GENERE LETTERARIO
. Antichità. - Il concetto di genere letterario, che, sia nella pratica sia nella teoria dell'arte, ebbe tanta importanza specialmente dal Rinascimento ai nostri giorni, trae la sua origine dai Greci o, in generale, dall'antichità greca e romana. Sebbene esso abbia riscontro anche in altri campi, e cioè nelle letterature orientali, come p. es. nella poetica sanscrita (su cui influirono per qualche parte i Greci stessi), tuttavia a noi è venuto certamente per il tramite della tradizione classica. Esso è la principale e più caratteristica manifestazione di quel sistema e di quella tendenza a cui si suol dare il nome di classicismo, che s'impernia sull'imitazione dei modelli classici, considerati e classificati per generi con determinate regole e formule; sistema o tendenza che cominciò ad attuarsi presso i Greci stessi, nel periodo alessandrino, quando alla virtù creativa successe per lo più l'imitativa; e si applicò poi subito alla letteratura romana, modellatasi per l'aspetto formale sull'esempio greco; e infine si trasmise assai largamente sulle letterature europee del Rinascimento, sino alla reazione romantica. Questa, di cui noi oggi siamo i diretti eredi, si rivolge contro la tradizione classicheggiante, quindi anche contro la tradizione dei generi: e come si ribella all'imitazione, così è destinata a battere in breccia, e nella pratica e nella teoria dell'arte (compito precipuo della nuova estetica), il concetto dei generi letterarî.
A considerarlo nel suo significato interiore, il concetto dei generi letterarî dipende dal carattere dell'antica filosofia, che è essenzialmente naturalistica e quindi guarda naturalisticamente anche i prodotti dello spirito, classificandoli e sottoponendoli a norme astratte e rigorose. La classificazione, che dovrebbe avere un significato semplicemente empirico e servire a raggruppare, per comodità di rassegna e sulla base di somiglianze esterne, le opere letterarie, assume nell'intendimento degli antichi un carattere scientifico come se fosse determinata da ragioni intrinseche, e perciò da principî fissi, di valore assoluto. Questo modo naturalistico di guardare le opere letterarie si manifestò in Grecia col primo sorgere della riflessione e della critica, presso i più antichi eruditi, filosofi e sofisti (del sec. VI e del V a. C.); ma andò specialmente accentuandosi e diede i suoi principali frutti nell'età alessandrina, quando gli studî scientifici, grammaticali e filologici presero grande diffusione e quando, in coerenza con ciò, la letteratura originale, di più viva creazione, aveva compiuto il suo ciclo.
La letteratura greca del periodo cosiddetto classico, come si era svolta in una fase anteriore allo sviluppo del pensiero riflesso, così fu estranea al concetto del genere, né subì l'ingerenza delle regole e delle classificazioni. Forme letterarie diverse venivano alla luce - che empiricamente si chiamavano epopea, lirica, dramma, e magari si suddividevano in molti altri aspetti minori; ma nascevano l'una qua e l'altra là, in corrispondenza coi bisogni dei luoghi e dei tempi diversi: prima l'epopea, poi, tramontata l'epopea, la lirica, e quindi il dramma: non erano generi, schematicamente e aprioristicamente tracciati, erano la poesia, tutta la poesia, come avveniva di sentirla e di crearla di volta in volta, non col sussidio di modelli prestabiliti e fissi, bensì ex novo, seguendo i liberi impulsi della fantasia creatrice. Le condizioni mutarono sulla fine del secolo V e specialmente nel sec. IV a. C., quando i Greci sentirono che la stagione della grande fioritura era cessata, e perciò si rivolsero sul loro passato, astraendolo e staccandolo dal presente come qualcosa di antico, di esemplare, di paradigmatico, di classico, e così cominciarono a imitare e teorizzare i loro prodotti.
Questa condizione di cose è bene rappresentata, p. es., dal poeta Cherilo di Samo - fra il sec. V e il IV - il quale, cominciando un suo poema storico (poiché tentava di ridar vita all'epopea), esclamava: "Beato colui che della poesia era cultore, ministro delle Muse, a quel tempo quando intatto ancora era il prato [Ora che tutto è stato diviso e le arti hanno i loro confini, indietro siamo lasciati, ultimi al corso, e non si può, pur d'ogni intorno guardando, trovare un cocchio di recente aggiogato" (fr.1, Kinkel). I confini delle arti sono già quasi i confini dei generi letterari.
Ma a determinare e a rendere imitativamente applicabili questi confini pensarono, accanto ai poeti, specialmente i filosofi, i critici, gli eruditi. Platone ha i primi esempî di classificazioni della poesia. Una classificazione è fondata sul carattere etico del contenuto, per cui si distinguono il genere serio, dell'epopea e della tragedia, e il genere faceto, della giambica e della commedia (Leg., VII, 810 e, 817 a, VIII, 838 c; Theaet., 152 e). Un'altra classificazione riposa sul diverso grado della mimesi (poiché la mimesi è per Platone elemento essenziale della poesia), per cui si definiscono tre generi fondamentali (τύποι): 1., il genere mimetico o drammatico, proprio della tragedia e della commedia; 2., il genere espositivo o narrativo, proprio del ditirambo, del nomo e in generale delle composizioni cosiddette liriche (la lirica dei Greci era assai poco lirica nel senso nostro, bensì era narrazione); 3., il genere misto, che combina le caratteristiche del drammatico e dell'espositivo ed è proprio dell'epopea (Rep., III, 392 d segg.). Questa classificazione tripartita ebbe enorme successo nella storia delle lettere; pur variamente intesa, passò ai grammatici e ai trattatisti fino dai più tardi tempi, e servì come base a tutte le ulteriori suddivisioni. Intanto essa fu adottata da Aristotele (Poet., III, 1448 a, 20-25), il quale rivolse la sua attenzione sul genere drammatico e specialmente sulla tragedia, che gli pareva la più perfetta forma di poesia. L'importanza di Aristotele nell'indirizzo della critica classica fu grandissima, perché studiando naturalisticamente la tragedia, procurò di stabilire la ϕύσις di questo genere e dettò intorno a esso una quantità di regole e di precetti, che tennero per lungo tempo il campo e valsero come esempio ad analoghe formulazioni anche per gli altri generi letterarî, ciascuno dei quali venne ad avere le sue regole e i suoi precetti. Veramente Aristotele, con l'altezza del suo pensiero, superava ancora la gretta concezione del genere: poiché nelle forme della tragedia egli vedeva rappresentata e compresa tutta la poesia; non un genere letterario coltivabile a fianco di altri generi letterarî; bensì la più vera e più urgente poesia, com'era sentita e creata durante il periodo della spontanea fioritura, quando il dramma era venuto a sostituire l'epopea e la lirica e ogni altra manifestazione, corrispondendo in pieno alle tendenze artistiche del tempo. In modo analogo Aristotele, con l'altezza del suo pensiero, superava anche la distribuzione convenzionale di prosa e poesia, che era nell'uso comune e che sta agl'inizî di qualsiasi classificazione dei generi letterarî; e affermava che si è poeti non già per il metro, bensì per la "mimesi", vale a dire per l'essenza dell'arte (Poet., I, 1447 b 10; IX, 1451 b 2).
Ma i successori di Aristotele, tanto i filosofi peripatetici, usciti direttamente dalla sua scuola, quanto i filologi alessandrini, compirono l'opera e diedero la definitiva sistemazione dei generi letterarî (εἴδη). Ormai con lo svilupparsi e col sistemarsi della teoria concordava anche la pratica dell'arte contemporanea: e l'una cosa influiva sull'altra, vicendevolmente. Infatti, nella letteratura ellenistica, o alessandrina, fra il sec. IV e il III, si costituiva, in maniera ormai certa e palese, la consuetudine classica dei generi: nel senso che tutte le forme del passato erano messe sopra un medesimo piano, e apparivano legittime, e acquistavano diritto di cittadinanza come generi perfettamente tracciati e coltivati e imitabili a piacere: non solo quelle forme che più di recente erano sgorgate dallo spirito creatore ed erano la più recente e quindi la più viva poesia (come parve ad Aristotele il dramma) ma anche le più appartate o le più arcaiche. E poiché le antiche forme, nei luoghi e nei tempi diversi, avevano avuto caratteri linguistici e stilistici diversi, perciò in connessione con l'uso dei generi letterarî si costituiva anche l'uso di uno stile corrispondente: nel senso che a ogni genere competeva un suo stile e la mescolanza o la sostituzione degli stili era vietata.
Questa così tipica configurazione della letteratura alessandrina è ben visibile nella pratica dell'arte, per gli svariati generi che gli autori alessandrini effettivamente coltivarono; nei quali le tendenze, i caratteri, lo stile dipendono non tanto dall'individualità dell'artista quanto dalla determinazione del genere. Ed è riprodotta, identicamente, nelle teorie dei trattatisti. Principale rappresentante della sistemazione dottrinaria fu Teofrasto, discepolo di Aristotele, e poi molti altri filosofi e filologi alessandrini, di cui abbiamo pochi frammenti. Ma le loro dottrine entrarono nei manuali e nel comune insegnamento scolastico; passarono dal mondo ellenistico al mondo romano (le troviamo p. es. nell'Arte poetica di Orazio, nelle Istituzioni di Quintiliano, ecc.); si trasmisero per lunga trafila in quasi tutti i trattati dell'età imperiale e bizantina. Questi trattati di epoca tarda ci conservano i principali residui della teorica dei generi: specialmente l'Arte grammatica di Diomede, la Crestomazia di Proclo (nell'estratto di Fozio), l'anonimo Tractatus Coislinianus, e numerose note di scoliasti.
Bibl.: E. Müller, Geschichte der Theorie d. Kunst bei den Alten, Breslavia 1831-37, pp. 134-206, II, pp. 238-39; B. Croce, Estetica, 6ª ed., Bari 1928; A. Rostagni, Poeti alessandrini, Torino 1916, pp. 15-19; id., Aristotele e aristotelismo nella storia dell'estet. ant., in Studi ital. di Filol. class., n. s. II, Firenze 1921, pp. 4-6-103-42; id., L'arte poetica di Orazio, Torino 1930, pp. XLI-LXVIII; C. Gallavotti, Sulle classificazioni dei generi letterari nell'estetica antica, in Athenaeum, n. s., VI (1928), pp. 356 segg.
Età moderna. - L'influsso della teoria dei generi letterarî sulla poesia moderna incomincia propriamente col Rinascimento. Malgrado il vario persistere dell'imitazione classica, virgiliana, ovidiana ecc., malgrado i residui di retorica latina passati alle artes dictandi e sempre quasi meccanicamente ritornanti nella precettistica, il Medioevo si creò da sé, in forme di poema epico e cavalleresco, di rappresentazione sacra, di visione, ecc., la sua poesia, senza che la teoria dei generi v'entrasse - salvo rare eccezioni - come forza determinante: lo stesso formalismo della lirica culta del Duecento, più che alla "purità" dei generi, mirò alla grazia dei concetti e dei ritmi, all'abilità dei congegni metrici. Invece, con l'Umanesimo il risorto culto dell'antichità si sovrappose alla formazione spontanea delle epopee nazionali sostituendovi l'epica riflessa ad imitazione classica, troncò in Italia lo sviluppo di un teatro autonomo e informò di sé il grande teatro francese, riuscendo infine a imporsi anche in Spagna, pur dopo Calderón, e anche in Inghilterra, pur dopo Shakespeare; contemporaneamente il fiorire degli studî e il destarsi dello spirito di ricerca diedero impulso a un sempre moltiplicantesi sorgere di poetiche, nelle quali alle idee di Aristotele e alle sentenze di Orazio, adattate alle esigenze del tempo, si domandavano le norme per far poesia: allora anche la teoria dei generi stabilì dappertutto il suo dominio. E se per taluni poeti, come Milton, poté essere un'utile esperienza intellettuale chiarificatrice, per altri, al contrario, come Tasso, divenne ragione d'interno travaglio e disorientamento. Non soltanto si cercarono di fissare le forme e le leggi della tragedia, della commedia, con un progressivo irrigidirsi di esigenze, di cui la legge delle tre unità fu una delle tipiche espressioni; ma ogni genere si venne via via dividendo in specie e sottospecie; e ogni forma di poesia finì col diventare un "genere letterario" chiuso, rigido, governato da leggi che dovrebbero essere immutabili; e si ebbero trattati e trattatelli anche sull'epigramma e l'elegia, sull'ode e sull'anacreontica, sull'egloga e sulla canzonetta. La polemica sulla preminenza fra i generi, che per lungo tempo s'era risolta per comune consenso in un primato dell'epica, condusse poi a poco a poco all'attribuzione del primato alla tragedia; e col mutare dei tempi e dei gusti ora l'una ora l'altra forma di poesia s'avvicendò nella generale predilezione. Ma l'impostazione del problema rimase sostanzialmente ferma: solo, dal Vida allo Scaligero, dallo Scaligero al Boileau e al Pope, si fecero sempre più sottili o ingegnose le distinzioni: l'intellettualismo razionalistico, che dalla metà del sec. XVII in poi diede il tono alla vita spirituale d'Europa, poteva anche in questo campo affinare soltanto gli strumenti dell'analisi, non scuotere le basi della teoria.
Fu un fenomeno vasto, e, fino alla metà del sec. XVIII, comune a tutta Europa; e fu fenomeno di non lieve interesse letterario; perché - se non le vie per giungere a comprendere la poesia in generale - ci addita la direzione in cui per tanto tempo la poesia fu cercata, e ci aiuta a comprendere lo stile in cui la concreta poesia di quel tempo si espresse.
Perché un rinnovamento sostanziale si operasse, non poteva bastare che nella definizione dei generi l'analisi si spostasse dalla considerazione della forma metrica alla considerazione del contenuto umano della poesia, come a poco a poco avvenne (v. ad es. la definizione dell'elegia, o, più tardi, la concezione della ballata, o la distinzione delle varie forme di poema eroico, religioso, storico, didascalico, ecc.): occorreva che la poesia fosse cercata nella sua sola, diretta sorgente, l'anima del poeta. Compiuto questo, la concezione della fissità e rigidità dei generi necessariamente cadde.
Già nella celebre polemica degli Svizzeri con Gottsched è facile avvertire come l'idea dei generi poetici, pur rimanendo teoricamente assiomatica, perde nel concreto sviluppo dei ragionamenti il suo valore dominante, cedendo il posto a preoccupazioni diverse; Lessing demolisce nella sua critica l'interpretazione classicistica di Aristotele e risolve la poesia in azione, investendo la concezione di tutti i generi poetici con tale unico principio fondamentale; più tardi ancora, passato l'uragano dello "Sturm und Drang" con quella sua ebbrezza di sconvolgimento di tutte le regole e norme e consuetudini del passato, divenuta con Herder la poesia "grido dell'anima", "voce della natura", "voce dei popoli" ecco come Goethe considera il problema: "Si dànno soltanto tre pure forme naturali di poesia: quella che racconta chiaramente, la entusiasticamente agitata e quella che agisce personalmente: lirica, epopea e dramma". È la distinzisne stessa che fa lo Schiller fra il dramma come "poesia dell'uomo che ha una volontà", l'epica come poesia dell'uomo che "contempla" e la lirica come poesia dell'uomo che "sente": la differenziazione è ricondotta esclusivamente a diversi stati d'animo del poeta che crea. Ma come nulla è più fluido e indefinito che il sentimento, così anche la distinzione perde ogni valore rigidamente normativo: "Nella più breve poesia esse si trovano spesso insieme - continua appunto Goethe - e appunto per questa unione in un ristrettissimo spazio dànno origine a una magnifica creazione, come possiamo vedere chiaramente nelle più pregevoli ballate di tutti i popoli".
Sono parole in cui già s'annuncia il romanticismo, per il quale non soltanto l'unità di tutta la poesia, ma l'unità di tutte le arti fu decisivo punto di partenza: la musica parve allora "un'architettura di suoni", e la poesia "musica di parole": i confini fra prosa e poesia si confusero: la lirica invase il dramma, la novella, il romanzo; il tragico e il comico, il sublime e il semplice, il patetico e l'ironico si mescolarono a specchio della fluida e mutevole realtà dell'anima del poeta. Il romanticismo segnò così il tramonto della teoria dei generi letterarî, come il classicismo l'aveva elaborata cercandovi le leggi della poesia.
E se presso il nuovo classicismo essa si mantenne tuttavia viva, ciò avvenne per un ordine di ragioni diverso, perché nel culto della purità e linearità della forma, proprio di ogni tendenza classica, anche l'elemento formale della "purità del genere" diventa naturalmente essenziale. Così in Germania Platen riprese le forme dell'ode, dell'inno, ecc.; in Italia il Carducci rinnovò nella lirica le forme della lirica antica; in Francia, dove da ormai più di due secoli ogni movimento letterario finisce sempre con lo sboccare in un ritorno alla tradizione del grand siècle, poté ancora accadere, alla fine del secolo XIX, che Brunetière credesse di trovare nell'"evoluzione dei generi" le leggi del ciclico ascendere e scadere della poesia dei popoli.
I generi letterarî sono diventati così soltanto tipiche forme di poesia, a cui spontaneamente lo spirito umano ricorre per cercare espressione alla sua vita, senza esserne in alcun modo vincolato. In questo senso lo studio dei generi letterarî sta riprendendo vita un po' dappertutto in Europa, specie in Germania, dove l'applicazione della fenomenologia all'indagine letteraria naturalmente doveva spingere anche verso tale genere di ricerche.