LETTERARI, GENERI.
– La poesia. La scrittura drammaturgica. Il romanzo. Bibliografia
Nel nuovo millennio non ha più senso affrontare la questione dei g. l. da un punto di vista meramente letterario. Occorre partire dal mercato delle rappresentazioni nel contesto dei molteplici passaggi da cultura alta a cultura di massa, e viceversa. Il postmoderno, come stile d’epoca, divenuto maniera, pare insistere nei primi due decenni del terzo millennio all’insegna della ripetizione: riscritture, remakes, adattamenti, parodie, pastiches, scritture transitive, transepocali, translinguistiche, transgender, transetniche (con reinterpretazioni attualizzanti di vecchie storie, e spesso il capovolgimento del punto di vista). In questa dinamica culturale i generi non sono svaniti, anzi, divenuti ‘scritture di genere’ nella cultura di massa, ne occupano lo spazio più rilevante.
La poesia. – Dei generi aristotelici, tragedia, commedia, epos e lirica, quello meno mutato, ai tempi del postmoderno è la poesia lirica. Nel Novecento si sono dissolte forme metriche, rime, sonetti e canzoni, che erano le forme codificate della lirica come linguaggio dell’interiorità, ma non è certo svanito quel linguaggio né la soggettività di cui è espressione, tanto è vero che in Die Struktur der modernen Lyrik (1956; trad. it. 1958) Hugo Friedrich usa Lyrik e Gedichte, lirica e poesia, come fossero sinonimi, sicché nella modernità non vi sarebbe che poesia lirica. La storia della poesia italiana ce lo può confermare, se pensiamo che, come scrive Guido Mazzoni (2005, pp. 85-128), il paradigma lirico nella poesia italiana è L’Infinito leopardiano. Mazzoni concepisce la soggettività lirica in modo affatto diverso da Friedrich, e ne distingue tre ‘generi’: la voce lirica come voce collettiva, non individuata, indistinta, emblematica (p. 100); il secondo genere è quello autobiografico trascendentale: la voce lirica ha identità, si riferisce a esperienze personali, al proprio Erlebnis (vissuto, p. 101). Questi due primi generi sono comuni a molte, se non a tutte le epoche; il terzo genere invece appartiene solo alla modernità, alla lirica moderna, in cui l’io protesta la propria ‘radicale’, ‘intransitiva’ soggettività e identità (p. 101) e l’afferma, contro quella disposizione d’animo che Friedrich chiama invece Enthumanisierung, disumanizzazione ed evanescenza della soggettività nella lirica moderna.
A partire da metà Ottocento, e da Leaves of grass (otto edizioni tra il 1855 e il 1892) di Walt Whitman, si sviluppa quel nuovo genere, che non necessariamente prevede una voce lirica non individuata ed emblematica ma, a volte, una voce narrante, una maschera autoriale costruita come vero e proprio personaggio. Si tratta del poema epico-lirico, che ha un antecedente nel Vincenzo Monti del Bardo della Selva nera. Poema epico-lirico (1806) e che si esemplifica nel Novecento con opere come The waste land (1922) di Thomas S. Eliot, Paterson (1946) di William Carlos Williams, o i ‘romanzi in versi’ di Elio Pagliarani, La ragazza Carla (1960) e La ballata di Rudi (1995); il Pasolini de Le ceneri di Gramsci (1957); Howl (1956) di Allen Ginsberg; Der Untergang der Titanic (1978) di Hans Magnus Enzensberger. Al genere o sottogenere del poema epico-lirico potrem mo ascrivere anche il serial poem, il cui paradigma è The maximus poems (1960-75) di Charles Olson, una serie di frammenti che compongono l’epica minima della città di Gloucester in un poema potenzialmente sempre aggiuntivo, mai chiuso. Il serial poem è un sottogenere del long poem che, nell’accezione più recente, si compone come combinazione di epica, narrativa e sequenze liriche. I poeti che se ne occupano, nel gergo dei poeti canadesi degli anni Ottanta, sono i long-liners, come vengono chiamati i camionisti di lungo percorso nel continente americano. Un esempio di grande impatto, long poem organico e serial poem, con la scrittura come movimento erratico senza sosta del linguaggio che dà al vivere forma di viaggio, è The martyrology di Bp (Barrie Phillip) Nichol, un life-long poem in sette libri (1972-90) che esemplifica, nel martirio delle parole – è questo il significato del titolo –, lo spirito della postmodernità in un’opera fluida e viva nel mutare di forme e senso. La vitalità e la sopravvivenza di un genere che cerca di tenere assieme narratività e liricità sono testimoniate dalla Long poem conference (Università del Sussex, 16-17 maggio 2008), oltre vent’anni dopo la Long-liners conference (Università di Toronto, 29 maggio-1° giugno 1984).
In Italia la poesia parrebbe meno fortunata, a meno di non ricordare i dati di un’indagine di Niccolò Scaffai sulle antologie di poesia uscite in Italia all’inizio del terzo millennio: 13 nel 2000, 10 nel 2001, 13 nel 2002, 8 nel 2003, 7 nel 2004, 11 nel 2005 e, tra queste, significativamente Dopo la lirica curata da Enrico Testa per Einaudi. Già Roberto Galaverni aveva intitolato, ancor più radicalmente, Dopo la poesia il suo saggio del 2002 sulla situazione contemporanea in Italia. Dopo le neoavanguardie tra anni Sessanta e anni Ottanta, si ha l’impressione che la poesia contemporanea trovi un suo ristretto spazio vitale nella clôture delle riviste e delle collane specializzate. E oggi un Eliot, un Montale, un Ungaretti, un Luzi, quelle figure pubbliche di poeta, non sono più pensabili. D’altro canto, diventando canzone, e con testi memorabili, o adattandosi al ritmo del rap della poesia di strada, negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, o in Italia, la poesia è venuta occupando importanti porzioni del mercato culturale.
La scrittura drammaturgica. – I due generi teatrali aristotelici, tragedia e commedia, sono quelli più radicalmente mutati, a partire dagli anni Settanta e Ottanta e fino alla fine del secolo scorso, attraverso il postmoderno, la parodia, la frammentazione dei personaggi, la sovrapposizione di trame, la multimedialità delle strategie stranianti, le suggestioni metateatrali, il senso dell’assurdo. Tuttavia, nel 1999 è uscita un’opera teorica importante che ha mutato ulteriormente e radicalmente la scena del nuovo teatro all’inizio del terzo millennio: Postdramatisches Theater di Hans-Thies Lehmann, che, oltre a riferirsi alla scena postmoderna degli anni precedenti, mostra in realtà importanti potenzialità progettuali, aprendo, con il passaggio di secolo una nuova dimensione beyond drama (oltre il dramma). L’opera di Lehmann investe messa in scena, aspetti performativi, scrittura drammaturgica delle opere di autori come René Pollesch, da Heidi Ho (1999) a Kill you darlings (2012) e Herein, Herein! (2014), Kate Mitchell, The waves (2006), Martin Crimp, da Attempts on her life (1997) fino a Cruel and tender (2004) e In the Republic of happiness (2012), Tim Crouch con Kaspar Hauser (2006) e John, Antonio and Nancy (2010). L’inizio del terzo millennio, oltre a fare spesso assegnamento sulla multimedialità per le messe in scena di produzioni nuove e antiche, segna un ritorno al teatro di parola: possiamo prenderne a epitome The author (2009) di Crouch la cui ‘protagonista’ è Anne che però non appare mai nelle diciassette scene che compongono il dramma. Anne viene rappresentata verbalmente dagli attori in scena, e viene così posta oltre il dramma, come un postpersonaggio, un’assenza. La si rappresenta esattamente come tale in un postdramma con quattro attori, lo stesso autore, Crouch, e altri tre che hanno recitato in un altro dei suoi plays (un’attrice, un attore, uno spettatore che sviluppano tre fili narrativi in tre diverse temporalità). Ed è caratteristico che non vi sia che parola, poiché chi recita evoca a gesti, a parole, ciò che sul palcoscenico non si presenta affatto, ed è dunque unicamente rappresentazione con una strategia che tende a eliminare la differenza fra realtà e finzione, mondo e teatro, ciò che sta al di qua e ciò che sta al di là della ‘quarta parete’. Infine, un’indicazione ancora diversa troviamo in Fuerza bruta, lo spettacolo creato da Diqui James nel 2005 a Buenos Aires, e che ha avuto grande fortuna in America e nel mondo, 500.000 spettatori, con un uso totale dello spazio, non solo il palco, ma anche l’aria sopra di esso, con canti, danze, acrobazie, e una continua ibridazione di linguaggi artistici diversi e l’abolizione di fatto della quarta parete e il coinvolgimento totale del pubblico nello spettacolo.
Il romanzo. – Il romanzo è il genere ‘per eccellenza’ dal Settecento al terzo millennio. Il termine ha ormai poco a che fare sia con il suo significato originario, legato alle letterature romanze, sia con ciò che Hegel o Goethe intendevano con quella parola che segna l’epos borghese. Nel Novecento il romanzo è insegna della cultura ‘alta’ e d’avanguardia (James Joyce, Thomas Mann, il nouveau roman francese, lo sperimentalismo di Italo Calvino), ma, già a partire dalla fine del Settecento, molta della produzione romanzesca è narrativa di genere che tende sempre di più, tra Otto e Novecento, a diventare scrittura performativa destinata alla messa in scena. Così nel postmoderno, fatto maniera, la scrittura drammaturgica si volge con più profitto al mercato dei media, al cinema e, con sempre maggiore intensità, alla televisione.
Già nell’Ottocento la narrativa sia ‘alta’ sia di consumo è scrittura in gran parte ‘performativa’ più o meno consapevolmente tesa a divenire teatro, se non, visto il successo d’epoca del teatro in musica, libretto d’opera e melodramma. La cultura di massa si impone attraverso meccanismi editoriali come il romanzo d’appendice, in uno spazio progressivamente conquistato dalla narrativa di genere (romanzo gotico, nero, dell’orrore, giallo, crime e detective story – le grandi tirature dei romanzi di Arthur Conan Doyle –, il romanzo rosa – la fortuna dei romanzi di Colette o di Elynor Glyn). La narrazione nella tarda modernità, nel mondo della TV seriale e del cinema informatizzato, tende a diventare saga e dramma, nel proliferare di collane ‘di genere’ e b-movies spesso ispirati a un capostipite di successo popolare. Si tratta di fenomeni maturati in primo luogo in ambito anglosassone. La science fiction nasce tra Otto e Novecento con i romanzi di H.G. Wells, e diviene un genere di rilievo nella scrittura e poi nel cinema degli ultimi cent’anni, producendo anche capolavori come 2001 A space odyssey di Stanley Kubrick, sceneggiatura di Arthur C. Clarke, il cui romanzo uscì in contemporanea con il film nel 1968, o Blade runner (1982) di Ridley Scott, da un romanzo di Philip K. Dick, Do androids dream of electric sheep? (1968; trad. it. Il cacciatore di androidi, 1971). E ancora il Dracula (1897) di Bram Stoker, preceduto e seguito da una miriade di altri vampiri, che ha dato vita a un filone cinematografico e a serie televisive di grande successo. Anche il romanzo nero, che discende direttamente dal neogotico sette-ottocentesco, continua a godere di popolarità: si pensi a The shining (1977) di Stephen King, che è diventato il film di Kubrick nel 1980, o, ancora di più, a Goya’s ghosts (2006; L’ultimo inquisitore) di Milos Foreman (sceneggiatura dello stesso regista e di Jean-Claude Carrière), che è storicamente documentato e ispirato all’archetipo inglese del genere neogotico, e cioè The monk (1796) di Matthew Gregory Lewis. Se il western sembra definitivamente appassito (dando però vita a una subcategoria come lo spaghetti western che in un breve arco di tempo ne ha sfinito la residua vitalità), non sono esaurite né la detective story, né la crime story, o la spy story, né il romanzo rosa. Non si è esaurito il percorso del romanzo storico, che è forse, assieme alla narrativa etnica, il fenomeno più macroscopico, a partire da Umberto Eco, e da Il nome della rosa (1980, adattato per il grande schermo da Jean-Jacques Annaud nel 1986).
Spesso, del resto, narrativa etnica, o comunque postcoloniale, e romanzo storico vanno insieme. Si pensi, nella categoria del romanzo storico ‘etnico’, al rovesciamento del romanzo coloniale: abbiamo in mente Regina di perle e di fiori (2007) di Gabriella Ghermandi, che prende spunto dalla materia di Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano per rivisitare non la storia italiana in Etiopia, ma la storia etiope al tempo della colonizzazione italiana. Si pensi, per il verso contrario, a L’ottava vibrazione (2008) di Carlo Lucarelli, ambientato a Massaua, Eritrea, nel 1896, l’anno del disastro militare italiano ad Adua, in cui l’Eritrea, come capita spesso nei romanzi coloniali con i luoghi colonizzati, è lo specchio buio dei colonizzatori. Si tratta di versioni post moderne di romanzo storico, spesso di ‘storia potenziale’ (alternate history) a partire da rappresentazioni documentate del passato come sfondo a vicende immaginarie che spesso tendono a rovesciare il senso della narrazione storica data. Si pensi a Q (1999) di Luther Blisset – lo pseudonimo collettivo usato per questo libro da Roberto Bui, Giovanni Cattabriga, Federico Guglielmi, Luca Di Meo – sulla guerra dei contadini nella Germania della Riforma luterana, e sul destino infausto degli anabattisti e di Thomas Müntzer. Nel 2009, a dieci anni dalla pubblicazione di Q, sul blog GIAP, il gruppo rinominato Wu Ming ha pubblicato un commento sul romanzo, legandolo all’attualità e in particolare alla durezza della repressione delle forze dell’ordine durante il G8 di Genova. Nello stesso 2009 è uscito anche Altai, sulla stessa materia di Q. I Wu Ming hanno firmato nel 2014 un altro romanzo storico, L’armata dei sonnambuli, che racconta la fase finale della Rivoluzione francese (tra l’esecuzione di Luigi XVI e quella di Robespierre) il cui filo conduttore è costituito dalla storia di un attore italiano a Parigi, e dagli esperimenti di mesmerismo volti a produrre soggezione di massa.
La categorizzazione per genere passa ora attraverso cinema di ‘genere’ e serial televisivi, nella logica della cancellazione di ogni linea di demarcazione tra letteratura alta e cultura popolare, che, più propriamente, si dovrebbe chiamare ‘cultura di massa’, prodotta, e indotta, dai mass media. Si devono tuttavia ricordare, come prodotti ‘alti’ almeno, nel 1980, l’adattamento televisivo miniseriale di Rainer Werner Fassbinder di Berlin Alexanderplatz (1929) di Alfred Döblin, e quello del 2012 di Parade’s end (1924-1928) di Ford Madox Ford, diretta per la HBO da Susanna White su sceneggiatura di Tom Stoppard, la cui scrittura drammaturgica del resto si adatta perfettamente al cinema come mostra anche la sceneggiatura, scritta insieme a Marc Norman, di Shakespeare in love (1998) per la regia di John Madden. Shakespeare in love è una storia potenziale (alternate history) e una biografia immaginaria intesa a offrire un’inedita chiave di interpretazione di William Shakespeare, così come l’altra biografia immaginaria, Anonymous (2011), il film scritto da John Orloff e diretto da Roland Emmerich e in cui tutta la produzione di uno Shakespeare pressoché analfabeta viene attribuita a Edward De Vere, conte di Oxford. Il romanzo politico ha trovato un nuovo modello in House of cards (1989), di Michael Dobbs, adattato nel serial HBO di Beau Williams per la Netflix (2013).
Una crime story che prende spunto da un grande film come Fargo (1996) dei fratelli Joel ed Ethan Coen è divenuta l’omonima serie televisiva sceneggiata per la rete FX da Noha Hawley, per la regia di Adan Bern stein, Colin Buckley, lo stesso Hawley e altri ancora. Il fantasy, spesso medievale, o medievaleggiante, è esemplificato da Game of thrones (1996), il romanzo di George Martin sequel di A song of ice and fire (1991), adattati a serial da David Benioff e D.B. Weiss per la HBO e giunto alla quinta stagione. Si tratta di un mix di fantasy e storia potenziale, ambientato in un mondo mai esistito, ma basato sull’immaginario medievaleggiante, già importante nell’Ottocento, rivisitato in un’ottica di crudo realismo nella rappresentazione della violenza e della sessualità, e con qualche enigmatico riferimento alla storia passata, presente e futura del mondo in cui viviamo. Qualche fondamento storico, molta documentazione sulla vita quotidiana e molta immaginazione ci sono, insieme a crudo realismo nelle molteplici sequenze di sesso e di violenza, nel serial Spartacus, ideato e diretto da Steven de Knight, Joshua Donen, Sam Reimi, Robert Tapert per la rete televisiva STARZ (2010-2013), la cui origine, non il senso, sta forse nello Spartacus (1960) di Kubrick. Altri esempi di neomedievalismo e storia potenziale miscelata al fantasy non mancano tra Camelot (STARZ 2011, ideato da Michael Hirst, Chris Chibnal e altri), una rivisitazione del ciclo arturiano in chiave postmodern di violenza nella lotta per il potere e sesso esplicito, e The white queen (2013), ideato da Philippa Gregory, Emma Frost, Malcolm Campbell per STARZ e BBC, sulla guerra delle Due rose, trattata con tutta la durezza del caso. Sesso, ancora, e violenza compongono il tema della lotta per il potere in The Tudors (Showtime 2008, sceneggiato e ideato da Michael Hirst). In tutti questi serial la storia diventa fantasy e il fantasy storia potenziale. Un paradigma – sesso e violenza hard core esclusi, ma non la lotta per il potere, anzi il senso stesso di quella lotta che in una lata allegoria rinvia agli anni della Seconda guerra mondiale – parrebbe essere il J.R.R. Tolkien di The lord of the rings (1954-55) e The Hobbit (1937), adattati entrambi nelle due trilogie cinematografiche di Peter Jackson (2001-2003, 2012-2014). Lord of the rings è in un certo qual modo il modello anche di Star wars, la serie cinematografica creata da George Lucas (le due trilogie 1977-1983 e 1999-2005) non ancora esaurita. Pare questo il nuovo genere, quello seriale, nell’intrecciarsi di diverse vicende, con plots e subplots, che coinvolgono personaggi umani e non umani, d’alta o infima posizione sociale, e ambientate spesso nell’alta politica, in un’antichità, o un Medioevo, o un Rinascimento di maniera immaginari quanto gli scenari futuri, e tutti comunque letti in un’ottica di crudo realismo, con vicende intramate per interruzioni, alternanze e riprese dei diversi fili narrativi, in una strategia che forma un gusto di massa ampliando così il proprio spazio di mercato.
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