GARGALLO, Tommaso, marchese di Castel Lentini
Nacque a Siracusa il 25 sett. 1760 da Filippo, barone del Priolo e dal 1794 marchese di Castel Lentini, e da Isabella Montalto. Affidato ancora fanciullo alle cure di due abati, V. Moscuzza e F. Casaccio, fu avviato allo studio delle discipline letterarie e della filosofia, e solo quand'era adolescente poté accostarsi ai classici latini, ricavandone via via una sensibilità artistica e un modello di espressione stilistica e di vita morale cui sarebbe sempre restato fedele. Ingegno precoce, a 18 anni il G. possedeva già una cultura tale da impressionare favorevolmente I. Pindemonte, che lo conobbe al tempo di un suo viaggio in Sicilia (1778) e che stimolò in lui la passione per la filologia classica e per la poesia, insegnandogli al contempo a riconoscere e ad apprezzare la tradizione letteraria italiana.
Al 1781 risale il primo significativo viaggio del G. il quale, visitando le principali città della penisola, ne approfittò per entrare in relazione con grandi e piccoli esponenti della vita culturale italiana in tutte le sue manifestazioni, dalla letteratura all'erudizione, dalla pittura alla scultura alla musica. Fu così che conobbe tra gli altri M. Cesarotti, G. Parini, V. Alfieri, dei quali comprese subito il valore sia sul piano artistico sia su quello etico. Pronto ad assorbire i più svariati impulsi, per un verso entrava in Arcadia con il nome di Lirnesso Venosio che riecheggiava la sua incipiente passione oraziana, per l'altro non sdegnava i contatti con un Illuminismo forse non privo di qualche venatura massonica e comunque mediato dalla breve frequentazione romana dell'abate G.C. Amaduzzi. Massima aspirazione di questa epoca della sua vita era quella di farsi conoscere come verseggiatore, con una produzione poetica capace di collocarsi nel solco della tradizione frugoniana, ma anche pronta a recepire gli effetti del rinnovamento stilistico già intravisti col Metastasio. La raccolta di Poesie che pubblicava a Napoli nel 1782 costituiva un primo passo in questa direzione, quantunque si trattasse di un esordio in cui, nell'adesione preminente ai moduli arcadici, prevalevano chiaramente i toni freddi del manierismo, a temperare i quali il Parini e il Cesarotti gli consigliavano lo studio del greco (e il G. cominciò a dedicarvisi non senza fatica al ritorno a Siracusa, che ebbe luogo nel 1783).
Ad attirarlo a Napoli la prima volta era stato proprio il desiderio di trovare un ambiente meno angusto e più ricco di sollecitazioni. Nel 1788 vi si stabilì per un più lungo periodo e riuscì a entrare nelle simpatie del potente primo ministro J.F.E. Acton che lo presentò a corte e, al corrente di una sua emergente vocazione civile, gli suggerì di vergare quelle Memorie patrie per lo ristoro di Siracusa (I-II, Napoli 1791) con cui il G. inseriva il problema dello sviluppo della sua città in una visione del futuro del Regno connotata da forti inflessioni assolutistiche, antibaronali e anticuriali. Sull'altro versante, quello della poesia, che a Napoli lo aveva visto spesso impegnato in componimenti d'occasione, sonetti, novelle, dava alle stampe un volume di Versi (Napoli 1794) dove, nelle composizioni dedicate a una non meglio identificata Lucilla già protagonista della novella Engimo e Lucilla (Napoli 1792), accanto al genere neoclassico gradito al gusto del tempo risuonava anche la nota sentimentale ed elegiaca e si avvertiva lo sforzo di ispessire la futile galanteria arcadica con una ispirazione più sincera. Quanto poi il ruolo sociale del G. si fosse consolidato lo rivelava il fatto che il volume di Versi, come poi molti altri suoi in seguito, recasse il marchio della Stamperia reale.
Gli sconvolgimenti attraversati dal Regno meridionale a partire dalla fine del '700 e il conseguente, duplice "esilio" (1798-99 e 1806-15) della famiglia reale in Sicilia avvicinarono ulteriormente agli ambienti di corte il G., che nel 1788 aveva sposato una patrizia monegasca, Lucia Grimaldi; col tempo la devozione alla dinastia sarebbe rimasta, mentre si sarebbe attenuata fin quasi a sparire l'adesione alla politica siciliana dei Borboni, dal G. respinta nelle scelte centralistiche tipiche dell'inizio della Restaurazione. In precedenza, però, la sua fedeltà era stata premiata con vari riconoscimenti, materializzatisi prima in una nutrita serie di incarichi militari minori (comandante delle milizie provinciali di Siracusa, poi colonnello comandante la locale guarnigione), quindi nella designazione a deputato del Regno, ministro della Guerra e Marina per tre mesi (1812) e pari del Regno (1814). Col trapasso all'epoca postrivoluzionaria, segnato dal conferimento, nel febbraio del 1817, della carica di reggente del Supremo Consiglio di cancelleria che gli attribuiva ampie competenze in varie materie (ad es. nel campo dell'istruzione e in quello del controllo delle corporazioni), il G. si venne però presto a trovare in conflitto col ministro L. de' Medici, di cui in passato era stato amico ma il quale ora, oltre a negargli la segreteria degli Interni, realizzava un disegno di riorganizzazione del Regno su basi antibaronali che cancellava antichi privilegi particolaristici quali i fidecommessi e, soprattutto, la costituzione concessa nel 1812. Vistosi perdente nella lotta col Medici più tardi da lui accusato di essere "interamente venduto all'Austria" (Memorie autobiografiche, p. 213), il G. abbandonò la scena politica.
Nel 1821 il G. si ritirò a Roma per qualche mese; tornò a Napoli quando ministro di Polizia era A. Capece Minutolo, principe di Canosa, ma ne ripartì non appena al potere venne richiamato il Medici. Si aprì allora il capitolo dei suoi lunghi viaggi, il primo effettuato in Sicilia nel 1821-22, presto seguito dall'altro che tra il 1823 e il '26 portò il G. ad attraversare tutta la penisola e a toccare anche l'Austria e la Germania.
Accompagnato dai due figli maschi (il matrimonio gli aveva dato anche tre femmine), il G. si autoesiliò in pratica dalla corte napoletana calandosi in una realtà densa di incontri e contatti con i maggiori intellettuali del tempo. In tutte le città che visitò, nei soggiorni che gli procurarono la conoscenza e talvolta la confidenza di tutti i sovrani italiani, nella attenta perlustrazione che condusse delle tradizioni culturali italiane e delle istituzioni che meglio le rappresentavano, in Toscana come in Piemonte, a Roma come a Milano, il G. selezionò soprattutto gli ambienti che più si identificavano con il suo ideale neoclassico, senza tuttavia precludersi qualche curiosità anche verso gli esponenti del romanticismo: munito di lettere di presentazione che da una città all'altra gli consentivano di essere ricevuto da chiunque, vide tra gli altri P. Giordani, G.B. Niccolini, V. Monti, A. Manzoni, e ritrovò nel Pindemonte l'amico della giovinezza. Con alcuni strinse rapporti, con molti entrò in corrispondenza; al Giordani manifestò la propria stima cercando invano di farlo chiamare (1830) sulla cattedra di eloquenza dell'Università di Palermo (e uguale tentativo compì col Leopardi); verso il Manzoni, invece, lo dispose male il pregiudizio antiromantico: quasi sempre, comunque, a guidarlo fu una illuministica fede nella circolazione delle idee e nel confronto con i dotti, frutto di una sensibilità alla comunicazione sociale maturata frequentando salotti, teatri, circoli, biblioteche e tutti gli altri luoghi in cui gli pareva che la vita spirituale del paese fluisse copiosa; per cui anche l'antiromanticismo, più che aprioristica chiusura alle nuove correnti di pensiero, era in lui rivendicazione della ricchezza del patrimonio culturale nazionale rispetto a una troppo frettolosa accettazione delle influenze straniere.
Ovunque andasse lo precedeva la fama di poeta e l'altra, più fresca, di traduttore: come poeta il G., che tendeva ormai a esprimersi nelle forme della poesia cortigiana e dell'improvvisazione salottiera, aveva appena pubblicato una nuova raccolta di Poesie diverse… con correzioni dell'autore (Siena 1823) e una di Prose italiane (Milano 1824); come traduttore, a una prima edizione dei Versi di Q. Orazio Flacco (I-II, Palermo 1809-11), aveva fatto seguire nel 1820 a Napoli la versione completa, in 7 volumi, delle Odi, delle Epistole e delle Satire. Diversamente da quanto teorizzato e praticato dal Cesarotti, la sua era stata una traduzione molto fedele all'originale; semmai era stata la metrica a essere trattata con molta libertà, sicché mentre per le Odi aveva adottato la strofe arcadica, per le Satire e per le Epistole aveva preferito l'endecasillabo sciolto. A ogni modo l'Orazio del G., fissato definitivamente nell'edizione palermitana in 4 volumi del 1831-33 e in quella napoletana in 2 volumi del 1836, ebbe nel corso del secolo grandissima fortuna e fu più volte ristampato a Firenze, Siena, Venezia, Como, Milano e perfino a Parigi, dove A. de Lamartine parlò del G. come di un "Horace moderne". Ugual sorte arrise alla traduzione del De officiis di M.T. Cicerone (Intorno a' doveri, Palermo 1814) e alle Satire di Giovenale, apparse prima a Palermo nel 1842, quindi a Firenze nel 1844-45, in due edizioni non riviste dal G. e anche perciò zeppe di errori. Da sottolineare, infine, come le motivazioni critiche ed estetiche delle scelte del G. venissero da lui chiarite nei Discorsi introduttivi premessi alle traduzioni.
Al ritorno in Sicilia il G. prese a dettare le proprie Memorie autobiografiche, arrestandosi al 1826. Ormai anziano, neanche la scomparsa del Medici (1830) lo mise in condizione di ottenere nuove cariche politiche; ebbe invece una vecchiaia operosissima in campo letterario, ascritto alle maggiori accademie italiane e straniere, rispettato da principi e sovrani, continuamente consultato da letterati ed eruditi. Nel 1832 uscirono a Napoli le Veronesi, quattro epistole in versi sciolti composte in memoria del Pindemonte, seguite a breve distanza di tempo dalle Melanconiche (Milano 1835), che comprendevano versi occasionati in parte da circostanze dolorose (come la morte della moglie, avvenuta nel 1833): le une e le altre furono giudicate le sue prove più mature e rinverdirono la fama di un uomo che ancora nel 1834 pubblicava a Palermo due volumi di Epigrammi, e continue ristampe delle sue liriche vedeva comparire in altre città d'Italia.
Nel 1836 per sottrarsi alla minaccia del colera il G. intraprese con il primogenito e con le tre figlie un nuovo, lungo viaggio: si fermò prima nell'amata Toscana, poi a Bologna, quindi in Lombardia, e a Milano rivide il Manzoni. Nella primavera del 1838, a Parma, fece visita al Giordani e, dopo altri giri, si stabilì a Venezia dove trascorse il resto dell'anno. La prima metà del 1839 lo vide ancora a Milano e a Torino, prima di spostarsi a Parigi dove fu più volte ricevuto a corte.
A Napoli tornò nell'ottobre del 1840, ma dovettero passare altri due anni prima che rivedesse la natia Siracusa, dove morì il 15 febbr. 1843. Tumulati nel locale camposanto, il 10 giugno 1845 i resti del G. furono traslati nella chiesa parrocchiale di Priolo.
Fonti e Bibl.: L'archivio Gargallo è conservato presso gli eredi, come si rileva da talune annotazioni presenti nelle introduzioni di vari autori ai 4 volumi in cui un discendente, il marchese F.F. di Castel Lentini, ha raccolto le Opere edite ed inedite del G., Firenze 1923-25: I, Memorie autobiografiche; II, Poesie italiane e latine; III, Versioni di Orazio, Giovenale, Cicerone e Dionigi d'Alicarnasso; IV, Memorie patrie per lo ristoro di Siracusa; quest'ultimo volume si chiude con un'appendice bibliografica degli scritti del e sul G. in cui spicca G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Bologna 1919, pp. 46 ss., 50, 52; non viene invece segnalata la presenza di 9 lettere del G. (1 del 1820, 8 del 1822) in Spigolature nel carteggio letterario e polit. del march. Luigi Dragonetti…, a cura di G. Dragonetti, Firenze 1886, pp. 11-18. Tra i pochi contributi apparsi dopo il 1925 vanno menzionati L. Caretti, Alfieri, G. e una sconosciuta lettera alfieriana, in Studi e problemi di critica testuale, III (1972), pp. 154-159; Id., Ancora su Alfieri e G. con una ined. lettera alfieriana, ibid., IV (1973), pp. 161-164; G. Gargallo di Castel Lentini, Le lettere dell'Alfieri a G. e le loro vicende, ibid., III (1972), pp. 131-134; Id., Un biglietto di G. Leopardi a T. G., ibid., X (1979), pp. 183-186; M.I. Palazzolo, Intellettuali e giornalismo nella Sicilia preunitaria, Catania 1975, ad ind.; Id., Editori, librai e intellettuali. Vieusseux e i corrispondenti siciliani, Napoli 1980, ad ind.; G. Esposito Vulgo Gigante, T. G., in La cultura classica a Napoli nell'Ottocento. Secondo contributo, Napoli 1991, pp. 49-64; G.M. Bellia Zappalà, Gli esordi di T. G. tra "idilli", "scherzi" e impegno civile, in La Sicilia nel Settecento. Atti del Convegno di studi… 1981, I, Messina s.d., pp. 423-441; P. Mangiafico, Leopardi e G. una "classica" amicizia, in La Sicilia, 19 sett. 1998; L. Faraci, Biogr. di Gargallo. Una vita per le lettere e per gli amati poeti antichi, ibid., 19 sett. 1998; Enc. Italiana, XVI, sub voce; Storia della letteratura italiana (Garzanti), VI, Il Settecento, pp. 684 s.; Letteratura italiana (Einaudi), Gli autori. Diz. bio-bibliografico…, I, subvoce.