Della Volpe, Galvano
Filosofo italiano (Imola 1895 - Roma 1968). Insegnò storia della filosofia nell’univ. di Messina dal 1939. Partito da un ripensamento critico dell’attualismo gentiliano (L’idealismo dell’atto e il problema delle categorie, 1924), approdò successivamente a una critica generale dell’idealismo, sulla base della critica materialistica di Marx all’apriorismo moderno svolta soprattutto nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1843). Di qui la rivendicazione della positività del molteplice, del sensibile, dell’extrarazionale, e insomma della positività e indispensabilità della materia come elemento della conoscenza in genere. Questa tesi venne suffragata da una ricerca storica, intesa a indicare nella critica marxista dell’apriorismo la conclusione di una linea di pensiero antidogmatico che avvicinava – pur nella consapevolezza di quel tanto di paradossale che poteva essere rinvenuto in tale operazione – la critica di Aristotele all’idealismo platonico a quella di Galileo alla fisica aristotelico-scolastica del suo tempo. Di qui la definizione del marxismo come «galileismo morale», ossia l’interpretazione del marxismo come prima vera applicazione delle conquiste della rivoluzione scientifica alla società e alla storia. Il risultato di tale operazione, di cui sono testimonianza le sue opere principali (Hegel romantico e mistico, 1929; Il misticismo speculativo di M. Eckhart nei suoi rapporti storici, 1930, 2ª ed. modificata col titolo: Eckhart o della filosofia mistica, 1952; La filosofia dell’esperienza di D. Hume, 2 voll., 1933-35; Logica come scienza positiva, 1950), è un marxismo che è stato opportunamente definito «eretico». Suoi tratti principali sono il rifiuto di ogni contaminazione idealistica e hegeliana – compreso il materialismo dialettico sovietico, giudicato una reviviscenza della filosofia romantica della natura – e la rivalutazione della tradizione empiristica, da Hume a Kant, giudicate più aderenti al vero nucleo del pensiero di Marx della filosofia di Hegel. Della tradizione hegeliana D.V. salvava unicamente la dialettica (➔) degli opposti o «tautoeterologia», ossia l’idea che l’unità dei contrari-contraddittori fosse possibile – e feconda – soltanto al livello della ragione, ma non della realtà. Alla ragione spettava quindi prospettare le alternative, all’intelletto dirimerle e decidere. Si trattava una versione della Critica della ragion pura (➔) (1781) di Kant che, pur mantenendo fermo il primato dell’intelletto, assegnava alla ragione un ruolo positivo o propositivo, anziché esclusivamente negativo.