JACOBI, Friedrich Heinrich
Filosofo, fratello del poeta Johann Georg, nato a Düsseldorf il 25 gennaio 1743, morto a Monaco il 10 marzo 1819. Dal padre commerciante, fu anch'egli avviato al commercio: ne fece pratica a Francoforte e a Ginevra, dove pur lesse opere di filosofia e trasse forse dalla lettura di alcune operette kantiane (L'unico argomento per la dimostrazione dell'esistenza di Dio; L'evidenza nelle scienze metafisiche) quel senso dell'intima profondità dei più alti veri. Direttore poi della sua stessa azienda commerciale, sposò la ricca e intelligente Betty di Clermont, continuando a coltivare gli studî letterarî e filosofici. Si liberò, non appena poté, dalle cure commerciali, e fece della sua casa in Pelpenfort, nelle vicinanze di Düsseldorf, un centro intellettuale, dove convenivano dotti come Goethe, Hamann, Lavater, ecc., coi quali egli poi teneva attiva corrispondenza epistolare. Così, dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura (1781), mentre la Germania dotta era divisa tra deisti berlinesi tipo Nicolai, Binter, ecc., e tradizionalisti tipo Holberg, Lavater, ecc., J., che parteggiava per questi ultimi, poteva scrivere a Goethe che voleva prender con sé Kant contro i berlinesi avendo dall'altro lato Hemsterhuis, ripromettendosene eccellenti servigi. Dissesti economici che l'avevano ridotto quasi alla miseria lo costrinsero ad accettare la presidenza dell'Accademia delle scienze di Monaco, e a goderne la retribuzione anche dopo esserne stato dimesso, per passare tranquillo la vecchiaia rivedendo e ripubblicando tutte le sue opere.
J. non è dunque un insegnante di filosofia e neppure un filosofo di professione. Cominciò la sua carriera di scrittore con due romanzi filosofici: Allwill e Woldemar, editi nel 1772 nel Deutscher Merkur, che Wieland prese a pubblicare su iniziativa dello stesso J. La sua opera principale sono forse i Briefe an M. Mendelssohn über die Lehre des Spinoza's (1785), arricchite nella successiva edizione (1789) d'importanti appendici, fra le quali notevole un chiaro e serrato riassunto della dottrina bruniana tratta dal De la causa principio et uno, dialogo allora poco conosciuto. Nel 1787, a difendere l'affermazione, che aveva suscitato scandalo universale nel mondo filosofico tedesco, che un sapere senza prova preceda necessariamente il sapere che si prova, scrisse il dialogo D. Hume über d. Glauben, oder Idealismus und Realismus, anche questo seguito da una importantissima appendice, Über den transscendemalen Idealismus; opera questa che determina con esattezza la posizione di J., insieme col Sendschreiben an Fichte (1799) e con la memoria Über das Unternehmen des Kriticismus, die Vernunft zu Verstand zu bringen (1801). Nel 1811 egli pubblicò poi il suo saggio Von den göttlichen Dingen, e nel 1818, al secondo volume della raccolta di tutti i suoi scritti, premise una prefazione molto importante perché, dando l'ultima espressione alla posizione filosofica di J., mostra come questi, nonostante alcuni cambiamenti verbali, finisse lì dove aveva cominciato e cioè in una filosofia della fede.
Giacché come tale è stata definita (Erdmann) ed è forse giusto definire la filosofia del J., insieme con quella dei suoi amici Hamann e Herder. Dal pensiero dei quali però è nettamente distinto il pensiero del J. specialmente per il suo vivo porsi (e opporsi) entro la più vitale dottrina del suo tempo (il criticismo), portando in questa una comprensione viva e profonda delle sue intime difficoltà e ponendovi quindi il lievito del suo sviluppo. E l'importanza del pensiero di J. sta appunto in questo nesso germinale che stabilisce con l'altrui pensiero, più che nella propria sistematicità. È quindi non facile contraddistinguerlo con una netta caratteristica sua propria ed esclusiva: perciò esso è stato detto anche irrazionalismo (Windelband), filosofia della vita (Kroner), romanticismo o preromanticismo (Brehier). E sono certo, anche questi, tutti motivi di schietta e chiara risonanza nella coscienza speculativa del J. Tra gli scritti di J., tutti frutto di determinate contingenze o polemiche, invano si ricercherebbe un lavoro sistematico, nel quale cogliere, in organica unità, l'essenza positiva del suo pensiero speculativo. Ma non perciò possiamo dire del J., che egli non sia filosofo nel più proprio e stretto senso della parola, che non sia un pensatore scientificamente inteso (Kroner): la sua dottrina è organica e salda e il germe da essa posto nella speculazione tedesca è vivo e vitale. Lo stesso Hegel nella Geschichte der Philosophie fa cominciare proprio con J. la "nuovissima filosofia tedesca:... con la filosofia di J. come con quella di K. si esce dal periodo precedente...".
Il problema della filosofia. - Non è forse esagerato, infatti, dire che il problema che fondamentalmente sente J. è proprio quello stesso che mosse Kant a speculare: il problema della filosofia per sé stessa, il problema interno della filosofia, come scienza, assoluta conoscenza. La cui difficoltà sta nel principio da dare alla filosofia stessa, intesa come esplicita e necessitante dimostrazione intellettiva. Ora, mentre il popolarismo dogmatico dominante ancora in Germania quando si matura e nasce la Critica, ammette, seguendo Wolff, che tutto sia dimostrabile sul principio di ragion sufficiente, J. sente, con Kant, il dogmatismo inconsapevole di tale affermazione. Ma Kant cerca di superare ed eliminare il dogmatismo chiudendo la conoscenza in sé stessa sul fondamento di una autocritica della ragione, che finisce, secondo J., in una subordinazione della ragione, in quanto si riconosce vuota di contenuto, all'intelletto che tal contenuto trae dalla soggettiva intuizione sensibile. J., invece, risolve il problema negando alla conoscenza la possibilità di una originaria e assoluta dimostrazione, che non farebbe altro che chiudere la conoscenza nei limiti di un meccanismo naturalistico, come ha luminosamente, secondo J., mostrato già lo spinoza, che solo così ha potuto costruire la più salda e organica filosofia dims0strabile. E, secondo J., Kant invano cerca di salvare da una parte l'autonoma natura dimostrativa della filosofia, e di condannare dall'altra l'ateismo dogmatico spinoziano. La filosofia ha dunque, al di là di sé stessa, un principio: il sapere ha principio nel non sapere, il dimostrabile nel non dimostrabile, l'intelletto come sapere giudicativo (dimostrazione, mediazione) nella ragione come sapere senza prove, speciale istinto umano, sentimento del soprasensibile. È così negata forse l'autonomia della filosofia intesa come dimostrazione intellettiva, e quindi sono negati insieme il dogmatismo popolaresco da una parte e la Critica dall'altra, quale era intesa sin d'allora e quale fu continuata a intendere; ma non è negata l'autonomia della spiritualità, giacché questo sapiente non sapere, che supera ogni dimostrazione conoscitiva necessariamente limitata, e che ci immette nella viva realtà, è quella ragione che è immanente allo spirito e che si rivela in questo come suo intimo sentimento. La filosofia perciò deve aver principio e fondamento nella fede, come ha già dimostrato Hume, nonostante le contrarie apparenze.
Problema della conoscenza. - In conformità di tale soluzione del problema della filosofia è risoluto il problema della conoscenza. Dalla spiritualità è ineliminabile il sentire, il quale "è un mezzo reale di qualcosa a qualcosa... importa cioè i concetti di reciprocità e nesso, di fare e patire, di causalità e dipendenza.... Sentirsi passivi o soffrire è soltanto la metà di uno stato, che in questa metà soltanto non è pensabile". Il nostro percepire sensibile, perciò, ci dà qualcosa di reale, anche se, anzi appunto perché, non ci dà qualcosa di veramente conosciuto, qualcosa di dimostrabile. La Critica, mentre come punto di partenza ammette, per dare un contenuto all'intelletto, tale presupposto, tale esigenza realistica del sentire, dall'altra col suo punto di arrivo (gli oggetti empirici ridotti a rappresentazioni fenomeniche intuite nelle forme pure soggettive di spazio e di tempo e fatte così contenuto dell'intelletto) esclude questa esigenza del sentire. Da questa contraddizione essa non ha altra via d'uscita che il più rigoroso idealismo, quello cioè che escluda anche nel punto di partenza il reale, e riduca questo a prodotto dello spirito conoscente come tale, e quindi finisca in un assoluto vuoto, in una assoluta ignoranza. Il critico, per essere coerente, deve diventare assoluto idealista, e cioè deve far capo a un sapere che non è sapere reale ma assoluta ignoranza del reale. A questo sapere non sapiente della Critica, perché vuoto di realtà, J. contrappone il proprio sapiente non sapere fondato sul sentire con la sua esigenza realistica, e non dimostrativa. E, come per questo mondo reale della natura, si dica altrettanto del mondo soprasensibile, soprannaturale, che anche esso sfugge a ogni dimostrazione (la quale lo suppone, non lo dà) e ci è dato invece dalla fede, che, come sentimento, istinto del soprannaturale, è dato soltanto all'uomo, e ne costituisce la ragionevolezza. Ragionevolezza, quindi, che è ben diversa dalla soggettiva ragione tradizionale, freddamente imperante quasi dal di fuori al vivo soggetto spirituale nella sua individualità, ma che si annida proprio in questa. Il che sembra dar ragione a Hegel quando rimprovera a J. che così "il fondamento di ciò che è dato come vero è il sapere soggettivo, e l'assicurazione che io nella mia coscienza trovo un determinato contenuto" (Enc., 71), ma solo se si dimentichi che tal sentimento di J. è pur sempre la ragione nella sua validità universale. Questo valore dell'individualità soggettiva nella razionalità spirituale è forse grande merito del pensiero di J., mentre d'altra parte dà agio a qualificare la sua dottrina come irrazionalistica e romantica. La nostra certezza delle cose fuori di noi, siano quelle di natura, siano quelle intelligibili come Dio, la libertà, l'immortalità, è dunque sempre non una certezza fondata su ragioni (principî conoscitivi), ma una certezza cieca, che non è però eliminabile senza che si cada nel vuoto idealismo assoluto riguardo alla prima realtà, nel meccanismo ateistico riguardo alla seconda.
Problema etico. - Come della soluzione critica del problema della conoscenza, così anche di quella che la Critica dava al problema della moralità, J. era insoddisfatto. Giacché da una parte il mondo intelligibile da questa non era salvato, ridotto com'era a pura esigenza del fare non risultante come essere; e dall'altra lo stesso mondo morale, nell'affermata indipendenza e assolutezza della legge ponente sé stessa a motivo di azione, si vuotava di contenuto e di affetti. La "noce vuota dell'autonomia" non soddisfa J., che non per questo è meno intransigente nell'escludere la felicità da contenuto dell'azione morale. La quale non può e non deve essere anche così impersonale come par che l'autonomia della legge la richieda; giacché la legge è fatta per l'uomo e non viceversa. Ci si richiami dunque nell'agire morale dal vuoto formalismo al determinato contenuto, dalla rigidezza della legge all'individuale privilegium aggratiandi, dall'orgoglio dell'autonomia alla dipendenza dell'amore. Sia questa razionale personalità del sentimento individuale principio come del conoscere anche dell'agire.
Problema religioso. - S'intende quindi la posizione di J. nel problema religioso, nel quale culmina tutta la sua filosofia. Se s'intende la ragione kantianamente come formale ed esplicita dimostrazione assoluta del concetto elevato così a idea, la religione non può essere, per J., concepita entro i limiti di cosiffatta ragione. La religione è assoluta, appunto perché la ragione è immediatezza del sentimento spirituale, che ci pone nel pieno mondo intelligibile dell'essere in sé con un salto mortale dalle cose naturali a una causa intelligente e personale del mondo. Non che tal sentimento ci dica nulla di determinato ed esplicito circa questa causa personale: il sentimento non ci fa sapere nulla di Dio. Ma appunto questo non sapere distingue il Dio rivelato nell'intimità di questo da quell'ordine morale al quale soltanto è ridotto Dio, quando sia concepito solo come postulato della ragion pratica. È fede razionale quindi quella di J. come quella di Kant, ma con tutta la differenza che J., con tutto il pensiero critico e anticritico del suo tempo, credeva di ritrovare tra la sua implicita ragione come sentimento della realtà intelligibile, e l'esplicita ragione di Kant come regolativa nella conoscenza e pratica nella moralità. Questa personalità della ragione, che, in quanto sentimento del soprasensibile, è fede, fa sì che J. non si contenti di una teologia, ma richieda proprio una religione come intima adorazione: che anzi, egli dice in una sua lettera (Opere, II, p. 146), tutte le teologie nella loro parte mistica contengono verità, sono invece mitologiche (fabelhaft) nella loro parte non mistica (cioè dottrinale). Mal si addice quindi alla filosofia della religione di J. l'altro rimprovero che lo stesso Hegel muove alla dottrina di lui, che cioè "ogni superstizione e culto di idoli venga dichiarata verità" (Enc., 72), accusa che del resto lo stesso Hegel viene implicitamente a ritrattare quando a questa aggiunge la terza, che cioè "la religione venga ridotta, circa il suo contenuto, al suo minimum", accusa questa che evidentemente toglie quella seconda.
Questo culminare di ogni problema nel problema religioso, e quindi di ogni filosofia e di ogni conoscenza nella fede, dà al sistema di J. la sua caratteristica fondamentale, in quanto così la sua dottrina non è un puro e semplice ritorno alla tradizionale posizione della filosofia come dimostrazione razionale della fede esteriormente rivelata, ma è un nuovo tentativo di risolvere il problema del principio della filosofia e quindi della conoscenza e della verità, dopo che esso era stato esplicitamente posto dal pensiero italiano del Rinascimento. Non per niente J. fu uno studioso di Bruno e seppe con rara chiarezza e profondità enuclearne ed esporne l'organico pensiero. La Critica kantiana nel suo motivo più profondo aveva implicito anch'essa questo carattere d'immanentismo religioso del pensiero italiano del Rinascimento, ma questo era, nella critica, nascosto dalla soluzione del problema tecnico della filosofia da salvare a tutti i costi come scienza. J. sente invece dominante tal motivo religioso, e lo fa sentire chiaramente e nettamente e proclama quindi che quel che separa lui da Kant è quello stesso che separa Kant da sé medesimo rendendolo incoerente: la dottrina della conoscenza intesa come subordinazione della ragione (implicita) all'intelletto (esplicito).
Ediz.: L'edizione delle opere, iniziata dallo stesso J., fu completata da Köppen e F. Roth, Werke, Lipsia 1812-25, voll. 6; inoltre Auserlesener Briefwechsel, a cura di J. Roth, Lipsia 1825-27, voll. 2; Briefwechsel zwischen Goethe und J., ed. da Max Jacobi, Lipsia 1847; R. Zöppritz, Ausqus J.s Nachlass, Lipsia 1869, voll. 2. In italiano: Sulla dottrina dello Spinoza: lettere a Mosè Mendelssohn, trad. di F. Capra, Bari 1914.
Bibl.: L. Prantl, in Allg. deutsche Biographie, XIII, Lipsia 1881, pp. 577-84; L. Lévy-Bruhl, La philosophie de J., Parigi 1894; F. A. Schmid, F. H. J., Heidelberg 1908; Th. C. v. Stockum, Spinoza, J., Lessing, Groninga 1921.