VISCONTI, Gaspare Ambrogio.
– Figlio dell’aristocratico Gaspare di Pietro e di Margherita Alciati (di Ambrogio, gentiluomo dedito alla mercatura, e di Anna Rusca), nacque probabilmente nel giugno-luglio del 1461 (forse il 28 giugno, data di nascita del protagonista del poema De Paulo e Daria amanti con il quale Visconti tende a identificarsi) nella casa materna milanese di S. Salvatore in Xenodochio. Entrambi i genitori morirono nel 1462.
Fu battezzato come Ambrogio. Dal duca Francesco Sforza – in memoria del padre prematuramente defunto (testò il 30 ottobre 1462 e morì alcuni giorni dopo, poche settimane prima della moglie) e soprattutto in ricordo dell’omonimo potente bisnonno, tra i principali consiglieri del duca Filippo Maria Visconti – gli fu attribuito il nome Gaspare, preferito negli scritti letterari in quanto evocava l’appartenenza a un ramo specifico della parentela Visconti, e abbinato al nome di battesimo nei documenti notarili.
L’orfano Gaspare Ambrogio «minor annis duobus et maior mensibus sedecim» fu sottoposto alla tutela dello zio Giovanni Pietro che aveva sposato la sorella di Margherita, Lucia Alciati (Archivio di Stato di Milano, Atti dei notai, b. 1365, 1462 novembre 9), e crebbe nel grande palazzo avito sito sulla piazza del castello di Milano.
Nel 1472 (10 aprile), gli zii strinsero per il giovane una proficua alleanza matrimoniale: la designata fu Cecilia Simonetta (12 gennaio 1464-8 aprile 1499), figlia dell’allora potentissimo segretario ducale Cicco e di Elisabetta Visconti di Ierago.
Forse da questo momento in poi l’educazione di Visconti (degli inizi della quale non si sa nulla) fu gestita anche dal colto suocero. Suo probabile compagno fu Antonietto Fregoso, già affidato da alcuni anni a Simonetta, e in prosieguo di tempo durevole amico di Visconti.
Grazie allo strapotere di Cicco dopo l’assassinio del duca Galeazzo Maria Sforza (26 dicembre 1476), Visconti – che viene ricordato come cameriere e aulico ducale – pur non avendo raggiunto la maggiore età riuscì a svincolarsi dalla tutela dello zio (12 dicembre 1477) e a gestire (sotto la formale giurisdizione del fidato collaboratore Ambrogio Rovera) il proprio patrimonio, nel quale confluì anche un terzo dei beni di Lucia Alciati. Probabilmente il matrimonio fu consumato in questo anno; i due sposi abitarono in un palazzo familiare dei Visconti nella parrocchia di S. Giovanni sul Muro (ora palazzo dal Verme di via Puccini).
Nel 1479 nacquero i primi due figli della coppia, Paolo e Faustina, entrambi deceduti infanti. Seguirono nei venti anni seguenti: prima Gian Gaspare (morto nel 1500), nato entro il 1483, poi Galeazzo (morto nel 1529), Camillo (morto nel 1552), Paolo (morto nel 1519), Gerolamo (morto nel 1542) e Giacomo Antonio, nonché le figlie Lucia, Bianca Giulia (poi suor Cecilia in S. Bernardino al Cantalupo), Eleonora e Isabella, poi monacate entrambe nel cenobio di S. Marta con i nomi di Bona Taddea e di Arcangela Gabriella.
La fortuna di Visconti subì probabilmente un contraccolpo dopo l’eliminazione politica del suocero Cicco (1479); ma egli continuò a intrattenere buoni rapporti con tutti i parenti della moglie e probabilmente ne favorì la riabilitazione presso Ludovico il Moro.
Visconti testò nel settembre del 1483, forse in procinto di mettersi in viaggio; non è improbabile un suo passaggio in Terrasanta poi tracciato nel De Paulo e Daria amanti.
A differenza di quanto abitualmente fatto dai propri pari grado coetanei, Visconti non fece redigere altri testamenti, ma solo alcuni codicilli per mutare gli esecutori testamentari e precisare la dote minima da assegnare alle figlie.
Già in occasione del testamento si evidenziò l’interesse di Visconti per il cantiere di S. Maria presso S. Satiro nel quale tra il dicembre del 1482 e il marzo del 1483 era sicuramente attivo l’urbinate Donato Bramante, allora detto residente nella parrocchia di S. Giovanni alle Quattro Facce, verosimilmente in casa di Antonietto Fregoso (menzionato insieme a Visconti e a Niccolò da Correggio, in questo anno, anche dal poeta fiorentino Bernardo Bellincioni).
Iniziato probabilmente attorno a questi anni, il sodalizio tra l’artista quarantenne e l’aristocratico poco più che ventenne durò fino alla morte di Visconti e segnò di fatto tutta la carriera milanese di Bramante. Molti dei giocosi componimenti poetici dell’architetto contengono riferimenti a Visconti o alla sua corte milanese. Testimonianza di come l’amicizia abbia segnato anche l’esperienza umana di Bramante, nel 1508 l’artista ormai anziano e all’apice della sua carriera richiese da Roma ai conoscenti lombardi i componimenti poetici di Visconti.
Alla fine del 1485, la morte dello zio Giovanni Pietro segnò una svolta nella vita di Visconti che – sia pure al prezzo di lunghe cause ereditarie con i parenti (specie i cugini figli dello zio Giovanni Agostino e di Margherita Borromeo) – riuscì a incamerare gran parte dei beni paterni e dello zio. L’anno successivo vendette al mercante Francesco Maggiolini la casa di S. Giovanni sul Muro e si trasferì in una grande proprietà sita ai margini del giardino di S. Ambrogio (parrocchia di S. Pietro in Camminadella, attuale via Lanzone). Dalla primavera del 1487 vi ospitò Bramante, che lavorò alla sua decorazione.
Poi nota come casa Panigarola, questa dimora fu infatti celebre nei secoli per la presenza del famoso ciclo dipinto da Bramante comprendente gli Uomini d’arme – forse i ritratti in panni aulici di alcuni frequentatori di casa Visconti – e i filosofi Eraclito e Democrito, staccati tra il 1901 e il 1902 e ora conservati presso la Pinacoteca di Brera (Reg. Cron. 1233-1240).
Probabilmente sotto la direzione di Bramante avvennero anche la ristrutturazione e la decorazione della villa di campagna di Visconti, la Cassina Bianca di Vignate in pieve di Gorgonzola (circa 15 km a est di Milano); fu ricordata nelle opere poetiche dello stesso Visconti, probabilmente anche nella Cerva Bianca di Fregoso e nelle Novelle di Matteo Bandello.
L’intera villa era abbellita da un ciclo decorativo a tema unico dedicato a una serie di vedute urbane, circostanza eccezionale a questa altezza cronologica. La porzione superstite è stata recentemente distrutta (2000).
Nel novembre del 1488 Visconti fece parte probabilmente del corteo ducale che scortò a Milano Isabella d’Aragona, e dettò un codicillo prima di partire per Napoli. Superate senza danni le difficoltà legate alla disgrazia del castellano Eustachi, suo sodale in affari (1489), nel 1492 Visconti difese (in modo determinante) il frate Giuliano da Muggia d’Istria, processato per aver predicato in Milano contro la corruzione della curia romana e in favore di teorie velate di un certo origenismo relative alla salvezza universale; la sensibilità per queste tematiche trova riscontro anche in una parte della produzione poetica.
Nel prestigioso Consiglio segreto (cui fu ammesso il 4 luglio 1493), Visconti diede un apporto nullo sul piano politico; si specializzò invece in una sorta di ‘funzione di rappresentanza’ nelle cerimonie di Stato come primo fra gli affini di casa Visconti. Ad esempio, in occasione delle nozze di Bianca Maria Sforza con Massimiliano I d’Asburgo (novembre 1493) accolse insieme a Battista Visconti la delegazione imperiale e scortò la sposa per un tratto nel viaggio verso Innsbruck.
Morì per cause imprecisate l’8 aprile 1499 e fu sepolto a Milano nella cappella di S. Giovanni Evangelista in S. Eustorgio.
Esattamente un mese dopo spirava anche la moglie Cecilia, lasciando la famiglia senza una guida: praticamente tutti i figli erano ancora minorenni.
La situazione di disagio fu accresciuta dalla morte del primogenito Gian Gaspare durante la battaglia di Novara (10 aprile 1500); il giovane lasciava vedova Donnina Crotti in attesa di un bambino poi battezzato Gian Gaspare Ambrogio; il tutto mentre implodeva il sistema sforzesco e Milano era occupata dai francesi. Le vicende della sua discendenza furono pertanto difficili e non all’altezza del prestigio da lui goduto.
Certo, Visconti era riuscito a recuperare un patrimonio ingente, portando avanti con determinazione anche negli ultimi anni le controversie con i parenti, recuperando i diritti di giurisdizione su Cassano Magnago (1494) e arrivando a impedire l’ingresso in città ai cugini per la fedeltà di rito al nuovo duca (1495). Si trattava di 18.500 pertiche di terreno (più di 1200 ettari) coltivato o boschivo, oltre all’incalcolabile quantità di suolo tenuto a brughiera; del palazzo in Milano; di un casino fuori porta Comasina; della villa della Cassina Bianca a Vignate; dei castelli di Cassano Magnago (Varese) e Zerbolò (Pavia); varie case da nobile abbinate alle proprietà agricole. Il tutto per un valore di circa 65.000 ducati con una rendita annua di oltre 3.000 ducati. Senza contare il lussuoso patrimonio mobile composto da un guardaroba principesco e da una biblioteca ricchissima che contava senz’altro più dei centoquaranta volumi inventariati; raccolta libraria seconda in Milano solo a quella del segretario ducale Giacomo Alfieri. Tuttavia la discendenza era davvero molto numerosa e solo Lucia convolò a nozze con Simone Mazenta, figlio del colto medico Guidotto.
La produzione letteraria di Visconti va inquadrata, più in generale, nel suo ruolo – durato circa tre lustri – di protagonista, come animatore culturale, del mondo milanese: egli fu il centro di una vera e propria corte quasi indipendente da quella ducale e ospitò numerosi artisti e intellettuali di varie parti d’Italia. Per dirla con le parole di Cesare Cesariano, Gaspare Ambrogio era stato «vero confugio de tuti li virtuosi [...] e a quelli che a sé ricorrevano li conteneva et amorevolmente li sucurreva et gli dava il commodo; et con epsi dispensava le sue opulente intrate patrimoniale» (in Vitruvio, 1521, c. 115r). L’altra caratteristica che connota il suo approccio è l’opzione, senza incertezze, per il volgare.
Come testimonia (pressoché in contemporanea agli eventi) l’umanista milanese Enrico Boscano, e come confermano gli atti notarili rogati in casa di Visconti, il cenacolo – una sorta di protoaccademia – di S. Pietro in Camminadella comprendeva, oltre ai già menzionati Fregoso e Bramante, Leonardo da Vinci, il celebrato orefice Caradosso Foppa, Bernardo Aretino detto l’Unico, Bernardo Bellincioni, Lancino Curzio (che dedicò a Visconti un gruppo di componimenti dialettali contro Baldassarre Tacconi), Domenico della Bella detto Maccaneo (precettore di casa), Antonio Pelotto, Francesco Puteolano, Cesare Sacchi, Bartolomeo Simonetta, Tacconi, Paolo Taegio, Francesco Tanzi detto Cornigero, Gerolamo Tuttavilla. Non mancarono poi musici e cantori, mentre lo stesso Gaspare Ambrogio era ricordato come esperto di musica. Ma ovviamente, i contatti di Visconti trascendevano questo gruppo ‘milanese’ e coinvolgevano il già citato Niccolò da Correggio, Leonardo Aristeo, Ermolao Barbaro, Vincenzo Calmeta, Antonio Camelli detto il Pistoia, Paolo Cortesi, Iacopo Sannazaro e probabilmente Pico della Mirandola. Molti altri nomi di gentiluomini padani, intellettuali e predicatori s’incrociano nelle rime di Visconti.
Primo fautore (sin dal 1498) della necessità di pubblicare una grammatica volgare con «la consapevolezza umanistica [...] della virtù politica insita in una lingua regolata dall’eloquenza» (Dionisotti, 2003, pp. 49 s.), e favorevole (come risulta anche dalla sensibilità dei frequentatori del suo cenacolo) all’uso del volgare nei testi a stampa, Visconti fu anche il più o meno occulto finanziatore o l’ispiratore della produzione a stampa di Filippo Mantegazza detto il Cassano (che si sottoscrive nella stampa in volgare dell’Appollonio di Tiro come magistro Cassano de’ Mantegatii, Cassano Magnago e non Cassano d’Adda, come invece sostenuto in S. Centi, Mantegazza Filippo, in Dizionario biografico degli Italiani, LXIX, Roma 2007, s.v.) de la Cablanca de’ Visconti (il castello avito di Visconti detto appunto la Ca’ Bianca). Della sua biblioteca, che conteneva anche i testi più recenti di Boiardo, Pico, Poliziano e Pontano, sopravvivono due importanti manoscritti, come confermato recentemente da Tiziano Zanato (in Gaspare Ambrogio Visconti, in corso di stampa; un terzo, già a Milano, Biblioteca Trivulziana, Trivulziano 1436, è perduto, ma si conosce in parte il suo contenuto grazie alle schede di Giulio Porro): a Parigi, Bibliothèque nationale, Ital. 1543, e a Roma, Biblioteca nazionale, Sessoriano 413. Entrambi gli zibaldoni sono testimoni della capacità assoluta di Visconti di conoscere e registrare praticamente in tempo reale il meglio della produzione volgare di tutta la penisola.
Pertanto, anche se il gesuato Paolo Morigia ribadiva che Visconti conosceva ebraico, latino, greco e toscano, sostenendo che «componeva per suo diporto» (Morigia, 1595, pp. 164 s.) in tutte e quattro queste lingue, la produzione poetica nota è solo ed esclusivamente in volgare.
I componimenti di Visconti sono tendenzialmente definiti petrarcheschi (le sue annotazioni servirono all’edizionie del Canzoniere di Petrarca curata da Francesco Tanzi del 1494), anche se nei versi del milanese abbondano riferimenti danteschi (autore particolarmente amato da Bramante, come dichiarato anche dallo stesso Visconti) e un certo sperimentalismo linguistico che risente del volgare locale.
Nel 1493, furono stampati i Rithimi (Milano, Antonio Zarotto a cura di Tanzi) dedicati a Niccolò da Correggio e letti subito con piacere da Isabella d’Este. Si trattava di 246 sonetti, 2 sestine e un poemetto in ottave, risalenti alla fine degli anni Ottanta e privi di riferimenti alla corte sforzesca.
Nell’aprile del 1495 fu stampato il De Paulo e Daria amanti, dedicato a Ludovico Sforza, celebrato in quell’anno. L’esemplare manoscritto miniato di dedica si trova a Berlino, Kupferstichkabinett, Staatliche Museen, 78 C 27. Il poema è suddiviso in otto libri, ciascuno composto di 80 ottave. La vicenda amorosa dal finale sospeso prende lo spunto dai lavori del cantiere della canonica di S. Ambrogio progettata da Bramante dal 1492 e più che inneggiare al Moro finisce per essere un testo di encomio alla casata viscontea e alla nobiltà milanese, una sorta di romanzo cavalleresco urbano.
Pensati come dono cortese, riordinati tra il 1493 e il 1497 e rimasti manoscritti quasi per intero fino all’edizione curata da Paolo Bongrani (1979) sono invece i Canzonieri, testimoniati principalmente dai manoscritti a Milano, Biblioteca Trivulziana, Trivulziano 1093, 2157 (su carta purpurea di dedica a Beatrice d’Este), nonché dal manoscritto 2621 Series nova della Österreichischen Nationalbibliothek di Vienna (di dedica a Bianca Maria Sforza).
Risalente sicuramente agli anni centrali dell’ultimo decennio del secolo, ma di datazione più controversa, è infine la Pasitea (nota solo attraverso il Trivulziano 1093, cc. 75v-100r), una commedia nella quale si mischiano i canoni del teatro classico e di quello contemporaneo cortese mitologico-pastorale. L’opera si apre con un’ostentata dichiarazione di milanesità: a parlare nel prologo è lo stesso Cecilio Stazio del quale si sottolineano appunto le antiche origini milanesi. Non manca sul finale una lode elegantemente composta e dedicata a Ludovico il Moro (atto V, scene I-II).
Opere. In attesa di un’edizione critica dei Rithimi e del De Paulo e Daria amanti, le opere di Visconti si leggono in edizioni moderne in I Canzonieri per Beatrice d’Este e per Bianca Maria Sforza, a cura di P. Bongrani, Milano 1979; Pasitea, in Teatro del Quattrocento. Le corti padane, a cura di A. Tissoni Benvenuti - M.P. Mussini Sacchi, Torino 1983, pp. 335-396; De Paulo e Daria amanti, in S. Leondi, Bel paese è il nostro..., Nepi 2018, pp. 47-154.
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