Giulio Cesare, Gaio
, Colui ch'a tutto 'l mondo fé paura (Pd XI 69) campeggia nella storia con tale rilievo di condottiero e di uomo politico che è pressoché impossibile delinearne qui un ritratto adeguato. Ci limitiamo perciò a fornire alcune notizie essenziali, in funzione soprattutto della risonanza che esse ebbero nella cultura medievale e nel pensiero di Dante.
Nato a Roma nel 101 a.C. da antica famiglia aristocratica - la gens Iulia - che riconduceva le proprie origini a Iulo figlio di Enea, G. C. lasciò intuire pur tra i disordini di un'adolescenza dissoluta i tratti di una personalità di eccezione, fino a destare l'ostilità sospettosa di Silla. Allontanato da Roma, militò in Asia con varie vicende e con fama controversa; fra l'altro, incaricato di una missione in Bitinia, vi si trattenne presso il re Nicomede IV " non sine rumore prostratae regi pudicitiae " (Svetonio Div. Iul. II 1). Alla morte di Silla rientrò a Roma (78) e v'intraprese il cursus honorum giovandosi del favore popolare e dell'appoggio di M. Crasso. La sua azione politica di quegli anni mirò a indebolire le basi aristocratiche della costituzione sillana e fu caratterizzata da iniziative d'impronta demagogica in vista di una presa di potere personale (non aveva però alcuna carica pubblica nel 70, allorché nacque Virgilio, onde l'anacronismo in cui cade D. in If I 70 nel far dichiarare a Virgilio d'esser nato sub Iulio, che deve dunque intendersi genericamente " ai tempi di Giulio Cesare "). Pretore nel 63, aveva aderito (sia pure con estrema prudenza) alla fallita congiura di Catilina; ma con abile condotta riuscì a non farsi travolgere dalla reazione aristocratica. Subito dopo, scaduta la pretura, ottenne il governo della Spagna Ulteriore e vi si condusse in modo da giovare al proprio prestigio militare e alle proprie sostanze indebolite dalle elargizioni. Tornato a Roma, concepì una spregiudicata coalizione delle forze politiche ed. economiche che con posizioni e intenti assai diversi tendevano a porsi al difuori e al disopra dei poteri e degl'interessi costituiti: nacque così, nel luglio del 60, il primo triumvirato, che riuniva in una privata associazione G. C., Pompeo e Crasso, e ne sospendeva per il vantaggio comune le rivalità esplicite o potenziali. Console nel 59, G. C. allargò con il varo di accorti provvedimenti legislativi il consenso del popolo e del ceto equestre, tanto che, uscito di carica, ottenne dai comizi popolari il proconsolato per cinque anni della Gallia Cisalpina e dell'Illirico (più tardi gli fu conferito anche quello della Gallia Narbonese). Ebbe così inizio, nel 58, la conquista della Gallia Transalpina, impresa gloriosa che procurò a G. C. - del resto secondo i suoi disegni - un altissimo prestigio militare, la devozione delle legioni e, di riflesso, un soverchiante peso politico. Tra il 58 e il 56 il territorio al di là del fiume Varo (che ne segnava il confine verso l'Italia) era conquistato dal Reno ai Pirenei all'Atlantico. Negli anni successivi G. C. ne consolidò i confini con spedizioni dimostrative contro i Germani e contro i Britanni, mentre proseguiva con minore successo la pacificazione dei popoli assoggettati. Nel 52 fronteggiò e riuscì a domare dopo momenti drammatici un'insurrezione generale dei Galli in cui si esaurì praticamente la loro volontà di resistenza. A questo punto fu chiaro a Pompeo (Crasso nel frattempo era stato sconfitto e ucciso dai Parti) che favorire la permanenza di G. C. in un remoto paese barbarico non era stato, com'egli aveva creduto, un brillante espediente che gli lasciasse mano libera a Roma, bensì aveva reso più salde e più fondate le ambizioni dittatoriali del suo rivale. Lo scontro aperto fra i due era ormai inevitabile: nel 51 Pompeo, ormai decisamente legato alle sorti del partito conservatore, fu eletto console unico e G.C. fu richiamato a Roma dove - secondo le leggi - si sarebbe dovuto presentare quale privato cittadino. La tensione che seguì fu risolta da G. C. con un atto di forza: al senatus consultus ultimus, che lo privava dei suoi poteri e lo dichiarava nemico pubblico se non si fosse sottomesso, egli rispose varcando il Rubicone (10 gennaio 49) e invadendo in armi il territorio metropolitano. A deciderlo sarebbero intervenute, secondo alcune fonti, le esortazioni di Curione; ed è tradizione che in quella circostanza G. C. pronunziasse la frase " alea iacta est ". L'alea era una sanguinosa guerra civile dalle oscure prospettive, che durò quattro anni ed ebbe varie fasi. La prima fase si concluse nel 48 con la sconfitta di Pompeo a Farsalo, dopo una serie di campagne che ebbero come episodi salienti l'assedio di Marsiglia, la vittoria di Ilerda in Spagna e lo sbarco dei cesariani a Durazzo. Inseguito Pompeo in Egitto, G. C. sopraggiunse quando il re Tolomeo Aulete, per ingraziarsi il vincitore, aveva già fatto assassinare il fuggiasco che sperava nella sua ospitalità (v. anche TOLOMEA). Mentre in Europa i pompeiani superstiti riorganizzavano le loro forze, G. C. si fermava in Egitto, invischiato nelle contese dinastiche locali fra Cleopatra, di cui divenne amante e sostenitore, e il fratello di lei Tolomeo. Vinto costui, G. C. fu richiamato in Occidente dalla necessità di annientare definitivamente il partito pompeiano; prima però aveva sconfitto Farnace, re del Bosforo Cimmerio ribelle ai Romani, in una fulminea campagna di soli cinque giorni di cui diede notizia a Roma con il messaggio " Veni, vidi, vici " (47). Le forze pompeiane guidate in Africa da Catone e appoggiate da Giuba re di Mauritania furono sconfitte a Tapso nel 46; nel 45 i superstiti erano vinti a Munda, in Spagna. Nell'autunno del 45 G.C. entrò in Roma come unico detentore di un potere assoluto che tuttavia non assumeva forme costituzionalmente nuove ma veniva configurandosi piuttosto come accumulo di cariche già previste dagli ordinamenti, delle quali il senato, con appositi decreti, estese la durata e le attribuzioni: così avvenne per la dittatura, decretatagli prima per dieci anni e poi a vita (44). Durante questo periodo G. C. non abusò della vittoria, anzi ammise benevolmente nella propria cerchia e beneficò gli esponenti sopravvissuti della parte sconfitta, come Cicerone, Bruto e Cassio. Non è possibile valutare qui (o anche soltanto citare) i vari aspetti della sua attività di legislatore e le iniziative direttamente o indirettamente promosse nei campi più diversi (si ricordi, per esempio, la riforma del calendario, voluta nel 46 ed entrata in vigore il 10 gennaio 45); sta di fatto che nel complesso dei provvedimenti cesariani gli avversari politici riconobbero una profonda sovversione degli ordinamenti repubblicani, mirante a esautorare il senato e a fondare una monarchia. L'infittirsi degl'indizi in tal senso alla vigilia della progettata spedizione contro i Parti (e si è supposto che G. C. intendesse presentarsi in Oriente con il prestigio delle prerogative regali) affrettò gli sviluppi di una congiura in cui confluivano rancori e ambizioni diverse ma anche sentimenti di generosa lealtà repubblicana (v. BRUTO, M. GIUNIO). Il 15 marzo 44, mentre si recava in senato, G. C. fu assalito dai congiurati e, trafitto da ventitré pugnalate, cadde ai piedi della statua di Pompeo: aveva riconosciuto tra gli assalitori il suo beneficato M. Bruto e, rinunciando a difendersi, si era lasciato andare al proprio destino.
Scomparso l'uomo, restavano i frutti della sua opera di conquistatore e di uomo politico; ma l'eredità più complessa e più pesante erano i problemi che quell'opera lasciava aperti nelle coscienze, alle quali G. C. aveva rivelato con perentoria chiarezza la crisi ormai indifferibile delle istituzioni repubblicane e aveva indicato le linee della successiva evoluzione (pur attraverso le convulsioni di una nuova guerra civile) verso l'affermarsi del principato. Su un piano diverso l'attività di G. C. resta documentata nei suoi Commentarii de bello Gallico in sette libri, sulle vicende della conquista gallica tra il 58 e il 52 (un ottavo libro fu aggiunto da Aulo Irzio, luogotenente di G. C., e abbraccia gli anni 51-50) e nei Commentarii de bello civili in tre libri che narrano gli avvenimenti degli anni 49-48 (nei manoscritti l'opera è integrata da tre operette di autore incerto: il Bellum Alexandrinum attribuito anch'esso ad Aulo Irzio, il Bellum Africanum e il Bellum Hispaniense, sugli avvenimenti succeduti alla morte di Pompeo). I Commentarii, scritti in terza persona, perseguono nella nitida sobrietà dello stile un'apparenza elegantissima di obiettività e costituiscono uno dei monumenti più alti della prosa latina. Di altre opere, come le orazioni, il trattato grammaticale De Analogia, il polemico Anticato e altre minori restano solo testimonianze indirette.
Personalità di eccezionale risalto storico e umano, G. C. ha esercitato una viva attrazione sugli spiriti delle età successive; occorre dire però che il pieno apprezzamento della sua opera e l'ammirazione incondizionata dell'uomo caratterizzano soprattutto l'età umanistica, a partire dalla biografia che ne intraprese il Petrarca. L'età antica e il Medioevo, per ragioni e in modi diversi, diedero alla figura di G. C. un rilievo che non sempre corrisponde a quello riconosciutogli più tardi e talvolta la giudicarono senza simpatia in una prospettiva improntata a moralistica nostalgia repubblicana e allo strascico di orrore lasciato dalle guerre civili: di questa inflessione risente in modo particolare la Farsalia di Lucano. D'altronde lo splendore dell'età augustea, con i suoi ben più espliciti rivolgimenti costituzionali, poteva suggerire una visione che facesse del princeps Augusto, piuttosto che di G. C., la figura cardinale di una svolta storica decisiva. Il pensiero cristiano non poteva non confermare questa linea interpretativa, giacché proprio sotto Augusto appariva realizzata per chiara scelta provvidenziale, con la nascita del Salvatore, la pienezza dei tempi: ciò che poneva decisamente quel princeps al confine tra vecchio e nuovo mondo, tra l'oscurità del paganesimo e la luce della rivelazione. Può essere interessante a tale proposito la lettura di un passo di s. Agostino, che pone il conflitto di G. C. e Pompeo, con gli altri " crudelia bella civilia ", nella " sceleratarum concatenatio causarum " in cui si consumano le ultime vicende della Roma pagana prima dell'avvento di Augusto " quo imperante natus est Christus " (Civ. III 30; v. anche AUGUSTO). Nasce da quest'ordine di considerazioni lo schema storiografico che fa cominciare da Augusto la serie degl'imperatori; sta tuttavia in contrario il criterio seguito da Svetonio nel porre G. C. primo tra i dodici Cesari. Non è perciò casuale, né senza significato profondo, una presa di posizione nell'uno o nell'altro senso dei pensatori medievali: mentre ad esempio Martino Polono fa cominciare l'Impero da Augusto (Chron. p. 46), D. afferma con decisione che G. C. fu primo prencipe sommo (Cv IV V 12), manifestando una certa libertà di giudizio che ha tuttavia vari precedenti: per esempio nel Tresor di Brunetto Latini (I XXXVIII, ediz. Carmody p. 46), senza che però questa coincidenza possa attribuirsi con certezza a dipendenza di D. da quella enciclopedia. Il Medioevo comunque formulò su G. C. giudizi spesso vaghi e contraddittori, condizionati dalla scarsità e dall'eterogeneità delle fonti primarie disponibili fra cui spiccano - con indicazioni e intonazioni contrastanti - il poema di Lucano e la Vita di Svetonio. I Commentarii ebbero viceversa una diffusione alquanto ristretta e pare certo che D. non li conoscesse. Del resto ne fu lungamente disconosciuta la paternità, attribuita a un tal Giulio Celso che la soscrizione di qualche manoscritto indica in realtà quale antico revisore del testo. La soverchiante fortuna di Lucano, sia nel testo latino sia in rifacimenti francesi che furono volgarizzati nel nostro Duecento (sono i ben noti Fatti di Cesare, che D. sembra ignorare o sprezzare), determinò la presenza nei riferimenti medievali a G. C. di alcuni motivi caratteristici, come la contrapposizione fra lui e Catone Uticense, a tutto vantaggio morale di quest'ultimo; già s. Agostino, d'altra parte, dimostrava autorevolmente che " longe virtus Catonis veritati videtur propinquior fuisse quam Caesaris " (Civ. V 12).
Anche per questo rispetto va segnalata l'indipendenza di D. nell'evitare il confronto diretto tra i due personaggi che pure assumono una parte notevole nella sua opera (specie nella Commedia); ma indubbiamente l'intenso rilievo morale che assume Catone nel canto I del Purgatorio dev'essere un riflesso dell'esaltazione polemica in senso anticesariano che ne faceva Lucano nel suo poema. Ma d'incertezze e contraddizioni riguardo a G. C. si potrebbero citare molteplici esempi medievali: tra i più significativi l'interessante affermazione di Giovanni di Salisbury, che " in re publica nemo tyrannorum Caesare magis accessit ad principem; licet enim rem publicam oppressisset, populus tamen Romanus omnia quae ipse decreverat approbavit, forte veritus seditionem et civilis belli reciduam passionem " (Policr. VIII VII, ediz. Webb II p. 264); dov'è sottintesa la distinzione tra il princeps, " potestas publica et in terris quaedam divinae maiestatis imago " (Policr. IV I, Webb I p. 235) e il tiranno, quale sarebbe stato in realtà G. C. pur avvicinandosi più di ogni altro alla condizione legittima di princeps (e va notato che altrove il Saresberiense cita Bruto come exemplum accanto a Catone Uticense in un capitolo De Libertatis amore et favore [Policr. VII XXV, Webb II p. 218]), mentre altrove anche per Giovanni " primus Romanorum imperator Iulius Caesar " (Policr. III XIV; Webb I p. 225). Nella documentazione a grandissime linee di questi atteggiamenti della cultura medievale possono accostarsi ai testi citati le parole di Tolomeo da Lucca nella continuazione del De Regimine principum di s. Tommaso: ivi è detto che nell'ambito della " monarchia " romana (cioè dell'egemonia sul mondo, esercitata dapprima dai consoli) G. C. " primus usurpavit imperium; sed parum in ipsum supervixit, a senatoribus quidem occisus propter abusum dominii " (III XII 996, ediz. Spiazzi p. 313); e si ribadisce che " in regimine Romano a regum expulsione dominium fuerit politicum [cioè democratico], usque ad usurpationem imperii, quod fuit quando Iulius Caesar... singulare sibi assumpsit dominium et monarchiam, convertitque politiam in despoticum principatum, sive tyrannicum " (IV I 1031, Spiazzi p. 326).
Una volta registrate queste tendenze della cultura medievale nei riguardi di G. C. potrà forse attribuirsi alla loro influenza la relativa parsimonia dei riferimenti danteschi; ma è ben più certo il fatto che D. vede il personaggio in una prospettiva che non è condizionata in alcun modo da pregiudiziali analoghe a quelle che risuonano nei testi citati qui sopra. Ricordato piuttosto incidentalmente nel Convivio (III V 12, IV V 12, XIII 12 [cfr. Pd XI 68-69; e v. AMICLATE]), G. C. si presenta nel Limbo armato con li occhi grifagni (If IV 123), con Elettra e altri compagni fra cui D. riconosce Ettore ed Enea (seguono nell'enumerazione Camilla e Pentesilea). Se il gruppo sia costituito secondo un disegno coerente, non appare chiaro: e a chi suppone che qui e nei versi seguenti D. volesse ricordare personaggi connessi ai momenti capitali della storia di Roma può facilmente obiettarsi che Elettra, Ettore e la Pentesilea non sembrano avere alcun rapporto con quegli eventi.
D'altronde la menzione di G. C., più che legarsi a una linea organica di pensiero storico-politico, appare qui riflettere una sorta d'interesse episodico che trova l'espressione più adatta nel forte risalto di due particolari esteriori: le armi e lo sguardo; e armato, com'è stato osservato giustamente, è " appellativo che ben si conviene alle sue virtù militari, e che potrebbe anche riferirsi (come nella Intelligenza, str. 86, versi 6-9) al suo portar le armi oltre il Rubicone " (F. Mazzoni); mentre gli occhi grifagni (cioè vividi e fieri, a mo' di rapace nobile) possono essere lo sviluppo dantesco, se non direttamente di un tratto svetoniano (" Fuisse traditur... nigris vegetisque oculis " [Div. Iul. XLV 1]), almeno di una notizia che risaliva a Svetonio presso qualche fonte intermedia. Altro indizio di un pensiero politico non ancora maturato compiutamente è il fatto che G. C., pur definito, come si è visto, primo prencipe sommo, è l'unica eccezione al criterio - cui D. in seguito si atterrà sempre - di non porre all'Inferno alcun imperatore romano, nemmeno i più scellerati e i più concordemente votati dalla tradizione cristiana all'ultima perdizione: gioca probabilmente in questo caso la forza dell'esempio virgiliano seguito ancora con una certa pedissequa fedeltà, giacché nell'Eneide (VI 769-790) G. C. è menzionato nella rassegna dei personaggi romani agli Elisi.
In If XXVIII 97-99 è rievocato il momento in cui Curione vinse con le sue esortazioni i dubbi di G. C. e lo spinse a varcare il Rubicone scatenando la guerra civile (cfr. Ep VII 16); ma la prospettiva della nona bolgia mette in primo piano il seminatore di discordie che scacciato, il dubitar sommerse / in Cesare piuttosto che il vero protagonista dell'avvenimento.
Anche nel Purgatorio i riferimenti a G. C. hanno carattere prevalentemente aneddotico e a prima vista non sembrano potersi ricondurre al nucleo di un medesimo giudizio informatore. In Pg XVIII 101-102 la rapidità dei movimenti di G. C. quando lasciò l'assedio di Marsiglia per accorrere in Ispagna e sconfiggervi a Ilerda un esercito pompeiano è proposta come esempio agli accidiosi: Cesare, per soggiogare Ilerda, / punse Marsilia e poi corse in Ispagna.
Come fonte di questo accenno si indica di solito Lucano (III 453-455): " Dux tamen inpatiens haesuri ad moenia [di Marsiglia] Martis / versus ad Hispanas acies extremaque mundi / iussit bella geri "; però anche Orosio scrive, non diversamente: " Massiliam venit, ad quam oppugnandam, cum receptus non esset, Trebonium cum tribus legionibus relinquens, ad Hispanias contendit " (Hist. VI XV 6). È da notare peraltro che gli autori addotti non sembrano accentuare una particolare alacrità di G. C. in questa occasione (anche il commento a Lucano di Arnolfo di Orléans non la rileva), sicché l'inflessione che l'episodio acquista nel Purgatorio dovrebbe ritenersi - se non soccorrono altri paralleli più probanti - peculiare di Dante.
Di segno opposto è la menzione di G. C. in una perifrasi che designa la sodomia per che già Cesar, trïunfando, / " Regina " contra sé chiamar s'intese (Pg XXVI 77), a proposito della seconda schiera di anime che si mondano del vizio di lussuria nel fuoco della settima cornice. E un'allusione a quei rapporti di G. C. con Nicomede che, secondo Svetonio (Div. Iul. XLIX), gli furono rinfacciati da molti in vario modo, e fra l'altro in certi versi satirici che i soldati cantavano durante il trionfo per la conquista delle Gallie.
Ma G. C. non fu chiamato ‛ regina ' in quell'occasione, bensì, sempre secondo Svetonio, in scritti e discorsi polemici dei suoi avversari. D. si basa perciò su un tardo racconto abbreviato e confuso che risaliva a Svetonio ma fondeva momenti diversi, come per esempio avviene nelle Magnae Derivationes di Uguccione da Pisa (sub v. Triumphus): " Caesari triumphanti fertur quidam dixisse, cum deberet introduci in civitatem: Aperite portas regi calvo et reginae Bitiniae... et alius de eodem vitio: Ave rex et regina! ".
Tuttavia il vero problema sollevato dalle due menzioni di G. C. nel Purgatorio sta nell'apparente inconciliabilità fra l'eponimo di una virtù e l'eponimo di un vizio immondo: non perché non si ammetta che D. potesse riconoscere in un medesimo personaggio atteggiamenti variamente e diversamente esemplari, ma perché dinanzi a una personalità come quella di G. C. si pretende dal poeta una posizione che si definisca senza equivoci nell'ammirazione ovvero nella condanna. Non vale affermare, come ha tentato qualcuno, che l'accusa di sodomia riferita dalle fonti non sarebbe condivisa da D.: ché questa sembra ingiustificata e vana ingegnosità. Né regge, per converso, l'osservazione che la prontezza militare non è poi virtù eccelsa al punto di contrapporsi con pregnanza esemplare a un'infermità dello spirito qual è l'accidia. In questo secondo caso il Porena ha osservato assai bene che la sollecitudine di G. C. è anche " sollecitudine di altissimi beni spirituali " giacché " Cesare era per Dante strumento della volontà divina, in una guerra che portava alla fondazione dell'impero romano ". Rispetto a questa funzione provvidenziale, che trascende i limiti dell'individualità contingente, le miserie dell'uomo perdono importanza e rimangono confinate in una sfera che non intacca la dignità della missione che il personaggio è chiamato a compiere da quella volontà divina che ha ‛ stabilito ' (cfr. If II 23) l'Impero di Roma (queste considerazioni spiegano anche la costante sospensione del giudizio dantesco dinanzi alla umana indegnità di tanti successori di G. Cesare).
Il criterio è da tener presente soprattutto nella lettura dei versi dedicati alle imprese di G. C. nel canto VI del Paradiso (vv. 55-72): dove il vero protagonista e, d'altra parte, il soggetto grammaticale è il sacrosanto segno dell'aquila, simbolo della potestà e della gloria imperiale celebrata da Giustiniano, di cui G. C. - come sarà detto esplicitamente al v. 73 del successore Augusto - non è che il baiulo. Sei versi (58-63) sono dedicati alla conquista gallica da Varo infimo a Reno e al passaggio del Rubicone; altri tre ripercorrono le prime fasi della guerra civile, dall'impresa di Spagna allo sbarco di Durazzo alla vittoria di Farsalo, fino alla morte di Pompeo in Egitto (vv. 64-66). Segue un intermezzo (vv. 67-68) che allude - sulla scorta di un episodio poeticamente immaginato da Lucano (IX 950 ss.) - a una sosta di G. C. in Asia Minore durante l'inseguimento di Pompeo sconfitto, per visitarvi le rovine di Troia e il sepolcro di Ettore: l'invenzione lucanea acquista però in D. il significato profondo di un ritorno temporaneo dell'aquila, a compimento di un primo ciclo storico, vicino a' monti de' quai prima uscìo (cfr. Pd VI 6). Con le ultime vicende della guerra civile, dal soggiorno di G. C. in Egitto alla campagna d'Africa con la vittoria su Giuba - significativa qui la già notata riluttanza di D. a contrapporre a G. C. quello che in realtà ne fu il maggiore avversario in Africa, Catone - fino alla vittoria definitiva di Munda, in Spagna (vv. 69-72), si chiude la rassegna dei fatti di G. C.; le ultime vicende e la fine di lui, alluse implicitamente nei vari accenni a Bruto e a Cassio, non trovano luogo in quella che vuol essere non già una rassegna di episodi biografici dell'uomo ma individuazione di momenti nodali nella prospettiva dell'intera storia imperiale.
Donde traesse D. la conoscenza delle imprese cesariane ricordate nel canto VI del Paradiso è interrogativo che non ha trovato - né a nostro avviso può trovare - una risposta univoca. Indubbiamente la sollecitazione remota più intensa proviene da Lucano (e ciò può spiegare la maggiore minuzia dei fatti pertinenti alla guerra civile), ma la traccia immediata sembra fornita da uno storico che potrebbe essere, come vuole il Toynbee, Paolo Orosio (cfr. Hist. VI XIV-XV). Non mancano del resto reminiscenze di altri autori, in particolare Virgilio (cfr. Aen. V 371 " tumulum quo maximus occubat Hector ", da accostare a Pd VI 68 là dov'Ettore si cuba) e forse di Floro (cfr. Epit. II XIII 63 [Jal] " More fulminis, quod uno eodemque momento venit, percussit, abscessit " [v. FLORO], e Pd VI 70 scese folgorando a Iuba: dove folgorando dovrebbe intendersi come allusione alla fulminea campagna contro Farnace, cui si riferisce Floro nel passo citato).
Primo di una serie d'imperatori cui si congiunge in legittima successione anche Enrico VII salutato appunto Caesaris et Augusti successor (Ep VII 5), .G. C., pur non riducendosi a personificazione astratta della dignità imperiale (ché da ciò lo preserva l'occasionale ma forte rilievo dei tratti personali e aneddotici) è nell'opera di D. soprattutto lo strumento di un progetto divino da cui l'eccezionale virtù militare del personaggio è stata voluta e guidata alla conquista di orizzonti sempre più vasti per una definitiva affermazione dell'universalità dell'Impero. Teso e per così dire concentrato in questa funzione, il G. C. dantesco non può distrarsi in imprese accessorie, estranee al quadro storico-politico che D. viene tracciando dal Convivio in poi: ed è perciò quasi certamente volontaria e ben meditata la rinuncia a ricordare i tratti e le imprese leggendari che il Medioevo aveva prestato al condottiero (cfr. A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1923, 193 ss.); altrettanto indicativo è il riferimento assai vago nel ritratto di Catone, al contrasto tra la libertà per cui questi si uccide e il dominio politico di G. Cesare. Ancor più significativo il rifiuto di quelle precise suggestioni di orgoglio cittadino che nella storiografia delle origini fiorentine facevano attribuire a G. C. la fondazione della città: nei suoi vari accenni alle origini romane di Firenze D. ignora, assai probabilmente di proposito, ciò che i cronisti più antichi affermavano con sicurezza al riguardo (cfr. O. Hartwig, Quellen und Forschungen zur ältesten Geschichte der Stadt Florenz, I, Marburgo 1875, 2 e 54-55); ed è non tanto scrupolo di esattezza storica quanto certezza che il glorioso portatore dell'aquila non poteva deflettere per nessuna ragione, anche onorevole e lusinghiera, dal cammino che gli era stato provvidenzialmente segnato.
Il nome di Cesare, attribuito già nell'antichità come titolo onorifico agl'imperatori e - nei bassi tempi - ai designati all'Impero, torna più volte con questo valore antonomastico nell'opera dantesca; v. a questo proposito Cesare.
Bibl. - In generale v. la bibl. delle voci IMPERO; LUCANO; ROMA; utile specialmente C.T. Davis, D. and the Idea of Rome, Oxford 1957, passim; e cfr. S. Frascino, Cesare, Catone e Bruto nella concezione dantesca, in " Civiltà Moderna " II (1930) 850-874 (v. " Studi d. " XV [1931] 180-182); F. Gundolf, Caesar. Storia della sua fama, trad. ital. Milano 1934, 101-107; E. Schanzer, D. and Julius Caesar, in " Medium Aevum " XXIV (1955) 20-22. Per questioni particolari cfr. F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla Commedia. Il canto IV dell'Inferno, in " Studi d. " XLII (1965) 179-181 (su If IV 123: ivi altra bibl.). Si veda inoltre: P. Toynbee, D. Studies and Researches, Londra 1902, 113-114 (su Pg XXVI 76-79) e 131 (su Pd VI 61-72).