Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph
Filosofo (Leonberg, Württemberg, 1775 - Ragaz, Svizzera, 1854).
Tra il 1790 e il ’95 studiò nel seminario teologico protestante di Tubinga, dove strinse amicizia con Hegel e Hölderlin e dove conseguì il titolo di magister con una dotta dissertazione di esegesi biblica pubblicata nel 1792. Terminati gli studi filosofico-teologici, lavorò (1796-97) come precettore privato presso la famiglia del barone von Riedesel, ciò che gli permise di seguire corsi di filosofia e di scienze fisico-matematiche all’univ. di Lipsia, di viaggiare per la Germania e di ascoltare a Jena le lezioni di Fichte, che ebbero efficacia decisiva per la sua formazione. Segno dell’eccezionale precocità dell’ingegno schellinghiano sono, oltre ad alcuni saggi sul mito e su problemi esegetici, tre rilevanti scritti a carattere filosofico: Über die Möglichkeit einer Form der Philosophie überhaupt (1795; trad. it. Sulla possibilità di una forma della filosofia in generale); Vom Ich als Princip der Philosophie (1795) e Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kritizismus (1795-96; trad. it. Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo; nuova deduzione del diritto naturale), dove S. sviluppa sostanzialmente una problematica affine a quella fichtiana, cercando una spiegazione unitaria e genetica del sapere in base all’intuizione intellettuale e, soprattutto nelle Lettere filosofiche, dando particolare importanza al problema della possibilità del passaggio tra infinito e finito. All’elaborazione di questi motivi idealistico-trascendentali sono pure dedicati gli scritti raccolti con il titolo Übersicht der neuesten philosophischen Literatur nel 1797.
A partire da questo stesso anno S. inizia la serie di grandi opere di ‘filosofia della natura’, fondamentali per il pensiero romantico e destinate ad avere grande importanza nel dibattito filosofico e scientifico del tempo, sia pur attraverso contrastanti giudizi: Ideen zu einer Philosophie der Natur (1797, 1803); Von der Weltseele (1798, 1806), letta e apprezzata da Goethe; Erster Entwurf eines Systems der Naturphilosophie (1799; trad. it. Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura); Einleitung all’Erster Entwurf (1799); Allgemeine Deduktion des dynamischen Prozesses oder der Categorien der Physik (1800); Über den wahren Begriff der Naturphilosophie (1801); Fernere Darstellungen aus dem System der Philosophie (1802); Die vier edlen Metallen (1803); Aphorismen zur Einleitung in die Naturphilosophie (1805); Aphorismen über die Naturphilosophie (1806; trad. it. Aforismi sulla filosofia della natura). In questi scritti S., che nel frattempo (1798) era stato chiamato come prof. straordinario a insegnare accanto a Fichte nell’univ. di Jena, cerca di mostrare come i principi della filosofia trascendentale siano in grado di dar conto non solo dell’intero sviluppo della coscienza, ma anche della natura, e di fondare anzi in modo unitario i risultati delle scienze che nell’epoca andavano affermandosi con clamorose scoperte, come la chimica e la biologia. Muovendo in partic. dall’osservazione dei fenomeni elettrici, magnetici e galvanici e dei fondamenti fisiologici della sensibilità, S. si vale dei principi, cari anche a Goethe, di «polarità» e «potenziamento» per mettere in luce come l’intera natura costituisca un grandioso processo dinamico e organico, irriducibile al puro meccanicismo atomistico, e articolato in diversi livelli o «potenze», ciascuno dei quali è come la ripetizione del precedente su un piano più alto (così, per es., magnetismo, elettricità e chimismo sul piano della materia e sensibilità, irritabilità e Bildungstrieb sul piano dell’organismo). Questa «costruzione» della natura, che prende le mosse dalla «costruzione» kantiana del concetto di materia mediante attrazione e repulsione dei Primi principi metafisici della scienza della natura (1786), tende però sempre più a trasformarsi in una «fisica speculativa» o in uno «spinozismo della fisica» che si sviluppa interamente da principi a priori e considera l’esperienza come termine ad quem, e non come termine a quo. Non per questo però la filosofia della natura si pone come qualcosa di isolato o indipendente dalla filosofia trascendentale, alla quale invece rimane strettamente intrecciata. Non solo la polarità della natura a partire dalle sue forme più elementari (come l’unità e l’opposizione di attrazione e repulsione) corrisponde a quella della coscienza (già l’intuizione sensibile implica una limitazione dell’intuizione pura come attività infinita), ma a ogni grado di sviluppo e di potenziamento della natura corrisponde un grado di sviluppo e di potenziamento dello spirito e viceversa. La natura appare così come la preistoria o la storia pietrificata dello spirito, e lo spirito, da parte sua, come la consapevolezza della manifestazione dell’Assoluto nella natura.
Sono queste le tesi centrali del System des transzendentalen Idealismus (1800; trad. it. Sistema dell’idealismo trascendentale), una delle opere più organiche e fortunate di S., dove viene pure affrontato il problema dell’«organo» della filosofia. Se infatti filosofia della natura e filosofia trascendentale sono perfettamente simmetriche e parallele, presuppongono però entrambe una contrapposizione tra natura e spirito che non è affatto originaria, ma è risultato di una distinzione e scissione operatasi nell’unità e identità originaria dell’Assoluto. Tale identità e unità originaria non può però essere ritrovata mediante processi di dimostrazione o di riflessione – che sempre presuppongono la distinzione tra spirito e natura, soggetto e oggetto – bensì soltanto attraverso una forma di intuizione intellettuale dove attività e passività, libertà e necessità, conscio e inconscio coincidono. Soltanto l’arte in quanto espressione dell’infinito nel finito, coincidenza di producente e prodotto, attesta concretamente la realtà di una tale intuizione intellettuale e costituisce pertanto l’autentico organo della filosofia come sapere dell’Assoluto (di qui la qualifica di idealismo ‘estetico’ a volte attribuita al pensiero di S. o, quanto meno, a questa sua fase).
Frattanto la situazione accademica a Jena era molto cambiata in seguito alla partenza di Fichte coinvolto nell’Atheismusstreit, e all’arrivo, nel 1801, di Hegel, con il quale S. rinsaldava i vincoli dell’antica amicizia e dava inizio alla pubblicazione del Kritisches Journal der Philosophie. È il momento di più intensa e feconda collaborazione tra i due grandi filosofi, i cui rapporti dovevano poi allentarsi con il passaggio di S. all’univ. di Würzburg nel 1803 e guastarsi definitivamente nel 1807 con la pubblicazione della Fenomenologia dello spirito (➔) e il ben noto attacco hegeliano contro la filosofia dell’intuizione. Continuava frattanto intensa l’attività di S., che pubblicava la Darstellung meines Systems der Philosophie (1801; trad. it. Esposizione del mio sistema filosofico), il dialogo Bruno, oder über das natürliche Prinzip der Dinge (1802; trad. it. Bruno, o Del principio divino e naturale delle cose: un dialogo), le Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums (1803; trad. it. Lezioni sul metodo dello studio accademico), approfondendo e sviluppando il suo sistema come «filosofia dell’identità» mediante la ripresa di temi neoplatonici, böhmiani e della mistica sveva (Oetinger, ecc.). Il finito appare così come informazione e plasmazione dell’ideale nel reale attraverso un continuo processo di tensione tra indifferenza e differenza che si articola nella molteplicità delle idee considerate come matrici non solo delle realtà naturali, ma anche dei processi storici e spirituali (arte, mitologia, scienza, ecc.). Tuttavia, proprio nella definizione del rapporto tra finito e infinito e del processo di manifestazione del divino nella natura e nella storia, S. veniva a scontrarsi con la difficoltà che già è avvertita in Philosophie und Religion del 1804 e che viene poi tematizzata in un altro tra i più noti e fortunati scritti schellinghiani: Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809; trad. it. Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi si collegano), e cioè il problema del male, o meglio della possibilità di conciliare la libertà e il male con il «divenire» di Dio. Si sviluppava così una linea di ricerca sul processo interno alla divinità stessa nel suo sforzo di staccarsi dal suo oscuro «fondamento» per dominarlo e realizzarsi come «personalità assoluta», che portava S. ad affrontare problemi teosofici e teogonici in un’opera sulle «età del mondo» alla cui stesura lavorò a lungo, ma che fu realizzata solo in parte e pubblicata postuma (Die Weltalter, redatta in due riprese, 1811 e 1813; trad. it. Le età del mondo). Questa fase del pensiero schellinghiano coincide con un periodo piuttosto difficile della sua vita, in quanto S. nel 1806 dovette lasciare Würzburg per trasferirsi a Monaco come segretario dell’Accademia delle scienze e fu duramente colpito dalla morte (1809) della moglie Carolina Schlegel, la cui forte personalità aveva esercitato su di lui una notevolissima influenza. Dopo il periodo di Monaco (1806-20), interrotto soltanto nel 1810 da una permanenza a Stoccarda, dove tenne delle lezioni raccolte poi appunto con il titolo Stuttgarter Privatvorlesungen, S., che nel frattempo aveva sposato Paolina Gotter (1812), si trasferì a Erlangen, dove tenne dei corsi liberi presso l’università.
Nel 1827 S. tornò a Monaco dove fu eletto presidente dell’Accademia delle scienze e chiamato a insegnare all’università allora fondata. Vi rimase fino al 1841, quando fu chiamato a Berlino sulla cattedra che era stata di Hegel anche con l’intento di contrastare l’influenza della scuola hegeliana. Tra i suoi uditori S. ebbe Feuerbach, Kierkegaard ed Engels, ma non ottenne un successo proporzionato alle attese e i suoi ultimi anni furono amareggiati da violente polemiche con gli hegeliani e con il teologo razionalista H.G. Paulus. In questo lungo periodo S. proseguì e approfondì le linee già abbozzate nelle ricerche sulle «età del mondo», conducendo un’ampia polemica contro l’intera filosofia moderna (a cui dedicò a cavallo degli anni Trenta un importante ciclo di lezioni pubblicato postumo: Zur Geschichte der neueren Philosophie; trad. it. Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna ed Esposizione dell’empirismo filosofico), considerata come lo sviluppo coerente e sempre più radicale della ‘filosofia negativa’; tale è la filosofia fondata puramente sulla logica e sulla dimostrazione (di cui la forma più tipica era la filosofia hegeliana) e volta a cogliere le essenze, il ‘che cosa’, ma incapace di attingere l’esistenza, il ‘che’. Quest’ultimo compito poteva essere assolto soltanto dall’«empirismo filosofico», o «filosofia positiva», che S. andò elaborando negli ultimi anni e che ha come tema principale la filosofia della mitologia e della rivelazione. Nel filone del rinnovato interesse romantico per la mitologia, della quale viene rivendicata la specificità rispetto a ogni sua riduzione razionalistica a inganno, a ignoranza, o a travestimento consapevole di verità morali e intellettuali presupposte, la filosofia della mitologia di S. si distingue come il tentativo di ricostruire sistematicamente il dispiegarsi della mitologia secondo un’interna necessità che riflette la peripezia della coscienza nel suo distacco e allontanamento dalla divinità e al tempo stesso l’attuarsi del processo «teogonico» nella coscienza. Risalgono a quest’ultimo periodo le due opere, anch’esse pubblicate postume, Philosophie der Mythologie (scritta tra il 1842 e il 1854; trad. it. Filosofia della mitologia) e Philo-sophie der Offenbarung (scritta nel 1854; trad. it. Filosofia della rivelazione).
Il fatto che la stragrande maggioranza delle opere dell’‘ultimo’ S. sia rimasta inedita spiega, almeno in parte, il diffondersi e il persistere dello schema storiografico ‘dinastico’, del resto di origine hegeliana, secondo cui il pensiero schellinghiano costituisce unicamente un momento di sviluppo e di passaggio nella traiettoria dell’idealismo da Kant e Fichte a Hegel e la sua importanza si riduce all’evidenziazione del momento oggettivo della natura, superato e integrato poi nella sintesi hegeliana, mentre le sue ultime fasi sarebbero semplicemente un vano tentativo di contrastare il corso ormai assunto dalla storia del pensiero. Per altro verso, nella seconda metà del 19° sec. il pensiero schellinghiano, così inteso, fu coinvolto nel giudizio negativo sull’idealismo in generale e sulla filosofia romantica della natura in particolare. Nel Novecento l’affermarsi, da un lato, di tematiche intuizionistiche, vitalistiche, fenomenologiche, esistenzialistiche e ontologiche, e, dall’altro, l’esigenza di una considerazione più ampia del Romanticismo, che non lo riducesse alla fase jenense e berlinese degli ultimi anni del Settecento e dei primi dell’Ottocento, hanno portato a guardare con nuovo interesse al pensiero schellinghiano e anche alla filosofia dell’ultimo Schelling. Questo indirizzo di ricerca ha dato importanti risultati sia sul piano del confronto critico-speculativo di filosofi come Marcel, Jaspers e Heidegger, sia su quello delle interpretazioni parziali o complessive del pensiero schellinghiano. Le cose stanno diversamente se dal piano delle interpretazioni si passa a quello dell’influenza diretta o indiretta, che è stata ampia e penetrante già nell’Ottocento, non solo in Germania, ma in Francia, secondo una linea che va da Madame de Staël e Cousin attraverso Secrétan e Ravaisson fino a Bergson; nel mondo anglosassone soprattutto attraverso S.T. Coleridge e nell’Europa orientale soprattutto attraverso le correnti slavofile.
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