VISCONTI, Galeazzo
(II). – Terzo figlio di Stefano Visconti e di Valentina di Bernabò Doria, nacque in un anno imprecisato successivo al 1323, data di nascita del secondogenito Bernabò (il primo figlio fu Matteo).
Le prime notizie certe riguardano la sua partecipazione nel 1339, unitamente ai fratelli e agli zii Luchino e Giovanni, alla difesa di Milano contro Lodrisio Visconti. Nel 1343 si recò in pellegrinaggio con il conte Guglielmo II di Hainaut a Gerusalemme, dove fu armato cavaliere; rientrato in Milano, vi ospitò l’illustre compagno di viaggio per un anno. Nell’ottobre del 1345 si consumò la rottura con Luchino, che esiliò i tre nipoti.
Lo storiografo Bernardino Corio non esplicita cosa avrebbe destato l’improvviso «gran suspecto» di Luchino, ma fa capire che in lui era ancora vivo il ricordo del ruolo avuto da Galeazzo e Bernabò nella congiura ordita da Francescolo della Pusterla nel 1340 (B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, I, 1978, pp. 748, 760). Secondo un cronista tedesco, invece, il dominus Mediolani intese eliminare dalla scena i tre nipoti, visti come ostacolo ai suoi progetti di successione dinastica (Matthie Nuewenburgensis, Chronica, a cura di J.F. Bohemer, 1868, p. 270 nota 1).
Costretto all’esilio, Visconti fu inizialmente accolto alla corte di Savoia, da cui ricevette ordine di allontanamento il 10 maggio 1348, all’indomani della pacificazione fra Amedeo VI e Luchino. Con il fratello Bernabò si trasferì nel Vaud, dove era la zia Caterina, vedova di Azzone Visconti e risposata con Raoul III di Brienne, quindi alla corte di Parigi. Solo dopo la morte di Luchino, avvenuta nel gennaio del 1349, i due fratelli vennero richiamati in Milano da Giovanni Visconti (v. la voce in questo Dizionario), arcivescovo della città, nonché ora unico signore. Bernabò e Galeazzo avviarono subito un’azione per screditare Isabella, vedova di Luchino, e il giovane Luchino Novello, costringendo infine i due a lasciare Milano.
Secondo Corio, Isabella Fieschi avrebbe rilasciato una dichiarazione (28 aprile 1349) in base alla quale i suoi due figli, Luchino Novello e Orsina, sarebbero stati generati da Galeazzo e non da Luchino (B. Corio, Storia di Milano, cit., p. 769). Tale versione fu accreditata anche dallo stesso Visconti e da Bernabò, che in tal modo intesero contrastare le pretese del giovane Luchino riguardo ai denari che Luchino senior aveva investito a Venezia (Cognasso, 1955, p. 328).
Auspice l’arcivescovo Giovanni, Visconti sposò Bianca di Savoia: le trattative, avviate nella primavera del 1350, rappresentavano il coronamento della lega sabaudo-viscontea del 22 ottobre 1349 e prevedevano il versamento da parte milanese di ben 50.000 fiorini come dono nuziale. Il contratto fu siglato il 18 settembre seguente: Amedeo VI tratteneva per sé 10.000 fiorini come prezzo per la vendita ai due sposi della cittadina e castellania di Yenne, sul Rodano (previo tuttavia omaggio feudale da parte di Visconti al conte di Savoia); secondo i patti, i restanti 40.000 sarebbero stati depositati presso l’abbazia di Hautecombe e destinati all’acquisto di altre terre in Savoia da parte della coppia.
In realtà, Amedeo VI dopo poco prelevò il denaro per far fronte a spese di guerra e solo nel 1355 furono formalmente cedute a Visconti e alla moglie la castellania di Chanaz e la terra di Monthey.
La cerimonia religiosa fu celebrata il 28 settembre 1350 presso il castello di Rivoli. Nell’occasione fu istituito da Amedeo VI un nuovo ordine cavalleresco, detto del Cigno nero, i cui primi cavalieri furono proprio il conte di Savoia, quello di Ginevra e lo stesso Visconti. La coppia si avviò quindi a Milano, dove si tennero splendide feste.
Già nei giorni seguenti Visconti lasciò però Milano per Bologna, della quale prese possesso il 25 ottobre seguente per conto dello zio, dopo che questi l’aveva acquistata da Giovanni e Giacomo Pepoli. Nella città felsinea rimase fin sullo scorcio di dicembre, quando venne sostituito dal fratello Bernabò. Il ruolo avuto nella vicenda bolognese gli costò comunque la scomunica, inflitta anche allo zio Giovanni e a tutti i loro coadiutori, dopo che l’8 aprile 1351 era scaduta – senza effetti – l’ennesima proroga concessa da Clemente VI ai Visconti per restituire Bologna. Rientrò in comunione con la Chiesa il 27 aprile 1352, dopo aver riconosciuto l’alto dominio della Sede apostolica su Bologna.
Alla morte dell’arcivescovo Giovanni (1354), il consiglio generale del Comune di Milano diede mandato a Boschino Mantegazza di conferire la signoria ai nipoti del presule (11 ottobre 1354). Questi accettarono, domandando un lodo per dividere fra i tre il dominio e i beni patrimoniali dello zio. A Galeazzo spettò la fascia di territorio più orientale e più vicina ai domini sabaudi, con cui tanti legami egli aveva: Vercelli, Novara, Alba, Asti, Alessandria, Tortona, Castelnuovo Scrivia, Bassignana, Vigevano e Como. Dopo la morte di Matteo (1355) – per la quale i sospetti si addensarono subito sui suoi due fratelli – ebbe anche Piacenza, Monza, Bobbio e Abbiate. Anche la città di Milano e il suo contado furono divisi: a Visconti toccarono le porte Comacina, Vercellina, Giovia e Ticinese, nonché i territori del Seprio e della Bulgaria. Circa la residenza, l’arcivescovo Giovanni gli aveva assegnato il palazzo in San Gottardo in Corte, che, secondo Bernardino Corio (Storia di Milano, cit., p. 768), Galeazzo abbandonò presto per condividere con Bernabò il complesso di San Giovanni in Conca.
Risale forse a quella coabitazione un dipinto, ancora visibile ai primi del Cinquecento, che mostrava Galeazzo e Bernabò intenti a sciogliere un voto fatto ai santi Damiano e Cosma e relativo al rientro dall’esilio cui li aveva costretti Luchino (Romano, 2011, p. 41). Quanto all’area di San Gottardo, Visconti diede ordine di spianare le case già di Azzone – mantenne solo quella che fu di Luchino – e fece costruire nuovi palazzi. Secondo il cronista Pietro Azario, questo fervore edilizio costò molte spese e molti fastidi ai milanesi, che dovettero tollerare non solo continui cambiamenti progettuali, ma anche frequenti rifacimenti, a motivo di lavori effettuati di fretta e con materiali scadenti.
Nell’ambito delle trattative per l’incoronazione di Carlo IV di Lussemburgo in S. Ambrogio, Galeazzo ottenne il 20 dicembre 1354 il vicariato imperiale sui suoi domini particolari, cui forse fece seguito nei giorni seguenti un diploma collettivo ai fratelli Visconti per Milano (Romano, 1898, p. 15). L’11 marzo 1355 un altro diploma (confermato l’11 giugno seguente) gli conferì il titolo di vicario anche su Asti e Alba. L’8 maggio 1355 i tre fratelli ricevettero la conferma del titolo vicariale su Milano, Genova, Savona, Ventimiglia, Albenga Noli e alle riviere, nonché su tutte le terre e città citramarine e ultramarine (queste ultime da identificarsi con le altre dipendenze genovesi) appartenenti all’Impero e rette dai Visconti, con l’eccezione di quelle appartenenti alla Chiesa. Ancora qualche giorno e il 15 maggio Galeazzo ottenne la conferma del vicariato anche sui suoi domini particolari (Como, Asti, Vercelli, Novara, Alessandra, Alba, Tortona, Vigevano, Locarno, Canobbio ecc.).
I diplomi imperiali non appagarono però le ambizioni dei fratelli Visconti. Le loro mire espansionistiche su Pavia, sull’Emilia e sull’area subalpina si fecero esplicite e allarmarono i vari potentati della penisola, nonché lo stesso imperatore, che affidò al proprio rappresentante per l’Italia, Marquardo di Randeck, il compito di riportare all’ordine i signori di Milano. Essi vennero citati per tradimento e lesa maestà e minacciati di privazione del vicariato qualora contumaci. Il 15 dicembre 1355 Giovanni II Paleologo, capo della lega antiviscontea, lanciò il guanto di sfida: in breve occupò Asti (23 gennaio 1356) e nelle settimane seguenti caddero molte delle terre conquistate anni prima da Luchino: Alba, Mondovì, Cherasco, Cuneo. Visconti organizzò il contrattacco dai territori che gli rimanevano, ovvero Bra, Alessandria e Vercelli, con l’obiettivo di espugnare Pavia, caposaldo del marchese di Monferrato. Un primo assedio nella primavera del 1356 si risolse in un fallimento; in novembre giunse poi anche la notizia della caduta di Novara, presa dal Paleologo (9 novembre 1356). La vittoria viscontea a Casorate (14 novembre 1356) arginò l’offensiva nemica, ma non evitò che il giorno seguente anche Genova si ribellasse ai Visconti. Solo l’8 giugno 1358 fu raggiunta la pace tra i signori di Milano e la lega antiviscontea: circa le terre reclamate da Galeazzo, fu stabilito che tornassero sotto il suo controllo Novara e Alba, mentre la questione di Asti e Pavia fu rimessa a un lodo imperiale. Il rifiuto del marchese di Monferrato di accettare le decisioni di Carlo IV, che dispose la restituzione di Asti a Visconti, fornì al signore di Milano l’occasione per riprendere la guerra. Con grande determinazione i due fratelli Visconti puntarono nuovamente su Pavia, assediandola fin quando la città – capeggiata dal frate Giacomo Bussolari – nel novembre del 1359 si arrese; il 22 gennaio 1360 Carlo IV nominò Galeazzo suo vicario in città.
Nei mesi seguenti Visconti conseguì anche un altro grande successo politico e diplomatico: il matrimonio tra il suo primogenito, Gian Galeazzo (nato nel 1351), e Isabella di Valois, figlia di Giovanni il Buono, re di Francia. Profittando delle necessità finanziarie di quest’ultimo, cui gli inglesi chiedevano un ingentissimo riscatto per restituirgli la libertà dopo il trattato di Brétigny, Visconti fu in grado di offrire al sovrano ben 300.000 fiorini: a tanto venne fissato il prezzo delle terre da acquistare in Francia – inizialmente la contea di Sommier, poi permutata con quella di Vertus – e che avrebbero costituito la dote della nobile fanciulla. Come dono propter nuptias, Visconti concesse poi Bobbio e Pontremoli. Con grande scorno dei nemici dei Visconti, in primis i fiorentini, la nobile sposa giunse a Milano l’8 ottobre 1360.
L’anno dopo ricominciarono però le ostilità del marchese di Monferrato, che affidò la propria offensiva alla celebre Compagnia bianca, costituita da mercenari inglesi al comando di Albert Sterz. Il 1° dicembre 1361 si cercò una prima pacificazione, con la cessione di Alba e alcune terre a Visconti. L’accordo venne quindi suggellato dall’unione matrimoniale fra il giovanissimo Secondotto, primogenito del marchese, e Maria, figlia ultimogenita di Visconti – «di età di quattro anni», come ricorda il cronista – che avrebbe portato in dote la città di Asti (B. Sangiorgio, Cronica del Monferrato, a cura di G. Vernazza, 1780, p. 193). Quando però solo pochi mesi dopo la bambina morì, le ostilità ripresero. I mercenari inglesi devastarono i territori di Visconti fino al luglio del 1363, quando infine accettarono una condotta in Toscana, pagata anche grazie ai denari del signore di Milano (La Cronica domestica di messer Donato Velluti..., a cura di I. Del Lungo - G. Volpi, 1914, p. 231). La pace propiziata da Urbano V fu infine raggiunta il 27 gennaio 1364: il lodo del legato papale Androin de la Roche impose al marchese di restituire le terre occupate del contado di Pavia e a Visconti quelle nell’Astigiano, tranne Bra. In attesa di tempi migliori, Visconti tesseva però la sua tela e, profittando del nuovo clima con l’imperatore, il 9 giugno 1365 ottenne il vicariato su Asti, malgrado la città continuasse a sfuggirgli. Grazie a un arbitrato pronunciato da Amedeo VI di Savoia nel maggio del 1366, Visconti ottenne poi l’impegno della regina Giovanna I d’Angiò a rilasciare le terre subalpine occupate nel 1357 e ancora nelle sue mani.
Il sostegno prestato al fratello Bernabò contro Mantova – dove mandò truppe capeggiate da un suo figlio naturale, Cesare – gli valse una nuova scomunica e probabilmente anche la perdita del vicariato imperiale, che venne nuovamente promesso ai fratelli Visconti nell’ambito delle trattative di pace (27 agosto 1368). L’anno seguente i due cercarono – ciascuno per conto proprio, almeno secondo il cronista fiorentino (La Cronica domestica di messer Donato Velluti..., cit., pp. 276 s.) – di ottenere il vicariato anche su Lucca, Pisa e San Miniato, ma senza effetto.
Frattanto Visconti portò a segno un nuovo colpo nella costruzione di un sistema di alleanze con le principali dinastie europee: le nozze tra la propria figlia Violante e Lionello, duca di Clarence, figlio di Edoardo III d’Inghilterra. La dote ammontava a 200.000 fiorini e comprendeva Alba, Mondovì, Cherasco, Bra e altre terre. La cerimonia religiosa si tenne nella cattedrale di Milano il 5 giugno 1368 e fu seguita da un elaborato banchetto, di cui ha lasciato una minuta descrizione Corio (Storia di Milano, cit., pp. 819-821). La prematura scomparsa dello sposo – già nel settembre seguente – aprì però uno scenario inatteso: le truppe che avevano accompagnato il giovane principe, anziché restituire a Visconti le terre subalpine date in dote a Violante, le occuparono, ponendosi poi al servizio del marchese di Monferrato. Ne scaturì una guerra con l’occupazione di Alba e Mondovì da parte del Paleologo, e di Valenza e Casale (14 novembre 1370) da parte di Visconti.
A complicare il quadro intervenne nel 1372 la morte di Giovanni II Paleologo, che lasciava tre figli ancora minorenni sui quali tanto il conte di Savoia quanto Visconti rivendicarono la tutela. Contro i signori di Milano si schierarono anche l’imperatore, che revocò loro il vicariato (3 agosto 1372) per concederlo proprio ad Amedeo VI (23 novembre 1372), e il papa, che al conte di Savoia aveva affidato il comando dell’ampia lega antiviscontea frattanto costituitasi (7 luglio 1372). Le scomuniche (7 gennaio 1373), i successivi processi canonici per eresia e i rovesci militari (la perdita di Cuneo, le scorrerie sabaude tra Ticino e Adda) furono duri colpi per Visconti. Anche grazie alla mediazione della moglie, egli ottenne infine una pace onorevole: il 6 giugno 1374 a Casale, Gian Galeazzo e la madre Bianca di Savoia siglarono un accordo con Amedeo VI. Era il preludio alla pacificazione generale. Nella tregua ratificata il 4 giugno 1375 i due Visconti sono nuovamente definiti vicari imperiali. Ancora qualche settimana e il 19 luglio 1375 fu raggiunta la pace a Oliveto di Val Samoggia: ai Visconti – formalmente al giovanissimo Azzone, figlio di Gian Galeazzo, visto che Visconti era ancora scomunicato – il papa restituì la gran parte delle terre occupate. Inoltre fu stabilito che Secondotto di Monferrato sposasse Violante Visconti, vedova del duca di Clarence. Le trattative di questa unione durarono a lungo e solo il 2 agosto 1377 furono celebrate in Pavia le nozze. Nello stesso anno Gian Galeazzo – che il padre aveva emancipato l’8 gennaio 1375, affidandogli il governo delle terre al di là del Ticino, ma conservando il titolo (e le funzioni) di dominus generalis – riprese Vercelli e nel 1378 anche Asti.
Galeazzo morì il 4 agosto 1377, da tempo ammalato e sofferente per la podagra, e fu sepolto a Pavia, in San Pietro in Ciel d’Oro, chiesa nella quale già riposavano Agostino, Boezio e Liutprando.
Per volere di Gian Galeazzo, il corpo venne successivamente traslato nella cattedrale di Milano, sebbene non nella collocazione inizialmente immaginata dal duca e per la quale Giovannolo de Grassi aveva già progettato la tomba marmorea.
La resistenza della Fabbrica del duomo, che considerò inopportuna l’appropriazione da parte della famiglia ducale dello spazio dietro l’altare maggiore, condusse infatti a un esito diverso: la bara in legno, coperta di tessuti, venne appesa ai piloni del grande coro della cattedrale, inaugurando così un uso poi seguito anche per altri esponenti della dinastia visconteo-sforzesca.
Lo stile di governo di Galeazzo presenta delle peculiarità sia rispetto al fratello Bernabò, sia nel più ampio panorama dei governi personali della seconda metà del Trecento. Per amministrare il dominio, Visconti si avvalse della collaborazione di consiglieri, cui era solito delegare il disbrigo degli affari di Stato, tanto che Azario ne criticò lo strapotere. Alla moglie Bianca donò in data imprecisata Monza, Abbiategrasso, San Colombano, Graffignana, Binasco, Gentilino e la Corte Nova in Pavia. Nell’amministrazione della giustizia egli concesse raramente la grazia e altrettanto eccezionalmente accolse le suppliche dei sudditi, preferendo garantire il rispetto di leggi, consuetudini e sentenze dei tribunali locali, in ciò distinguendosi da Bernabò, che invece si riservò l’arbitrium più ampio. Non fu questa l’unica differenza tra i due: anche verso le fazioni e le aristocrazie territoriali Visconti fu più aperto, facendo di questi due corpi sociali i cardini dell’organizzazione politica. Ebbe molto amore per i cavalli, di cui si diceva fosse un grande esperto: per compiacerlo Amedeo VI di Savoia gli inviò in dono un destriero del valore di ben 1000 fiorini.
A Visconti si deve la costruzione della cittadella di Piacenza, del castello di Porta Giovia a Milano e di quello di Pavia, che dal 1365 divenne la sua residenza stabile e dove fu allestita una biblioteca, destinata a diventare celebre per i suoi codici. Intorno al castello – grande quattro volte quello coevo del Louvre, a Parigi – fu creato un enorme parco, con funzione di riserva di caccia. Per realizzare l’opera furono compiuti molti espropri e apparentemente fu proprio a causa di uno di questi che nel 1369 un certo Bertolino de Sixtis cercò di uccidere il dominus, che rimase invece solo lievemente ferito. Per quanto il trasferimento di Galeazzo a Pavia sia stato (secondo Azario e Corio) motivato dai timori nutriti verso il fratello Bernabò, chiarissimo è però il disegno di rinverdire i fasti della città in riva al Ticino, già sedes regia, così da farne la capitale di un dominio che sempre più ambiva a costituirsi in regno. Andò ad esempio in questa direzione il grandioso progetto di rinnovamento edilizio: oltre al castello, anche la cittadella, la copertura del ponte sul Ticino, l’apertura della strada nova, della piazza grande, il restauro delle mura. La costruzione di un naviglio permise la comunicazione diretta con Milano. Culmine di questo ambizioso piano fu l’istituzione nel 1361 di uno Studium generale.
Galeazzo fu in rapporto con poeti e uomini di lettere. A lui e al fratello Bernabò fu indirizzata da Fazio degli Uberti la canzone L’utile intendo, con una serie di consigli per il buon governo. Il compianto scritto da Braccio Bracci per la morte di Galeazzo, Silenzio posto aveva al dire in rima, presenta il defunto signore come uomo dalle tante virtù e contrasta nettamente con il ritratto ben più critico offerto da Azario, che di Visconti denuncia vari aspetti, a cominciare dall’intollerabile fiscalità. Il letterato con cui Galeazzo intrattenne rapporti più intensi fu però Francesco Petrarca, che gli fu sempre molto legato, forse anche a seguito di un episodio occorso nel settembre del 1353, in occasione dell’ingresso del cardinale Egidio Albornoz in Milano: mentre in tanti si accalcavano nel corteo, un giovane nipote dell’arcivescovo Giovanni – da Ernest Hatch Wilkins identificato con Visconti – soccorse Petrarca, evitando che la sua caduta da cavallo vicino a un precipizio avesse conseguenze drammatiche (Disp. 20). Cominciò così un legame durato negli anni. Al poeta laureato si deve l’orazione per la morte dell’arcivescovo e per il contestuale insediamento dei tre nipoti (1354). Tra le attività condotte da Petrarca specificamente per conto di Visconti si possono ricordare nel 1356 l’ambasceria a Praga, presso l’imperatore; nel 1358 l’allocuzione ai novaresi, dopo la riconquista viscontea della città, e infine nel 1361 l’orazione presso il re di Francia Giovanni il Buono, all’indomani della sua liberazione. Significativa anche l’attività epistolare su incarico di Visconti: nel 1356 la responsiva al già citato Marquardo (Disp. 36) e nello stesso anno anche un paio di consolatorie per la prigionia di Giovanni il Buono, rispettivamente al figlio Carlo (Disp. 34) e al cardinale Guy de Boulogne (Disp. 35). Nel 1359, infine, si indirizzò a fra Jacopo Bussolari, assediato in Pavia dalle truppe di Visconti (Fam. XIX 18). Anche dopo avere lasciato Milano nel 1361, Petrarca coltivò costantemente il legame con Visconti, recandosi quasi ogni estate a Pavia. Di Visconti egli ha lasciato un ritratto ai limiti dell’adulazione nella lettera inviata a Tommaso Del Garbo, medico del dominus (Sen. VIII 3, 13); ma parole di elogio ricorrono anche in altri luoghi testuali dell’opera petrarchesca, dove l’autorità del dominus è spesso connotata in senso regale (regnator è, ad esempio, definito in Fam. XIX 13, 3, augustus in Fam. XXII 6, 1): un quadro che è in continuità con quanto già riconosciuto dal poeta a Luchino e Giovanni, ma che certo appagava l’ambizione di Visconti, avallandone la concezione dell’autorità. Le lettere e i decreti della cancelleria viscontea, infatti, non rappresentano Galeazzo solo come vicario della maestà imperiale, ma talora anche come vicario della maestà divina: al pari dunque dei re.
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