DIOCLEZIANO, Gaio Aurelio Valerio (Imp. Caesar C. (M.) Aurelius Valerius Diocletianus Augustus)
Imperatore romano dal 284 al 305. Nacque in Dalmazia, forse in Salona, verso il 243 d. C. e militò giovanissimo nella Gallia, distinguendosi per valore e per attitudini al comando, che sviluppò alla scuola di Aureliano e di Probo, i quali lo fecero salire ai più alti gradi della milizia. Era capo della guardia imperiale, quando l'ímperatore Caro nel 283 mosse alla vittoriosa campagna contro i Persiani. Morto quindi, o ucciso, Caro, gli succedette Numeriano insieme al fratello Carino, già lasciato dal padre a governare l'Occidente. Durante il ritorno dell'esercito dalla spedizione di Persia, Numeriano, debole e infermo, fu ucciso, e i sospetti caddero sul suocero Arrio Apro prefetto del pretorio che forse sperava di succedergli. Ma gli altri ufficiali sdegnati acclamarono, il 17 settembre (o novembre) del 284, imperatore quello fra essi che ritenevano più atto a difendere e amministrare l'impero, D., allora quarantenne. Primo suo atto fu vendicare la morte di Numeriano, trafiggendo di sua mano Apro. Mosse quindi contro Carino che, raccolte le milizie dell'Occidente e sbarazzatosi d'un usurpatore, Giuliano, si avanzava spiegando energia non comune. I due eserciti s'incontrarono nella primavera del 285 al fiume Margo (Morava, affluente del Danubio) presso l'attuale Belgrado; Carino vincitore in un primo scontro fu ucciso da un suo ufficiale per vendetta di private offese e D. fu riconosciuto imperatore da ambedue gli eserciti. Un'amnistia concessa ai partigiani di Carino, ai quali conservò cariche e onori, e il riconoscimento del Senato romano consolidarono la sua autorità. Era in quell'epoca più agevole conseguire la dignità imperiale, che conservarla a lungo, in modo da attuare un programma di governo: l'impero sembrava precipitare verso l'estrema rovina. Nell'ultimo cinquantennio non erano mancati augusti valorosi e capaci (Claudio II, Aureliano, Probo, Caro), ma l'opera loro era stata spezzata o impedita dall'insubordinazione delle milizie insofferenti di disciplina e unicamente sollecite del loro benessere, dalle guerre civili che ne nascevano, dal destarsi delle tendenze autonomistiche nelle varie regioni, mentre s'affievoliva la posizione dominante e centrale dell'Italia. Il decrescere della popolazione, la devastazione, operata dai barbari, delle provincie più prospere di confine, la lunga crisi delle industrie e del commercio, l'abbandono dell'agricoltura, la mancanza di sicurezza e di pace, lo svilupparsi del brigantaggio, la svalutazione della pessima moneta, il ritorno a metodi di scambio primitivi, il decadimento e l'imbarbarirsi dei costumi, il declinare degli studî e delle arti e il prevalere di superstizioni e di culti orientali, dimostravano la grave crisi che attraversava l'impero, in cui l'autorità centrale non era più in grado di continuare quella missione di pace e di civiltà che era stata la sua grande benemerenza nel I e nel II secolo. Ad affrettare lo sfacelo, più numerosi e forti i barbari, in possesso già di migliore organizzazione politica e militare, e degli elementi assorbiti dal lungo contatto con la civiltà romana, incalzavano su tutti i confini dell'impero dalla Britannia, lungo il Reno e il Danubio sino al Mar Nero: mentre sui confini d'Armenia e sul Tigri e l'Eufrate, l'Impero persiano risorto rivendicava gli antichi dominî di Ciro e di Dario; e in Siria, in Egitto, nell'Africa, dove la potenza romana aveva trovato il suo confine nell'aridità dei deserti, le tribù nomadi spiavano il momento di gettarsi a predare nelle provincie pacate, e tribù sottomesse, ma non dome, riprendevano i loro istinti di razzia e di disordine; mentre sui mari, nel Mar del Nord e nella Manica, come nel Mar Nero e nel Mediterraneo, aveva preso nuovo vigore la pirateria, esercitata prevalentemente da elementi germanici. Ma una grande fede nella romanità e nelle sue sorti animava D., come aveva ispirato altri dei migliori imperatori usciti dalle ormai latine provincie di Dalmazia e di Pannonia, in cui, con lo spirito militare dell'antica Roma, sembrava essersi trapiantato il senso della missione superiore dell'impero nel mondo. E fu subito all'opera. Impossibile era a un uomo solo reggere e difendere in simili condizioni l'impero, ed egli, spogliandosi d'ogni gelosia ed esclusivismo, scelse fra i generali più sperimentati Massimiano (v.), uomo di scarsa cultura ma di sicura fedeltà, e l'inviò in qualità di cesare nelle Gallie, devastate da bande di ribelli (Bagaudi). Massimiano batté in varî scontri questi ribelli e compì la pacificazione, assoldandone molti nell'esercito. Intanto D. combatteva con successo popolazioni di stirpe germanica sul Danubio (285); sì che poteva intitolarsi una prima volta Germanicus maximus.
I due amici si trovarono in Nicomedia nei primi mesi del 286 e D. elevò Massimiano al grado di augusto e di suo collega, e mentre assumeva egli il soprannome di Giovio, riservandosi la direzione generale del governo, dava all'altro quello di Erculio, segnandone così la posizione subordinata. Quindi si dividevano i compiti: D. muoveva contro i Persiani venuti meno ai patti stipulati con Caro, e profittando delle lotte dinastiche, metteva sul trono di Armenia il re Tiridate III, consolidando in questo paese l'influsso dell'impero (287); e imponeva a Varane II il riconoscimento del dominio romano in Mesopotamia. Massimiano arginava un'invasione degli Alamanni dall'alto Reno e ne faceva strage, sfruttava la discordia scoppiata fra Alamanni e Burgundî, batteva Eruli e Caiboni sul medio Reno, passava sulla riva destra di questo fiume, imponeva sottomissione e alleanza ai Franchi di cui stabiliva una tribù nell'antica isola dei Batavi, mentre la flotta romana, al comando del suo luogotenente Carausio, distruggeva i pirati franchi e sassoni che infestavano il Mar del Nord e la Manica e disertavano le spiagge della Gallia e della Britannia: questa così tornava a comunicare regolarmente col resto dell'impero e a risentire l'efficacia del governo centrale. La gioia di questo prospero successo fu turbata dalla ribellione di Carausio (v.), che, chiamato a render conto della sua opera, preferì ribellarsi, costituire in governo autonomo la Britannia e sfidare l'ira dei due augusti, di cui si atteggiò a collega, sicché essi, dopo alcuni infruttuosi tentativi di sottometterlo, dovettero tacitamente riconoscerlo, riservando ad altro tempo di domarlo. Nel 288 ritroviamo D. in Occidente, nella Rezia minacciata di nuova invasione: egli varcò il Danubio e piombando inaspettato sui nemici, tolse loro parte del territorio, dando alla provincia maggior respiro (Paneg. III, 5; II, 7,9). Nel 289 è in campagna contro i Samiati al di là del Danubio e li batte, prendendo il titolo di Sarmaticus. L'11 gennaio del 290 è ancora in Sirmio, intento a consolidare i risultati delle campagne precedenti, e a rafforzare il confine danubiano. Qui gli dovette giungere notizia d'una sollevazione nell'alto Egitto, forse connessa con un'invasione dei Blemî, e di altre minacce al confine arabico della Siria. Scese allora in Siria, e, mentre personalmente provvide alla tranquillità di questa regione, suoi legati domarono rapidamente la sommossa d'Egitto, sicché egli poté in autunno riprendere la via della Pannonia (Paneg. III, 4). Nell'inverno del 290 s'incontra in Milano con Massimiano, che aveva soffocato una ribellione dei Mauri dell'Africa e aveva fatto un tentativo non riuscito di domare Carausio. Negli anni seguenti, mentre Massimiano sistemava meglio il confine del Reno, trasportando come coloni parte dei Franchì negli antichi territorî dei Nervî e dei Treviri, D. muoveva di nuovo contro i Sarmati.
Come risultato di questo continuo armeggiare dei due augusti, verso il 292-293, la sicurezza militare dell'impero e la pace interna parevano assicurate: ma la mente vigile di D. si rendeva conto che la crisi non era superata e che da un momento all'altro poteva anzi aggravarsi sui punti più sensibili del vasto territorio. L'usurpazione di Carausio non era punita e restava come un esempio incoraggiante; al confine orientale nuove complicazioni potevano sorgere da un momento all'altro, dopo mutato il sovrano persiano; il fermento e l'irrequietezza erano nelle provincie più lontane. Ed egli che aveva risolto il problema d'avere un valoroso e fedele collaboratore, volle risolvere l'altro della successione nella dignità suprema, in modo da togliere ogni speranza agl'illegali usurpatori e assicurare la successione ai più sperimentati e fedeli, guadagnando frattanto in essi uomini di fiducia per le imminenti lotte. Scelse due dei migliori generali, Galerio e Costanzo, e li creò cesari: egli e Massimiano li adottarono come figli e successori, diedero loro i proprî nomi, e una parte del territorio da amministrare e difendere: Costanzo ebbe la Gallia, Galerio l'Illirico; Galerio si disse da allora C. Galerio Valerio Massimiano, Costanzo si disse C. Flavio Valerio Costanzo. Galerio sposò Valeria figlia di Diocleziano, Costanzo aveva già abbandonato Elena, da cui gli era nato Costantino, ed aveva sposato da alcuni anni Teodora, figliastra di Massimiano. I due augusti e i due cesari costituivano la nuova famiglia imperiale dei Giovî e degli Erculî: in essa la funzione direttiva e l'autorità suprema era conservata da D. (senior augustus); l'impero conservava la sua unità, ma era diviso in due parti maggiori e due minori per la difesa e per l'amministrazione: le leggi, emanate quasi solamente da D. erano fatte in nome di tutt'e quattro, comuni erano i provvedimenti che ciascuno di essi prendeva, anche senza consultare gli altri, e comuni le vittorie che ognuno conseguiva. Ognuno pose la sede in una città che gli permettesse di accorrere prontamente al confine da sorvegliare: Costanzo in Treviri, Massimiano in Milano, Galerio in Sirmio, D. in Nicomedia; Roma restava la capitale morale dell'impero, con le tradizioni e le leggi e la religione che costituivano l'anima dello stato, col fascino del grande nome.
Diocleziano concepiva la dignità imperiale non come un diritto e un privilegio che chi n'era investito dovesse tenacemente riservarsi, ma come una missione che imponeva rudi e gravi doveri e un'attività senza tregua. Gli augusti che si sentissero invecchiare e divenire meno atti al pesante fardello dovevano rinunziare al potere: i cesari sarebbero divenuti augusti e avrebbero alla loro volta provveduto a lasciare il potere in mani degne e ferme. È questo il sistema che fu detto della tetrarchia, o dei quattro sovrani.
Nel corso del 294-295 Galerio e Massimiano condussero una serie di fortunate spedizioni contro Goti, Sarmati e Carpi: numerose schiere di Sarmati prigionieri e l'intera popolazione dei Carpi arresasi vennero trasportate e stabilite come coloni con obblighi militari, in Pannonia, in Gallia e in altre provincie.
Nell'estate del 294 una sanguinosa sommossa scoppiò in Alessandria d'Egitto: i magistrati romani furono massacrati: le poche milizie non riuscirono ad arginare la rivolta che si estese al medio Egitto; un certo Achilleo prese la porpora col nome di L. Domizio Domiziano, forse sperando di venir riconosciuto e lasciato in pace come Carausio. Ma D. aveva creato la tetrarchia per mettere fine a queste illegittime usurpazioni: inviò truppe, poi mosse personalmente verso l'Egitto. Già nel dicembre del 294 l'usurpatore era confinato in Alessandria, ma per mancanza d'una flotta che bloccasse il mare, la città non fu presa che dopo un assedio di sette mesi, nel maggio o giugno del 295, da D. in persona. L'usurpatore fu giustiziato, i suoi seguaci puniti fieramente, la città castigata così da rendere impossibili altre ribellioni. D. si trattenne in Egitto sino alla primavera del 296, ne riformò l'amministrazione, provvide alla difesa del confine meridionale, cedette il distretto infruttuoso a sud di Siene (Assuan) ai Nobadi, e strinse con questi e con i Blemî convenzioni che assicuravano la pace in quel remoto angolo dell'impero. Ma intanto, forse in connessione con la sommossa dell'Egitto e con la costituzione della tetrarchia che dovette sembrare indizio di debolezza interna, si ridestava la lotta con i Persiani. Il nuovo re Narseo, o Narsete, salito sul trono nel 293, mirava ad annullare le concessioni fatte dal predecessore. Mentre Diocleziano era trattenuto in Egitto, il cesare Galerio riceveva da lui ordine di lasciare l'Illirico, e andava a montar la guardia in Mesopotamia e lungo l'Eufrate. La sua presenza trattenne Narsete, ma appena Galerio si fu allontanato per recarsi ad Antiochia, il Persiano invase la Mesopotamia e la Siria depredandole: poi, saputo che D. tornava dall'Egitto, si affrettò a sgombrare. Gli tenne dietro Galerio che aveva l'ordine di trattenerlo, ma di non combattere con le forze inferiori di cui disponeva: invece, stimando di poter da solo strappare al nemico la vittoria, passò l'Eufrate e venne a battaglia fra Callinico e Carre. Fu battuto, nonostante prove di grande valore. D. l'accolse sdegnato; poi, mentre l'inverno interrompeva le operazioni, l'inviò nell'Illirico e nella Mesia a raccogliere veterani e barbari, ed egli stesso svernò in Siria a preparare la nuova campagna. All'aprirsi della stagione propizia, egli prese posizione sull'Eufrate, e Galerio col nuovo esercito penetrò con rapida e ardita marcia nell'Armenia, vi sorprese il re persiano e il suo esercito e nonostante le forze superiori di questo lo sconfisse in una grande battaglia, s'impadronì del campo nemico, dei tesori e della famiglia reale, poi, inseguendo il re fuggitivo, penetrò nella Media e nell'Adiabene e marciò su Ctesifonte. Non solo la sconfitta dell'anno innanzi era vendicata, ma il re di Persia fu messo in stato di dover chiedere pace anche a gravi condizioni. D. non dando ascolto alla seduzione di ulteriori campagne, la concesse a patto del riconoscimento del possesso romano della Mesopotamia, della cessione di cinque regioni al di là del Tigri, della supremazia romana sul regno d'Armenia e sull'Iberia del Caucaso (Georgia attuale), della concentrazione del commercio fra i due stati nella piazza romana fortificata di Nisibi. Il re persiano accettò questi patti e gli furono restituite le sue donne e la sua famiglia che erano state trattate regalmente dai vincitori. Un grande arco eretto in Tessalonica celebrò i fasti dei nuovi grandi trionfi dovuti al valore del cesare Galerio e alla saggezza direttiva di D.
Contemporaneamente veniva messa fine all'usurpazione che all'estremità opposta dell'impero durava da otto anni. Nel 293 il cesare Costanzo aveva occupato Gesoriacum, togliendo a Carausio questa base sul continente e sottomettendo i suoi alleati Franchi e Menapî; ma non avendo una flotta adeguata, aveva dovuto per allora differire l'assalto alla Britannia. Carausio era quindi ucciso dal suo ministro (rationalis) Alletto, che gli succedette nell'autorità usurpata; ma Costanzo, accresciuta ormai la flotta, mentre Massimiano montava la guardia sul Reno contro i barbari, mosse con due squadre nella primavera del 297 alla sottomissione della Britannia. Il prefetto del pretorio Asclepiodoto, sbarcato nell'isola batté e uccise Alletto; la Britannia venne aggiunta alla Gallia e governata da Costanzo. La guerra si accese intanto all'estremo SO., dove i Quinquegentani e altre tribù ribelli mettevano a ferro e fuoco la Mauritania e le coste stesse di Spagna, senza che le autorità locali riuscissero più a frenarli. A combatterli scese, attraverso la Spagna, Massimiano e ne ebbe ben presto ragione. Nella primavera del 298 egli, terminata questa guerra, salpò da Cartagine verso Roma e nell'antica capitale, in attesa che Diocleziano venisse a celebrarvi il trionfo, ordinò la costruzione di quelle grandiose terme che avrebbero attestato nei secoli la nuova potenza conseguita dall'impero. I due cesari dovevano condurre ancora altre campagne; Galerio contro Marcomanni e Bastarni sul Danubio, Costanzo contro Franchi e Alemanni sul Reno.
Quando nel 303, ricorrendo i suoi vicennali di regno, la pace parve solidamente stabilita all'interno e sui confini, D. si recò a Roma, dove non era stato più da tanti anni. Il trionfo, che egli aveva sempre differito e ora celebrava, dopo tante guerre vittoriose combattute in teatri così diversi e fra grandi difficoltà, poteva stare a fronte a quelli di Scipione, di Cesare e di Traiano, forse li superava, se non per splendore di elargizioni, per merito di tenacia vittoriosa e di abilità organizzatrice. Le tradizioni romane erano state per tutto il suo regno la fonte precipua a cui aveva ispirato gli ordinamenti dell'impero. La sua mentalità sostanzialmente conservatrice si rivela con chiarezza e precisione nel prologo al rescritto in cui regolava i matrimonî: "Al nostro animo pio e religioso sembrano soprattutto venerandi e da osservare con eterna religione quegl'istituti, che santamente e puramente furono dalle leggi romane regolati. Noi non dubitiamo che gli dei immortali continueranno a favorire e proteggere, come sempre fecero, il nome romano se tutti i nostri sudditi conducano una vita pia e religiosa e quieta e casta. La nostra autorità e le nostre leggi non proteggono se non ciò che è santo e venerabile: la romana maestà è arrivata a tanta altezza, col favore degli dei, perché tutte le sue leggi ispirò a sapiente religione".
Ma tre secoli non erano trascorsi invano: specialmente il III, con le sue violente convulsioni, con la distruzione d'una gran parte dell'antica classe dominatrice, con la rovina della prosperità dei ceti cittadini, e la crisi economica generale, con l'indisciplina degli eserciti, e gli assidui assalti dei barbari, aveva mutato le condizioni dell'impero: non era possibile tornare né agli ordinamenti di Augusto, né a quelli degli Antonini: per molte cose l'opera di restaurazione doveva essere creazione di nuovi ordinamenti e istituti, o convalida di quelli che la necessità aveva man mano suggeriti. Il problema che aveva già affaticato Augusto, di avere suxbsidia dominationi, uomini abili a cui affidare con piena fiducia il comando degli eserciti, e ch'era rimasto un problema di tutta l'età imperiale, divenuto più grave durante il cinquantennio di anarchia militare, era stato risolto da Diocleziano in modo efficace, con la creazione della tetrarchia. Per l'assidua vigilanza dei confini i sovrani dovevano restar lontani da Roma: Diocleziano e i suoi colleghi cresciuti fra i soldati avevano del resto il senso che la dimora nella vecchia capitale piena di memorie e accanto a un'aristocrazia colta e raffinata non era favorevole al loro prestigio, che meglio si affermava negli accampamenti e nelle città di provincia da loro create, o dalla loro presenza rese illustri. Il contatto col Senato romano diventò quindi di necessità sempre più raro, sebbene Diocleziano e i suoi colleghi conservassero verso di esso un atteggiamento reverente; il consistorium principis ne prendeva il posto e le funzioni come consiglio di governo. Il potere assoluto dell'augusto, già pieno sin dal sec. I, si scioglieva cosi da ogni ombra di tutela e di controllo, ma trovava un nuovo limite nella collegialità dell'altro augusto e dei cesari, pure a lui subordinati. E se il carattere divino del sovrano, ch'era andato sempre più guadagnando terreno, veniva reso più sensibile ai sudditi da un'ulteriore evoluzione del già fastoso cerimoniale del sec. III, la vita rude del campo avvicinava e confondeva continuamente con i soldati i sovrani, che non comandavano dal fondo d'un palazzo, ma personalmente combattevano alla testa delle loro truppe, pronti in ogni circostanza a interrompere una solenne cerimonia civile per cingere l'elmo e la spada. Dopo i due cesari, i due prefetti del pretorio continuavano ad avere mansioni militari e civili, ma cresceva il numero dei loro vicarî, sino al numero di dodici, ed era così diminuita l'importanza dei prefetti. Cosi pure i governatori delle provincie continuavano a esercitare all'occasione le funzioni di comandanti militari, ma le vecchie provincie, grandi come regni, si potevano male amministrare da governatori che si susseguivano rapidamente; e questi, quando avevano sotto di sé cospicue forze militari, si lasciavano facilmente tentare a usurpazioni. Le provincie vennero quindi gradatamente suddivise sino al numero di 120 circa. A governarle continuarono a esser chiamati personaggi dell'ordine senatorio col titolo di proconsules per le tre provincie d'Africa, Asia, Acaia, di consulares e di correctores per le altre, o personaggi dell'ordine equestre col titolo di praesides. Ma accanto a essi, specialmente nelle provincie di confine, furono dei duci (duces) a cui spettava il comando delle milizie, poiché la separazione del potere militare dal civile continuò ad affermarsi e a svilupparsi. Il numero dei soldati fu aumentato di circa un terzo, salendo da 300 mila a circa 450 mila, comprendendovi le forze navali. I grandi successi che rialzarono il prestigio delle armi romane, e assicurarono all'impero quarant'anni di quasi pace sui confini, non furono ottenuti se non con l'aumentare le forze insufficienti con cui l'impero si difendeva. La necessità assidua che aveva obbligato D. e i colleghi a correre sui punti minacciati più lontani, ma di non sguarnire intanto i confini dietro i quali premevano i barbari, pronti a precipitarsi nella prima falla che offrisse la cintura difensiva romana, obbligò a tenere in permanenza un certo numero di legioni e di corpi ausiliarî intorno ai sovrani, che con essi muovevano al primo cenno di pericolo; si ebbero cosi il corpo che sotto Massimiano domò i Bagaudi della Gallia, quello che accompagnò Diocleziano in Egitto, l'esercito con cui Galerio batté i Persiani, il corpo di spedizione che sotto Costanzo mosse contro la Britannia. L'uso divenne poi norma: accanto all'esercito che guardava i confini (milites limitanei) vi fu l'esercito di manovra, il cui nucleo era costituito dai palatini, o soldati della guardia imperiale che avevano sostituito i pretoriani (dei quali rimaneva ancora qualche corpo in Roma), e dai comitatenses che presero il nome appunto dal loro ufficio di accompagnare gl'imperatori, truppe scelte specialmente di cavalleria, in cui da Costantino in poi prevalsero sempre più i mercenarî barbarici. Ma per non accrescere troppo il numero delle milizie, dalla Britannia alla Mesopotamia e da questa alla Mauritania, una serie ininterrotta di valli muniti di fosse e di torri e di tutti i mezzi difensivi di quell'età, di castelli e di piazzeforti in una seconda linea più interna di fabbriche d'armi e di depositi nelle città principali, congiunte da strade strategiche e di arroccamento nuove, o nuovamente riparate, cinse l'impero in modo da rendere più difficile ai nemici penetrarvi, più facile la difesa e l'accorrere dei soccorsi. E la disciplina fra i soldati fu così ristorata, che durante il governo di Diocleziano non vi furono le sommosse che avevano reso tristamente famoso il sec. III: D. si loda spesso della fides militum.
Così grande spazio militare e costruttivo era stato sorretto da una riforma finanziaria. D. aveva trovato l'impero in una grave crisi economica: la fame travagliò i popoli nei primi anni del suo governo. Buon amministratore, economo, tenne in assetto le finanze dello stato, procurando di avere entrate proporzionate alle spese, e le casse sempre fornite, mentre distribuiva equamente i tributi fra i sudditi. A questi venne ora sottoposta anche l'Italia, che da secoli n'era esente. Il territorio coltivato fu diviso in tante unità tributarie, di varia estensione secondo la fertilità del suolo e il genere di colture: si tenne anche conto delle forze lavoratrici che dovevano farle fruttare. Queste unità presero il nome di iugum o di caput (in greco anche ξυγκέϕαλον). Il tributo non era costante, ma veniva fissato anno per anno dall'imperatore con un editto (indizione), a seconda dei bisogni. All'imposta personale (capitatio) rimasero soggette le plebi rustiche, ne andarono esenti le cittadine. L'introduzione del nuovo sistema di tassazione, il nuovo catasto, che veniva periodicamente aggiornato, sottoposero a tributo molte ricchezze, che ne andavano esenti grazie ai sistemi antiquati di tassazione e d'esazione, e da ciò molti lamenti; ma fu opera di giustizia distributiva, che creò alle finanze dell'impero una base solida; né sinché govemò D. i tributi furono gravi. La pace ristabilita, la tranquillità e l'ordine all'interno, le grandi opere pubbliche diedero nuovo stimolo all'agricoltura, all'industria e al commercio: e ad agevolarli venne la riforma monetaria, in cui D. non riusci completamente, ma fece tuttavia circolare per l'impero nuova buona moneta d'oro (aureus) e d'argento (argenteus) e di bronzo (follis, denarius) in sostituzione dell'antica svalutata e quasi puramente convenzionale. Così non riusci interamente l'editto sui prezzi delle merci (v. appresso) con cui egli tentò di fissare un limite ai prezzi, probabilmente per le forniture ai soldati. In mezzo a tante cure egli aveva trovato modo d'interessarsi alla storia: sono a lui dedicate, e scritte per suo desiderio, una parte delle vite dell'Historia augusta; di favorire gli studî specialmente giuridici: si formò sotto di lui quella prima collezione di costituzioni imperiali che, col nome di Codice Gregoriano, in almeno 14, forse in 20 libri, diede l'esempio primo a posteriori raccolte. Egli stesso fu assai attivo nel campo legislativo, che si era riservato quasi esclusivamente, e vi esplicò azione moderata e liberale, pur mirando alla restaurazione dell'ordine e della moralità in tutte le classi sociali. Favorì gli studî retorici: Lattanzio, che fatto cristiano doveva poi esecrare la sua memoria, fu da lui chiamato a insegnare in Nicomedia; tentò d'imporre anche nella parte orientale dell'impero il latino come lingua ufficiale invece del greco. L'architettura, l'arte eminentemente romana, ebbe sviluppo come forse non mai, per le costruzioni di valli, castelli, città fortificate, strade, ponti, fabbriche d'armi, con cui furono rafforzati i confini: ma anche per fabbriche civili con cui furono abbellite, fra le altre città, Treviri e Milano, Sirmio, Tessalonica e Nicomedia nuove capitali; e Antiochia e Cartagine e Salona e Roma videro sorgere palazzi e basiliche, circhi, terme, mura e archi trionfali con una grandiosità in cui parevano fondersi il senso della potenza costruttiva della romanità con la magnificenza dello stile orientale. Insieme con l'architettura le altre arti ebbero vasto campo di esplicarsi, sebbene l'età non fosse loro sempre propizia.
Per l'antica religione romana D. dimostrò sempre la sua preferenza, partendo dal principio che "quelli, i quali oppongono nuove e mai udite sette alle antichissime religioni, fanno torto ai doni della divinità" (editto contro i Manichei). Fu però a lungo tollerante, per l'indole mite dell'animo, e perché più gravi problemi assorbivano le sue cure. Ma nel 296 in Alessandria fece distruggere i libri di magia, e prese gravi misure per sradicare il manicheismo penetrato dalla Persia nell'impero. Il cristianesimo, nonostante il suo esclusivismo di fronte alle altre religioni e l'attiva propaganda, fu da lui a lungo lasciato tranquillo: non pochi cristiani ebbero uffici nell'amministrazione e nel palazzo imperiale: al cristianesimo pare inclinassero la moglie di lui Prisca e la figlia Valeria. Ma episodî di repressione avvenivano nell'esercito, per rifiuto di cristiani alla milizia o alla partecipazione a cerimonie religiose comuni con gli altri soldati. Questi episodî dovettero essere più frequenti nell'Oriente, dove i cristiani erano più numerosi e Galerio ottenne di epurarne la milizia. Ma i cristiani erano detestati anche dalle popolazioni e combattuti dai filosofi; Galerio fece prevalere la tendenza che considerava la loro propaganda come pericolosa allo stato e D. consentì ai primi provvedimenti che dovevano mettere a questa un freno. Un primo editto, del 23 febbraio 303, conteneva queste sanzioni contro coloro che professavano la religione cristiana: per i liberi, la perdita dei diritti civili; per gli schiavi, l'incapacità di conseguire la libertà; e ordinava la distruzione delle chiese, dei libri e degli oggetti di culto. Qualche atto di aperta ribellione per parte dei cristiani, l'incendio scoppiato due volte a distanza di pochi giorni nel palazzo imperiale, la resistenza passiva opposta dai fedeli provocarono un secondo editto contro i capi del clero che dovevano essere imprigionati; poi un terzo con cui si liberavano quelli che sacrificavano e quelli che resistevano dovevano esservi indotti con tutti i mezzi; e finalmente un quarto editto del 304 stabiliva per tutti i sudditi l'obbligo di sacrificare agli dei dell'impero. La persecuzione infierì nell'Oriente, meno nell'Occidente e nei territorî di Costanzo, che si limitò, pare, ad attuare il primo editto. Le vittime furono numerose. In occasione dei vicennali e del trionfo, nel 304 stesso, le disposizioni contro i cristiani furono mitigate: esse persero vigore in Occidente dal 306, in Oriente dal 311 con l'editto di Galerio. Esse, nel quadro dei provvedimenti presi da D. per rinvigorire e rafforzare la compagine dell'impero, non hanno importanza di primo piano, ma divennero per i cristiani che ne furono le vittime il punto di riferimento per i giudizî da loro recati su D. e i suoi collaboratori. Salendo trionfatore al tempio di Giove, che egli aveva invocato spesso nelle monete e nei monumenti come conservatore dell'impero, D. poteva serenamente contemplare l'opera propria e considerare adempito l'impegno preso nel vestire la porpora: i nemici erano stati domati, la quies, la securitas, la pax invano invocate nel sec. III erano state ristabilite: dalla Britannia al Tigri e alla Mauritania sudditi devoti e avversarî dichiarati riconoscevano la summa felicitas dei nuovi tempi. Dall'alto del Campidoglio volgendo uno sguardo al teatro di Pompeo, alla Curia, al Foro di Cesare, al Foro Romano, tutta una serie di antichi monumenti che l'incendio aveva devastato nei primi anni del suo governo erano risorti nell'antico splendore: un po' più in là, sulla via Flaminia, stava il suo arco trionfale: sulle pendici estreme del Quirinale, a oriente, le sue terme superavano in grandiosità quanto era stato sin allora costruito. Egli considerò compiuta la sua missione, e nel lasciare Roma dopo un mese, per ritornare a prendere il suo posto di guardia in Nicomedia, concertò con Massimiano l'ultimo atto, che doveva dimostrare al mondo con quale disinteresse la suprema podestà era da esercitare e da lasciare, quando giungesse il momento opportuno: al compiersi dei vicennali di Massimiano i due augusti avrebbero deposto il comando, ritirandosi a vita privata. Durante l'inverno del 304-5 D. fu afflitto da una grave malattia: egli era già guarito e non aveva che una sessantina d'anni quando, il 1 maggio del 305, provveduto alla nomina dei nuovi cesari, investiva Galerio della dignità di augusto e deponeva la porpora, ritirandosi nel palazzo presso Salona, dentro il quale nei secoli del Medioevo crebbe la città di Spalato. Nello stesso giorno in Milano Massimiano investiva Costanzo della dignità di augusto e si ritirava quindi in una sua villa di Lucania. Diocleziano avrebbe certamente ritardato quest'atto di supremo disinteresse, se avesse potuto prevedere che l'anno appresso l'augusto Costanzo, al quale come maggiore d'età era passata la direzione suprema dell'impero, doveva morire a Eboraco nella Britannia, che il figlio Costantino avrebbe rinnovato le usurpazioni facendosi salutare augusto dai soldati, e che a ciò sarebbe seguita la sollevazione di Roma e degli ultimi pretoriani che salutavano augusto Massenzio figlio di Massimiano e questi stesso avrebbe ripreso la porpora. D. intervenne ancora nel 308 alla riunione di Carnunto in Pannonia in cui fu creato augusto Licinio, e in qualche modo fu sistemata la nuova tetrarchia. Ma a Massimiano che l'esortava a riprendere la porpora rispondeva disdegnosamente: "Se tu vedessi i bei legumi ch'io coltivo, non mi faresti una simile proposta"; e riuscì invece a indurlo a una nuova rinunzia. Egli tornò a Salona e non ne uscì più; visse onorato come padre degli augusti. Dopo la morte di Galerio nel 311, gli avvenimenti dovettero non poco turbarlo: le armi romane si consumavano in nuove lotte intestine e i contendenti avrebbero voluto trarre dalla loro parte il vecchio sovrano che non era ancora spoglio d'ogni prestigio. Egli rimase fermo nella sua decisione e si spense nel 313 (altri lo fanno morire nel 316) in seguito a malattia, all'età di circa 70 anni. Secondo alcuni scrittori cristiani egli sarebbe morto fra atroci dolori, riconoscendo la potenza del Dio cristiano, o atterrito dalle minacce degli augusti si sarebbe lasciato morire di fame, o avrebbe violentemente messo fine ai suoi giorni. In realtà, quando D. moriva, Costantino si avviava a divenir cristiano e a rendere cristiano l'impero. Ma né Costantino, che in parte rovinò l'opera di D., e in parte ne raccolse i frutti e la sviluppò, né alcuno dei molti cesari, che salirono poi sul trono imperiale e s'ispirarono alla nuova fede, seppe superare, o anche eguagliare, la grandezza d'animo e la potenza d'opere di quest'ultimo grande imperatore che s'ispirava alla tradizione dell'antica Roma, così come l'impero non conobbe più giorni di uguale gloria, né così splendidi trionfi.
L'editto di Diocleziano. - È il più grande calmiere dell'antichità. L'imperatore aveva fissato i prezzi delle merci per impedire che i commercianti le fornissero alle truppe a prezzi troppo elevati, come risulta dal proemio (l. 27 segg.) dove si spiegano le cause che hanno reso necessario il provvedimento. Prezzi di calmiere sono stabiliti tanto per le merci di prima necessità, cominciando dai cereali, quanto per le merci di lusso e si fissano le mercedi cosi per lavori non qualificati, come per quelli più qualificati, p. es. per i professori di diritto. Inoltre non si fa distinzione fra prezzi al minuto e prezzi all'ingrosso. I frammenti dell'editto che sono stati trovati sinora solo nelle provincie d'Oriente avevano fatto ritenere da alcuni che esso fosse stato applicato in oriente soltanto, ma il proemio 2,24 (universo orbi provisum esse videatur) e il papiro Soc. It. 965 dimostrano come esso fosse stato emanato per tutto l'orbe romano.
D. aveva stabilito non pretia venalium rerum... sed modum, (2, 7-8), cioè un calmiere, comminando la pena di morte contro chi trasgredisse alle norme dell'editto e rifiutasse di vendere.
Con il calmiere D. tentava d'impedire il crescere progressivo dei prezzi delle merci dovuto all'inflazione monetaria che si era iniziata con la coniazione dell'antoniniano e che aveva imperversato per tutto il sec. III. I prezzi delle merci nell'editto sono fissati in denari, il cui corso aveva tentato stabilizzare a 1/50.000 di libbra d'oro. Il solido di 1/60 di libbra avrebbe dovuto essere quotato a 833 1/3 denari. Questa stabilizzazione non riusci perché mancante di qualsiasi presupposto economico. L'inflazione infatti continuò dopo il 301: il solido nel 307 era già di 2000 denari e probabilmente poco dopo il 301 di 1000 denari. I corsi progressivi del solido d'oro dopo il 301 ci istruiscono sull'insuccesso della politica economica di Diocleziano, attestatoci anche da Lattanzio (De mort. pers., 7,6). Tutto il periodo dioclezianeo è caratterizzato da un crescere progressivo dei prezzi delle merci in denari dovuto all'inflazione e dal diminuito potere d'acquisto dell'oro, assai più basso di quello che troviamo nella prima metà del sec. III e nella seconda metà del IV. Lo scarso potere d'acquisto dell'oro in questo periodo d'inflazione indica una carestia generale alla quale non è estraneo il rapido processo inflazionistico della seconda metà del sec. III e della prima metà del sec. IV.
Fonti: Nessuna narrazione continuata. del regno di D. è giunta a noi: le parti della storia di Ammiano Marcellino e di Zosimo relative a lui sono perdute. Notizie brevi si hanno in Eutropio, Aurelio Vittore, Festo Rufo; altre occasionali negli scrittori della Storia Augusta, in Ammiano, in Zosimo, nei cronografi e negli scrittori bizantini Zonara, Malala, Cedreno, eec. Notizie copiose forniscono alcune opere di scrittori contemporanei: i Panegirici latini, lo scritto Sulla morte dei persecutori di Lattanzio (da usare con grande cautela per il carattere tendenzioso), la Storia ecclesiastica, la Vita di Costantino e I martiri palestinesi di Eusebio di Cesarea, inoltre le Passioni dei martiri. Fonti importanti sono le iscrizioni (Corpus Inscript. Latin. e Inscript. Graecae) il Corpus Iuris civilis, i papiri, le monete, ecc.
Bibl.: V. Casagrandi, Diocleziano, Faenza 1876; G. Costa, art. Diocletianus, in Dizionario epigrafico di antichità romane di E. De Ruggiero, II, 1793-1908; id., Diocleziano, in Profili, editi da Formiggini, Roma 1920; A. Vogel, Der Kaiser Diocletian, Gotha 1857; T. Preuss, Diocletian und seine Zeit, Lipsia 1869; A. Hunzinger, Die diokletianische Staatsreform, Rostock 1898; P. Allard, La persécution de Dioclétien et le triomphe de l'Église, voll. 2, 3ª ed., Parigi 1908; P. Manaresi, L'impero romano e il cristianesimo, Torino 1913; G. Goyau, La Tétrachie, in Études Giraud, I, Parigi 1913, pp. 65-83; J. B. Bury, History of the later Roman Empire, I, 2ª ed., 1923; O. Seeck, Geschichte des Untergans der antiken Welt, I, 4ª ed., Stoccarda 1925; K. Stade, Der Politiker Diocletian und die letzte gosse Christenverfolgung, Wiesbaden 1926; M. Rostovtzeff, The social and economic history of the Roman Empire, Oxford 1926, p. 449 segg.; F. Lot, La fin du monde antique et le début du moyen âge, Parigi 1927; E. Stein, Geschichte des spätrömischen Reiches, I, Vienna 1928. - Sull'editto di D.: T. Mommsen e H. Blümner, Maximaltarif d. Diocletian, Berlino 1893; i nuovi frammenti, in Corpus Inscr. Lat., III, pp. 2208-11 e pp. 232857, 232850; v. anche A. Segré, Metrologia, Bologna 1928, pp. 432 segg., 535 segg.; id., Circolazione monetaria e prezzi nel mondo antico, Roma 1922; H. Bott, Die Grundzüge der diokletianischen steuerverfassung, Darmstadt 1928.