CAPONE BRAGA, Gaetano
Nacque a Giulianova (prov. di Teramo) il 4 maggio del 1889 da Gaetano e da Elisa Di Giacinto. Laureatosi in filosofia nel 1912 presso l'istituto di studi superiori di Firenze, insegnò in vari licei (Arezzo, Spoleto, Padova) fino al 1926. Ottenuta la libera docenza di storia della filosofia presso l'università di Padova nel dicembre del 1922, ne tenne il corso, sempre a Padova, dal 1926 al 1933. Dal 1933 al 1936 insegnò come professore straordinario filosofia teoretica all'università di Cagliari.
Nel 1936, in base alla recente legge per cui si poteva essere nominati titolari di cattedra su proposta e chiamata di almeno altri cinque titolari di una medesima facoltà, ottenne la cattedra di filosofia presso l'università di Firenze, dove insegnò fino al gennaio 1956.
Pochi mesi dopo, il C. moriva a Firenze il 18 apr. 1956.
Allievo del De Sarlo, il C. iniziò la sua attività di pubblicista come collaboratore de La cultura filosofica, rivista fondata e diretta dal suo antico maestro sin dal 1907, allora uno dei punti di riferimento della polemica cattolica contro positivisti e neoidealisti. In effetti la giustificazione della divinità trascendente e dell'oggettività dei valori, sia degli estetici, che dei morali, costituisce il filo conduttore della sua ricerca.
Il C. può essere quindi considerato un ideologo cristiano che polemizza "a tesi" contro il neoidealismo. I suoi interessi gnoseologici sono quindi contingenti, legati cioè alla necessità polemica di porsi sullo stesso terreno dell'attualismo, e questo loro carattere ne inficia a priori rigore e profondità. Il vero punto di partenza della filosofia del C. è il bisogno religioso, l'insoddisfazione che lo spirito prova nei confronti del mondo terreno. E questa insoddisfazione non è quella di Kierkegaard, bensì, e qui il richiamo è esplicito, quella di Agostino, di Petrarca, di Leopardi (La concezione agostiniana della libertà, Padova 1931). Non v'è nel C. una sofferta ricerca autonoma sui caratteri e gli aspetti gnoseologici del giudizio e del dovere morali, come in uno Juvalta o in un Limentani: il suo rapporto con Kant e con i moralisti inglesi non è quindi fecondo, e il suo "ripensamento del platonismo in termini kantiani" (Sciacca) non può andare molto al di là di un semplice rimpasto di nomenclatura.
Definì la sua filosofia "realismo teistico integrale" (Lineamenti di un realismo teistico integrale, Firenze 1934): "realismo perché essa non riduce la realtà ad idee soltanto, ma oltre alle idee ammette enti reali, di natura materiale o di natura psichica ...; teistico, perché considera come principio esplicativo supremo del reale la coscienza assoluta, eterna, trascendente; integrale, perché ammette la realtà oggettiva anche dei valori e dei rapporti delle cose, e delle così dette qualità secondarie di esse, ossia dei colori, dei suoni, ecc., che di solito son considerati come soggettivi".
L'iter della dimostrazione di questo realismo consiste dapprima nella affermazione della irresolvibilità delle qualità sensibili all'interno di un meccanismo di natura materiale. L'aspetto intensivo delle qualità sensibili dimostra che esse hanno senso solo per una sostanza semplice spirituale che le pensa. Quindi, concesso all'attualismo che ogni realtà è realtà pensata, il C. passa ad esaminare le caratteristiche onnipresenti dell'atto del pensiero. Quest'ultimo appare sempre come "rapporto" tra "soggetto" e "dato". Ma lo spirito umano "finito" non può essere "ragione appieno sufficiente" della realtà, ovvero del carattere di esteriorità con cui appare pur all'interno dell'atto del pensiero, del "dato". Esso ha senso, sì, solo per una sostanza spirituale che lo pensa, quindi esiste solo in quanto pensato; ma per giustificare appieno la sua esistenza, ad una col suo carattere di preesistenza, bisogna ricorrere, anche se in via ipotetica, ad uno spirito infinito che lo ponga in essere nell'atto stesso in cui lo pensa.
La coerenza, e quindi la parziale validità di questo discorso, si basa sullo scambio dei due aspetti che la sensibilità assume in Kant. Infatti il C. fonde assieme quello che Kant chiama il grado di realtà con il carattere determinato che la qualità sensibile assume nella "sensazione oggettiva" (Kant). Confonde cioè il "continuum" molteplice, fluido e contiguo, dotato di grado di realtà, ma privo di determinazione quale appare la sensibilità nell'estetica trascendentale, con la qualità determinata che l'intelletto ritaglia dal molteplice all'atto della sintesi, attribuendola ad una sostanza, quale appare la sensibilità nell'analitica trascendentale.
Questa fusione avviene perché il C. quale spiritualista non vuole rinunciare alla sostantalità dell'anima, quale cattolico non la vuole fondare problematicamente sull'autonomia morale per non aprire la porta all'idealismo etico e al soggettivismo dei valori. Anche a livello teoretico, l'anima, o intelletto, non può essere quindi solo funzione sintetizzatrice ma deve essere sostanza capace di "visio intellectualis", cui deve per forza corrispondere un "oggetto" di natura spirituale. Si vede come il C., non padroneggiando sino in fondo la fondamentale distinzione kantiana tra "intellectus archetypus" e "intellectus ectypus", deve per forza arenarsi in una metafisica di tipo platonico-leibniziano (Il mondo delle idee, Milano 1954).
Né lo spirito umano può considerarsi il creatore dei rapporti intellegibili tra le cose. Ad un medesimo atto dello spirito, infatti, il "paragonare", corrisponde una varietà di rapporti tra le cose. Questo dimostrerebbe che i rapporti, pur non avendo esistenza al di fuori dell'atto del pensiero, gli preesistono. Anche qui il richiamo a Kant è fuor di luogo, perché il C. dimentica ancora una volta la distinzione fondamentale della Critica: quella tra intelletto intuitivo e intelletto discorsivo. Le categorie non sono più allora i modi e le condizioni a cui soltanto un contenuto può essere presente alla conscienza e assumere determinazione, ma note, anche se di natura logica, di cose intuite dallo spirito e da loro scaturenti nell'atto stesso in cui questi le confronta tra loro. Come si vede il C. travisa anche il concetto kantiano dell'appercezione trascendentale. Quindi la sua polemica contro l'attualismo e contro l'idealismo - egli vedeva un unico indirizzo di pensiero da Maimon a Fichte, da Hegel a Gentile - è destituita di ogni fondamento.
È facile immaginare con quale disinvoltura si possa costruire sulla base di un così solido realismo l'edificio dei valori estetici e morali. Per quanto riguarda l'estetica v'è naturalmente un bello oggettivo che è la traccia che canta la gloria del creatore. L'essenza dell'opera d'arte consiste a sua volta nell'emozione con cui l'artista coglie questa traccia e la imita in varia combinazione (Il problema estetico, Cagliari 1936). I valori morali, nonostante si sia voluto da qualche parte tentare di modernizzare il pensiero del C. con una mano di pessimismo esistenzialistico, dandogli la parvenza di un respiro europeo (Viviani), restano quelli tradizionali della scolastica e del platonismo cristiano (Il problema del fondamento dell'etica, Firenze 1945).
I duri giudizi dei suoi contemporanei appaiono giustificati, anche se la stroncatura che il Gentile fece della sua opera sui rapporti tra illuminismo francese e italiano (La filosofia francese e ital. del Settecento, Arezzo 1920), opera che si può ancora consultare proprio per la pedissequa e manualistica aderenza ai testi, trovò il movente principale nell'opposizione da parte del C. al programma gentiliano di sopravvalutazione della tradizione filosofica e culturale regionale italiana, e il fatto che il C. vedesse nell'idealismo italiano un caso di epigenia provinciale, non poteva certo preoccupare Gentile, dato che le armi teoriche del C. erano spuntate in partenza.
Del C. vedi anche Saggio su Rosmini, Milano 1914; La vecchia e nuova logica, in Archivio di filosofia, V (1935), pp. 332-62; VI (1936), pp. 35-37, 95-150, 250-289; Studi su Epicuro, Milano 1951; La religione nel pensiero classico, Milano 1954.
Bibl.: G. Gentile, La filosofia francese e ital. secondo G. C. B., in La Critica, XIX (1921), pp. 50-59; M. F. Sciacca, Il secolo XX, Milano 1947, ad Ind.; L.Geymonat, Saggi di filosofia neo-razionalistica, Torino 1953, ad Indicem; M. F. Sciacca, La filosofia d'oggi, Milano 1954, II, pp. 410 s.; A. Guzzo, Due abbruzzesi: Capograssi e C. B., in Filosofia, VII (1956), pp. .584-88; A. Viviani, Il realismo reistico integrale di G. C. B., in Giorn. metaf., XII (1957), pp. 200-222; Id., Note di dolore e di speranza nell'opera ined. e ed. di G. C. B., in Sophia, XXV(1957), pp. 240-59; Id., L'interpret. della realtà della vita umana nel pensiero di G. C. B., con liriche inedite, Pescara 1958, passim.