Funerale
di Red e Claudia Mattalucci
Funerale
Una definizione minimale di funerale (dal latino funus, "rito funebre") è quella che lo fa coincidere con la gestione dei resti del corpo senza vita destinati alla corruzione. Tuttavia, poiché la morte per l'uomo non costituisce esclusivamente un inevitabile fatto di natura, ma è definita attraverso credenze e rappresentazioni collettive che le danno forma, dimensioni e consistenza, e rappresenta, in questo senso, un fatto culturale, i funerali si configurano come attività rituali, che non sono il semplice mezzo per sbarazzarsi del cadavere, ma consistono in un insieme di comportamenti e di segni (gesti, moduli verbali e musicali, oggetti ecc.) finalizzati ad accompagnare il defunto verso l'aldilà, 'addomesticando' il fatto bruto della caducità biologica, ma anche a riaffermare la continuità e l'ordine della comunità.
Riti funebri
Per rito funebre si intende il complesso delle manifestazioni che si svolgono in occasione di un decesso, in varie modalità, secondo le tradizioni culturali e religiose di ciascun popolo o gruppo etnico. Sin da remote epoche preistoriche si hanno tracce di riti funebri: i cadaveri collocati in determinate posizioni (per es. rannicchiati), ornati, dipinti, forniti di cibo o di oggetti d'uso, attestano forme rituali di comportamento nei confronti del defunto. Le pratiche rituali presentano nelle diverse civiltà una varietà estrema; esse spesso prendono inizio già al momento dell'agonia. Prima delle esequie possono aver luogo il lamento funebre, la vestizione della salma, la veglia, la mummificazione (v. oltre). In particolare, il lamento funebre, rito ampiamente diffuso nell'antichità e presente fino a epoca recente in molte parti del mondo, consiste nel dare espressione, in modi tradizionalmente stabiliti, al dolore e alla costernazione provati di fronte alla morte di una o più persone. Le forme della lamentazione possono essere diversissime, dal semplice pianto o grido stilizzato alla rievocazione poetica della vita del defunto; sia la forma lirica dell'espressione del dolore, sia la forma epica della rievocazione assumono perlopiù la veste musicale del canto. Esecutori del lamento possono essere i familiari, gli amici del defunto, oppure lamentatori professionali, che sono nella quasi totalità dei casi donne (prefiche). Riti di vario genere accompagnano i funerali stessi: la salma può essere allontanata dalla casa attraverso un'uscita speciale e parole di congedo possono essere pronunciate presso la tomba. Ugualmente, dopo il funerale seguono altri riti, generalmente purificatori. Il trattamento del cadavere (v.) può avvenire in forme diverse: oltre a quelle più diffuse, inumazione e cremazione (v.), esistono l'abbandono, la sopraelevazione, ovvero l'elevazione della salma al di sopra del suolo (essa è posta, per es., su pali, piattaforme o rami di un albero), l'immersione, la scarnitura, sorta di preparazione del cadavere che precede altri tipi di sepoltura. A distanza variabile di ore o di giorni, si svolge il banchetto funebre, pratica presente anche nell'Europa attuale; il luogo del banchetto può essere adiacente alla tomba, ma anche in caso diverso il morto è sempre considerato presente e partecipe alla festa. In molte civiltà antiche, anche in quella omerica, gare, agoni, combattimenti rituali, danze mascherate, scene mimiche completano i funerali. Dei riti funebri largamente intesi fanno parte anche le diverse usanze di lutto (v.); in molti luoghi è pratica ancora diffusa la sostituzione del normale modo di vestirsi con abiti di foggia e colore specifici. Lo svolgimento delle esequie è comunque regolato dalle diverse religioni mediante norme precise; in particolare quella cristiana, tramite il diritto canonico, prevede lo svolgersi del funerale attraverso tre momenti: trasporto del cadavere dal luogo del decesso alla chiesa funerante (levare cadaver); celebrazione delle esequie con una speciale liturgia della parola (exequias persolvere) e commiato della comunità ecclesiale; accompagnamento del defunto al luogo di sepoltura (comitari cadaver).
di Claudia Mattalucci
I.
Momenti di trasformazione dello stato negativo di defunto in quello positivo di morto, i funerali appartengono alla classe di riti che in antropologia culturale sono definiti riti di passaggio, secondo una formula coniata da A. Van Gennep (1909). L'analogia tra funerali, riti della nascita, cerimonie di iniziazione era già stata formulata da R. Hertz (1905-06). Van Gennep la estese a tutti quei riti che segnano il passaggio di individui o di gruppi da uno dei blocchi in cui la società è divisa a un altro e osservò che i riti di passaggio presentano sempre, in maniera più o meno evidente, una struttura tripartita: si aprono con una fase di separazione dalla condizione precedente, a cui segue un periodo di margine, intermedio tra i due stati, e si concludono con uno stadio di aggregazione. La forma che ciascuna delle fasi rituali assume in un dato contesto sociale ha una propria efficacia e una vitalità che derivano dai valori culturali che lo caratterizzano. Una volta individuata la struttura dei riti, è sempre necessario tenere conto delle sue relazioni con le concezioni relative alla morte, alla vita, all'organizzazione e alla continuità sociale e con la nozione di persona culturalmente delineata. Può sembrare che nei funerali siano i riti di separazione, con i quali il defunto viene isolato ed escluso dalla comunità dei vivi, a occupare un ruolo prioritario (questa è senza dubbio l'impressione che producono i funerali della società occidentale contemporanea). Van Gennep osservò tuttavia che spesso i riti di margine sono estremamente complessi e hanno una sorta di autonomia; a suo avviso i rituali di maggior rilievo sono quelli di aggregazione con i quali al defunto viene garantita una nuova forma di esistenza sociale. Tra i riti di separazione vi sono le varie procedure di rimozione del cadavere dalla sua dimora, la distruzione dei suoi beni personali, della casa in cui il defunto aveva vissuto, l'uccisione delle mogli, degli schiavi o di alcuni degli animali che gli appartennero; e ancora vari riti di purificazione come i lavacri, le unzioni, la rasatura dei capelli. Chiari segni di separazione sono inoltre la fossa, il feretro, il cimitero. I riti di separazione sono finalizzati a realizzare l'esclusione dal mondo dei vivi del cadavere e di tutto ciò che per uno stretto legame affettivo o espressivo con il defunto ne rappresenta una replica (v. cimitero). I rituali operano tale separazione scrivendola nei luoghi e sui corpi. Il periodo di margine, o liminale, è quella fase del funerale in cui il morto, escluso dalla comunità dei vivi, non è ancora integrato in quella dei morti. L'autonomia di questa fase delle cerimonie funebri è particolarmente evidente laddove si praticano le doppie esequie: la salma riceve immediatamente una collocazione provvisoria, ove resta sino a quando la decomposizione abbia interamente corrotto le carni, quindi i resti ossei sono riesumati e, dopo essere stati opportunamente trattati, nuovamente sepolti. Già J.-F. Lafitau (1724) aveva individuato nella pratica delle doppie esequie un'usanza comune alla maggior parte delle popolazioni selvagge e riferito la credenza, registrata nei Caribi, che l'anima debba spogliarsi della carne per fare il suo ingresso nell'aldilà. Riprendendo la tesi di Lafitau, Hertz considerò i riti di diverse popolazioni che praticano la doppia sepoltura tra cui, in particolare, i dayak dell'isola del Borneo (i materiali a essi riferiti furono raccolti da Hertz stesso) e distinse, all'interno dei riti praticati tra la prima sepoltura e la 'grande festa', le pratiche dirette al cadavere, all'anima e ai sopravvissuti. Durante l'intervallo tra le due cerimonie (la cui durata varia sensibilmente da cultura a cultura e, all'interno del medesimo contesto, in relazione allo status del morto), il corpo del defunto riposa temporaneamente "in un luogo diverso e separato da quello della sepoltura definitiva" (Hertz 1905-06, trad. it., p. 56). Opportunamente isolato, il cadavere patisce il processo di decomposizione e i parenti ne raccolgono i fluidi. Fintantoché la decomposizione è in corso, la salma è in una situazione di grave pericolo: è esposta agli attacchi di spiriti demoniaci e, sebbene incuta nei vivi un profondo timore, deve essere vegliata e purificata. L'anima, separatasi dal corpo al momento della morte, non raggiunge immediatamente la sua ultima dimora; durante il periodo intermedio, è segregata ai margini della comunità dei vivi. Incapace di abbandonare i luoghi della propria esistenza terrena, essa vaga in prossimità del cadavere sino a che sono celebrate le esequie definitive. Nel corso di questo forzato esilio dai due mondi, l'anima è una potenza nefasta da cui ci si attende che torni a vendicare le offese patite e che si adoperi affinché i vivi la seguano. Analogamente al corpo, essa genera a un tempo orrore e pietà. Ai vivi spettano gli oneri del lutto che comprendono svariati divieti e prescrizioni (che richiedono un contatto con il cadavere). I familiari, in conseguenza della loro prossimità al morto, contraggono una sorta di contagio che ne determina l'emarginazione dalla vita sociale. Nel periodo tra le due cerimonie i parenti "costituiscono un tutt'uno con il morto [...], partecipano al suo stato e ai sentimenti che egli suscita nella comunità" (Hertz 1905-06, trad. it., p. 63). Esiste dunque un parallelismo tra il destino del corpo e quello dell'anima e gli obblighi del lutto: l'accesso dell'anima al mondo dei morti non può avvenire sino a che il corpo non si sia integralmente decomposto, e i familiari, i quali si fanno carico del lento processo con cui si completa la morte, vivono ai margini della comunità sino a che la trasformazione del corpo in ossa e dell'anima in antenato sia definitivamente conclusa. I funerali terminano con i riti di aggregazione con i quali il defunto, mutato in benefico protettore dei sopravvissuti, cessa di generare sconforto e incutere timore. Esiste, tuttavia, un altro livello di aggregazione che al termine dei riti di morte deve essere ristabilito: smesso il lutto, i parenti del defunto escono dallo stato di isolamento in cui il decesso li aveva confinati e le normali relazioni sociali sono ripristinate. Tale è il fine dei banchetti e delle cerimonie commemorative che seguono i funerali contribuendo a rinsaldare i legami tra i membri della comunità.
2.
Nella sua analisi delle pratiche rituali connesse alla morte, Hertz distingue tra le prescrizioni/interdizioni che hanno per oggetto il cadavere, quelle dirette all'anima del defunto e quelle che invece riguardano i suoi parenti. Ne deriva una tripartizione trasversale rispetto alla successione indicata da Van Gennep (separazione-margine-aggregazione): ciascuna delle fasi rituali comporta determinate azioni sul cadavere, attività finalizzate a neutralizzare il potenziale negativo dell'anima o a proteggerne il destino e, infine, comportamenti richiesti o vietati a coloro che sono in lutto. Il cadavere, l'anima e i sopravvissuti sono, per così dire, i protagonisti e gli immediati beneficiari dei funerali. Si è accennato al fatto che una parte dei riti ha per obiettivo il controllo della decomposizione del cadavere. Il processo di corruzione della carne può essere accelerato esponendo il corpo senza vita alla luce del sole, al calore del fuoco o alla voracità degli animali selvatici; oppure può essere rallentato, come accade nei funerali americani contemporanei ove si provvede a una temporanea imbalsamazione della salma; e perfino essere completamente impedito (un esempio emblematico è la mummificazione nell'antico Egitto). Vi sono, in secondo luogo, i riti diretti alla liberazione dell'anima da questo mondo, ad assisterla durante il cammino che conduce al mondo dei morti, a sostenere la sua trasformazione in antenato. Infine, i riti servono a proteggere, consolare e rassicurare i familiari del defunto. I funerali, tuttavia, non riguardano esclusivamente il defunto e i sui parenti più prossimi; sono eventi della vita comunitaria, tesi a ristabilire l'equilibrio che il decesso di un membro della collettività turba. La lacerazione che la morte produce può essere più o meno profonda, a seconda del ruolo sociale di chi ne è colpito. La morte di un re mette a repentaglio la stabilità dell'intera comunità, e l'attività rituale che la segue è generalmente molto più intensa di quella che accompagna i decessi ordinari. Quale che sia lo status del defunto, tuttavia, i riti funebri hanno sempre la funzione di promuovere la rinascita del gruppo. Trasformando la morte da perdita totale in tappa di un cammino di rinascita, i funerali costituiscono l'occasione per celebrare la continuità della stirpe e della società. Con la morte dell'individuo biologico il gruppo perde uno dei suoi membri, un essere sociale. È precisamente ciò che fa di un essere vivente un membro della comunità l'elemento che deve essere sottratto alla morte. La sopravvivenza della comunità riposa sulla sua capacità di riallocare il ruolo appartenuto al defunto. Da un certo punto di vista, la morte costituisce una minaccia per la continuità ma, come osserva M. Bloch (1982), essa costituisce anche l'occasione per 'creare drammaticamente' l'ordine sociale. L'importanza dei funerali in quanto dispositivi di controllo e, in un certo senso, di negazione della morte biologica e dell'individualità è - secondo Bloch - caratteristica di tutti i sistemi sociali qualificabili come tradizionali. Le società nelle quali la legittimazione dell'autorità non dipende dalle qualità individuali di coloro che la gestiscono, ma dal fatto che essi sono i rappresentanti di un ordine eterno, sono obbligate in qualche misura a negare la discontinuità e la transitorietà. La rappresentazione di un ordine sociale permanente e immutabile richiede che la nascita e la morte, limiti naturali della vita individuale, siano reinterpretate: questo avviene attraverso un'accentuazione dell'orrore e dell'impurità connesse ai processi biologici della nascita, della morte e della sessualità. L'affermazione dell'ordine sociale viene rafforzata dalla svalutazione di quello naturale.
3.
Al pari dei riti della nascita e delle cerimonie di iniziazione, i riti funebri sono intrinsecamente connessi alla concezione della persona elaborata in quel contesto. Abbiamo illustrato la tesi di Hertz secondo la quale la morte recide il legame che vincola l'anima al corpo, processo che viene completato e condotto a buon fine dai funerali: le parti molli del corpo decadono, mentre le parti dure vengono raccolte e conservate nella tomba; l'anima, con il supporto dei vivi, abbandona questo mondo per accedere all'aldilà. Alla base di tale analisi vi è una visione dualistica dell'essere umano composto di materia e spirito, corpo e anima che, all'epoca in cui il saggio di Hertz fu scritto, si supponeva universalmente diffusa. Sebbene questa concezione sia così profondamente radicata nella nostra tradizione di pensiero da apparirci l'essenza stessa della natura umana, essa è in realtà del tutto originale. I resoconti etnografici provenienti da svariate regioni del mondo oppongono all'immagine dell'uomo doppio quella dell'uomo plurale, sintesi di molteplici principi o componenti. Una delle implicazioni delle concezioni plurali della persona e delle rappresentazioni a esse associate riguarda la possibilità di sperimentare, nel corso della vita, qualche cosa di simile alla morte o di tornare a vivere e morire nella morte. Secondo i samo (Burkina-Faso), tra le nove componenti della persona il suo 'doppio', che è l'unica componente immortale, può separarsi dal corpo nel sonno e vagare lontano da esso. Durante le sue avventure, che l'individuo conosce attraverso i sogni, può essere vittima degli attacchi di stregoneria o contrarre delle malattie che trasmette al corpo facendovi ritorno. Il doppio si separa definitivamente dal corpo tre o quattro anni prima della morte, quando intraprende il suo cammino verso il villaggio dei morti. Al momento del decesso esso inizia la sua prima 'vita dei morti', nel corso della quale riallaccia i legami familiari e sociali che aveva nella vita precedente con coloro che erano deceduti prima di lui, ma può contemporaneamente intesserne di nuovi sposandosi e procreando. Dopo la morte alla prima vita dei morti, la componente imperitura della persona si trasferisce al secondo villaggio dei morti, dove avrà una terza vita analoga alle precedenti. A ogni passaggio le otto componenti, che insieme al doppio costituiscono la persona, si riattualizzano; ma dopo la seconda morte dei morti il doppio entrerà in un grande albero oppure si trasformerà in un genio (Héritier 1973). Il tempo delle due vite dei morti corrisponde pressappoco al periodo in cui i discendenti del defunto recano sacrifici e offerte al suo altare. Dopo che le due generazioni successive si sono estinte, il defunto si unisce alla comunità degli antenati, che viene collettivamente onorata presso il grande altare dei morti. Non sempre le frontiere tra la vita e la morte sono nette. Secondo i lugbara (Uganda), la persona ha un corpo (rua) che alla morte si trasforma in cadavere. La circolazione del sangue (ari) nel corpo è condizione e segno di vita; i membri di uno stesso lignaggio hanno lo stesso sangue sebbene esso circoli entro corpi differenti (Middleton 1973). Un ulteriore elemento è l'anima (orindi) cui sono connesse le responsabilità relative al lignaggio, alla famiglia e al vicinato; è una componente di cui le donne (a eccezione di quelle nate come figlie primogenite), che mancano di responsabilità sociale, sono prive. Alla morte, l'orindi si unisce alla comunità degli antenati in qualità di membro responsabile del lignaggio. Lo spirito (ardo) è nell'individuo il marchio della creazione divina; in quanto elemento associato al disordine e allo spazio selvaggio della savana, è responsabile di svariati comportamenti antisociali. Dopo la morte, l'ardo abbandona il corpo e raggiunge gli spiriti dei morti che vagano lontano dai villaggi. La personalità (tali) è la capacità di influenzare gli altri che si rafforza nel corso della vita; dopo la morte raggiunge la comunità dei tali del lignaggio. Le ultime componenti della persona sono il respiro (ava) e l'ombra (endrilendri) che svaniscono quando l'individuo spira (Middleton 1982). La persona lugbara viene inoltre definita da una serie di attributi che vengono acquisiti progressivamente nel corso della vita: con lo sviluppo fisico e psichico, segnato da una serie di riti, gli individui (maschi) raggiungono l'età adulta che li autorizza a sposarsi, avere dei figli, delle proprietà e a partecipare ai sacrifici per gli antenati. Un'ulteriore osservazione relativa alle concezioni della persona che, come quella lugbara o quella samo, presentano una pluralità di componenti e attributi, è che se l'individualità dell'essere umano si dissolve al momento in cui i diversi elementi si separano, alcuni di questi continuano a esistere gli uni indipendentemente dagli altri. La morte biologica coincide con la disgregazione dell'individuo; tuttavia essa non è che una tappa all'interno di un più globale processo di unioni e disgiunzioni delle componenti imperiture (che sono generalmente quelle connesse all'identità del gruppo). Alla permanenza di queste componenti, che i funerali (e successivamente i riti tributati agli antenati) riconoscono e sorvegliano, viene accordato un valore superiore a quello delle singole e temporanee configurazioni attualizzate dagli individui. Il destino degli attributi sociali è analogo a quello delle componenti permanenti: l'individuo che in vita consegue lo status di marito, di padre, anziano del lignaggio, tutore del gruppo e che in quanto tale è investito di autorità, non perde con la morte lo statuto di essere sociale. Sarà certamente uno dei suoi legittimi successori a ereditare le funzioni che egli ha assolto durante la vita, ma in quanto antenato, garante del benessere e della continuità sociale, egli continuerà a far parte del gruppo e a essere onorato dai suoi discendenti. I diritti della persona al momento della morte si trasformano, così come mutano in occasione delle tappe fondamentali dell'esistenza, ma non svaniscono. Questo significativamente non vale per tutti i membri della comunità, ma solamente per coloro che nel corso della vita conseguono un pieno riconoscimento sociale. I bambini, considerati come esseri incompleti tanto fisicamente quanto socialmente, spesso non vengono sepolti insieme agli adulti o seguendo lo stesso rituale: presso i samo vi sono dei cimiteri riservati ai bambini, i quali non hanno diritto ai funerali (negli stessi cimiteri vengono sepolte anche le donne amenorreiche). Tanto i samo quanto i mossi (Burkina-Faso) rifiutano inoltre l'inumazione ai necrofili, agli zoofili, ai loro partner sessuali e ai loro discendenti. Celebrare i funerali per gli individui macchiatisi di simili mostruosità costituisce un crimine ai danni dell'intera comunità (Héritier 1996).
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