Curione, Gaio Scribonio (Curio)
Tribuno della plebe nel 50 a. C., sembra essere noto a D. soltanto attraverso il poema di Lucano, donde sono mutuate le notizie riferite in If XXVIII 86 ss. e una precisa citazione in Ep VII 16, nonché la valutazione negativa del suo operato che gli vale la condanna tra i seminatori di discordie. Nella rievocazione dantesca ogni particolare ha infatti un'evidente e precisa corrispondenza con i versi del poeta latino dove si narra come C., espulso da Roma (Phars. I 266 ss.), raggiungesse Cesare, fermo a Rimini (v. 231; cfr. If XXVIII 86-87) e " varias volventem pectore curas " (v. 272: è il dubitar di If XXVIII 97), esortandolo a vincere gli indugi e a marciare su Roma con queste parole: "Dum trepidant nullo firmatae robore partes, / tolle moras; semper nocuit differre paratis / Par labor atque metus pretio maiore petuntur " (vv. 280-282; cfr. If XXVIII 98-99).
Il giudizio di Lucano, indubbio ma ancora abbastanza implicito nella pagina ora ricordata, si esprime durissimo in un epifonema che conclude la narrazione della morte di C. in Africa, nel libro IV. Dall'insieme emerge un fosco ritratto del personaggio: " audax venali... lingua " (I 269; si noti il contrapasso in If XXVIII 101-102) perché corrotto dall'oro di Cesare (IV 820), C. " vendidit Urbem " (v. 824), facendosi sostenitore del condottiero ribelle (proprio come il peccatore senza nome punito nel Tartaro virgiliano; cfr. infatti Aen. VI 621-622 " Vendidit hic auro patriam dominumque potentem / imposuit "). Ma se la suggestione di questi antecedenti basta a spiegare la condanna dantesca quale si esprime nell'episodio infernale, questo atteggiamento è contraddetto da Ep VII 16 dove, rivolgendosi a Enrico VII in una situazione che giudica analoga a quella risolta da C., D. esorta l'imperatore a raggiungere la Toscana facendo proprie le parole del personaggio riferite da Lucano. La valutazione benevola di C., implicita nell'epistola, è certo più conforme alle premesse generali del pensiero politico dantesco, le quali comportano un apprezzamento affatto positivo della decisione di Cesare (cfr. Pd VI 61-63); è singolare però che le medesime premesse non operino anche in l f XXVIII.
Prevale a tal proposito fra gli esegeti l'opinione che D. condanni l'operato di C. " considerandolo nel suo valore morale assoluto, come scintilla da cui mosse l'incendio della guerra civile, e prescindendo dal giudizio storico positivo ch'egli stesso dava dell'impresa di Cesare, in quanto premessa alla fondazione dell'impero " (Sapegno). Ma forse D. giudicava negativamente il personaggio nella prospettiva più particolare della discordia familiare sollevata tra Cesare e Pompeo - genero e suocero -, conformemente a quanto suggerisce appunto Lucano rimproverando a C. soprattutto " gener atque socer bello concurrere iussi" (IV 802). In una visione più generale C. può apparire invece come uno strumento dei disegni divini, e D., venuta meno la circostanza contingente che ne aveva reso colpevole la condotta (cioè il vincolo di parentela fra gli avversari) può proporselo a esempio giungendo a una sorta d'identificazione.