Genocidio
La definizione del termine 'genocidio' è oltremodo problematica. Oltre a indicare un fenomeno che è oggetto di studio da parte di svariate discipline, prime tra tutte la sociologia e il diritto (ognuna delle quali privilegia accezioni diverse), il termine, nel suo uso comune, viene talvolta impiegato in contesti nei quali si carica di valenze emotive e, in certi casi, persino strumentali, che ne offuscano il senso originale. L'etimologia del termine pare abbastanza chiara, nel suo significato più immediato: il genocidio ci parla dell'uccisione, e quindi della distruzione fisica, di un γένοϚ, cioè di una stirpe o di una razza. Ma cosa si debba intendere per distruzione, quali possano essere le sue modalità, da chi tale distruzione debba essere compiuta e, soprattutto, cosa significhi γένοϚ, tutto questo è oggetto di un ampio dibattito. È necessario, quindi, in primo luogo fare un minimo di chiarezza sui possibili significati di 'genocidio', passando in rassegna alcune delle definizioni disponibili nella letteratura sociologica e giuridica. Successivamente si prenderanno in esame le più importanti tipologie di genocidio e si individueranno alcuni casi storici particolarmente rilevanti. Ciò fatto, si cercherà di fornire una spiegazione del genocidio come fenomeno sociale, analizzando le teorie più accreditate. Infine si illustrerà il tentativo compiuto dal diritto internazionale di prevenire e reprimere il genocidio.
La creazione del termine 'genocidio' è relativamente recente, essendo legata alla persecuzione degli Ebrei da parte della Germania nazista nel corso della seconda guerra mondiale. Fu il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin a coniare la parola in uno studio pubblicato nel 1944, dal quale emerge una concezione di genocidio destinata a essere oggetto di interpretazioni contrastanti. Secondo alcuni, infatti, Lemkin voleva limitare la sua definizione ai gruppi etnici, nazionali, razziali e religiosi che fossero oggetto di una distruzione fisica pianificata (v. Fein, 1993, pp. 812). Per altri, invece, la concezione di Lemkin giungeva a comprendere anche la distruzione delle istituzioni politiche e sociali di un gruppo, della sua cultura, della sua lingua, della sua religione, dei suoi mezzi di sostentamento economico, nonché i casi di persecuzione che non portassero direttamente alla distruzione fisica del gruppo ma che minassero, più semplicemente, la libertà, la dignità e la sicurezza personale dei suoi membri, contribuendo così al suo indebolimento (v. Chalk e Jonassohn, 1990, pp. 8-10).
Se a Lemkin va il merito di essere stato il primo a impiegare questo nuovo termine e di avere richiamato l'attenzione sugli eventi da esso indicati, il suo contributo in sede definitoria è dunque assai controverso. Nel 1948, con la Convenzione sul genocidio redatta dalle Nazioni Unite, assistiamo a un tentativo più rigoroso di definire il fenomeno in esame. Delle caratteristiche della Convenzione e delle sue implicazioni diremo dopo (v. cap. 5); per il momento limitiamoci a ricordare la definizione in essa adottata all'articolo II: "Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) adozione di misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro" (v. Barsotti, 1981, pp. 234-236).
Quasi tutti gli studiosi che hanno affrontato il tema del genocidio dal punto di vista storico-sociologico si sono confrontati con questa definizione, o accettandola, pur esprimendo riserve e suggerendo modifiche (v. Kuper, 1981; v. Porter, 1982; v. Bauer, 1984; v. Harff e Gurr, 1987), o criticandola e proponendo quindi revisioni sostanziali. Procediamo con ordine, scomponendo il problema della definizione nei suoi termini più semplici.
1. Chi compie un genocidio? Nella maggior parte dei casi, in epoca moderna e contemporanea, l'annientamento di un gruppo può essere portato a compimento solo con la partecipazione attiva - o quantomeno con la complicità o la tolleranza - dello Stato. Su questo punto vi è una sostanziale unanimità di vedute: il genocidio viene quasi sempre considerato un 'crimine di Stato', perpetrato, cioè, direttamente o indirettamente dall'autorità politica centrale.
2. In che cosa consiste il genocidio? Qui la gamma delle risposte possibili nella letteratura specializzata è molto più ampia: si va dallo sterminio fisico dei membri di un gruppo, alla distruzione della loro cultura (nota, più propriamente, come 'etnocidio') e, infine, alla semplice persecuzione. Etnocidio e persecuzione, in realtà, sono categorie a sé stanti, che non devono essere confuse con il genocidio. Domandiamoci, piuttosto, che cosa si debba intendere per distruzione fisica di un gruppo. Mentre vi è chi si riferisce all'uccisione diretta dei membri di un gruppo (v. Chalk e Jonassohn, 1990, p. 23), vi è anche chi, invece, sostiene che occorre considerare anche altre forme di distruzione biologica intenzionale (v. Fein, 1993, pp. 13 e 24), come del resto è previsto nella definizione della Convenzione.
3.Come deve avvenire la distruzione, diretta o indiretta, di un gruppo? In parte abbiamo già risposto a questa domanda: la distruzione deve essere intenzionale, deliberata. Si può aggiungere che essa deve anche essere volta, in linea di principio, a eliminare completamente, nella sua totalità, il gruppo in questione, e a farlo in modo sistematico e continuativo. Per questo gli attacchi isolati a un gruppo, come i pogrom contro gli Ebrei, non dovrebbero essere considerati genocidio. In questa sede deve essere affrontato brevemente anche il rapporto tra guerra e genocidio. Di solito si tende a non considerare genocidio le stragi di civili che, in diverse epoche, hanno spesso accompagnato la guerra. Ma vi è anche chi, pur con le dovute cautele, considera il bombardamento di Dresda nel corso della seconda guerra mondiale, l'uso delle armi atomiche contro il Giappone nel 1945 e la condotta americana in Vietnam assimilabili al genocidio (v. Kuper, 1981, pp. 17, 34-35, 91-92; v. Dadrian, 1975). Ora, se è indubbio che in guerra possono verificarsi eccidi di civili, è bene comunque ricordare che nei casi citati mancava la volontà di distruggere un gruppo nella sua totalità. Inoltre, come nota Helen Fein (v. 1993, pp. 20-23), la resa, in guerra, comporta di norma la fine del massacro, il che non avviene nel caso del genocidio.
4. Quali sono i gruppi oggetto di genocidio? Questo è probabilmente il problema centrale della definizione. Infatti il limite maggiore rimproverato all'articolo II della Convenzione è di non aver deliberatamente preso in considerazione i gruppi politici, sottraendo così alla categoria genocidio tutta una serie di casi che a essa, invece, andrebbero ricondotti. Per molti, inoltre, neppure l'inclusione dei gruppi politici sarebbe sufficiente. Così, ad esempio, Pieter Drost, in un monumentale lavoro in due volumi, sostiene che per genocidio si debba intendere "la deliberata distruzione della vita di individui a causa della loro appartenenza a qualsiasi collettività umana in quanto tale" (v. Drost, 1959, vol. II, p. 125, corsivi nostri). Su posizioni simili si trovano anche Frank Chalk e Kurt Jonassohn, i quali hanno tentato un'ambiziosa storia del genocidio definito come l'annientamento di un gruppo "nei termini in cui quel gruppo e l'appartenenza a esso sono definiti da chi commette il genocidio" (v. Chalk e Jonassohn, 1990, p. 23). Irving Horowitz adotta una prospettiva ancora più generica, e parla di genocidio come di "distruzione sistematica di innocenti" (v. Horowitz, 1980, p. 17, corsivo nostro). Vahakn Dadrian riferisce il termine alla distruzione di una minoranza (v. Dadrian, 1974, p. 123) e Fein a quella di una non meglio specificata collettività (v. Fein, 1993, p. 24).
Ci troviamo così di fronte a due questioni:
1) è lecito comprendere nella definizione di genocidio anche i gruppi politici?
2) quali sono le implicazioni di un'ulteriore estensione della definizione a qualsiasi gruppo? La tesi di chi è a favore dell'inclusione dei gruppi politici non convince del tutto. È ben vero che l'affiliazione politica "può essere permanente e immutevole come quella razziale" (v. Kuper, 1985, p. 16), una identità che può essere ereditata e trasferita di generazione in generazione (v. Fein, 1993, pp. 23-24); ma è sufficiente questo? Il problema sembra essere non tanto di affiliazioni ascrittive o elettive, quanto della modificabilità o meno di tali affiliazioni agli occhi del persecutore. Infatti, mentre l'identità politica (e religiosa) può subire modifiche anche radicali, con il che viene meno la giustificazione dell'ostilità (l'eretico, o il miscredente, che si converte ha di norma salva la vita, e lo stesso può accadere al 'nemico del popolo' se fa autocritica e viene rieducato), lo stesso non può dirsi per quanto riguarda l'identità etnica o razziale. Se è questa la causa della persecuzione, essa non può essere rimossa. L'ebreo nella Germania nazista non ha scampo, come non ha scampo l'armeno nella Turchia del 1915: a questi gruppi non è concessa una via d'uscita, non è offerta la possibilità di essere integrati e quindi di salvarsi. La causa di questa inappellabile 'chiusura' nei loro confronti è soprattutto una barriera, razziale in un caso, nazionale nell'altro, che dal persecutore viene percepita come insormontabile. È ovvio che vi sono molti casi in cui le componenti etniche, razziali e nazionali si sovrappongono a quelle politiche, ovvero casi di sterminio di massa condotti prevalentemente per motivi politici; ma è necessario chiamarli tutti 'genocidio'? Non per nulla alcuni degli stessi autori che prendono in esame questi casi hanno coniato, per loro, espressioni particolari: si parla di genocidal massacres (v. Kuper, 1981), di "massacri ideologici" (v. Fein, 1993) e, con un improbabile neologismo, di "politicidi" (v. Harff e Gurr, 1987).
Come abbiamo visto, molte delle definizioni, lungi dal limitarsi a comprendere i soli gruppi politici, si estendono fino a includere ogni gruppo. Qui il significato originale di γένοϚ è stato esteso fino a fargli comprendere "individui" (v. Drost, 1959), "minoranze" (v. Dadrian, 1974) e persino "innocenti" (v. Horowitz, 1980). Casi di genocidio, o comunque a esso assimilabili, diventano allora la persecuzione degli omosessuali e dei ritardati mentali da parte dei nazisti (v. Porter, 1982), la caccia alle streghe in Europa tra il XVI e il XVIII secolo e, via via, lo sterminio dei Templari del XIII secolo, le crociate contro gli Albigesi (1208-1226), nonché i massacri compiuti da Genghiz Khān durante le sue conquiste (v. Chalk e Jonassohn, 1990). A questo livello di generalità il termine 'genocidio' risulta talmente diluito e annacquato da perdere ogni rilevanza concettuale ed empirica e da vanificare ogni tentativo di comparazione.
L'estensione ad libitum del concetto tradisce il tentativo, tipico della seconda metà del nostro secolo, di rivendicare non tanto la protezione di un gruppo, quanto quella dei diritti individuali, e più esattamente della particolarità del singolo, la quale viene elevata a valore supremo. E quando il rispetto di questa particolarità viene messo in discussione, allora si ha la tendenza a proiettare la persecuzione individuale su un'entità collettiva, e si giunge così a parlare di genocidio. In sostanza, così facendo, si può confondere ogni caso di violazione dei 'diritti umani' e persino dei 'diritti civili' con il genocidio. Rivelatrice, al riguardo, è la posizione estrema di Israel Charny, il quale parla di un concetto "umanistico" di genocidio, che abbracci ogni caso di "assassinio gratuito sulle basi di qualsiasi identità - nazionale, etnica, razziale, religiosa, politica, geografica, ideologica" (v. Charny, 1985, p. 448).
Probabilmente è proprio questa estensione del concetto di 'genocidio' la causa ultima della grossa confusione in sede definitoria e delle difficoltà di applicazione di tale concetto - che è un concetto contemporaneo - a contesti storico-culturali antecedenti al XX secolo, cioè precedenti il riconoscimento, nei fatti, dell'importanza dei diritti individuali, almeno nel mondo occidentale.Volendo, in conclusione, giungere a una prima definizione di genocidio, possiamo attingere dall'abbondante letteratura esistente, e in particolare dalla proposta della Fein (v., 1993, p. 24), restringendo, però, drasticamente la portata del concetto per quanto riguarda i gruppi da considerare: è genocidio la distruzione fisica diretta o indiretta, compiuta attraverso azioni deliberate e protratte nel tempo, di un gruppo etnico, razziale o nazionale, a prescindere dalla sua eventuale resa.
Resta infine da prendere in esame un ultimo punto, e cioè quello relativo alle tipologie. Molti dei tentativi di distinguere tra genocidi si basano sui fini che ci si proponeva di raggiungere per mezzo dello sterminio di un gruppo. Nella maggior parte dei casi tali tipologie presentano problemi di tipo metodologico, in quanto difficilmente le classificazioni che ne stanno alla base si fondano su di un solo criterio di distinzione e quasi mai sono esaustive ed esclusive. Se aggiungiamo che spesso si muove da una definizione quanto mai ampia di genocidio, si capisce come alla fine ci si trovi frequentemente di fronte più che a classificazioni e tipologie rigorose a una semplice casistica, spesso confusa.
Tipici al riguardo sono il lavoro di Dadrian (v., 1975) - il quale include casi di genocidio sia intenzionale che non intenzionale e considera non solo il genocidio ma anche l'etnocidio - e quello di Leo Kuper (v., 1981) - il quale confonde i ruoli sociali dei gruppi con il contesto situazionale in cui il genocidio ha luogo.Comunque, mettendo insieme vari contributi, possiamo individuare i più importanti tipi di genocidio.
1. Il genocidio 'punitivo'. Si tratta di un genocidio compiuto per vendetta: Roger Smith (v., 1987) cita, come esempio, i massacri effettuati da Genghiz Khān nel corso delle sue conquiste. Alcuni autori chiamano genocidio punitivo anche l'eliminazione cruenta di un gruppo avversario percepito come una minaccia (v. Fein, 1984). Dato, però, che questo tipo di genocidio deriva da un evento qualificabile come 'lotta per il potere tra gruppi', verrà qui considerato, ai nostri fini, come assimilabile al tipo 'monopolistico' o 'dispotico', di cui diremo tra breve.
2. Il genocidio 'istituzionale'. Questo tipo di genocidio è legato alle conquiste territoriali nel mondo antico e medievale (v. Smith, 1987) ed è compiuto tanto per eliminare nemici pericolosi quanto per terrorizzare altri gruppi (v. Chalk e Jonassohn, 1990).
3. Il genocidio 'utilitaristico'. In questo genere di genocidio, detto utilitaristico in quanto volto allo sfruttamento di certe risorse economiche (v. Fein, 1984; v. Smith, 1987; v. Chalk e Jonassohn, 1990), rientrano l'eliminazione di popolazioni indigene avvenuta nel corso del processo di colonizzazione e la scomparsa di gruppi etnici e razziali che ha accompagnato il processo di modernizzazione, soprattutto in America Latina, nel secondo dopoguerra.
4. Il genocidio 'monopolistico' o 'dispotico'. È il genocidio dettato dall'esigenza di un gruppo di rafforzare il proprio potere sterminando gruppi rivali. Casi di questo tipo di genocidio si sono verificati soprattutto in alcuni Stati multietnici del Terzo Mondo (v. Smith, 1987; v. Fein, 1984).
5. Il genocidio 'ideologico'. È quello perpetrato in nome di certi miti o valori fatti propri da uno Stato, nel tentativo di riformare profondamente la società (v. Fein, 1984; v. Smith, 1987; v. Chalk e Jonassohn, 1990).
A questo tipo vengono ricondotti il genocidio degli Armeni, quello degli Ebrei e quelli di vari gruppi perseguitati ed eliminati da regimi comunisti quali l'Unione Sovietica staliniana e la Cambogia di Pol Pot.
Questi tentativi ordinatori presentano numerosi problemi. Tanto per cominciare, se si richiede l'intenzionalità, ben pochi dei tipi di genocidio citati possono essere considerati tali a pieno titolo: quello 'istituzionale', infatti, è una sorta di genocidio colposo, e lo stesso vale per molti esempi di tipo 'utilitaristico'. Certamente caratterizzato da intenzionalità è, per contro, il genocidio 'ideologico'. Infine il genocidio 'punitivo' e quello 'monopolistico' sono diretti, nella maggior parte dei casi, contro gruppi politici o etnico-politici: casi spuri, dunque, e di incerta classificazione.
La maggior parte dei tipi di genocidio qui elencati va inquadrata, secondo gli autori, nel contesto storico-sociale legato ai processi di formazione e consolidamento degli Imperi prima e degli Stati-nazione poi. Le vittime sono state sempre gruppi collocati all'esterno dello Stato che commetteva il genocidio, nel primo caso, al suo interno, nel secondo, con la notevole eccezione del genocidio degli Ebrei. Inoltre, mentre la necessità di far fronte a un nemico esterno o di terrorizzare potenziali avversari è stata comune tanto agli Imperi quanto agli Stati-nazione, il genocidio di tipo 'utilitaristico' sarebbe esclusiva dei primi e quello 'ideologico' dei secondi.
Dei moltissimi casi di genocidio vero o presunto discussi dalla letteratura ne ricorderemo qui pochi ma significativi, dedicando maggiore spazio ai genocidi contemporanei.I genocidi di tipo 'punitivo', 'istituzionale' e 'utilitaristico' appartengono a un passato in certi casi molto remoto. Inoltre, come si è osservato, per i primi due tipi si può persino mettere in dubbio che ci si trovi effettivamente di fronte a casi di genocidio: infatti, dato che si tratta spesso di eccidi avvenuti nel corso di operazioni belliche, dovremmo allora chiamare 'genocidi' tutte o quasi le atrocità che hanno accompagnato - e che continuano ad accompagnare - la guerra; il che è perlomeno discutibile. Di maggiore interesse è, casomai, il genocidio 'utilitaristico', specialmente quello legato alla colonizzazione bianca di territori extraeuropei. Al riguardo si nota spesso il drastico declino demografico delle popolazioni indigene venute a contatto con i colonizzatori, in particolare nelle Americhe, in certe zone dell'Africa e nell'Oceania. Ma, con alcune eccezioni come la Tasmania nella prima metà del XIX secolo (v. Morris, 1972) e l'Africa sudoccidentale tra il 1904 e il 1907 (v. Poewe, 1985), i cui indigeni furono effettivamente oggetto di sterminio intenzionale da parte dei colonizzatori, la virtuale scomparsa di queste popolazioni può essere in realtà fatta risalire a un insieme di cause che con il genocidio così come lo abbiamo definito hanno poco a che vedere: la diffusione di malattie importate dai colonizzatori, nei confronti delle quali le popolazioni locali si trovarono del tutto indifese, la distruzione delle economie indigene, fossero esse basate sull'agricoltura o sulla caccia, un generale decadimento culturale e morale, dovuto all'asservimento e alla diffusione massiccia, tra gli Indiani d'America, dell'alcolismo (v. Fein, 1993, p. 79).
Ai casi appena visti, ovviamente, vanno aggiunti i casi di sterminio sistematico di certe tribù e di determinati ceppi etnici, e sono proprio questi che portano alcuni studiosi a parlare non tanto di genocidio quanto di genocidal massacre, cioè di un fenomeno che si avvicina al genocidio senza però poter essere qualificato come tale. Così, se è certo che i vari colonizzatori delle Americhe e dell'Australia non avevano il deliberato obiettivo di sterminare gli indigeni, è altrettanto certo che gli Spagnoli trattarono con estrema durezza le popolazioni sottomesse, che i Francesi furono responsabili dell'annientamento degli Uroni e dei Natchez (v. Eccles, 1972, pp. 46-47), che i puritani inglesi sterminarono i Pequots (v. Nash, 1982², pp. 74-86) e che gli Inglesi in Australia furono autori di violenze su larga scala ai danni degli aborigeni per occupare le terre migliori (v. Barta, 1992).
Osservazioni sostanzialmente simili valgono anche a proposito dei rapporti tra Stati Uniti e Indiani nel corso del XIX secolo (v. Thornton, 1987). Anche qui il drastico declino demografico indiano fu il risultato di molti fattori concomitanti, primo tra tutti le epidemie. E anche qui, se non è possibile sostenere che il governo federale fosse intenzionato a eliminare gli Indiani, è d'altro canto noto che la politica di assimilazione forzata - un chiaro esempio di etnocidio, casomai - da esso perseguita favorì il declino demografico indigeno e che quando tale politica incontrava resistenza si rispondeva di solito o con la forza tout court o in modo comunque molto duro: deportazioni, distruzione dei bufali e divieto di caccia all'esterno delle riserve, tolleranza nei confronti dei massacri compiuti dai coloni (v. Chalk e Jonassohn, 1990, pp. 196-201). Infine casi concettualmente simili possono essere riscontrati oggi in certe zone dell'America del Sud: più in particolare, negli anni settanta il governo brasiliano e quello paraguaiano sono stati sospettati di complicità e corresponsabilità nella virtuale sparizione, rispettivamente, degli Indiani del bacino amazzonico e degli Aché (v. Kuper, 1981, pp. 33-34).
Ben più diffuso sarebbe stato, nei passati decenni, il tipo di genocidio chiamato 'monopolistico' o 'dispotico' (e da alcuni - fra cui la Fein - 'punitivo': v. cap. 2), quello, cioè, perpetrato da gruppi etnici, politici e religiosi tesi a consolidare il proprio potere all'interno di uno Stato multietnico di nuova costituzione, spesso all'indomani della decolonizzazione. Si vogliono far rientrare in questo tipo di genocidio le stragi occorse in Burundi, soprattutto nel 1972, quando l'élite Tutsi, temendo di essere spodestata dalla maggioranza Hutu, si rese responsabile del massacro di più di centomila persone. Vengono poi inclusi in questo tipo casi discutibili di genocidio, spesso massacri, talvolta condotti da ambo le parti, nel corso di guerre civili e di secessione. Teatri di queste stragi sono stati, tra gli altri, il Pakistan orientale nel 1971, il Sudan tra il 1955 e il 1972, la Nigeria alla fine degli anni sessanta, il Libano dal 1975 agli anni ottanta (v. Chalk e Jonassohn, 1990, pp. 384-397; v. Kuper, 1981, pp. 57-83).Infine resta da esaminare il genocidio 'ideologico'. Esso è tipico del XX secolo, a meno di non voler compiere la forzatura di considerare genocidio anche le crociate e le guerre di religione. Il primo caso da ricordare, e sul quale esiste unanimità di vedute e di giudizi, è senza dubbio il genocidio compiuto dai Turchi ai danni degli Armeni nel 1915 (v. Hovannisian, 1986). Da sempre parte dell'Impero ottomano, gli Armeni avevano conosciuto un risveglio culturale e nazionale nel corso del XIX secolo, chiedendo in più occasioni a Costantinopoli riforme che li mettessero al riparo dai soprusi amministrativi e dallo sfruttamento economico e che garantissero loro un certo grado di autonomia.
Nel luglio del 1908 i Giovani Turchi, rivoluzionari nazionalisti sostenuti dai ceti medi e da alcune minoranze nazionali oppresse, inclusi gli Armeni, iniziarono il processo di trasformazione del regime turco in senso parlamentare e costituzionale. Determinati a por fine alla decadenza del vecchio Impero ottomano e a modernizzare il paese, nel giro di pochi anni, e soprattutto dopo il 1913, molti dei Giovani Turchi abbracciarono un'ideologia radicalmente nazionalista, il 'turchismo', la quale, tra l'altro, si poneva come obiettivo la trasformazione dell'eterogeneo Impero ottomano in uno Stato-nazione omogeneo che ricalcasse il modello occidentale europeo. Il senso di minaccia esterna, suscitato dalle mire delle potenze europee sui territori imperiali, fu ulteriormente rafforzato dalla partecipazione al conflitto mondiale a fianco degli Imperi centrali: i rovesci militari patiti nel corso della campagna del Caucaso e gli sbarchi alleati a Gallipoli, nella primavera del 1915, furono probabilmente la molla che fece scattare il genocidio. Gli Armeni, i quali, dal canto loro, non avevano nascosto la loro opposizione alla guerra, vennero accusati di tradimento e divennero immediatamente oggetto di arresti, massacri e, soprattutto, deportazioni nei deserti della Siria e della Mesopotamia. Le stime del numero delle vittime variano in modo considerevole: su una popolazione che, nel 1915, oscillava tra poco più di un milione e poco più di due milioni di persone si calcola vi siano stati da seicentomila morti, entro la primavera del 1916 (v. Toynbee, 1916, p. 651), fino a un milione circa, se si considerano anche le vittime di tre grossi massacri avvenuti successivamente e quelle per indigenza, malattia, fame (v. Lepsius, 1916). Da ricordare, infine, che il governo turco ha sempre respinto l'accusa di genocidio, negando i fatti contestatigli (v. Smith, 1991).
Sul genocidio degli Ebrei, noto anche come 'Olocausto', esiste una letteratura ricchissima (v. Chalk e Jonassohn, 1990, pp. 440-442; v. Fein, 1993, pp. 57-60): si tratta del caso più studiato in assoluto. Le radici prevalentemente ideologiche dello sterminio degli Ebrei possono essere ricercate nelle dottrine razziste naziste, le quali sottolineavano la superiorità della razza 'ariana' sulle altre razze e i pericoli che la prima avrebbe incontrato nella contaminazione con le seconde, in particolare con quella ebraica. Subito dopo la presa del potere i nazisti promulgarono una serie di leggi volte a escludere i non ariani dalla pubblica amministrazione e da molte libere professioni. Il criterio di selezione fu la religione dei nonni: se, cioè, un individuo avesse avuto almeno tre nonni ebrei, egli sarebbe stato definito ebreo a sua volta, a prescindere dalla sua religione. Nel caso di due nonni ebrei, la sua appartenenza alla razza ebraica sarebbe stata determinata dalla sua religione o dalla razza del coniuge. La religione, quindi, aveva solo il carattere di indicatore di appartenenza razziale e non costituiva, in sé, motivo di persecuzione. All'inizio, individuato così il bersaglio, le vessazioni furono soprattutto economiche. Alla fine del 1938 iniziò un processo sistematico di isolamento e segregazione della comunità ebraica. Con lo scoppio della guerra, l'occupazione della Polonia e, pochi mesi più tardi, di Belgio, Olanda e Francia, i nazisti si trovarono di fronte al problema di cosa fare dei milioni di Ebrei che si erano venuti a trovare sotto la loro giurisdizione. Sino ad allora la fuga o l'espulsione erano state alternative plausibili e praticate. Ma ora, con la guerra e l'alto numero di Ebrei, tutto ciò diventava molto più complicato. Sino alla fine del 1940 alcuni circoli del Ministero degli Esteri tedesco avevano accarezzato l'idea di deportazioni massicce in Madagascar, ma il piano presentava ovviamente molte difficoltà.
Fu nel corso dell'invasione dell'Unione Sovietica, nell'estate del 1941, che si registrarono i primi grossi massacri nei territori conquistati, ed è allora che iniziò la 'soluzione finale' del problema ebraico, con la costruzione di campi di concentramento e campi di sterminio, verso i quali furono convogliati milioni di Ebrei, soprattutto dall'est ma, in misura minore, anche dall'ovest. Più in particolare si calcola che la comunità ebraica polacca abbia perso così la quasi totalità dei suoi membri, circa tre milioni di persone, e quella sovietica, compresi i paesi baltici, circa un milione. Complessivamente il numero totale delle vittime fu di poco superiore ai cinque milioni (v. Hilberg, 1980, p. 102).Sull'interpretazione generale dei fatti si confrontano due scuole, quella 'intenzionalista' e quella 'funzionalista'. Secondo la prima, dominante, l'Olocausto non fu altro che la messa in opera di un piano ben chiaro fin dall'inizio nella mente di Hitler (v. Hilberg, 1985³); invece per la seconda, che pur riconosce la responsabilità ideologica di Hitler, esso fu il risultato graduale e cumulativo di un processo burocratico molto composito portato avanti da gruppi e personalità in competizione tra loro, senza, quindi, direttive centralizzate e senza un piano prestabilito (v. Mommsen, 1986).Restano da considerare brevemente, in quanto spesso considerate esempi di genocidio ideologico, le stragi verificatesi nell'Unione Sovietica staliniana e nella Cambogia di Pol Pot. Gli eccidi in questione non rientrano a pieno titolo nella nostra definizione, in quanto condotti prevalentemente contro avversari e gruppi politici. I massacri compiuti dai Khmer rossi tra il 1975 e il 1978 costituiscono senza dubbio il caso più grave di sterminio di natura ideologico-politica del dopoguerra. Da uno a due milioni di cambogiani appartenenti ai ceti urbani vennero uccisi dal proprio governo (giustiziati o fatti morire di stenti) nel tentativo di creare una nuova società egalitaria, rurale, e priva di classi sociali (v. Kiernan, 1986).
Nel caso sovietico, invece, le vittime del terrore staliniano si aggirano attorno ai venti milioni (v. Maier, 1988, p. 74) e comprendono i gruppi più disparati, come la borghesia, i piccoli proprietari terrieri (i kulaki, per i quali si parla di sei milioni e mezzo di morti), vari gruppi nazionali, nonché le vittime delle ripetute purghe all'interno del partito e dell'esercito. Tra tutti questi casi, quello che più si avvicina al genocidio, e che è anche il meglio documentato, è probabilmente quello della carestia indotta in Ucraina nel 1933 con l'intento di schiacciare il nazionalismo locale, che provocò circa cinque milioni di morti.Una precisazione, per quanto scontata, si impone. Mettere in dubbio la qualifica di genocidio nel caso dei massacri staliniani e di quelli dei Khmer rossi non significa certo ridimensionare la portata di tali crimini, limitare la loro condanna morale, o negare simpatia e compassione alle loro vittime. Più semplicemente si tratta di cercare di mantenere un certo rigore analitico, riservando un termine specifico a casi specifici.
In sede di spiegazione più approfondita del fenomeno genocidio è necessario considerare due gruppi di teorie, definite rispettivamente 'strutturali' e 'sociopsicologiche'. Le prime fanno riferimento soprattutto alle condizioni ambientali, legate, cioè, al contesto politico-sociale, prevalentemente interno, ma anche internazionale, in cui il genocidio ha di solito luogo; le seconde, invece, hanno l'ambizione di ricostruire i meccanismi mentali dei persecutori, facendo talvolta uso di concetti mutuati dalla psicanalisi.Cominciamo da queste ultime.
Anche in questo caso la maggior parte degli studi a disposizione verte sull'Olocausto. Charny (v., 1982) trae ispirazione dalla dicotomia freudiana tra Eros e Thanatos per ipotizzare che è la paura della morte che spinge il genocida a sacrificare gli altri, e Robert Lifton (v., 1986) parla del genocidio come di una malattia mentale collettiva che affonda le sue radici in cupe visioni di morte. Entrambi assumono il timore della morte come uno dei fattori dominanti dell'immaginario collettivo nazista, con la conseguente identificazione degli Ebrei come 'portatori di morte' e quindi intrinsecamente malvagi. Erwin Staub (v., 1989) combina elementi strutturali ("precarie condizioni di vita") con elementi psicologici individuali, quali la "personalità autoritaria"; infine Norman Cohn (v., 1967) sottolinea come le idee millenaristiche e messianiche, fatte di fantasie apocalittiche di salvezza, siano seriamente indiziate di legittimare lo sterminio di chi viene visto come un ostacolo a questa purificazione collettiva.
Tra gli esponenti delle teorie dette 'strutturali' occorre ricordare Kuper e il suo concetto di 'società plurali', società, cioè, caratterizzate da fratture persistenti e diffuse tra i settori che le compongono (v. Kuper, 1981, p. 57). Le 'società plurali' sono a rischio di genocidio (anche se Kuper sta bene attento a non scivolare verso una posizione deterministica, ponendo in evidenza che si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente), e lo sono in modo particolare quando le differenze etniche, razziali o religiose si manifestano contemporaneamente nelle sfere politica, economica e sociale. Nella sua forma estrema la 'società plurale' è caratterizzata da una sovrapposizione di disuguaglianze le quali aggregano la popolazione in segmenti distinti, facilitando così crimini contro collettività identificabili. Il processo di colonizzazione, ad esempio, sarebbe stato un elemento cruciale nella creazione di molte 'società plurali' nel Terzo Mondo, e quindi nella determinazione dei genocidi che avrebbero accompagnato la decolonizzazione (ibid., pp. 60-81).
Ma prima ancora dell'esistenza o meno di una 'società plurale', Kuper considera vera e propria precondizione del genocidio la presenza di una ideologia che legittimi lo sterminio di un gruppo (ibid., pp. 84-91). L'ideologia svolge l'importante funzione di disumanizzare le vittime agli occhi dei carnefici. Nel momento in cui si nega a un gruppo il riconoscimento dello status umano si stabilisce anche la sua esclusione dal resto della collettività, e tutti i suoi membri diventano potenziali vittime per il semplice fatto di appartenervi. Anche H. Fein svolge riflessioni simili, parlando di una "esclusione delle vittime dall'universo dell'obbligazione" come condizione necessaria (ma non sufficiente) per il genocidio (v. Fein, 1979, pp. 4 e 9).
Altri studi elencano serie più articolate di condizioni che favoriscono il genocidio. Si tratta di rassegne molto ampie, che spesso si limitano alla mera descrizione di realtà complesse e variegate, senza cercare di porre in relazione tra loro le molte variabili individuate (v. Porter, 1982; v. Mazian, 1990). Anche se vi è chi sostiene che l'Olocausto sia stato un fenomeno unico, e perciò non paragonabile ad altri genocidi (v. Rosenberg, 1992), in realtà la sua comparazione con il genocidio armeno permette di gettare luce sulla dinamica di due fenomeni che hanno molti punti in comune. In entrambi i casi, infatti, ci troviamo di fronte a una minoranza tollerata, la quale si è adattata con successo al processo di modernizzazione. Tale minoranza viene poi identificata come ostile da larghi settori della società e dello Stato, alle prese con problemi molto seri di ristrutturazione interna e di instabilità esterna. È questa convergenza di fattori interni ed esterni che facilita l'affermarsi di una ideologia che in qualche modo collega la crisi dello Stato ai comportamenti, e poi all'esistenza stessa, di questa minoranza, infine vista come un pericolo permanente.
La guerra non fa che rafforzare il senso della minaccia, e, in grazia dell'isolamento e della chiusura nei confronti di interferenze esterne, favorisce l'adozione di misure che difficilmente sarebbero prese altrimenti (v. Melson, 1990; v. Harff, 1986).
Le teorie 'strutturali' e quelle 'psicologiche' non sono necessariamente in competizione, dato che le seconde possono essere viste come un completamento dell'analisi macrosociale svolta dalle prime. Inoltre i due gruppi di teorie hanno in comune almeno un tema che merita di essere oggetto di una più approfondita riflessione, vale a dire quello della minaccia percepita da chi commette il genocidio (v. Chalk e Jonassohn, 1990, p. 29; v. Harff, 1986, p. 182). Questo è infatti un elemento sempre presente, dal quale non si può prescindere se si vuole capire la dinamica dei fatti. Si badi: insistere sulla minaccia, e quindi sulla sicurezza, come fattore esplicativo del genocidio non significa fornirne una giustificazione, ma solo capire meglio come si giunga a comportarsi in un certo modo. Sostenere che la minaccia non esiste, è fittizia, o è una razionalizzazione di altre esigenze, per contro, significa sottovalutare il ruolo del timore tanto a livello individuale e psicologico quanto a livello collettivo, politico e sociale. In altre parole, a nessuno verrebbe in mente oggi di sostenere seriamente che gli Ebrei costituissero una minaccia oggettiva per il Terzo Reich. Ma il punto non è questo: è, piuttosto, che i nazisti erano fermamente convinti che gli Ebrei rappresentassero una minaccia intollerabile per il tipo di società e di nazione che essi volevano costruire.
La percezione della minaccia può essere vista in molti casi come una funzione dell'ideologia, ma essa è altrettanto spiegabile anche facendo riferimento a eventi tangibilissimi. Si è detto dei rovesci militari turchi nell'immediata vigilia del genocidio armeno. Nel caso della Germania, com'è noto, si è poi avanzata l'ipotesi, anche se controversa, che le stragi naziste costituissero una sorta di risposta alle stragi 'asiatiche' compiute poche decine di chilometri a est dai bolscevichi (v. Nolte, 1987, e, per il dibattito su Nolte, v. Rusconi, 1987). In conclusione 'minaccia', in questo contesto, ha un significato molto ampio, in quanto si riferisce a tutti quegli elementi che ostacolano il perseguimento di certi obiettivi ritenuti vitali, siano essi l'accaparramento di terre e risorse naturali in una situazione in cui l'esistenza è precaria e l'ambiente ostile, come nel caso del genocidio 'utilitaristico', o il raggiungimento di una purezza razziale da cui si crede che dipenda la stessa sopravvivenza di una nazione.
Gli eccidi nazisti non portarono solo alla creazione di un termine nuovo con il quale identificarli e denunciarli, ma anche alla volontà di sanzionarli e reprimerli per mezzo di norme giuridiche convenzionali. Già nell'agosto del 1945 le potenze vincitrici, con la Dichiarazione di Mosca, avevano indicato tre tipi di crimini che cadevano sotto la giurisdizione del tribunale militare internazionale di Norimberga: i crimini di guerra, i crimini contro la pace e i crimini contro l'umanità. I primi non costituivano una nuova categoria, al contrario degli altri, ai quali andava ricondotto anche il genocidio. L'11 dicembre 1946, poi, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approvava la Risoluzione 96-I nella quale il genocidio veniva riconosciuto crimine contro il diritto delle genti, che quindi, come tale, andava punito. La stessa Risoluzione incaricava il Consiglio economico e sociale di redigere una Convenzione sulla prevenzione e repressione del genocidio, la quale veniva approvata di lì a due anni, il 9 dicembre 1948.I lavori preparatori furono caratterizzati da un vivace dibattito sul tipo di gruppi da comprendere nella definizione di genocidio, sulla questione dell'intenzionalità, sull'inclusione dell'etnocidio, sulla misura della distruzione necessaria perché fosse lecito parlare di genocidio e sul problema dell'applicazione della Convenzione e delle sanzioni (v. Kuper, 1981, pp. 19-39).La maggiore opposizione all'estensione della Convenzione ai gruppi politici venne dall'Unione Sovietica, con argomenti di tipo sia etimologico che ideologico (il genocidio sarebbe stato un crimine tipico soltanto del nazifascismo); altre obiezioni sottolineavano la problematica identificazione dei gruppi politici. Chi, per contro, proponeva la loro inclusione, faceva notare che altrimenti si sarebbe potuta fornire una copertura all'eliminazione di gruppi che potevano essere definiti politici, anche senza che lo fossero, al fine di evitare sanzioni.
Occorre ricordare, comunque, che vi era anche un timore generalizzato che l'inclusione dei gruppi politici avrebbe esposto i firmatari a una sgradita interferenza esterna. L'argomento decisivo a favore della soluzione restrittiva fu soprattutto l'eventualità che molti non avrebbero altrimenti ratificato la Convenzione. Gli stessi Stati Uniti, del resto, non lo hanno fatto se non nel febbraio 1986.Il testo finale della Convenzione è articolato in tre parti. La prima è dedicata alla definizione del genocidio (art. II; v. cap. 2), agli atti diretti a commettere un genocidio - il genocidio vero e proprio, l'intesa per commetterlo, l'istigazione, pubblica e diretta, il tentativo di genocidio, e la complicità (art. III) - e all'identificazione dei responsabili - governanti, funzionari e individui (art. IV). La seconda parte prevede una serie di misure volte alla repressione: i contraenti devono emanare leggi all'interno dei rispettivi ordinamenti per attuare la Convenzione, e le pene previste devono essere "efficaci" (art. V); gli accusati possono essere processati o da tribunali nazionali o da un tribunale penale internazionale (art. VI); il genocidio non può essere considerato reato politico ai fini dell'estradizione (art. VII); infine, dato che è probabile che sia lo Stato stesso responsabile del genocidio, nel qual caso sarebbe irrealistico aspettarsi azioni di prevenzione, repressione e punizione, le parti contraenti, ovvero gli altri Stati (e non, quindi, individui o associazioni) possono adire gli "organi competenti" delle Nazioni Unite (art. VIII). Spetta alla Corte internazionale di giustizia la risoluzione delle dispute tra Stati contraenti riguardo all'interpretazione, all'applicazione o all'esecuzione della Convenzione (art. IX). La terza parte, poi, è dedicata a una serie di clausole finali (artt. X-XIX).
Tra i limiti della Convenzione di solito lamentati, a prescindere dai problemi di interpretazione di varie parti del testo (v. Barsotti, 1981, pp. 224-225) e dalla già vista esclusione dei gruppi politici, si ricordano anche l'esclusione dei gruppi culturali, la richiesta dell'intenzionalità e, soprattutto, l'inefficienza dei meccanismi di garanzia. Riguardo a quest'ultimo punto si nota come sia difficoltoso tanto accusare uno Stato di genocidio quanto giudicarlo e punirlo. Infatti, a meno che il genocidio non sia perpetrato malgrado la volontà statale, nel qual caso esso potrebbe effettivamente essere perseguito all'interno dell'ordinamento giudiziario nazionale, negli altri casi è probabile che esso rimanga impunito: un tribunale penale internazionale non è mai stato creato, gli "organi competenti" delle Nazioni Unite possono intervenire solo nei limiti dei loro poteri (per esempio un'azione militare è possibile solo se il genocidio costituisce una minaccia alla pace o un atto di aggressione, e se i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza sono d'accordo) e la Corte internazionale di giustizia non ha i mezzi per imporre una sua eventuale condanna con strumenti coercitivi (v. Cassese, 1988, pp. 117-118).
D'altro canto, subordinare la redazione e l'entrata in vigore della Convenzione alla creazione di un tribunale penale internazionale, oltre che essere irrealistico, avrebbe procrastinato sine die l'adozione di un testo che, pur nei suoi limiti, costituisce l'unico strumento giuridico di difesa nei confronti del genocidio. Inoltre, dal 1948 in poi, si è progressivamente affermata una norma consuetudinaria che vieta il genocidio, la quale è diventata parte del diritto imperativo, vincola anche le parti non contraenti e può essere invocata da tutti gli Stati (v. Barsotti, 1981, pp. 227-229). Un ulteriore sviluppo verso il quale la comunità giuridica internazionale pare orientata è quello di considerare il genocidio un crimine internazionale, e come tale oggetto di sanzioni, individuali e collettive (ma non implicanti l'uso della forza), da parte degli altri Stati (v. Cassese, 1988, pp. 118-120).
Malgrado questi sviluppi normativi, comunque, sul piano fattuale il bilancio è assai modesto. Nei casi di genocidio vero e presunto dal dopoguerra a oggi (molti, infatti, rientrano solo nella più vasta categoria delle violazioni dei diritti umani), a livello nazionale si sono avuti processi e condanne solo in pochissimi casi e solo quando il governo colpevole è stato sostituito, con mezzi violenti, da un altro governo (in Cambogia, per esempio). A livello internazionale, poi, le sporadiche denunce compiute da alcuni Stati non hanno trovato un'eco tanto vasta da mettere in moto i meccanismi previsti dalla Convenzione. Particolarmente significativo, ancora una volta, il caso della Cambogia. Le denunce da parte di vari Stati portarono, nel 1979, a un rapporto della Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze, il quale descriveva gli eventi in quel paese come "i più seri accaduti nel mondo dopo il nazismo". Ma né la mozione basata su questo rapporto, né una successiva, dai toni molto più moderati, vennero mai discusse dall'Assemblea. Inoltre, dopo l'invasione vietnamita della Cambogia, era difficile stabilire se la denuncia sovietica del genocidio compiuto da Pol Pot fosse ispirata da pietà per le vittime dei Khmer rossi oppure dall'intenzione di sostenere l'alleato vietnamita. Gli Stati Uniti, dal canto loro, continuarono a riconoscere a lungo Pol Pot come il rappresentante cambogiano legittimo presso le Nazioni Unite, dato che l'alternativa sarebbe stata il riconoscimento del governo filo-vietnamita.
Ma le Nazioni Unite hanno lasciato a desiderare anche in altre occasioni, oscillando tra il silenzio su casi sospetti (la sparizione degli Indiani in Paraguay, alla metà degli anni settanta) e denunce generalizzate, dal sapore politico, come la vaga accusa di genocidio, senza che si specificassero gli eventuali responsabili e senza conseguenze, in occasione dei massacri avvenuti nei campi di profughi palestinesi a Sabra e Shatila nel 1982. Né, del resto, il comportamento delle Nazioni Unite può sorprendere, se si ricorda che si tratta di una organizzazione composta da Stati sovrani, ognuno dei quali è di norma fermamente deciso a far valere la propria sovranità, a cominciare dall'autonomia nella gestione degli affari interni. Quando poi, in sede di repressione del genocidio, si considera la possibilità dell'intervento da parte di Stati terzi, la difesa della sovranità acquista un'importanza ancora maggiore. La liceità dell'intervento negli affari interni di uno Stato per fini umanitari costituisce un tema molto attuale e sempre più dibattuto (v. Ronzitti, 1969, pp. 573-574; v. Harff, 1988; v. Reed e Kaysen, 1993). Su di esso si confrontano, tradizionalmente, due scuole, una che nega la legittimità di tale intervento, l'altra che invece è più possibilista. E l'argomento più forte a favore della prima è ovviamente il rischio che l'esercizio dell'intervento possa essere strumentalizzato a fini di ingerenza indebita negli affari interni di uno Stato.
(V. anche Antisemitismo; Diritti dell'uomo; Nazionalsocialismo; Razzismo; Stalinismo).
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