Hayek, Friedrich August von
Economista e filosofo politico austriaco (Vienna 1899 - Friburgo 1992). Formatosi nell’univ. di Vienna, nell’ambito della scuola economica austriaca, H. insegnò dal 1931 al ’49 alla London school of economics (dove fu il ‘contraltare’ di J.M. Keynes), dal 1949 al 1962 all’univ. di Chicago e dal 1962 all’univ. di Friburgo (dal 1969, inoltre, fu visiting professor presso l’univ. di Salisburgo). Nel 1947 fondò in Svizzera, insieme a M. Friedman e Popper, la Mont Pélerin society, che si riuniva periodicamente per discutere sulla natura di una società libera e sui mezzi per rafforzare la sua difesa intellettuale. Nel 1974 gli venne conferito il premio Nobel per l’economia. Tra le sue opere: Economics and knowledge (1937; trad. it. insieme ad altri saggi economici, in Conoscenza, mercato, pianificazione); The road to serfdom (1944; trad. it. Verso la schiavitù); The counter-revolution of science: studies on the abuse of reason (1952; trad. it. L’abuso della ragione. Studi sulla controrivoluzione nella scienza); The sensory order (1952; trad. it. L’ordine sensoriale); The constitution of liberty (1960; trad. it. La società libera); Law, legislation and liberty (1973; trad. it. Legge, legislazione e libertà); The fatal conceit. The errors of socialism (1988; trad. it. La presunzione fatale).
Nell’opera di H. la riflessione economica è strettamente connessa con l’indagine sulla genesi delle istituzioni sociali e politiche e sullo statuto epistemologico delle scienze sociali. Il punto di partenza è dato dalla critica alle economie pianificate: il piano non può produrre gli effetti desiderati perché presuppone la conoscenza simultanea di una immensa quantità di informazioni particolari che sono disperse tra milioni di individui e che è impossibile concentrare in una sola autorità. La ‘presunzione’ implicita nell’idea di piano deriva, per H., dallo scientismo, ossia dal tentativo di estendere e applicare in modo acritico i metodi delle scienze naturali alle scienze sociali. E tale tentativo discende a sua volta dal ‘razionalismo costruttivistico’, ossia da quell’abuso della ragione consistente nel pensare che le istituzioni sociali, essendo create dagli uomini, possano essere modificate da questi ultimi secondo i loro desideri e i loro ‘disegni’. In realtà – afferma H. rifacendosi alla tradizione scozzese che da Mandeville giunge a Hume, Smith e Ferguson – le istituzioni umane nascono dalle azioni umane, ma non sono il frutto dell’umano progettare: il linguaggio, il mercato e il diritto sono il frutto di un lungo processo evolutivo nel corso del quale le azioni intenzionali provocano continuamente effetti inintenzionali, dando vita a un ordine spontaneo (in genere superiore agli ordini costruiti, come dimostrano l’economia e la biologia). In tutti i settori della vita associata, dalla sfera economica a quella intellettuale e morale, le migliori soluzioni non derivano quindi dal sapere di un soggetto (sia esso un individuo, una classe, un partito, un’élite), ma da un processo di sperimentazione collettiva fondato sulla libertà individuale e sulla consapevolezza dei limiti della ragione: «Solo là dove sia possibile sperimentare un gran numero di modi diversi di fare le cose – scrive H. – si otterrà una varietà di esperienze, di conoscenze e di capacità individuali tali da consentire, attraverso la selezione ininterrotta delle più efficaci tra queste, un miglioramento costante».
In questa prospettiva, per H. è impensabile scindere, in ambito politico, la libertà economica dalla libertà politica: «Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini»; di conseguenza, se vi è un possessore unico (o prevalente) dei mezzi di produzione, come avviene nei regimi socialisti o in certe forme di Stato assistenziale, vi sarà anche un controllore unico (o prevalente) dei fini considerati leciti. In altre parole, la libertà scomparirà o sarà gravemente compromessa. È questo un assunto-cardine della tradizione liberale che H. vede, dagli anni Trenta agli anni Sessanta, sempre più dimenticato: di qui la sua battaglia, a lungo isolata, a favore del mercato e contro ogni forma di statalismo (non va tuttavia dimenticato che H. riconosce allo Stato alcune importanti funzioni e ritiene che le società avanzate debbano garantire a tutti un ‘reddito minimo’). Nel quadro del suo classical liberalism H. rivolge una serrata critica alla ‘degenerazione’ della legge nelle democrazie contemporanee. Per la tradizione britannica, la legge è l’insieme delle norme di condotta lecita, che hanno un carattere universale e astratto: esse sono la libertà di contratto, l’inviolabilità della proprietà (che include lockianamente vita e libertà), il dovere di compensare i terzi per danni dovuti alla nostra colpa. È a questo tipo di legge che si riferivano i liberali anglosassoni quando collegavano la libertà al principio del rule of law: la libertà è possibile soltanto sotto la legge, perché quest’ultima, lungi dall’essere l’espressione della volontà particolare di uno o di molti, è una norma di condotta generale valida per tutti. Ma nelle democrazie contemporanee la legge viene confusa con la legislazione, ossia con quei comandi che le maggioranze parlamentari adottano per realizzare i loro programmi e avvantaggiare gruppi sociali particolari. In tal modo è ‘saltata’, secondo H., quella separazione dei poteri alla quale Montesquieu e i padri della costituzione americana si affidarono per sconfiggere il dispotismo e garantire la libertà individuale. Per tale ragione H. propone un piano di riforma istituzionale delle democrazie (che dovrebbero prendere il nome di demarchie), consistente nel separare nettamente l’assemblea legislativa (chiamata a occuparsi delle norme di condotta lecita e composta con criteri e durata particolari) dall’assemblea governativa, incaricata di dare espressione alla volontà e agli interessi della maggioranza attraverso l’ordinaria legislazione.
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