geografia linguistica
La geografia linguistica (o geolinguistica o anche linguistica areale o spaziale) è una disciplina che studia l’estensione nello spazio e la distribuzione geografica dei fenomeni linguistici (fonetici, morfosintattici e lessicali) nelle diverse varietà locali di un dialetto o nei vari dialetti di un gruppo linguistico. Essa inoltre illustra il complesso e articolato meccanismo delle innovazioni linguistiche mediante la ricostruzione dei contatti e delle sovrapposizioni fra tradizioni linguistiche avvicendatesi nel tempo e nello spazio in una determinata area, in relazione con le vicende storiche e le correnti culturali che l’hanno interessata.
Storicamente, la considerazione geografica dei fenomeni linguistici maturò in seguito al lento ma progressivo superamento della concezione del linguaggio come organismo a sé stante, indipendente dai parlanti e con un’evoluzione propria, in cui lo spazio fungeva da mero contenitore di lingue e dialetti. Dapprima, con la Wellentheorie («teoria delle onde») di J. Schmidt (1843-1901), venne meno il concetto di lingua unitaria e le concordanze tra lingue appartenenti a gruppi o sottogruppi geneticamente differenti furono spiegate con la propagazione nello spazio delle innovazioni linguistiche irradiate dai centri dotati di maggiore prestigio secondo onde concentriche che spesso si incrociano reciprocamente. Poi, in seno alla scuola dei neogrammatici (1875-1880), si sviluppò l’interesse per la lingua parlata e per le sue varietà dialettali e fu progettato, a opera di G. Wenker (1852-1911), il primo atlante linguistico, riguardante le varietà dialettali in Germania. In tal caso, tuttavia, i risultati ottenuti, ovvero l’andamento irregolare delle isofone (➔ isoglossa) relative ai fenomeni fonetici considerati, smentirono l’ipotesi di una corrispondenza tra classificazioni fonetiche e confini geografici e quindi, nello specifico, l’esistenza di confini definiti tra le varietà alto- e basso-tedesche. Infine, i primi studi dialettologici, con la presentazione dei materiali sotto forma di carte per delinearne la distribuzione areale, posero le basi per il futuro sviluppo della disciplina e contribuirono a sfatare l’idea dell’esistenza di sistemi linguistici unitari, non solo a livello di area linguistica e di punto, ma persino all’interno di un singolo nucleo familiare.
Con lo svizzero Jules Gilliéron (1854-1926) e con l’elaborazione, sotto la sua direzione, dell’Atlas Linguistique de la France (ALF), la geografia linguistica si trasformò, da particolare metodo di indagine della dialettologia, in branca disciplinare autonoma, con proprie basi scientifiche e metodologiche.
Infatti, sulla scorta dei dati linguistici cartografati (➔ atlanti linguistici), fu possibile in primo luogo correlare i confini dialettali a quelli geografici, politici, culturali e storici e identificare i centri diffusori di innovazioni linguistiche con quelli dotati di maggior prestigio sociale in quanto sedi del potere politico, amministrativo, religioso o di influenti e prestigiose istituzioni culturali.
In seconda istanza si arrivò a individuare le correnti di innovazione storico-culturale da essi generate in epoche diverse e a esaminare le dinamiche messe in atto per affermarsi in una determinata area. Di conseguenza, l’attenzione si spostò dai problemi di ricostruzione, classificazione e descrizione dei fenomeni linguistici propri del metodo storico-comparativo allo studio dell’innovazione linguistica e delle sue cause secondo una prospettiva nuova e rivoluzionaria.
Per Gilliéron (Gilliéron & Roques 1912), infatti, il mutamento linguistico è il risultato di una continua e incessante lotta tra l’azione esercitata dalle modificazioni fonetiche su ogni singola parola (che però possono comprometterne la vitalità e la funzionalità all’interno del sistema e quindi determinarne la scomparsa) e l’azione terapeutica messa in atto dai parlanti in seguito alla reazione psicologica provocata in essi da tali mutamenti. Tra le condizioni più frequenti all’origine delle innovazioni linguistiche si trova l’omofonia, vale a dire la coincidenza fonetica tra due termini di diverso significato. Questa spiega, ad es., l’assenza di continuatori del lat. gallus «gallo» e la sua sostituzione con continuatori del lat. pullus o con espressioni metaforiche, rispettivamente, in due aree minori contigue della Francia sud-occidentale; qui, secondo il normale esito fonetico del gruppo -ll-, la parola sarebbe risultata *gat, generando confusione tra gatto e gallo. Con il ‘logoramento fonetico’ subìto dalle parole Gilliéron spiega, invece, per es., la molteplicità dei tipi lessicali per ape nelle varietà dialettali della Francia settentrionale. In ragione dei mutamenti fonetici avutisi nel passaggio dal latino alle lingue romanze (➔ latino e italiano), l’originario termine latino ape(m) avrebbe visto il proprio corpo fonico ridotto a é: le diverse neoformazioni che si hanno nelle parlate francesi centro-settentrionali (da abeille, < lat. apicula(m), che è anche il termine francese standard, a avette, essette, mouchette lett. «mosca da miele», ecc.) rappresentano il risultato del tentativo di ridare un corpo foneticamente consistente alla parola per ape.
Infine, tra le soluzioni adottate per eliminare le incongruenze percepite dai parlanti in un dato sistema, figura anche l’adattamento, da parte dei sistemi dominati, all’azione dei centri egemonici, che si manifesta nella ‘vitalità linguistica’, ovvero nella capacità del dialetto di resistere alle pressioni esterne e, nel contempo, di trovare in esse gli strumenti per salvaguardare le proprie risorse espressive. In tale prospettiva, il punto linguistico assume una connotazione dinamica, diventando il risultato, in un dato momento storico, di adattamenti e reazioni alle varie correnti culturali e linguistiche che attraversano una determinata regione e che si scontrano in quel punto. Di conseguenza, i confini linguistici (➔ confine linguistico), non più individuati da isoglosse o fasci di isoglosse (➔ isoglossa), corrispondono alle ultime tracce, identificabili ai margini dell’area, dell’azione innovatrice di un centro egemonico.
Con Jacob Jud (1882-1952) e Karl Jaberg (1877-1958), successori di Gilliéron e ideatori e realizzatori dell’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (AIS) (➔ dialettologia italiana), in seno alla geografia linguistica si fece strada il principio, maturato nell’ambito dell’onomasiologia, che i rapporti tra i referenti, i concetti e i segni linguistici che li esprimono non siano affatto fissi e costanti, ma dipendano dalla prospettiva del parlante e vadano valutati, di volta in volta, in relazione a parametri non solo connessi alla variazione nello spazio, ma anche relativi alla diversa appartenenza sociale dei parlanti, e situazionali, ovvero legati a stili corrispondenti a diversi gradi di formalità condizionati dai contesti d’uso. Un’implicita conseguenza di tale assunto fu l’interesse manifestato dai linguisti svizzeri per i rapporti che intercorrono tra la storia delle parole e quella delle cose, secondo l’indirizzo di ricerca denominato Wörter und Sachen («Parole e cose») sviluppato in Germania all’inizio del XX secolo a opera di R. Meringer (1859-1931) e di H. Schuchardt (1842-1927), in base al quale lo studio della parola non deve essere disgiunto dalla conoscenza precisa e diretta del referente da essa designato e dalla sua diffusione areale. Infatti, uno stesso termine può essere associato a oggetti diversi o a modelli e tipi differenti di un medesimo oggetto, così come l’appartenenza a strati socioculturali o generazionali diversi può implicare differenze nella denominazione di uno stesso referente. Inoltre, con Jaberg (1936) l’analisi geografica dei fenomeni linguistici, fino ad allora limitata a quelli lessicali e fonetici, si estese all’ambito morfologico, con particolare riguardo per quei casi in cui alle distinzioni morfologiche se ne associano altre di natura semantica (ad es., il tipo lessicale fiore nelle varietà italiane settentrionali può indicare, per lo più al maschile, il «fiore» in senso proprio oppure, al femminile, il «fiore del latte» o il «fior di farina»). Parallelamente si sviluppò l’interesse per la notevole e autonoma attività non soltanto reattiva ma anche innovativa, stimolata dal confronto con i modelli esterni, tipica delle aree intermedie, vale a dire collocate tra due zone sensibilmente innovative.
Ciò fu esemplarmente dimostrato da Jaberg mediante l’analisi dell’area intermedia costituita dalla Val Bregaglia e dalla Val Mesolcina, racchiusa tra il retoromancio e le varietà lombarde, e priva di un morfema specifico per il plurale femminile di articoli, aggettivi e sostantivi. Qui la reazione alla pressione dei sistemi linguistici limitrofi dove tale morfema esiste (-s nelle varietà retoromance, -i o -e nel lombardo alpino) si è esplicata attribuendo tale funzione alla terminazione -n, ricavata dalla terza persona plurale del verbo, ed estesa agli aggettivi e ai sostantivi femminili in Val Mesolcina ([laˈvaken] «le vacche») e agli articoli in Val Bregaglia ([lanˈvaka] «le vacche»).
Con Benvenuto Terracini (1886-1968) il metodo di indagine geografica del linguaggio di stampo gilliéroniano divenne un’autentica ‘stilistica popolare’, con la descrizione del comportamento dei parlanti appartenenti agli strati culturalmente più umili sotto la pressione delle correnti della cultura egemonica ai margini estremi dell’area linguistica. Terracini, infatti, correla i meccanismi di reinterpretazione attuati dai parlanti, dall’accettazione passiva di ➔ prestiti, ovvero il loro adeguamento alla struttura del sistema linguistico locale, fino all’adozione di calchi semantici (➔ calchi), a diversi gradi di resistenza del punto linguistico alla pressione esterna. Ad es., le forme [ˈfønte], [ˈfunte] o [ˈfente] per l’impersonale «bisogna» di alcune varietà francoprovenzali della media valle di Susa, derivate dalla contaminazione del francoprovenzale [fo] e del piemontese [ˈventa], sono, per Terracini (1954-1955), il sintomo evidente di una debole resistenza di fronte all’avanzata delle varietà pedemontane. In altre circostanze, invece, le aree intermedie innovano autonomamente e non per reazione, come si evince dalla diffusione nelle varietà toscane del suffisso -olo con diverse funzioni esclusive dell’area, da quella originaria diminutivo-vezzeggiativa (che si ha in donnola, lett. «signorina») ad altre derivate (come in fragola, cintola, capezzolo, ecc.), fino a quella di indicare un’azione prolungata o ripetuta, ben riconoscibile nel valore descrittivo di alcune coppie verbo-nome (come, ad es., spazzola / spazzolare). Alla vitalità di tale suffisso è connessa l’innovazione toscana seggiola, in luogo di sedia, rispetto ai tipi settentrionali cadrega / careia e scranna, quest’ultimo limitato all’Emilia Romagna e un tempo presente anche in Toscana, e a quelli centrale e meridionale, rispettivamente sedia e seggia (Terracini 1954-1955).
Con Matteo Bartoli (1873-1946), promotore della corrente cosiddetta neolinguistica, era tuttavia anche diffusa un’applicazione riduttiva del metodo geografico di matrice gilliéroniana, basata sull’enunciazione di cinque norme di valore euristico generale basate sul principio secondo cui dalla posizione nello spazio delle aree corrispondenti a fenomeni linguistici omologhi si può stabilire la successione cronologica della diffusione e della sovrapposizione dei fenomeni stessi. Ad es., secondo la prima norma, di due fasi linguistiche latine quella attestata in un’area culturalmente isolata, vale a dire meno esposta alle comunicazioni, è di solito la più antica, come dimostra il sardo ebba «cavalla», continuazione del lat. equa, rispetto all’italiano cavalla, dal lat. tardo caballa. La seconda norma prevede invece che la fase attestata nell’area maggiore sia di regola quella anteriore, come si constata considerando, per es., che nel dominio romanzo continuatori del lat. aperire sono presenti nella penisola iberica (spagn. abrir) in Francia (ouvrir) e in Italia (aprire), mentre solo in Romania c’è deschide, dal lat. discludere, forma innovativa; ecc. (Bartoli 1945).
Tale prospettiva, pur rappresentando un nuovo strumento di ricerca applicabile in specie al dominio romanzo, ricco di documentazione diretta e indiretta, si limita comunque a stabilire una cronologia relativa dei fenomeni esaminati e presuppone una concezione unitaria e statica delle aree considerate, nonché una visione monolitica del latino, semplificando situazioni linguistiche in realtà assai più complesse e variegate. Il medesimo intento ricostruttivo spinse anche Gerhard Rohlfs (1892-1986) ad applicare al lessico delle lingue romanze il metodo di analisi della distribuzione spaziale, anche se in misura meno schematica rispetto alla norme bartoliane, allo scopo di individuare le cause interne ed esterne dei mutamenti prodottisi a partire dalla comune lingua madre latina e di dar conto della successiva frammentazione riscontrabile nelle varietà romanze.
Dopo i fecondi e importanti contribuiti dei diretti continuatori della tradizione gilliéroniana, che avevano portato anche all’ideazione e all’avvio di un Atlante linguistico italiano (ALI), la geografia linguistica conobbe, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, un periodo di crisi dovuto in parte alla diffusione e alla migliore fortuna di correnti teoriche quali la linguistica strutturale e la sociolinguistica, contraddistinte dall’assenza o dalla marginalità della considerazione spaziale dei fenomeni linguistici.
Nel contempo, però, si moltiplicarono le iniziative volte alla progettazione di atlanti linguistici di vario tipo, accompagnate da un ampio corollario di riflessioni sui principi e sui metodi della loro realizzazione. In seguito a tale dibattito e al conseguente rinnovamento teorico scaturito dall’adeguamento della disciplina alle dinamiche linguistiche della società contemporanea, si sono affacciati nuovi indirizzi metodologici, sorti dal connubio fra tradizioni di ricerca diverse e dal superamento della dicotomia tra linguistiche dello spazio e linguistiche del sociale. Tra questi figura la geolinguistica variazionale, definita da H. Thun, uno dei suoi promotori, una «scienza della variazione» in quanto implica l’estensione dei tradizionali parametri diatopici, mediante l’inclusione di nuove dimensioni della variazione derivate dall’analisi delle dinamiche sociolinguistiche proprie dell’ambiente urbano per analizzare la variabilità linguistica su più livelli, messi in relazione tra loro.
L’ampiezza dell’orizzonte teorico prospettato da Thun si manifesta con chiarezza nell’impianto progettuale pluridimensionale dell’Atlas Lingüístico Diatópico y Diastrático del Uruguay (ADDU), dove sono prese in considerazione, oltre alle dimensioni diatopica, diastratica e diafasica (➔ variazione diatopica; ➔ variazione diastratica; ➔ variazione diafasica), altre cinque dimensioni della variazione, correlate le une alle altre. Nello specifico, la dimensione dialinguale considera le dinamiche di competizione tra i due sistemi linguistici in contatto portati dai conquistatori, vale a dire spagnolo e portoghese; quella diatopico-cinetica è correlata all’opposizione tra parlanti appartenenti a gruppi relativamente stabili nel territorio e altri caratterizzati da una più elevata mobilità; quelle diasessuale e diagenerazionale considerano i fenomeni di variazione linguistica connessi rispettivamente al sesso dei parlanti e alla loro età; quella diareferenziale si riferisce alla differenza tra la rappresentazione metalinguistica della lingua, ricavabile dai commenti degli informatori, e il suo impiego corrente. Questa moltiplicazione delle prospettive porta certamente a una comprensione più approfondita della distribuzione degli elementi linguistici nello spazio geografico e sociale, anche se la terminologia utilizzata non sempre risulta convincente.
Un altro modello teorico attento alla pluridimensionalità è quello concepito da Th. Krefeld allo scopo di rappresentare la natura complessa dello spazio linguistico, in cui la spazialità della lingua si intreccia con quella del parlante, vale a dire con i tratti collegati alla sua provenienza e al suo grado di mobilità, e con la spazialità del parlare, ovvero con i condizionamenti derivanti dalla posizione reciproca dei locutori. Vanno parimenti segnalate le riflessioni teoriche di G. Ruffino e M. D’Agostino maturate intorno alla progettazione dell’Atlante Linguistico della Sicilia, secondo cui la variazione linguistica risulta strettamente correlata alle dinamiche socioeconomiche e urbane della regione siciliana. L’analisi geolinguistica viene invece a combinarsi con la matematica e la statistica nella corrente dialettometrica, inaugurata da J. Séguy intorno al 1975 e sviluppata, con l’ausilio di moderni strumenti informatici, dal linguista austriaco H. Goebl, finalizzata alla misurazione e alla cartografazione della distanza strutturale tra dialetti sulla scorta dei materiali reperibili sulle carte degli atlanti linguistici, con l’intento di abbracciare la variabilità dei dati degli atlanti in una prospettiva globale. Il metodo di analisi elaborato consente, con l’applicazione di formule matematiche, di passare da un enorme numero di singoli dati qualitativi a un numero molto più ridotto di classi, gruppi o famiglie dialettali e di misurarne la distanza strutturale rispetto a una varietà presa come riferimento.
Uno sviluppo recentissimo di tale filone di ricerca è rappresentato dalla dialettometria correlativa, che studia le relazioni numeriche intercorrenti nello spazio tra il calo della similarità linguistica e la distanza chilometrica. Benché i risultati ottenuti dalle applicazioni di tale metodo all’ALF, all’AIS e all’Atlante linguistico del Ladino Dolomitico (ALD) si mostrino in alcuni casi interessanti e rivelatori, è stato tuttavia obiettato che esso contiene un’aporia di fondo, poiché ricava informazioni riguardo alla struttura del sistema linguistico sulla scorta di dati ricavati dagli atlanti, il cui valore è per definizione contingente e relativo. Si colloca invece in una prospettiva preminentemente onomasiologica la linea di ricerca avviata da M. Alinei con l’ideazione dell’Atlas Linguarum Europae (ALE), un atlante lessicale di quarta generazione, vale a dire di tipo interpretativo e di dimensione sovranazionale, comprendente lingue appartenenti alle sei famiglie linguistiche presenti nell’Europa geografica (altaico, basco, caucasico, indoeuropeo, semitico e uralico). Infatti, secondo Alinei, soltanto la scelta di un orizzonte paneuropeo, ricavabile dall’esame della distribuzione spaziale dei dati dialettali degli atlanti europei già pubblicati o in corso di realizzazione, consente di far affiorare, anche tra le differenze interne, lo strato più profondo dell’identità culturale europea.
L’aspetto più innovativo di tale indirizzo di ricerca consiste nella combinazione di tradizionali carte geolessicali di stampo onomasiologico, contenenti le etimologie ricavabili dall’analisi formale dei materiali linguistici, con carte di tipo motivazionale, in cui figurano le motivazioni magico-religiose sottese alle forme linguistiche attestate, accompagnate da un commento che ne spiega e ne ricostruisce le stratificazioni storico-culturali. Infatti, quando le attestazioni dialettali si rivelano ancora semanticamente trasparenti, in esse, al di là delle loro differenze formali, si possono ravvisare relitti di antichissime credenze mitologiche e religiose precristiane, in alcune circostanze riconducibili al totemismo preistorico, nonché i riflessi delle religioni successivamente impostesi nell’area considerata, ricostruendo così lo stretto legame esistente tra lingua e cultura. In tale ottica la geografia linguistica, in unione con altre discipline quali l’archeologia, la preistoria, l’etnologia, la storia delle religioni e l’antropologia culturale, diventa uno strumento euristico nodale in seno a un nuovo modello di linguistica comparata, basato sul livello motivazionale, che si focalizza sull’identità o la somiglianza delle rappresentazioni ideologiche e culturali.
Bartoli, Matteo (1945), Saggi di linguistica spaziale, Torino, Rosenberg e Sellier.
Gilliéron, Jules & Roques, Mario (1912), Études de géographie linguistique d’après l’Atlas linguistique de la France, Paris, Champion.
Jaberg, Karl (1936), Aspects géographiques du langage, Parigi, Droz.
Terracini, Benvenuto (1954-1955), Aspetti geografici dei problemi della dialettologia italiana, Parte I-II, Torino, Gheroni.