largo consenso che a ogni giovane artista dà, oltre che gioia, conforto e incitamento a operare. Numerose e frequenti furono invece le amarezze che egli dovette patire dalla incomprensione e dalla sordità sentimentale dei contemporanei: tanto maggiore l'amarezza, si capisce, quando egli si sentì incompreso da persone dalle quali aveva diritto o ragione di sperare simpatia e incoraggiamento. Quando, nel 1817, gli amici di lui concepirono il disegno di far pubblicare una prima raccolta dei suoi Lieder dedicandola a Goethe, e inviarono al grande poeta le musiche manoscritte, accompagnate da una rispettosissima lettera dello Spaun, Goethe neppur si degnò di rispondere una parola (non aveva trattato molto meglio, del resto, neanche Beethoven); né alcuni anni più tardi, nel '25, rispose a un secondo omaggio dello Sch. stesso.
Rinunciato all'ufficio di maestro elementare, lo Sch. fu presentato nel 1818 al conte L. Esterházy che lo accolse in casa quale maestro di musica delle sue due figliuole, Maria e Carolina, che erano allora di età sui 13 anni la prima e sugli 11 la seconda. Il nuovo ufficio non era molto redditizio, o dava un reddito soltanto saltuario, perché lo Sch. non percepiva stipendio per i mesi durante i quali gli Esterházy viaggiavano. Ma poiché durante i mesi d'insegnamento lo Sch. era ospite del conte, e in quei mesi egli percepiva uno stipendio regolare, e poiché d'altra parte l'attività di compositore non gli rendeva nulla o gli rendeva pochissimo, quell'ufficio lo aiutò per alcuni anni, sino al '25, a guadagnare da vivere. I frequenti soggiorni dello Sch. in casa Esterházy attraverso un periodo di sette anni, qualche passo di lettere di lui agli amici, qualche allusione epistolare degli amici stessi alle sue relazioni con la più giovane delle sue due alunne, hanno dato ad alcuni biografi materia per un capitolo su un pudico e corrisposto romantico amore dello Sch. per Carolina. Ma, sino ad ora, documenti tali da poter fare, del romanzo, storia, non ve ne sono.
Quel che si è detto, sommariamente, del genere di vita condotta dallo Sch. sino al 1818, si potrebbe ripetere per gli altri dieci anni dal '18 al '28, anno della morte di lui.
Sino al 1820 nessun editore aveva ancora voluto stampare una sola canzone dello Sch. Soltanto dopo il '21, dopo cioè che alcuni amici di lui ebbero raccolto il denaro occorrente alle spese di stampa di alcuni fascicoli dei suoi Lieder (il primo stampato fu il Re degli Elfi, che ebbe immediato ottimo esito), affidando di essi la vendita agli editori Cappi e Diabelli, questa stessa casa editrice accettò di acquistare e pubblicare altri Lieder del giovane musicista. Ma se gli editori fecero sempre, con la musica dello Sch., ottimi affari, l'autore fece sempre affari magri. Nel 1822, per esempio, egli cedette al Diabelli la proprietà di 18 fascicoli di Lieder per 800 fiorini, e gli parve di aver concluso un contratto vantaggiosissimo; ma per dimostrare quale doveva essere il vantaggio degli editori basti dire che nel 1861 uno solo di quei Lieder, il Viandante, aveva già reso ad essi la somma di 27.000 fiorini.
Né la musica dello Sch. fu eseguita, neanche durante gli ultimi anni della sua vita, tanto da confortarlo a nuove fatiche o da consolarlo della sua povertà. Prima del 1819, quando il tenore Jäger cantò in un suo concerto Il lamento del pastore, nessuno dei Lieder dello Sch. era mai stato eseguito in pubblico. Né mai lo Sch. poté udire eseguire alcuna delle sue sinfonie, una delle quali (l'ottava, scritta a Gastein e Gmunden; perduta) fu provata una volta, ma si dice, subito messa da parte come ineseguibile.
Né miglior fortuna ebbe lo Sch. quale compositore di teatro. Bisogna dire, per verità, che non gli capitò mai tra le mani un buon libretto d'opera, ma delle cinque opere che scrisse (altre quattro cominciò e poi abbandonò; in più scrisse pezzi staccati per altri sei lavori teatrali) nessuna gli procurò né gloria né denaro: ma tutte gli procurarono delusioni e amarezze.
È noto che lo Sch. non fu affatto un bell'uomo. Fu di statura al disotto della media, di corpo tozzo e sgraziato, e di modi spesso grossolani benché non mai volgari. Forse anche per questo non ebbe durante tutta la vita un vero e proprio amore, ma, quando non si trattò di relazioni intellettuali e artistiche, ebbe con le donne soltanto relazioni materiali fugaci e mutevoli.
Non ricchezza, non gloria, o almeno fama adeguata alla giusta sua aspettazione, non l'amore di una donna degna; qual meraviglia che lo Sch. abbia cercato conforto e consolazione, e oblio della sua sfortuna, non solo nella compagnia di amici disposti a grossolani godimenti, ma anche nei piaceri di più facile acquisto, e nel bere soprattutto? Lavorava ogni giomo per sette, otto, dieci ore filate: e poi, gli piaceva andare con gli amici in un'osteria o in un caffè - più volentieri in campagna che in città - a ber vino e birra e ponci e a cantare (lo Sch. e i suoi amici chiamavan quelle riunioni "Schubertiadi"). A quel suo immoderato gusto del mangiare e bere, e in generale alla sua vita sregolata, si è attribuito, da qualche biografo, il prematuro indebolimento della sua fibra, e la sua prima malattia che lo colse nel 1823 e l'altra che nel'28 lo trasse rapidamente a morte. Sarà vero anche questo, ma, se mai, solo in parte. Per conto nostro, noi pensiamo che lo Sch., lavorando come lavorò (circa 1200 composizioni dal 1813 al '28) bruciò in quindici anni l'energia che gli sarebbe bastata, ove avesse lavorato con più agio e meno furia, per altri trent'anni di esistenza terrena.
Tutti conoscono la leggenda del brindisi fatto dallo Sch., di ritorno con alcuni amici dal funerale di Beethoven (1827), a quello dei presenti che primo avrebbe seguito Beethoven all'altro mondo. Leggenda, probabilmente, senza fondamento. Ma è certo che durante il 1828 lo Sch. ebbe frequente, come non mai prima, il pensiero, forse il presentimento, della morte. Forse non per mero caso una delle sue ultime opere fu il ciclo di canti, cupi, o grigi e desolati, del Viaggio d'inverno. Il 31 ottobre del '28 egli ebbe il primo assalto della malattia, che si manifestò con una invincibile avversione al cibo. Il 10 novembre dovette mettersi a letto, in casa del fratello Ferdinando (lo Sch. non aveva avuto che per pochissimo tempo, nel '24, una casa propria: ma aveva abitato sempre o in casa di suo padre o presso amici: Spaun, Mayrhofer, Schober ed altri); il 16 i medici lo dichiararono malato di tifo; il 17 fu preso dal delirio; il 19, alle tre del pomeriggio, spirò. Fu sepolto, a Vienna, nel cimitero di Wahring, presso la tomba di Beethoven. Nel 1888 le sue spoglie, con quelle del suo grande vicino, furono trasportate nel Cimitero Centrale.
Le opere. - Dal pezzo e dalla Sonata per pianoforte solo, alla musica da camera per varî strumenti; dal coro per sole voci o con accompagnamento strumentale alla Cantata e alla Messa; dalla danza alla Ouverture e alla Sinfonia per orchestra; dalla canzone per una voce con accompagnamento di pianoforte o di altri strumenti, all'opera di teatro, si può dire non esservi forma o genere di composizione musicale che Schubert non abbia affrontato e coltivato, riuscendo a creare quasi in ogni genere, in ogni forma, opere di stupenda mirabile bellezza. Per pianoforte solo, una ventina di Sonate, fra le quali la grande fantasia (Il Viandante) che Liszt orchestrò, e i Momenti musicali e gl'improvvisi, e circa 200 danze, e variazioni; e poi, per pianoforte a quattro mani, fantasie, marce, variazioni, e due Sonate e il famoso Divertimento all'Ungherese. Di musica da camera, 15 Quartetti, due Trii, due Quintetti (uno per soli archi, l'altro per archi e pianoforte), e tre composizioni per Ottetto, una per archi e strumenti a fiato, le altre due per soli strumenti a fiato, e Sonate e numerosi pezzi staccati. Di musica da chiesa, sei Messe e molti pezzi varî. E per orchestra, oltre a molti pezzi staccati, sei Ouvertures e nove Sinfonie (una delle quali, come già s'è detto, perduta). E cinque opere teatrali, compiute, e alcune altre incompiute. E un centinaio di cori. E infine 600 canzoni (Lieder) per canto e pianoforte.
Intorno al 1870, prima cioè che il Nottebohm pubblicasse il catalogo tematico della musica di Schubert, le opere di lui universalmente conosciute, e universalmente ammirate ed amate, erano: un centinaio di Lieder, forse una cinquantina di pezzi per pianoforte (non le Sonate), una mezza dozzina di opere di musica da camera (i due ultimi Trii, i due Quartetti del '26, il Quintetto della trota e l'altro op. 163), alcuni cori (popolari forse soltanto in Austria e in Gemiania), e due sinfonie, quella in do, del '28 (che Mendelssohn diresse per primo a Lipsia nel '39) e quella, incompiuta, in si minore (eseguita a Vienna nel '65). Da allora moltissime altre opere dello Sch. sono state rivelate (l'edizione critica dell'intera opera schubertiana, iniziata dalla casa Breitkopf und Härtel nel 1888 fu terminata nel '97) e si sono succeduti sempre più frequenti e numerosi e importanti gli studî critici ad esse dedicati. Dire che l'allargata - se non totale - conoscenza dell'opera schubertiana abbia rivelato uno Sch. più grande, più alto, o anche diverso, da quello che già si conosceva ed amava intorno al '70 noi non oseremmo; anzi, pensiamo che le grandi opere dello Seh. - fatta eccezione per qualche Led scoperto in seguito - siano sempre quelle che or ora abbiamo menzionato e che già sessanta o settanta anni addietro si erano imposte alla universale ammirazione. Ma la conoscenza di tutta l'opera schubertiana, o della maggior parte di essa, ne ha reso possibile uno studio critico più adeguato (le più importanti opere critiche ad essa dedicate, da quelle di H. de Curzon, di H. Kretzschmar, del Deutsch, datano dal '99 a oggi).
A parer nostro - e anche, crediamo, di quasi tutti coloro che hanno studiato l'opera dello Sch. - lo Sch. minore è quello delle opere teatrali e della musica da chiesa: ma non crediamo, come molti hanno scritto, che nei Lieder soltanto o soprattutto si debba cercare e si trovi lo Sch. maggiore, sibbene anche, e almeno altrettanto, nella Sinfonia e nella musica da camera.
Lo Sch. amava molto il teatro, ma forse non mai si domandò che cosa e come dovesse essere un'opera drammatica musicale. Quelle rare volte che trattò, in lettere agli amici, di opere teatrali, fece questione di melodia, di arie più o meno belle o numerose, ma non d'altro. Se avesse avuto quel vero e proprio senso del teatro al quale noi certo dovremmo qualche opera grande, non avrebbe certo musicato i libretti che musicò. Ma quel senso, a parer nostro, non l'aveva. Gli mancava, cioè, quella facoltà di sdoppiamento, di oggettivazione, che porta l'autore drammatico a una spersonalizzazione di sé, che è, s'intende, apparente, ma che è necessaria a poter creare la sostanziale diversità di personaggi varî e antagonistici. L'autore drammatico bisogna che possa sentirsi volta per volta un altro (ognuno dei suoi personaggi) senza accorgersi di rimanere sé stesso: lo Sch. non poteva che sentirsi sé stesso (ancorché prodigiosamente ricco di varie possibilità sentimentali) anche se dovesse dar voce e parole ad altre persone. Perciò, come nel teatro anche nella musica da chiesa egli non riuscì a creare opere di bellezza paragonabile a quella di moltissimi suoi Lieder e di molte sue opere strumentali. Anche il testo della Messa avrebbe voluto da lui una possibilità di oggettivazione, di apparente spersonalizzazione che non era della sua natura. Non che egli non avesse sentimento religioso: ma quando lo poté esprimere, profondissimo e commovente, fu non già scrivendo Messe, ma creando un Lied: la dolcissima Preghiera alla Vergine su versi di Walter Scott.
Poiché già in queste osservazioni s'è andata delineando la definizione dello Sch. come puro lirico (prodigiosamente recettivo, giova ripeterlo, di sensazioni multiple che si risolvevano in sintesi nel suo canto) si può già dire che non poteva essergli naturale il senso della polifonia, del contrappunto. Infatti i suoi cori, più o meno ispirati che siano, non sono che canti monodici accompagnati da favorevoli disegni e armonie.
Lo Sch. maggiore, veramente grande è, come già s'è detto, non solo quello dei Lieder, ma anche quello di molte opere strumentali, delle quali la forma, l'architettura classica, che egli trovò già stabilita da Haydn, Mozart e Beethoven e che egli accettò e adottò senza neppur pensare di poterla rompere e cambiare (c'è del resto in essa una logica naturale che la fa eterna), non poteva affatto parergli contraria alla libera manifestazione ed espansione del suo genio. Le ragioni per le quali i capolavori della musica strumentale schubertiana non si trovano nell'opera pianistica, ma in quella sinfonica e da camera, saranno, se si vuole, più di una; ma una è certo questa: che nella musica da camera e in quella orchestrale, attraverso la voce di strumenti monodici di timbri varî e differenti, lo Sch. poteva esprimere meglio che in quella per pianoforte - strumento di timbro neutro, che dà una medesima voce alla melodia e alle parti che l'accompagnano - il suo lirismo di natura specificamente vocale. Ché, in verità, nessuna musica strumentale dell'800, neanche quella di Beethoven, ha un carattere così specificamente vocale come quella dello Sch. E quanto più essa ha tale carattere, tanto meno sensibile essa fa la sua smisurata lunghezza: la quale infatti non diminuisce affatto la bellezza dei Quartetti del '24, dell'Incompiuta, della Sinfonia in do del '28, ma è sensibilissima e mortificante nelle Sonate per pianoforte "divina lungaggine", diceva lo Schumann, nell'eccessivo fervore del suo entusiasmo; e disse anche, delle Sonate del '28, "non v'è ragione che il pezzo finisca". Ma non c'era neanche ragione che, pervenuti a un certo punto, codesti pezzi fossero continuati.
Belle dunque soltanto in parte, le Sonate schubertiane; ma bellissime quelle opere di musica da camera che già si son menzionate. E in quanto alle due sinfonie più note - l'incompiuta e l'ultima - si può forse dire, a nostro parere, che esse sono superiori a tutte le sinfonie scritte dopo quelle di Beethoven, anche a quelle di Brahms.
Se lo Sch. di queste opere di cui abbiamo parlato non è inferiore a quello dei Lieder, è però innegabile che nessuno aveva toccato nel Lied prima dello Sch. l'altezza da lui raggiunta, e nessuno ha potuto poi superarlo e forse nemmeno eguagliarlo. Vi sono molti dei suoi Lieder che possono bastare, uno per uno, a dare la misura dell'altezza del suo genio, della stupenda potenza della sua ispirazione: Lieder (lo Ständchen, la Preghiera alla Vergine, Heidenröslein, Der Wanderer, Du bist die Ruhe e almeno altri quaranta o cinquanta) che hanno la perfetta bellezza e la freschezza di un fiore appena sbocciato.
Si è già detto, in queste note biografico-critiche, che all'essere Sch. nato da gente non solo del popolo ma della campagna deve essere data grande importanza per la comprensione e la definizione del suo genio. Nei Lieder soprattutto è sensibile ed evidente la natura di lui, popolaresca e campagnola: nella - vorremmo dire - "naturalità" (oltre che naturalezza) della melodia e del suo corso tonale, nell'immediatezza di rispondenza di ogni elemento melodico, ritmico, armonistico, allo stato lirico creato dalla poesia, nell'assoluta indipendenza dell'intera composizione da qualsiasi presupposto concettuale e formale. I Lieder dello Sch., quelli veramente belli, veramente "suoi", nacquero proprio da un naturale furor poeticus acceso volta per volta dalla poesia senza alcuna mediazione né di ripensamenti critici né d'intenzioni o di propositi estetici. La qual cosa può dar ragione della rapidità con la quale furono concepiti e stesi: erano organismi formatisi, per così dire, d'un tratto, per prodigio, senza dar tempo di prevedere il loro progressivo divenire. E perciò i capolavori del Lied schubertiano sono tra i Lieder isolati, non - a parer nostro - nei cicli (Die schöne Müllerin e Winterreise) dove l'inspirazione lirica tanto più perde di densità sostanziale e di freschezza quanto più i numerosi episodî del racconto poetico le chiedono di rinnovarsi e modificarsi pur rimanendo una.
Per ciò che riguarda la derivazione del Lied schubertiano da quello di compositori anteriori (Schulz, Reichardt, Zumsteeg, e mettiamo pure anche Mozart e Beethoven) noi non ci crediamo affatto. Non che lo Sch. non abbia potuto trarre da quelle musiche insegnamenti e suggerimenti (a un artista possono venire suggerimenti preziosi anche da espressioni che non si possono ancora dire arte: anche dagli altrui errori); ma quando si tratti di creazione vera e propria, un artista non può che fare da sé e non può essere che sé stesso (s'intende che noi non crediamo dunque neppure alla derivazione del Lied di Schumann o di Hugo Wolf o di Brahms, quando è veramente il "loro" Lied, da quello dello Sch.).
Da molti libri di storia e critica della musica è passato nell'uso corrente, e tuttora vi rimane, il binomio Schubert-Schumann, come quello di due rappresentanti del romanticismo tedesco musicale, tanto somiglianti da doverli considerare come congiunti e quasi consanguinei. Il binomio non ha più ragione d'essere di quell'altro, pure di uso corrente, Bach-Händel, e dimostra la poca finezza di senso critico che dimostrerebbe chi oggi proponesse, per esempio, un binomio Massenet-Puccini.
Lo Sch., nato dal popolo, di razza contadina, portò nell'arte musicale del primo '800 la voce di una parte di umanità che prima di allora non aveva potuto, nella musica, farsi udire; fu un'inconsapevole forza nuova, incontaminata, del romanticismo, e del romanticismo e della sua fatalità storica una giustificazione. Schumann, artista di genio ma uomo della borghesia colta, fu del romanticismo e dello Sch. stesso (anche se nacque dopo Sch. e dopo di lui operò) un profeta e un consapevole araldo. E d'altra parte Schumann è un tedesco del Nord, che ha per suoi maggiori e parenti Bach, Händel, Gluck, Beethoven, e avrà poi Wagner e Brahms; Sch. è un austriaco, un uomo, rispetto a Schumann, del Sud: i suoi maggiori e parenti sono Haydn e Mozart: e dei musicisti austriaci egli è, dopo Mozart, il più grande.
Come già si è detto, la bibl. schubertiana si è andata negli ultimi cinquant'anni arricchendo tanto da essere oggi copiosissima. Importanti tra le opere storico-critiche tedesche lo Sch. di Deutsch (Lipsia 1912), lo Sch. di Dahms (Berlino 1912), lo Sch. di Niggli (Lipsia 1925) e lo Sch. di Paul Stefan (Berlino 1928); tra le opere inglesi lo Sch. di Edmondstonne Dunsan (Londra 1926) e l'eccellente articolo scritto per il Groves Diction. of Music dal Grove stesso; tra le opere francesi Les lieder de Fr. Sch. di H. Curzon (Parigi 1899), lo Sch. di Th. Gerold (ivi 1923), quello di Bomgault-Ducondray (ivi 1927) e quello di J. Prod'homme (ivi 1928).
Per maggiori notizie bibliografiche, v. l'amorevolissimo e spesso appassionato libro di Mary Tibaldi Chiesa: Sch., Milano-Roma 1932.