GELONE (Γέλων)
Signore di Siracusa e vincitore dei Cartaginesi (detto anche Gelone I). Nativo di Gela, fu il primogenito di Dinomene, che dopo di lui ebbe ancora cinque figli (v. dinomenidi). Della sua giovinezza non ci restano notizie degne di fede. Ci rimane un aneddoto inteso a mostrare ch'egli preferiva gli esercizî militari agli esercizi musicali e letterarî, il cavallo alla lira. Ippocrate, succeduto al fratello nella signoria di Gela, affidò a G. un comando militare, e lo mise presto a capo della cavalleria. Le guerre contro le città di Callipoli, Nasso, Zancle, Siracusa e contro alcune popolazioni indigene permisero a G. di mettere in mostra il suo valore. Caduto Ippocrate a Ibla, G. assunse la tutela dei figli di lui, Euclida e Cleandro, e vinse i Geloi che si erano valsi della circostanza per scuotere il giogo della signoria. Ma tenne per sé i vantaggi della vittoria, e si fece signore di Gela, mettendo da parte i figli d'Ippocrate. Questo avveniva verso il 491, e in ogni caso prima del 488 a. C. Lo stato di cui G. fu a capo comprendeva gran parte della Sicilia orientale, e circondava il territorio di Siracusa. Questa città era in preda a lotte sociali, e il popolo minuto, fatta alleanza con gli schiavi, detti calliciri o cilliciri, riuscì a cacciare in bando i proprietarî (gamori) che si rifugiarono a Casmene. Di qui si rivolsero a G., che accolse l'appello e li ricondusse a Siracusa, ove si domiciliò come signore, lasciando il governo di Gela al fratello Gerone. Egli fu pertanto uno dei sovrani più potenti del tempo. Ingrandì la sua nuova capitale con parte degli abitanti di Camarina e di Gela medesima. Assediò e costrinse alla resa la città di Megara, ne trasportò a Siracusa la borghesia, fece vendere e trasportare fuori dell'isola il proletariato turbolento, che egli considerava, secondo la frase che gli era attribuita, come uno scomodo coinquilino. I suoi dominî si stendevano su tutta la costa orientale dell'isola, con la sola eccezione di Catana, destinata, per altro, a essere anch'essa assorbita nello stato siracusano. G. si era imparentato con Terone, signore di Agrigento e d'Imera, del quale aveva sposato la figlia Demarete; teneva ai suoi ordini un forte esercito e una flotta reputata come una delle più poderose di quante ne fossero tra gli stati greci. Si narrava di un'ambasceria che Sparta e Atene gli avrebbero mandata, sotto la minaccia dell'invasione persiana, per ottenere aiuti: alla quale G. rispose con orgogliose parole e pretese esorbitanti. In realtà G. doveva provvedere a parare in Sicilia la minaccia dei Cartaginesi, i quali avevano allestito un grosso esercito (gli antichi parlano di 300.000 uomini!) che sbarcò a Palermo e si avanzò verso Imera, a cui pose assedio. La città era difesa da Terone, che non disponeva di forze sufficienti al bisogno. Mosse in suo aiuto G., con un esercito che si fa ascendere a 55.000 uomini. La lotta non fu lunga e terminò con una piena disfatta dei Cartaginesi: il loro comandante, Amilcare (v.), scomparve, un numero enorme di prigionieri fu diviso fra i vincitori. La vittoria d'Imera fece il paio con quella dei Greci a Salamina, e si disse ben presto che erano avvenute entrambe nello stesso giorno (480 a. C.). La pace che seguì, della quale sarebbe stata anche intermediaria Demarete, non portò notevoli mutamenti territoriali. G. alzò in memoria un tempio a Demetra e alla figlia, di cui possedeva in eredità il sacerdozio. Altri doni fece ad Apollo in Delfi, a Giove in Siracusa e in Olimpia. Quivi aveva fatto alzare un gruppo di bronzo, in memoria d'una vittoria ottenuta alla corsa dei carri quando era semplicemente tiranno di Gela. Morì poco dopo, nel 478 o 477 ȧ. C., d'idropisia.
Bibl.: A. Holm, Storia della Sicilia nell'antichità (trad. ital.), I, p. 386 segg.; E. A. Freeman, Hist. of Sicily, II, Oxford 1882, p. 207 segg.; J. Beloch, Griech. Gesch., 2ª ed., II, i, p. 70 segg.; G. Busolt, Gr. Gesch., II, p. 784 segg.; B. Niese, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VII, col. 1007 segg.; L. Pareti, Studi siciliani e italioti, Firenze 1914, p. 78 segg., 173 segg.