Fuori campo
Inteso in senso tecnico, il termine indica uno spazio che, pur se esterno rispetto al ritaglio operato dall'inquadratura, contiene elementi della rappresentazione audiovisiva chiamati a cooperare a diverso titolo con l'immagine manifesta. Così, il primo piano di una mano che si chiude a pugno mantiene f. c. l'intero a cui appartiene, ma la visione procede senza sforzo a stabilire un'equivalenza tra la parte e il tutto assumendola al tempo stesso in un adeguato contesto interpretativo (collera, aggressività repressa, minaccia ecc.). La classica figura della pars pro toto, naturalmente, non è che un caso, assai precocemente canonizzato, dell'inesauribile riserva di procedimenti stilistici collegabile al f. c. cinematografico. Questa notevole proprietà di 'presentificare' qualcosa di materialmente assente, infatti, è stata messa a frutto dal cinema con una sistematicità e una pluralità di invenzioni che non hanno riscontri in altre forme espressive. Il principio che la giustifica, tuttavia, non è un tratto specifico dell'immagine cinematografica riguardando, piuttosto, il costituirsi della rappresentazione visiva in generale. Per convincersene basta pensare a un quadro giustamente celebre come Las meninas di D. Velázquez, in cui l'intera scena mostra di convergere verso un oggetto che si mantiene in uno spazio esterno e al tempo stesso a quell'oggetto e a quello spazio essa allude dal suo interno, enunciandoli come condizioni di possibilità della rappresentazione stessa. Al di là dell'aspetto tecnico, retorico e stilistico, dunque, la questione del f. c. si lega al fenomeno complesso della visione segnalandone l'intima duplicità ‒ il suo sdoppiarsi in una parte attiva (la visione come 'sguardo') e in una passiva (la visione come 'ciò che si offre allo sguardo') ‒ e l'altrettanto intima reversibilità, perché lo sguardo muove dall'interno del mondo visibile e l'occhio che vede, come ha fatto notare il filosofo M. Merleau-Ponty, è al tempo stesso un occhio che è visto, soggetto di visione e soggetto a una visione. In tal modo l'immagine (è ancora Merleau-Ponty a sottolinearlo) sorge nel bel mezzo di un circuito che va dall'occhio alle cose e viceversa, e dunque in nessun caso essa avrebbe il potere di portare a integrale visibilità l'insieme delle relazioni da cui è stata generata, trattenendo di necessità nell'invisibile qualcosa che nondimeno è parte essenziale del suo essere. Ora, se è vero che di questo invisibile si è potuta stipulare l'irrilevanza, come nel caso della rappresentazione prospettica classica, è altrettanto vero che, al contrario, se ne è potuta accentuare la pertinenza, come nel caso del quadro di Velázquez.
Il cinema, da parte sua, ha fatto entrambe le cose, ha attenuato la sua relazione con l'invisibile, come nel découpage (v.) classico teorizzato da André Bazin, oppure l'ha messa in risalto, come nelle avanguardie storiche (v. avanguardia cinematografica e avanguardia sovietica) o nel cinema cosiddetto moderno, ma è indubbio che il f. c. sia stato percepito fin dall'inizio come una delle sue risorse più potenti e insieme più imbarazzanti, tanto che si potrebbe perfino delineare un perspicuo profilo storiografico adottando come criterio il grado di consapevolezza con cui l'immagine cinematografica ha saputo di volta in volta attutire o rimarcare, cancellare o estremizzare la sua inerenza all'invisibile. Si vedrebbe allora che la questione del f. c. può essere dirimente al fine di determinare i tratti distintivi di un 'cinema moderno', ma si vedrebbe anche che il cinema 'premoderno' tiene in riserva, su questo punto, elementi che aspettano ancora di essere pienamente compresi e sviluppati.
Fu Sergej M. Ejzenštejn a richiamare esplicitamente l'attenzione sull'importanza (e insieme sulla non specificità) del f. c. nel cinema in un saggio del 1929 intitolato Za kadrom (alla lettera 'Oltre l'inquadratura' o, appunto, 'Fuori campo'; trad. it. in Il montaggio, 1986, pp. 3-18). Ma sarebbe riduttivo appiattire la sua posizione sulle tesi, molto datate, esposte in quella sede. In quegli anni, infatti, Ejzenštejn perseguiva il progetto, poi rapidamente tramontato, di un "cinema intellettuale" e dunque la questione del f. c. gli interessava innanzitutto dal punto di vista delle potenzialità concettuali accreditabili al montaggio.
Riferendosi alla scrittura ideogrammatica giapponese e generalizzandone la capacità di far nascere un concetto dalla combinazione di due figure sensibili (del tipo 'orecchio + porta = ascoltare'), Ejzen-štejn sosteneva che anche nel cinema, e anzi soprattutto nel cinema, la designazione di un "non-figurabile", ossia di un'idea o di un concetto, può essere ottenuta grazie alla "combinazione di due figurabili". In tal senso, in un cinema di 'scrittura' come quello intellettuale l'essenziale non riguarda tanto le immagini quanto i modi della loro relazione, attestandosi proprio in un f. c., o meglio producendovisi, perché nell'intervallo tra due inquadrature il concetto non viene semplicemente "esposto" ma si fa cogliere, per così dire, allo stato nascente. È quest'ultimo il punto decisivo: al di là delle possibili, e comunque restrittive, prestazioni intellettuali del montaggio, Ejzenštejn aveva colto una fondamentale analogia tra la più generale attitudine dell'immagine cinematografica a far nascere relazioni di senso e il lavoro produttivo dell'immaginazione umana. Che appartenga o meno a una 'scrittura' di montaggio, in altri termini, l'inquadratura non registra l'esistente ma lo 'lavora' e lo predispone a significare, non diversamente da ciò che fa l'immaginazione quando anticipa e prepara il pensiero presentandogli il sensibile come una vasta tramatura di sensi potenziali. Con ciò Ejzenštejn prospettava per l'immagine cinematografica un territorio di esplorazione non solo ben altrimenti ampio di quello riservato ai processi della concettualizzazione, ma anche più originario. Invece di forzare il cinema a un'improbabile mimesi del pensiero concettuale, si trattava piuttosto di assecondarlo nella sua facoltà di organizzare le immagini come il correlato di una assai più estesa e indeterminata attività di pensiero; donde l'idea del "monologo interiore" che Ejzenštejn avrebbe elaborato negli anni Trenta e ulteriormente ampliato nel decennio successivo progettando un cinema capace di spingersi "oltre Joyce" ‒ cioè oltre il linguaggio e la scrittura letteraria ‒ nell'attitudine a intercettare e restituire il lavoro dell'immaginazione nel momento stesso del suo farsi. In questo ambito, il f. c. assume una determinazione del tutto diversa: non è più solo lo spazio esterno all'inquadratura né il differire delle immagini (il loro intervallo) grazie al quale scocca la scintilla della concettualità; è, piuttosto, la nebulosa di senso, il "tema ingovernabile", come lo chiama talvolta Ejzenštejn, che il discorso filmico articola in una complessa orchestrazione di forme audiovisive le quali a loro volta lo offrono, senza poterlo mai interamente esaurire né pienamente saturare, a una visione 'pensante'. Così, per es., Ivan Groznyj è meno una storia che un "monologo interiore" prolungato e inconclusivo sul "tema" del potere, è meno una rappresentazione diretta del potere che un'elaborazione immaginativa volta alla molteplice pensabilità di una nebulosa di senso che resta fuori campo.
In questo sviluppo della riflessione sul f. c. Ejzenštejn si portava decisamente al di là del paradigma che, in un saggio ormai classico (1983), Gilles Deleuze ha definito "immagine-movimento", e ci si portava perché il referente dell'immagine non era ormai più (posto che lo fosse mai stato) un 'reale' da padroneggiare grazie alla forza ordinatrice della rappresentazione ‒ e in questo senso, certo, il f. c. non può che restare lo sfondo coessenzialmente evocato, e quindi dominato, dalla figura, come nel caso esemplare della pars pro toto ‒, quanto piuttosto un pathos (nel senso antico del termine: un'affezione violenta che ci capita di 'patire') che precede ogni forma e ogni pensiero perché è, precisamente, ciò che dev'essere formato e ciò che dev'essere pensato. È su questo punto, allora, che andrebbe ricollocato, almeno nel caso specifico di Ejzenštejn, il discrimine tra il f. c. del cinema 'premoderno' e quello del 'cinema moderno'; ma resta incerto che si tratti davvero, come ritiene Deleuze, di un confine così netto. Lo scarto si ridurrebbe, infatti, a una diversa determinazione del senso dell'immagine (ovvero del suo f. c. e delle tracce che esso lascia sussistere nella rappresentazione), che da un lato sarebbe un senso che 'dà da pensare', dall'altro un senso che 'dà da vedere'. Ma in entrambi i casi ciò che si mantiene in un f. c. radicale rispetto all'immagine manifesta è la medesima materia "dispersiva, ellittica, errante" di cui parla Deleuze, ora polarizzata sulla prestazione 'pensante' dell'immaginazione, sul suo essere preludio di pensieri, ora sulla sua prestazione visionaria, sul suo saper indugiare, senza ulteriori passaggi, nella condizione della pura voyance.
A. Bazin, Qu'est-ce que le cinéma?, 1-4, Paris 1958-1962 (trad. it. parziale a cura di A. Aprà, Milano 1973).
S.M. Ejzen-štejn, Izbrannye proizvedenija v šesti tomach, 3° vol., Neravnodušnaja priroda, Moskva 1964 (trad. it. La natura non indifferente, Venezia 1981);
M. Merleau-Ponty, L'œil et l'esprit, Paris 1964 (trad. it. Lecce 1971).
M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, Paris 1964 (trad. it. Milano 1969).
G. Deleuze, Cinéma 1. L'image-mouvement, Paris 1983 (trad. it. Milano 1984).
G. Deleuze, Cinéma 2. L'image-temps, Paris 1985 (trad. it. Milano 1989).
S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, Venezia 1985, 1992².
S.M. Ejzenštejn, Il montaggio, Venezia 1986, 1992².
P. Montani, L'immaginazione narrativa, Milano 1999.