finali, frasi
Le frasi finali devono il nome al loro uso più qualificante: l’espressione del fine (o scopo). Tuttavia, la relazione tra frasi finali e fine non è biunivoca: da un lato, il fine è una relazione concettuale che ammette un’ampia varietà di mezzi di espressione (➔ finalità, espressione della); dall’altra, le frasi cosiddette finali, o almeno alcune di esse, si prestano a esprimere relazioni più o meno diverse dal fine inteso come motivo prospettico dell’azione umana.
Le finali che servono all’espressione del fine (le chiameremo qui finali tipiche) hanno in comune il contenuto finale, un insieme di forme di espressione e la posizione sintattica di margini del predicato. Le frasi che divergono dalle forme tipiche per almeno una di queste caratteristiche possono essere considerate finali atipiche.
Le frasi finali possono presentarsi sintatticamente in forma esplicita (con un verbo di modo finito) o in forma implicita (con il verbo all’infinito):
(1) a. ho comprato i chiodi perché Giulio appenda i quadri
b. ho comprato i chiodi per appendere i quadri
Le finali esplicite sono introdotte dalle congiunzioni perché e affinché e hanno il verbo al congiuntivo. La scelta del tempo dipende in primo luogo dal tempo del verbo della principale. Se il verbo della principale è al presente o al futuro, il tempo della subordinata è il presente:
(2) gli mando / manderò un telegramma perché mi raggiunga al più presto
Se il verbo della principale è al passato, il tempo della subordinata è l’imperfetto o il presente. Si usa il presente quando il fine è destinato a realizzarsi nel futuro rispetto al momento dell’enunciazione:
(3) ho mandato un telegramma a Piero perché mi spedisca l’articolo [cioè, non me lo ha ancora spedito]
Si usa l’imperfetto quando il fine era destinato a realizzarsi nel passato (4 a.); nella narrazione, dove non c’è ancoraggio con il presente, si usa sempre l’imperfetto (4 b.):
(4) a. ho mandato un telegramma a Piero perché mi spedisse l’articolo [nel frattempo me lo ha spedito, oppure penso che non me lo spedirà più]
b. il generale diede disposizioni perché le truppe fossero spostate sulla riva del fiume
Le finali in forma implicita presentano l’infinito semplice introdotto dalla preposizione per o da una locuzione preposizionale contenente un nome incapsulatore (➔ incapsulatori): al fine di, con l’intenzione di, con il desiderio di, ecc. La preposizione a, rara, appartiene al registro burocratico; onde è in disuso.
Si usa obbligatoriamente la forma implicita quando il soggetto della subordinata coincide con l’agente dell’azione principale. Quando la frase ha la forma attiva, l’agente coincide con il soggetto (5), ma la regola vale anche con le frasi passive, che possono avere l’agente inespresso (6), e con le frasi impersonali, che hanno un agente non specificato (7). Quando i due ruoli sono distinti, si usa la forma esplicita (8):
(5) gli allevatori hanno scavato una roggia per irrigare i pascoli
(6) la roggia è stata scavata [dagli allevatori] per irrigare i pascoli
(7) si sono scavate diverse rogge per irrigare i pascoli
(8) gli allevatori hanno scavato una roggia perché l’acqua raggiungesse i pascoli
Nell’uso accade di trovare la forma implicita anche quando il soggetto della finale è presente nell’azione principale con un ruolo diverso dall’agente. In casi come questi, tuttavia, è sempre possibile, benché sia sentita come scorretta, la forma esplicita:
(9) Francesca ha spedito la tesi a Marco per Ø [= Marco] scrivere il giudizio
(10) Francesca ha spedito la tesi a Marco perché scriva il giudizio
La finale tipica occupa nella struttura del processo la posizione di margine del predicato, distinta sia dalla posizione di completiva, sia da quella di margine esterno, o circostanziale (Bertuccelli Papi 1991). A differenza di una completiva come (11), la finale si lascia staccare dal processo principale per essere specificata in un enunciato successivo. A differenza di una circostanziale come (12), una finale come (13) si lascia staccare da un predicato come farlo ma non da una ripresa anaforica satura dell’intero processo principale come questo, questo fatto (è accaduto):
(11) a. Ho consigliato a Francesca di spedire la tesi a Marco
b. * Ho consigliato a Francesca. L’ho fatto di spedire la tesi a Marco
(12) a. Francesca ha perso il treno perché la sveglia non ha suonato
b. Francesca ha perso il treno. È accaduto perché la sveglia non ha suonato
(13) a. Francesca ha comprato una busta per spedire la tesi
b. Francesca ha comprato una busta. L’ha fatto per spedire la tesi
c. * Francesca ha comprato una busta. Questo fatto è accaduto per spedire la tesi
Sul piano concettuale, una finale tipica esprime un fine. Il fine non è un tipo di causa (Gruppo di Padova 1979: 341), ma un motivo che spinge un agente a compiere un’azione, e in particolare un motivo prospettico che coincide con il contenuto di un’intenzione. Nella finale tipica, la principale esprime un’azione e la finale esprime il contenuto di un’intenzione.
In taluni casi la frase principale non esprime direttamente un’azione. In questi casi, la relazione è coerente se un’azione può comunque essere inferita. In (14), ad es., è evidente che Margherita è andata in Francia. Nel caso di (15), l’idea è che la borsa è stata costruita con certe caratteristiche per rispondere a una funzione, cioè a un fine condiviso; questa è la tipica descrizione della struttura di un manufatto:
(14) Margherita è in Francia per seguire un congresso
(15) la borsa ha una tasca per riporre il cellulare
Tutte le frasi subordinate che hanno un contenuto genuinamente finale possono essere riformulate nella corrispondente forma detta causale (➔ causali, frasi), che esplicita l’intenzione dell’agente (16). Per le frasi di forma finale che non hanno questo contenuto, la riformulazione è incoerente (17):
(16) a. Francesca ha comprato una busta per spedire la tesi
b. Francesca ha comprato una busta perché aveva l’intenzione di spedire la tesi
(17) a. gli alberi hanno le radici per nutrirsi
b. * gli alberi hanno le radici perché hanno l’intenzione di nutrirsi
L’ultimo esempio ci introduce nell’area delle finali atipiche.
Le finali tipiche, destinate all’espressione del fine come margine del predicato, hanno una gamma di forme molto ricca. La forma implicita, in particolare, si apre a numerose locuzioni che ne modulano il contenuto:
(18) Nicoletta ha contattato un’agenzia per [o al fine di, con l’intenzione di, con il desiderio di, con la speranza di] visitare Londra
Gli usi atipici, viceversa, si riducono praticamente alla forma implicita con per.
I numerosi usi non propriamente finali della forma implicita come in (17) a. hanno una spiegazione immediata: la subordinata implicita con per non codifica l’intenzione del soggetto. Se la principale esprime un’azione, come in (16) a., è facile inferire un’intenzione; se la principale descrive uno stato o un evento del mondo fenomenico, come in (17), ciò ovviamente non si verifica. Se ammettiamo che la forma implicita con per non codifica l’intenzione del soggetto, possiamo immaginare una gamma molto variegata di contenuti, che vanno da un fine oggettivo che leggiamo nell’ordine della natura, a un fine frustrato dal corso incontrollabile degli eventi, fino all’assenza totale di finalità.
Casi come (17) a. esprimono un concetto affine alla finalità: la congruenza tra strutture e funzioni negli esseri viventi. La funzione delle radici, ad es., è il nutrimento delle piante, e il modo più diretto per esprimere questa intuizione condivisa è la forma finale implicita.
In un costrutto come (19), un agente compie un’azione, e si inferisce la presenza di un’intenzione che la motiva. Tuttavia, la subordinata finale non esprime il contenuto dell’intenzione, come risulta dalla riformulazione (20), ma una sorta di controfinalità inattesa che la frustra. Il conflitto tra i progetti del soggetto e l’ordine cieco degli eventi è esplicitato da una riformulazione avversativa (21) o concessiva (22):
(19) Alessio ha studiato un mese intero per ottenere un risultato mediocre
(20) * Alessio ha studiato un mese intero perché voleva ottenere un risultato mediocre
(21) Alessio ha studiato un mese intero ma ha ottenuto un risultato mediocre
(22) sebbene abbia studiato un mese intero, Alessio ha ottenuto un risultato mediocre
Il conflitto tra progetti ed eventi raggiunge il grado estremo in costrutti come (23) (Gruppo di Padova 1979). Qui la finale esprime lo scopo del soggetto, mentre la principale non esprime l’azione compiuta per raggiungerlo, ma un effetto non voluto del suo fallimento:
(23) Marco è morto per prendere una stella alpina
In frasi come (24) e (25) ogni legame con la finalità e con l’intenzione scompare:
(24) il lago cessa, e l’Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago (Alessandro Manzoni, ventisettana dei Promessi Sposi, cap. I)
(25) il nonno di Lucia è rimasto a letto tutta l’estate per morire in autunno
Sia il lago di (24) sia l’infermo di (25) sono in balìa degli eventi. In assenza di ogni azione o intenzione, la forma finale si riduce a una conchiglia vuota, e si limita a imporre alla successione cronologica degli eventi la sua prospettiva molto scorciata, che descrive il processo principale come una freccia lanciata verso un naturale compimento. Questo effetto prospettico è visibile soprattutto quando si descrivono eventi fortemente dinamici come in (26), e si avvicina al valore sequenziale del gerundio, come in (27) (Solarino 1992):
(26) le fiamme sono partite da tre punti diversi per poi diffondersi a tutto il paese
(27) le fiamme sono partite da tre punti diversi diffondendosi a tutto il paese.
La frase finale in (28) ha una funzione simile a quella dell’avverbio contenuto in (29): formula un commento alla qualità dell’atto di parola. Come l’avverbio equivalente, la finale legata all’enunciazione compare tipicamente in posizione iniziale o come inciso:
(28) a. per essere sincero, Rosa non mi ha convinto
b. Rosa, per essere sincero, non mi ha convinto
(29) a. sinceramente, Rosa non mi ha convinto
b. Rosa, sinceramente, non mi ha convinto
L’azione di dire è un’azione come tutte le altre, che può essere motivata da un fine. Ciò che caratterizza i costrutti come (28) è una proprietà insolita dell’espressione, che non contiene l’azione motivata dal fine, cioè il dire, ma il suo contenuto, ciò che è detto, come si vede in (30):
(30) per essere sincero, (ti dico che) Rosa non mi ha convinto
In (28), in assenza del verbo dire, la frase finale (per essere sincero) e la frase indipendente che la segue (Rosa non mi ha convinto) sono grammaticalmente scollegate tra loro: la prima esprime il fine, e la seconda il contenuto di un atto di parola non espresso. Questa intuizione è confermata da numerose proprietà del costrutto.
La frase finale (per essere sincero) ha necessariamente come soggetto l’agente dell’azione principale. Ora, l’agente dell’azione principale, colui che vuole essere o apparire sincero, non è il soggetto della frase indipendente (Rosa) ma il parlante stesso. Come l’atto di parola, il parlante non è citato nell’espressione.
Il costrutto (28) non ammette né la riformulazione con il propredicato farlo (31) né la frase scissa (32), che trattano la frase indipendente Rosa non mi ha convinto come se esprimesse l’azione principale:
(31) * Rosa non mi ha convinto. L’ha fatto per essere sincero
(32) * è per essere sincero che Rosa non mi ha convinto
Se viceversa introduciamo il perno mancante – il verbo dire – il costrutto si comporta come qualsiasi costrutto finale. Il soggetto della finale coincide con il soggetto di dire, che è l’azione principale, e le riformulazioni (33) e (34) sono del tutto coerenti, per quanto innaturali, come vedremo:
(33) dico che Rosa non mi ha convinto. Lo faccio per essere sincero
(34) è per essere sincero che dico che Rosa non mi ha convinto
L’espressione del fine del dire si presta a due commenti. In primo luogo, il fatto che un fine possa motivare un atto di parola non espresso si giustifica con la sinergia molto stretta tra dimensione simbolica e dimensione indicale nella comunicazione (Prandi 2004: cap. 1): l’atto di dire e il suo soggetto non sono espressi in quanto direttamente presenti sulla scena dell’enunciazione.
A questo punto, possiamo capire come mai l’inserimento del verbo dire, se crea una struttura formale impeccabile, produce un effetto straniante sul piano funzionale. L’espressione grammaticalmente completa presenta l’esternazione dell’atteggiamento come se fosse il fine primario dell’atto di parola: parlo per rendere nota la mia sincerità. La forma ellittica, viceversa, colloca l’espressione dell’atteggiamento sullo sfondo: parlo per dire qualcosa, e in subordine rendo noto che mi propongo di essere sincero.
Questo paragrafo non dovrebbe far parte di una trattazione delle frasi finali, ma di una descrizione delle frasi completive (➔ completive, frasi). Tuttavia, è opportuno segnalare il problema, in quanto il confine tra finali vere e proprie – margini del predicato che collegano un fine a un’azione satura e indipendente – e completive di verbi che esprimono un’azione finalizzata – e che, come tali, ricevono dal verbo un contenuto finale – non è sempre sottolineato con sufficiente energia e a volte passa inosservato (cfr. ad es. Bertuccelli Papi 1991: 823).
Studiare le proposizioni completive significa studiare la valenza di alcune classi di verbi. Tra i verbi che esprimono azioni tese al raggiungimento di un fine possiamo isolare quattro classi principali: i verbi intransitivi di movimento, come andare; i verbi transitivi di spostamento, come mandare, spedire o gettare; i verbi intransitivi che designano lo sforzo del soggetto verso il compimento di un’azione, come cercare, tentare, sforzarsi; e i verbi transitivi direttivi, il cui soggetto spinge il destinatario a compiere un’azione, come consigliare, ordinare, incitare, esortare, convincere:
(35) Vito è andato a comprare il pane
(36) Vito ha mandato Guglielmo a comprare il pane
(37) ho cercato invano di riparare la serratura
(38) ho ordinato a Stefano di ricopiare il compito
(39) ho convinto Stefano a ricopiare il compito
Nei verbi di movimento e spostamento, la frase subordinata ha una funzione simile a quella di un complemento che esprime la meta: Vito è andato a Urbino, Vito ha mandato Guglielmo a Urbino. Il fine è come una meta astratta.
Al di là del comune contenuto finale, le completive e le proposizioni finali tipiche sono costrutti nettamente distinti. Nelle completive il contenuto finale discende direttamente dal verbo, nelle finali tipiche è codificato dalla forma della subordinata. Le completive presentano prevalentemente la forma implicita.
Il soggetto di una finale implicita tipica coincide sempre con l’agente dell’azione principale, indipendentemente dal verbo che la esprime. Il soggetto di una completiva, viceversa, è selezionato dal verbo principale tra i suoi argomenti in funzione del suo orientamento. Con i verbi di movimento e spostamento, il soggetto della subordinata è l’argomento che si sposta: il soggetto nel primo caso, il complemento oggetto nel secondo: in Vito è andato a comprare il pane, Vito si sposta e compra il pane; in Vito ha mandato Guglielmo a comprare il pane, Guglielmo si sposta e compra il pane. Per una ragione simile, il soggetto della subordinata coincide con il soggetto della principale con i verbi che impegnano il soggetto a compiere un’azione, mentre coincide con il destinatario con i verbi che impegnano il destinatario: in Giovanni cercherà di partire, Giovanni impegna sé stesso a partire; in Giovanni ha convinto Sergio a partire e in Giovanni ha consigliato a Sergio di partire, Sergio è il soggetto impegnato a partire in quanto destinatario dello sforzo persuasivo di Giovanni.
Le finali vere e proprie possono essere isolate dalla principale con farlo: la frase sono uscito all’alba per prendere il treno corrisponde a sono uscito all’alba; l’ho fatto per prendere il treno. Le completive come sono corso a prendere il treno, viceversa, non lo ammettono.
La forma implicita delle finali vere e proprie è introdotta dalla preposizione per. Le finali completive sono introdotte, a seconda del verbo che le regge, da a o di:
(40) mi sono alzato presto per prendere il primo treno
(41) ho convinto Maria a prendere il primo treno
(42) ho pregato Maria di prendere il primo treno
Una volta che hanno ricevuto la completiva, gli stessi verbi possono accettare, come tutti i verbi di azione, una finale vera e propria:
(43) ho mandato Alessandro a fare la spesa per rimanere un po’ con te
(44) ho mandato Alessandro a fare la spesa. L’ho fatto per rimanere un po’ con te.
Nell’italiano delle origini, le frasi finali hanno una grande varietà di forme, destinata a ridursi nei secoli.
Nella forma esplicita, le congiunzioni più usate nei primi secoli sono perché e acciocché, affiancate più tardi da affinché, oltre alla forma relativa onde:
(45) e confortola però che vada più sicura (Dante, Vita nuova V)
(46) et questa causa si pone in iudicio […] acciò ch’elli iudichino tra lle parti quale àe iustizia (Brunetto Latini, La Rettorica XXII)
(47) il re […] lasciò in aguato di fuori da Messina due capitani […], a ffine che […] venissono loro adosso (Giovanni Villani, Nuova Cronica VIII, 75)
(48) chi son coloro cui io mi potesse fare ad amici, onde ricevesse cotanto beneficio? (Bono Giamboni, Libro de’ Vizi e delle Virtudi XI)
Tutte queste congiunzioni hanno varianti grafiche (➔ allografi): per es., però che, acciò che, accio ke, a ffine che; nessuna continua il latino ut.
Le finali di forma implicita presentano le preposizioni per e a, che continua la forma latina con ad + gerundivo: ad petendam pacem.
È interessante, infine, la parabola delle completive rette dai verbi di comando. In latino prevale la forma esplicita, al congiuntivo con o senza ut:
(49) Vercingetorix Gallos hortatur ut […] arma capiant
«Vercingetorige esorta i Galli affinché prendano le armi» (Cesare, De bello gall. VII, 4)
Nell’italiano d’oggi prevale invece la forma implicita, come si è segnalato. Quanto al passato, si osserva una notevole vitalità della forma esplicita fino all’Ottocento, forse retaggio di modelli latini:
(50) a me pregando che io mandassi loro di queste mie parole rimate (Dante, Vita nuova XXX)
(51) prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più dotti d’Europa (Manzoni, Promessi sposi XXII).
Barbera, Manuel et al. (2010), Frasi subordinate avverbiali, in Grammatica dell’italiano antico, a cura di G. Salvi & L. Renzi, Bologna, il Mulino, cap. 27.
Bertuccelli Papi, Marcella (1991), Le frasi finali, in Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di L. Renzi, G. Salvi & A. Cardinaletti, Bologna, il Mulino, 1988-1995, 3 voll., vol. 2° (I sintagmi verbale, aggettivale, avverbiale. La subordinazione), pp. 818-825 (2a ed. 2001).
Gruppo di Padova (1979), Aspetti dell’espressione della causalità in italiano, in La grammatica. Aspetti teorici e didattici. Atti del IX congresso internazionale di studi della Società di Linguistica Italiana (Roma, 31 maggio - 2 giugno 1975), a cura di F. Albano Leoni & M. Rosaria Pigliasco, 2 voll., vol. 2°, pp. 325-365.
Prandi, Michele (2004), The building blocks of meaning. Ideas for a phil-osophical grammar, Amsterdam - Philadelphia, John Benjamins.
Prandi, Michele, Gross, Gaston & De Santis, Cristiana (2005), La finalità. Strutture concettuali e forme di espressione in italiano, Firenze, Olschki.
Solarino, Rosaria (1992), Fra iconicità e paraipotassi: il gerundio nell’italiano contemporaneo, in Linee di tendenza dell’italiano contemporaneo. Atti del XXV congresso internazionale di studi della Società di Linguistica Italiana (Lugano, 19-21 settembre 1991), a cura di B. Moretti, D. Petrini & S. Bianconi, Roma, Bulzoni, pp. 155-170.