PICO, Galeotto II
PICO, Galeotto II. – Nacque alla Mirandola (Modena) il 31 maggio 1508, unico figlio maschio del conte Ludovico I, condottiero di buona fama, e di Francesca Trivulzio, figlia naturale ma legittimata di Gian Giacomo. Ebbe per padrini di battesimo l’imperatore Massimiliano I, il duca d’Urbino Guidubaldo I e la duchessa di Ferrara Lucrezia Borgia.
Rimase ben presto orfano: il padre, governatore generale di uno dei due eserciti papali impegnati nella guerra di Cambrai, cadde a Polesella (Rovigo) il 15 dicembre 1509. Nel vuoto di potere creatosi nella Mirandola ebbe come potenti protettori l‘imperatore Massimiliano I e il papa Giulio II, che con la loro autorità legittimarono la sua successione al governo dello Stato pichiano con la tutela della madre. Francesca preferì, tuttavia, affidarsi alla più concreta forza delle genti d’arme francesi per difendersi dalle rivendicazioni del cognato Giovan Francesco II Pico, cui il marito, insofferente della legge di primogenitura imposta dal padre Galeotto I, il 28 aprile 1494, per affrancare lo Stato pichiano dal regime istituzionale consortile, aveva strappato il potere nell’estate del 1502. Con l’improvvisa pace stipulata da Giulio II con Venezia (14-15 febbraio 1510) e l’apertura delle ostilità contro la Francia, gli alleati italiani di Luigi XII, come il duca di Ferrara Alfonso I e Francesca Trivulzio, furono considerati dal pontefice alla stregua di traditori. Questo capovolgimento del quadro politico aprì per contro insperate prospettive all’esule e inquieto Giovan Francesco II, che trovò in Giulio II il fautore del suo ritorno al potere.
Preventivamente posto in salvo dalla madre nel territorio del Ducato di Milano, Galeotto visse da lontano la caduta della Concordia (18 dicembre 1510) e della Mirandola (20 gennaio 1511) nelle mani papali. La vittoria di Giulio II non coincise però con il trionfo di Giovan Francesco II. Il repentino recupero della Mirandola da parte dei francesi rimise al potere Francesca Trivulzio. Presso i tribunali imperiali si aprì un conflitto giurisdizionale che sfociò, nel lodo emesso da Matthäus Lang, vescovo di Gurck e commissario delegato, il 13 ottobre 1513. Con esso lo Stato pichiano fu diviso in due parti distinte e autonome: la Mirandola fu assegnata a un insoddisfatto Giovan Francesco II, la più piccola Concordia venne invece accordata a Francesca, che ricorse alla protezione del marchese di Mantova Francesco II, a questo delegato dalla corte cesarea. A complemento, e con un preciso intento francofilo, il 24 aprile 1514, programmò un matrimonio tra Galeotto e Ippolita del ramo Gonzaga di Gazzuolo-Bozzolo. Il soccorso militare prestatole da Federico da Bozzolo, condottiero di valore e zio della sposa, permise a Francesca Trivulzio di rintuzzare, negli anni seguenti, le offensive ripetutamente messe in atto da Giovan Francesco II.
Le nozze di Galeotto si perfezionarono il 7 agosto 1524, in un quadro politico italiano sconvolto dalla guerra riaccesasi tra Francesco I e Carlo V. Nonostante le ripetute sconfitte subite dalle armi francesi, egli continuò a riservare, sull’esempio materno, simpatia verso la potenza transalpina. Padrini di battesimo della figlia primogenita Livia (27 settembre 1527) furono infatti gli ambasciatori francesi a Roma e Venezia e la duchessa di Ferrara Renata di Valois. Nel marzo del 1529 Galeotto fu assoldato da Venezia come condottiero di 500 fanti e di alcune decine di cavalli leggeri, ma concretizzò definitivamente le sue opzioni politiche nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 1533 quando, assaltata la Mirandola con un manipolo di soldati e l’appoggio del neoduca di Mantova, Federico II Gonzaga, riunì nelle sue mani lo stato pichiano. Negli scontri furono assassinati lo zio Giovan Francesco II, suo figlio primogenito Alberto e il fratello naturale Galeotto. Il delitto fece enorme impressione nel mondo politico contemporaneo.
Carlo V considerò questa vicenda politica un grave vulnus, provocato peraltro da un marginale signorotto italiano, alle sue prerogative universalistiche. Le reiterate minacce imperiali di portare guerra alla Mirandola, in caso di una mancata sua pronta restituzione all’Impero, si scontrarono con l’efficace tattica dilatoria adottata da Galeotto e con il timore di fornire alla Francia l’occasione per un intervento in Italia. Quando alla fine la spedizione punitiva contro la Mirandola parve imminente, la sconfitta delle armi imperiali a Lauffen am Neckar (12-13 maggio 1534) costrinse Carlo V a includere il denaro occorrente per l’attacco nei 150.000 fiorini spediti urgentemente al fratello Ferdinando. La restituzione di Novi all’Impero faceva inoltre scemare il pericolo dello stabilirsi di una enclave francofila nel bel mezzo dello spazio padano.
Ma fu soprattutto l’estrema fluidità della situazione politica internazionale a continuare ad agire a favore di Galeotto. Nessun effetto pratico produssero quindi la condanna per fellonia e la pena di morte che gli furono inflitte da Carlo V (1° luglio 1536). Per il resto della sua breve vita, egli agì da principe italiano ‘libero’, non riconoscendo alcuna sudditanza feudale con l’Impero. I Valois, d’altra parte, investirono finanziariamente e politicamente su di lui, utilizzando la Mirandola – che divenne il «nido e la rocca de’ Francesi in Italia» (Sansovino, 1574, p. 640), in cui vi raccolsero «più eserciti» per minacciare il Milanese, Genova e Firenze – come spazio d’instabilità nello scacchiere italico, legato all’Impero e alla Spagna. Dalla Francia Galeotto ricevé anche una pensione annua di 4000 ducati sulle rendite del vescovato di Limoges, e il collare di S. Michele. Nel persistere del duro confronto franco-imperiale, Galeotto, attivissimo tra il 1536 e il 1544 nei campi di battaglia del Nord Italia, accrebbe l’importanza militare della Mirandola, oggetto di interventi di fortificazione che ne fecero una formidabile piazzaforte. Nei capitoli della tregua di Nizza (18 giugno 1538), si definì «vassallo del re Cristianissimo», mentre da parte imperiale si accettò di perseguire i suoi crimini soltanto civilmente e non penalmente. Vaga clausola ribadita nella pace di Crépy (18 settembre 1544), che di fatto rappresentò la definitiva accettazione cesarea dello stato delle cose alla Mirandola.
Anche sul piano religioso i comportamenti di Galeotto furono non conformisti, permettendo a Pietro Bresciano, inquisito per eresia a Cremona di stabilirsi alla Mirandola (1547), dove fece proseliti. L’anomalia politica rappresentata da Galeotto fu in certo modo riconosciuta da Carlo V nelle Instrucciones a Filippo II (1548), nelle quali al piccolo conte mirandolese è dedicato molto più spazio rispetto ai maggiori principi italiani.
La violenza perpetrata contro lo zio Giovan Francesco II cucì su Galeotto la fama di soldato ruvido e violento. In verità, seppe governare e rimodellare politicamente ed economicamente la struttura dello Stato pichiano attraverso mirate riforme normative e fiscali (1534-36) e riuscì altresì a guidare una politica di pacificazione nella società mirandolese, ancora spaccata da conflitti di fazioni. Seppe anche ben sfruttare le pensioni e il grande flusso di denaro, impiegato dalla Francia per ammassare eserciti nella Mirandola, come un fattore d’arricchimento e di stimolo economico per lo stato pichiano, solo sfiorato negli anni Trenta e Quaranta da marginali eventi bellici.
Nell’ambito della stretta alleanza con la potenza transalpina, continui furono i viaggi di Galeotto presso i Valois, tanto che Alexandre Dumas, nel suo romanzo Ascanio (1843), lo affiancò a Pietro Strozzi, al conte Orsini di Pitigliano, al conte dell’Anguillara e agli altri esuli italiani francofili. Nel gennaio 1541 incontrò anche Benvenuto Cellini, che fuse per lui un gioiello da cappello in oro. Dal luglio 1548, Caterina de’ Medici pretese la presenza in corte di suo figlio primogenito Ludovico II e delle tre figlie Livia, Fulvia e Silvia. Queste ultime due sposarono poi rispettivamente François de la Rochefaucould e Charles de Randan-Rochefoucauld. Rimasto vedovo il 10 settembre 1547, Galeotto sembrò riprendere in considerazione, senza tuttavia farne seguito, il progetto, già ipotizzato tra il 1536-37, di cedere la Mirandola a Enrico II contro un feudo in terra francese.
Galeotto Pico morì a Parigi il 2 novembre 1550, per ‘mal della costa’: una presumibile infezione alle vie respiratorie.
Le disposizioni testamentarie, dettate quattro giorni prima alla presenza del figlio primogenito Ludovico, testimoniano il suo amore per la Mirandola, dove chiese d’essere sepolto. In contrasto con le pratiche predominanti, mancano nel suo testamento lasciti a enti religiosi, clausole devote e richieste pro anima. Differendo dalle consuetudini, attribuì al figlio Ludovico, destinato alla successione, la gran parte del patrimonio fondiario nel Mirandolese, legando ai cadetti, Luigi e Ippolito, quote minime. Prescrisse infine che, in caso d’indegnità e inettitudine del suo successore fosse prevista da parte del popolo e degli ultrogeniti la sostituzione di questi con il secondogenito, e a scalare con il terzo. Una norma che venne applicata, pochi decenni dopo, dai suoi nipoti; per questo Pico fu considerato come il vero istitutore della linea patrilineare nella dinastia pichiana.
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