Geologia strutturale
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La rivoluzione mobilista e i suoi sviluppi nella prima metà del Novecento: a) la deriva dei continenti; b) le catene collisionali e il problema delle ofioliti; c) la geosinclinale, culla delle catene orogeniche. 3. Conferme della mobilità terrestre: il paleomagnetismo e l'espansione dei bacini oceanici. 4. La tettonica delle placche: a) la litosfera terrestre; b) le placche litosferiche e i margini di placca; c) il mosaico delle placche litosferiche. 5. Margini convergenti e catene orogeniche. 6. Le cordigliere: a) la cordigliera andina; b) le cordigliere nordamericane. 7. Le catene collisionali: a) le Alpi; b) gli Appennini; c) l'oroclino dei Carpazi; d) il sistema himalaiano. 8. Alle soglie del terzo millennio. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La Terra è un macrosistema non in equilibrio, dominato sin dalle origini da ciclici trasferimenti di materia e di energia. I terremoti e le eruzioni vulcaniche ne sono la prova più palese. Vi sono tuttavia altre manifestazioni della dinamica terrestre non percettibili con pari immediatezza, poiché la loro evoluzione è così lenta da impedire l'osservazione diretta del fenomeno naturale e la sua riproduzione sperimentale: si tratta di processi geotermici, tettonici e petrogenetici la cui cinetica è scandita dal tempo geologico, misurabile in milioni di anni (Ma), processi che le scienze geologiche possono riconoscere a posteriori analizzando le tracce indelebili che essi hanno impresso nelle rocce.
La geologia divenne una scienza alla fine del Settecento, quando J. Hutton e M. V. Lomonosov codificarono il principio dell'attualismo, che fornì la chiave di lettura per decifrare la storia della Terra. Oltre un secolo prima, Nicolaus Stensen (Steno) aveva già stabilito i primi fondamenti della geologia strutturale, descrivendo una sequenza di deformazioni in alcune formazioni lapidee dell'Appennino toscano, costituite in origine da strati planari. Il concetto di deformazione fu ripreso nel tardo Settecento e sviluppato con altre segnalazioni di rocce disarticolate o contorte, a testimonianza che esse avevano patito l'effetto di possenti forze telluriche. Risultò decisiva, in particolare, l'osservazione che sedimenti con fossili marini si trovassero a quote così elevate da rendere più verosimile l'ipotesi di ripetuti sprofondamenti e sollevamenti della crosta terrestre che non quella di catastrofici eventi diluviali, da tempo sostenuta dai ‛nettunisti', le cui idee erano divenute popolari in Inghilterra e in Germania nella seconda metà del Settecento. Sorsero così, tra accesi contrasti, le prime teorie sulla dinamica terrestre, basate sull'idea che il sollevamento delle catene montuose fosse causato da forze endogene (J. Hutton e M. V. Lomonosov), dall'intrusione di grandi corpi magmatici (teoria plutonista) o da movimenti verticali indotti dalla contrazione del pianeta in progressivo raffreddamento (L. Elie de Beaumont, J. D. Dana).
Nella seconda metà dell'Ottocento ebbe inizio una lunga polemica tra i sostenitori del predominio dei movimenti verticali della crosta terrestre (teorie fissiste) e i fautori del prevalere delle dislocazioni orizzontali (teorie mobiliste), le cui concezioni si svilupparono rapidamente alla fine del secolo per affermarsi definitivamente agli inizi del Novecento. Le teorie mobiliste costituirono la prima rivoluzione del pensiero geologico-strutturale moderno, dimostrando che la formazione dei grandi sistemi montuosi (orogenesi) era dovuta alla compressione e al corrugamento di estesi bacini marini (geosinclinali), cui si associavano enormi traslazioni in massa e l'appilamento di estese falde rocciose situate in origine sul fondo degli oceani e ai loro margini. La comparsa di questa teoria segna di fatto la nascita della tettonica, o geologia strutturale (v. Dal Piaz, 1937 e 1945; v. geologia, vol. III). Sin dalla fine del secolo scorso la tettonica si inseriva tra le classiche discipline delle scienze geologiche, e a essa veniva riconosciuto il ruolo fondamentale di analizzare i movimenti (dislocazioni), le fratture con spostamento (faglie) e le deformazioni (distorsioni) permanenti delle rocce a tutte le scale d'osservazione. Come vedremo in seguito, la tettonica si sviluppò vigorosamente nei primi decenni del Novecento, concentrando la sua attenzione sulla complicata architettura delle principali strutture della Terra, dalle catene montuose alle depressioni tettoniche (Graben, rift), e affrontando, con la teoria della deriva dei continenti, la dinamica terrestre su scala globale.
Le concezioni mobiliste furono rinnovate radicalmente con l'avvento della tettonica delle placche, visione globale della dinamica terrestre comparsa alla fine degli anni sessanta e tuttora in auge. Questa seconda rivoluzione sorse in seguito alla scoperta dell'espansione laterale (spreading) degli oceani e della loro consunzione in profondità (subduzione). Essa portò al riconoscimento che le associazioni ofiolitiche erano frammenti dei fondali di antichi oceani, da tempo scomparsi dalla faccia della Terra; di qui l'ipotesi che ogni ‛oceano perduto' si sia inabissato tra due continenti avvicinatisi progressivamente sino alla collisione, lasciando come unica traccia una sottile e discontinua sutura ofiolitica.
La geologia strutturale moderna ha contribuito a promuovere il graduale superamento del metodo naturalistico, applicando metodologie fisico-matematiche all'analisi quantitativa del comportamento meccanico delle rocce sotto sforzo, in condizioni variabili di pressione, temperatura e attività dei fluidi interstiziali. La dinamica terrestre è caratterizzata da processi di deformazione e di flusso la cui durata può variare da pochi secondi (propagazione delle onde sismiche; v. terra solida, vol. VIII) a centinaia di Ma (geodinamica). I campi di osservazione si estendono dalla scala del globo a quella atomica, analizzando ad esempio la rotazione delle placche su superfici sferiche, con riferimento al sistema dei ‛punti caldi', a dati paleomagnetici e a misure GPS (Global Positioning System), oppure valutando gli scivolamenti e le distorsioni presenti nel reticolo cristallino dei minerali. La geologia strutturale è stata gradualmente perfezionata col progredire della conoscenza dei fondamenti teorici e analitici sulla deformazione naturale e i suoi meccanismi, integrati da esperimenti su rocce e minerali e da modellizzazioni numeriche. Significativi progressi sono stati conseguiti con il contributo di altre discipline delle scienze della Terra, tradizionali o emergenti, dalla geofisica alla petrologia teorica e sperimentale, alla reologia delle rocce. Sono state così ottenute le prime valutazioni quantitative dei principali processi tettonici, fondate sull'applicazione della meccanica dei continui e della microfisica a sistemi naturali sempre più complessi.
Tutte le deformazioni di corpi rocciosi o di singoli minerali possono essere descritte in termini di campo degli spostamenti, tramite un sistema di opportuni vettori che collegano la posizione assunta da punti, o da particelle naturali, prima e dopo la deformazione. Questi problemi rendono necessaria la valutazione di grandezze scalari, come lunghezza, volume, tempo, temperatura, e di grandezze vettoriali, come sforzo (stress), deformazione (strain), gradiente di temperatura, campo gravitazionale, accelerazione, flusso convettivo, ecc. (v. Ranalli, 19952). Il comportamento meccanico di un dato corpo dipende dalle sue proprietà fisiche, chimiche e mineralogiche iniziali, dalla pressione litostatica a cui è sottoposto se trasportato in profondità (carico delle rocce soprastanti) e dalla temperatura, funzione del gradiente geotermico regionale; esso è però condizionato principalmente dalla presenza di sforzi di taglio orientati, coassiali (pure shear) o ‛disassati' (simple shear), dalla loro durata e dall'attività dei fluidi interstiziali (H2O, CO2, ecc.). I processi tettonici non possono generalmente essere analizzati in modo diretto a causa della profondità a cui avvengono o della bassa velocità con cui si sviluppano; è possibile tuttavia aggirare queste difficoltà con lo studio delle caratteristiche strutturali di corpi naturali deformati che permettono di ricostruire il comportamento meccanico del solido in esame. Indicatori cinematici di vario tipo consentono inoltre di riconoscere il movimento relativo di strutture deformate in modo fragile e duttile (faglie, linee tettoniche, sovrascorrimenti, miloniti), fossili o sismicamente attive. La distorsione di un ammasso roccioso avviene attraverso modificazioni incrementali delle minute particelle che lo compongono (granuli, cementi di matrice, cristalli, aggregati), sottoposte a processi di riorganizzazione meccanica, dissoluzione, ricristallizzazione o sostituzione da parte di nuove fasi mineralogiche, secondo direzioni preferenziali controllate dal campo degli sforzi ed espresse dallo strain. Nelle rocce metamorfiche deformate in modo duttile è tipico lo sviluppo di anisotropie planari e lineari (scistosità, foliazioni, lineazioni), diffuse a scala regionale e misurabili con precisione sul terreno e al microscopio. Anche se non è nota la configurazione iniziale di un dato corpo, la presenza di queste anisotropie consente di ricostruire, per aree discrete, la deformazione e le sue variazioni regionali. Lo studio delle strutture al microscopio ottico ed elettronico fornisce ulteriori indicazioni, utili soprattutto per decifrare i meccanismi di deformazione e per stimare le condizioni chimico-fisiche dell'ambiente in cui è avvenuto il processo.
La stretta integrazione della geologia strutturale con i metodi classici dell'analisi stratigrafico-sedimentologica offre la possibilità di tracciare in modo sempre più accurato la configurazione iniziale (paleogeografia) e l'evoluzione spazio-temporale di antichi bacini sedimentari, decifrandone modificazioni e spostamenti. Nelle rocce metamorfiche si riesce a quantificare anche la componente verticale della traslazione: ciò è possibile se si accoppia l'analisi strutturale con lo studio petrologico delle associazioni mineralogiche presenti e desumendo il significato termo-barico dagli equilibri di fase e dalle calibrazioni fornite dalla petrologia sperimentale in sistemi silicatici analoghi (v. petrologia, vol. XI). Si definiscono così le condizioni di pressione che hanno agito sulle fasi mineralogiche di un dato corpo roccioso e quindi la profondità a cui hanno avuto luogo le principali tappe della sua rigenerazione metamorfica e tessiturale, sia all'aumentare che al diminuire della pressione (trasformazioni ‛prograde' e ‛retrograde'). Su queste basi è possibile ricostruire la traiettoria di corpi rocciosi che, strappati dai fondi oceanici o dai margini continentali, sono stati subdotti sino a profondità dell'ordine di parecchie decine di chilometri, e poi riportate in superficie. Con l'ausilio della geocronologia radiometrica (v. geochimica, vol. III) si completa la storia cinematica di queste unità, stabilendo la successione delle deformazioni e datandone alcune tappe: il risultato finale è la ricostruzione di traiettorie cinematiche complete, espresse in funzione della profondità (pressione), delle condizioni termiche, della deformazione e del tempo.
Nel secondo dopoguerra, il grande sviluppo delle prospezioni geofisiche e delle perforazioni promosse dall'esplorazione petrolifera ha consentito di decifrare molte strutture sepolte della crosta terrestre, prima inaccessibili (v. Bally e altri, 1985). Nel frattempo, il consorzio internazionale Ocean Drilling Program (ODP), a cui partecipa anche l'Italia, iniziava a produrre dati preziosi sulla composizione e la struttura del substrato roccioso degli oceani (v. oceanografia, vol. XI). Accurate ricostruzioni della crosta continentale sono state fornite, nell'ultimo decennio, da grandi esperimenti di indagine geologica e geofisica profonda; il progetto italiano Crosta Profonda (CROP) ha consentito, ad esempio, di elaborare modelli più raffinati di alcuni transetti attraverso le Alpi, gli Appennini e i mari circostanti, importanti anche nel campo della sismotettonica. Queste e altre sofisticate metodologie analitiche sono ormai di routine nelle scienze della Terra. Nonostante i nuovi orizzonti, la geologia moderna non ha rinnegato le sue radici naturalistiche, tuttora indispensabili per non perdere di vista la complessità del macrosistema Terra, l'impatto dei suoi cambiamenti sulla biosfera e il problema cruciale di predirne l'evoluzione.
Lo spazio limitato non consente di presentare in modo organico tutti i temi della geologia strutturale. Dovendo scegliere, si è preferito privilegiare i temi di interesse più generale, tralasciando i metodi analitici della geologia strutturale e la loro complessa trattazione fisico-matematica, argomenti peraltro esposti in numerosi trattati specialistici (v. Hobbs e altri, 1976; v. Means, 1976; v. Nicolas e Poirier, 1976; v. Ramsay e Huber, 1983 e 1987; v. Ranalli, 19952). Dopo un aggiornamento sulle concezioni mobiliste sino agli anni sessanta, l'articolo descrive la nascita e i fondamenti della tettonica delle placche, si sofferma sui caratteri della litosfera terrestre e dei margini di placca, per esaminare infine il rinnovato concetto di orogenesi e le principali catene montuose del globo, dalle cordigliere americane al sistema alpino-himalaiano. La bibliografia, già troppo estesa rispetto al formato adottato in quest'opera, rimane comunque inadeguata rispetto al corpo di contributi scientifici che sarebbe stato necessario citare per doveroso riconoscimento dei meriti di coloro che, in varia misura, hanno contribuito ai successi della geologia strutturale e della tettonica regionale nel Novecento. Per colmare le molte lacune, si rimanda ad alcune opere monografiche, a precedenti rassegne storiche e ai riferimenti bibliografici ivi riportati, in particolare: a B. Accordi (v., 1984) per le origini, a Gb. Dal Piaz (v., 1945 e 1955), H. Masson (v., 1976), Gb. Dal Piaz e G. V. Dal Piaz (v., 1984), R. Trümpy (v., 1991 e 1996) e G. V. Dal Piaz (v., 1997) per la teoria delle falde e la prima rivoluzione mobilista; ad A. Hallam (v., 1973 e 1975) e A. Bosellini (v., 1978) per la deriva dei continenti; a J. R. Heirtzler (v., 1968), J. M. Bird e B. Isacks (v., 1972), J. F. Dewey (v., 1972), A. Hallam (v., 1973), Le Pichon e altri (v., 1973), A. Miyashiro (v., 1973), K. C. Condie (v., 1976), A. G. Smith (v., 1976), A. W. Bally e altri (v., 1985), P. Kearey e F. J. Vine (v., 1989), A. M. C. Sengör (v., 1990) e G. V. Dal Piaz (v., 1997) per la tettonica delle placche; a G. V. Dal Piaz e G. Gosso (v., 1984) e G. V. Dal Piaz (v., 1995) per l'applicazione delle nuove concezioni alle Alpi. La collana ‟Guide geologiche regionali", realizzata a cura della Società Geologica Italiana, e lo Structural model of Italy, in cinque fogli alla scala 1:500.000, edito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, forniscono un aggiornato inquadramento geologico e strutturale del territorio nazionale.
2. La rivoluzione mobilista e i suoi sviluppi nella prima metà del Novecento
Le concezioni mobiliste sorsero a cavallo tra Ottocento e Novecento, partendo dalla scoperta che alcune catene montuose erano costituite da una pila di falde di ricoprimento e che tale architettura era l'espressione di estese traslazioni in massa, di un raccorciamento crostale e di movimenti compressivi tangenziali alla superficie terrestre. Le caledonidi della Scozia e della Scandinavia, le catene canadesi, il bacino carbonifero belga e soprattutto le Alpi offrirono al genio di alcuni studiosi le evidenze naturali per intuire e sviluppare una teoria rivoluzionaria che influenzò in modo decisivo l'evoluzione del pensiero geologico moderno. I principali artefici delle nuove interpretazioni tettoniche della catena alpina furono i geologi svizzeri H. Schardt, M. Lugeon, E. Argand e i francesi M. Bertrand e P. Termier. Questo periodo particolarmente fecondo per la geologia alpina è analizzato in dettaglio nelle rassegne storiche ricordate in precedenza. Alcuni decenni più tardi, le concezioni mobiliste furono estese a scala globale e corroborate dalla teoria della ‛deriva dei continenti', formulata quasi contemporaneamente da F. B. Taylor e A. L. Wegener.
a) La deriva dei continenti.
Il geologo americano Taylor (v., 1910) aveva attribuito la genesi delle principali catene montuose del globo a ‟imponenti movimenti di scorrimento" della crosta terrestre e, in particolare, alla deriva dalle zone polari verso le regioni equatoriali dei continenti americano ed euroasiatico, quest'ultimo contrastato dai blocchi stabili (cratoni) dell'Africa e dell'India. Ispirandosi alle nuove carte geologico-strutturali delle cinture orogeniche del mondo, esposte nel grandioso trattato Das Antlitz der Erde del geologo viennese E. Suess, Taylor sostenne l'esistenza di immense traslazioni crostali avvenute durante l'orogenesi terziaria, rappresentandole in forma originale con vettori che ne indicavano direzione ed entità. In questo contesto, l'autore riaffermava anche l'ipotesi che il continente africano e quello sudamericano fossero stati in origine congiunti (intuizione che risale a Bacone, Darwin e Snider-Pellegrini), anticipando alcuni aspetti essenziali della teoria della deriva dei continenti proposta due anni dopo da Wegener, a sua volta verosimilmente ignaro della pubblicazione di Taylor.
Wegener, dal 1912, affrontò il problema della deriva dei continenti da tutte le possibili angolazioni, rivalutando precedenti acquisizioni e apportando nuove evidenze: la stretta somiglianza delle linee di costa ai due lati dell'Oceano Atlantico, la diffusione e l'analogia delle faune e delle flore fossili presenti nei due continenti affacciati, malgrado la barriera dell'oceano, la distribuzione anomala delle zone climatiche permo-carbonifere e delle relative glaciazioni. Questi enigmi venivano risolti con l'ipotesi che tutte le terre emerse fossero inizialmente riunite in un solo blocco continentale, detto Pangea (o Terre di Gondwana, seguendo Suess), circondato da un immenso bacino oceanico (Panthalassa). Il processo di deriva, iniziato nel Mesozoico, avrebbe prodotto lo smembramento del supercontinente e il progressivo allontanamento dei suoi frammenti in scorrimento al di sopra di uno ‛strato viscoso-plastico' che, a lato dei continenti, sarebbe risalito a formare il substrato roccioso degli oceani.
Le conoscenze del tempo avevano già acquisito, analizzando le modalità di propagazione delle onde sismiche nel sottosuolo, il principio che la Terra fosse costituita da alcuni gusci concentrici (geosfere) di diversa composizione e densità, peraltro definiti in modo ancora approssimativo. La corona esterna, indicata da alcuni con il termine ‛litosfera', era a sua volta suddivisa in due involucri (Suess): quello esterno, spesso circa 120 km e formato da rocce leggere (densità media 2,7 g/cm3), dominanti nei continenti e ricche in allumosilicati (di qui la denominazione SAL, poi modificata in SIAL da Wegener); quello interno, assai più spesso (circa 1.100 km) e costituito da materiali più pesanti (densità 2,9÷3,4 g/cm3), ricchi in silicati di Mg e Fe, detto SIMA, corrispondente al mantello superiore delle ricostruzioni moderne. Altre indagini, fondate essenzialmente su misure gravimetriche, suggerivano l'ipotesi che il fondo degli oceani fosse costituito da materiali simatici (mafici), più densi di quelli sialici esposti nei continenti. Da questi presupposti Wegener aveva tratto la convinzione che non fosse più ammissibile, per vincoli isostatici, attribuire la formazione degli oceani allo sprofondamento ‛fissista' di antiche aree continentali; sosteneva invece che la corona esterna della Terra fosse discontinua e che la leggera crosta sialica fosse circoscritta alle sole masse continentali. Queste ultime, assimilate a giganteschi iceberg, galleggiavano sul SIMA plastico ed erano soggette a enormi traslazioni. A tali fenomeni di deriva era attribuita anche la genesi dei grandi sistemi montuosi, un argomento trattato tuttavia in modo marginale da Wegener: le catene costiere americane si sarebbero formate per frizione frontale del margine continentale in movimento verso occidente, mentre lo sviluppo del sistema alpino-himalaiano restava sostanzialmente un enigma. Wegener aveva anche tentato di valutare l'entità dello spostamento laterale della Groenlandia, con ripetute misure della longitudine di opportuni capisaldi, stimando una deriva media verso occidente di 32 m all'anno; questo risultato, ritenuto successivamente erroneo dallo stesso autore per vizi metodologici, è superiore di due ordini di grandezza alla reale velocità di spostamento delle placche (16÷2 cm/anno).
La teoria della deriva dei continenti fu duramente contrastata sia nell'ambiente geologico, a cui Wegener non apparteneva, che in quello geofisico, in genere ancora legato a concezioni fissiste. Le critiche principali erano rivolte alle numerose incongruenze rispetto ad accertate situazioni geologiche regionali e all'evidente insufficienza, dal punto di vista fisico, del motore e dei meccanismi cinematici della deriva dei continenti, attribuiti da Wegener essenzialmente alle forze gravitazionali e ad anomalie della rotazione terrestre. I più autorevoli studiosi americani negavano l'esistenza stessa della deriva continentale, sostenuta invece da altri autori, tra cui R. A. Daly, A. Du Toit e A. Holmes (v. Hallam, 1973). Holmes (v., 1929) non condivise tuttavia i meccanismi cinematici proposti da Wegener, prospettando in alternativa l'ipotesi che la dislocazione dei continenti e l'apertura di nuovi oceani fossero causate da correnti convettive subcrostali, attivate dal calore prodotto dal decadimento degli elementi radioattivi e da una drastica riduzione della resistenza dei materiali che costituivano il substrato della crosta continentale. Il concetto delle correnti convettive sarà ripreso dalla teoria della tettonica delle placche.
Lo studioso sudafricano Du Toit (v., 1937), il più convinto sostenitore della teoria di Wegener, corresse numerose manchevolezze geologiche del modello e apportò nuove prove a favore dell'esistenza della deriva continentale: sostituì la Pangea con due distinti supercontinenti, Laurasia e Gondwana, separati dal vasto canale oceanico della Tetide; riconobbe, all'interno delle Terre di Gondwana, la sutura di una geosinclinale paleozoica (Samfrau), estesa dall'Argentina al Sudafrica e all'Australia, testimonianza di antiche collisioni; ipotizzò la traslazione del Madagascar verso nord e il legame genetico tra il grande plateau basaltico del Deccan e la deriva dell'India; collegò l'orogenesi laramica con la deriva verso occidente del continente nordamericano; infine, riconobbe la rotazione antioraria della penisola iberica e l'apertura del golfo di Biscaglia, bilanciate dalla compressione dei Pirenei.
b) Le catene collisionali e il problema delle ofioliti.
Nei primi decenni del Novecento, gli studi di E. Argand sulle Alpi occidentali e sulle catene alpino-himalaiane sancirono la definitiva affermazione delle concezioni mobiliste, dalla teoria delle falde alla deriva dei continenti. L'autore estese il concetto di ricoprimento tettonico alle falde metamorfiche della zona pennidica, ricostruì con precisione l'ispessimento crostale delle catene collisionali, confermato in seguito dalla geofisica moderna, e descrisse con grande accuratezza i vari elementi strutturali di questi sistemi montuosi, ribadendo il principio che i processi orogenici erano guidati da forze telluriche tangenziali. La formazione dell'orogene alpino-himalaiano (v. Argand, 1924) fu correttamente attribuita alla sovrapposizione del continente africano su quello europeo e del margine asiatico su quello indiano, giunti alla collisione in seguito al corrugamento dell'interposta geosinclinale della Tetide. Argand affrontò anche il problema delle suture ofiolitiche (già descritte da Steinmann agli inizi del secolo), avanzando in merito due ipotesi alternative: inizialmente aveva sostenuto la natura sinorogenica del magmatismo ofiolitico (v. Argand, 1916), ipotizzandone l'intrusione lungo fratture situate alla base di alcune falde embrionali, ma nel 1924 cambiò opinione, supponendo che l'oceano fosse lo stadio terminale dell'evoluzione di una geosinclinale, la cui crosta continentale sarebbe stata stirata sino alla lacerazione e all'esposizione del SIMA al fondo del bacino. Con questa intuizione, Argand anticipava i recenti modelli di denudazione tettonica del mantello, ma dieci anni dopo ripiegò definitivamente sulla prima soluzione.
Le concezioni mobiliste furono sostenute con autorevolezza da R. Staub (v., 1924), autore di una classica monografia sull'intera catena alpina e di molti altri contributi sull'argomento, in cui si sosteneva, tra l'altro, l'origine africana (austroalpina) della falda Dent Blanche. Geniale, anche se meno influente, fu un'intuizione di F. Hermann (v., 1925) sulla Tetide alpina e sul ruolo delle ofioliti; questo studioso prospettava l'ipotesi che le principali falde di basamento delle Alpi Pennine (Dent Blanche, Monte Rosa, Gran San Bernardo) derivassero da microcontinenti, separati da profondi solchi marini a substrato simatico, e che dal corrugamento orogenico di tali bacini avessero tratto origine le unità ofiolitiche, dette ‛falde simiche'.
c) La geosinclinale, culla delle catene orogeniche.
Il concetto di geosinclinale ha svolto un ruolo di particolare rilievo nella storia delle teorie orogeniche. Fu elaborato e codificato nella seconda metà del secolo scorso dai geologi americani J. Hall e J. D. Dana, in base a studi sulla catena degli Appalachi. Nella loro concezione, la geosinclinale era un enorme bacino subsidente, colmato dai sedimenti forniti dall'erosione di contigue aree in sollevamento (geoanticlinale) e poi deformato, per piegamento e compressione laterale, sino a produrre i più elevati sistemi montuosi del globo. Si trattava quindi di una gigantesca inversione del rilievo, di origine tettonica, ed essa era attribuita, in linea con le teorie in auge nel tempo, alla contrazione termica della crosta terrestre.
Agli inizi del Novecento, E. Haug riconobbe nelle catene della Tetide la presenza di sedimenti in facies batiale, documentando la notevole profondità della geosinclinale. Egli ipotizzò inoltre la presenza di una o più geoanticlinali interne, prodromo di quei corrugamenti embrionali che Argand utilizzerà nel 1916 per ricostruire l'evoluzione cinematica della Tetide e la genesi delle Alpi. Per descrivere questo processo, Argand disegnò una serie di sezioni verticali che mostrano, in successione cronologica, la progressiva compressione della Tetide alpina, dallo stadio iniziale alla configurazione attuale della catena a falde. Con questa figura Argand pose le basi concettuali della cinematica e della palinspastica, moderne discipline della geologia strutturale.
Persisteva intanto una profonda divergenza di vedute tra geologi americani ed europei sull'ubicazione della geosinclinale e delle catene orogeniche, collocate rispettivamente al margine dei continenti o al limite tra due blocchi continentali. Il contrasto sarebbe continuato a lungo, ma si trattava di un falso problema, sorto da convinzioni maturate dallo studio di catene diverse per configurazione strutturale e meccanismi genetici. Molti autori si concentrarono sulla classificazione dei vari tipi di geosinclinale e sulla definizione della sua articolata struttura interna, da C. Schuchert, H. Stille, G. M. Kay, A. V. Peyve, V. M. Sinitzyn e altri, sino all'ultima sintesi di J. Aubouin (v., 1965), la cui fortuna sarà però rapidamente vanificata dalla comparsa della tettonica delle placche. In base allo stile tettonico e ad altri criteri discutibili, le geosinclinali furono suddivise in ortogeosinclinali, culla delle catene a pieghe di tipo alpino, e parageosinclinali, sede di orogenesi di tipo germanico, dominate da una tettonica a blocchi rigidi. In ogni geosinclinale era individuata una zona interna (eugeosinclinale), con magmatismo iniziale di tipo ofiolitico, e una zona esterna (miogeosinclinale), meno profonda e priva di manifestazioni eruttive. A prescindere dalle diverse opinioni su singoli dettagli, persisteva la convinzione che la geosinclinale fosse impostata su crosta continentale. Venivano intanto codificate (v. Stille, 1924) anche le ‛fasi tettoniche', intese come successione di ‛eventi' distinti, separati da periodi di quiescenza orogenica; questa impostazione influenzò a lungo la geologia europea, specie quella tedesca, ritardando lo sviluppo del concetto di deformazione continua, proprio della tettonica delle placche e della geologia strutturale moderna.
Le vedute di Argand riguardo alle Alpi furono corroborate e perfezionate nei dettagli da numerosi studiosi, da R. Staub a H. P. Cornelius e Gb. Dal Piaz. Vennero tuttavia avanzate anche le prime critiche al meccanismo (oggi abbandonato) di ricoprimento per piega coricata postulato da Argand, avanzate da A. H. Stutz e R. Masson alla fine degli anni trenta in base a nuovi rilievi della falda Dent Blanche. Nel frattempo, le Alpi orientali fornivano lo spunto per formulare il concetto di ‛sottoscorrimento crostale', concepito da O. Ampferer e poi sviluppato da A. Amstutz, inventore del termine ‛subduzione' (ma con significato diverso da quello assegnatogli dalla tettonica delle placche; v. Trümpy, 1996). Ancora nelle Alpi orientali fu rinvenuta da studiosi austriaci la prova stratigrafica che l'inizio dell'orogenesi alpina, ritenuta di età terziaria, risaliva invece al Cretacico.
Nei primi due decenni del secondo dopoguerra, lo studio dell'orogenesi alpina viveva una fase di relativa stasi, compensata tuttavia da importanti progressi della stratigrafia (v. Trümpy, 1996; v. geologia stratigrafica, vol. X), supporto fondamentale della geologia strutturale (la tettonica senza basi cronostratigrafiche - ricordava Argand - si riduce a mera geometria). Nelle Alpi centro-occidentali i progressi maggiori furono realizzati da F. Ellenberger, da Trümpy e da alcuni giovani, tra cui si distinse C. Sturani. Nel frattempo, una migliore comprensione dei bacini sedimentari in ambiente orogenico e dei loro caratteristici depositi (Flysch) era promossa dall'applicazione della teoria sulle correnti di torbida, concepita da C. I. Migliorini e P. H. Kuenen.
Il dibattito sulle catene orogeniche e sulla geosinclinale si protrarrà, con alterne vicende e periodiche nostalgie fissiste, sino alla fine degli anni sessanta, quando molte delle più avanzate convinzioni geologiche e geofisiche del tempo saranno attaccate frontalmente e demolite dalla nuova rivoluzione mobilista della tettonica delle placche. La nuova teoria fornirà un'ulteriore conferma delle ipotesi mobiliste, ma renderà obsoleti il modello di Wegener e le successive varianti sulla deriva dei continenti, innovando in particolare le concezioni su natura, età, evoluzione dinamica e meccanismi cinematici della litosfera terrestre. I blocchi continentali perderanno il carattere di elementi cinematici autonomi (gli iceberg di Wegener), per diventare parte integrante di elementi strutturali di ordine superiore - le placche litosferiche - estese dai continenti alle aree oceaniche, mentre i concetti rivoluzionari di ‛espansione laterale' e ‛consunzione' sostituiranno definitivamente il paradigma della deriva. La nuova visione globale della dinamica terrestre sorgerà al di fuori delle Alpi, ma per molteplici aspetti essa è figlia (non sempre riconosciuta) della geologia alpina; non si può dimenticare, infatti, che molti fondamenti della tettonica moderna (teoria delle falde, concetti di collisione e di raccorciamento crostale, ecc.) sono nati e si sono consolidati grazie ai progressi delle ricerche sulle Alpi.
3. Conferme della mobilità terrestre: il paleomagnetismo e l'espansione dei bacini oceanici
Le lacune e le incongruenze dei modelli classici sulla deriva dei continenti, sulle geosinclinali e sulla formazione delle catene montuose sono comprensibili ricordando che le conoscenze del tempo erano fondate essenzialmente su ricerche in terraferma e che poco si sapeva sulla geologia dei bacini oceanici, mentre il supporto delle prospezioni geofisiche nel sottosuolo era ancora molto limitato. Alla fine della seconda guerra mondiale la teoria della deriva dei continenti continuava a essere oggetto di severe critiche, avanzate da influenti geofisici convinti che la Terra fosse troppo rigida per consentire i supposti processi di traslazione orizzontale (v. Hallam, 1973). A partire dagli anni cinquanta, essa fu sottoposta a ulteriori verifiche, fondate su metodologie analitiche più rigorose, sull'esplorazione geologica e geofisica degli oceani e sulla magnetizzazione fossile in rocce eruttive e sedimentarie, sino a ottenere convincenti conferme (il fenomeno del paleomagnetismo era stato scoperto nel 1837 dal fisico italiano M. Melloni). Sulla base della variazione sistematica dell'inclinazione del campo magnetico terrestre dai poli all'equatore (v. terra solida, vol. VIII), fu possibile dimostrare la progressiva migrazione di una massa continentale dalla latitudine occupata al momento della sua magnetizzazione sino a quella attuale. Il fenomeno può essere rappresentato indicando le varie posizioni assunte da un dato continente in funzione del tempo, oppure la migrazione apparente dei poli in un continente mantenuto convenzionalmente fisso. Si accertarono inoltre dislocazioni rotazionali e traiettorie spazio-temporali contrastanti da caso a caso, documentando in modo rigoroso l'esistenza di movimenti relativi tra i continenti.
Progressi ancora più importanti e impensati furono ottenuti estendendo le indagini paleomagnetiche alle aree oceaniche. Essi trassero origine da approfondimenti sull'inversione della polarità del campo magnetico terrestre - fenomeno scoperto nei primi decenni del secolo da B. Brunhes, P. L. Mercanton e M. Matuyama -, dalla definizione, cioè, di una sequenza di specifiche anomalie magnetiche, normali o invertite, e dalla loro accurata taratura cronologica mediante metodi stratigrafici e radiometrici. L'alta risoluzione del metodo magnetostratigrafico è garantita dall'elevata frequenza delle inversioni, variabile da qualche centinaio di migliaia di anni a circa 4 Ma. I risultati più salienti furono ottenuti interpretando la distribuzione delle anomalie magnetiche fossili registrate nelle rocce dei fondi oceanici.
Le conseguenze rivoluzionarie di queste ricerche furono intuite da F. Vine e D. H. Matthews (v., 1963) e confermate da J. R. Heirtzler (v., 1968). Il primo risultato fu la prova che tutti gli oceani attuali erano assai più giovani dei continenti circostanti; il secondo fu la scoperta che la crosta di ogni oceano era suddivisa in fasce larghe 10÷20 km - definite da specifici profili dell'anomalia - disposte in modo simmetrico rispetto alla dorsale oceanica e di età crescente procedendo verso i margini continentali. Con parole più semplici, questi dati dimostravano in modo irrefutabile il progressivo accrescimento, per espansione laterale, della litosfera oceanica. Questa nuova teoria (sea-floor spreading) fu concepita agli inizi degli anni sessanta dai geologi americani H. H. Hess e R. S. Dietz. Essa superava in modo radicale le precedenti visioni mobiliste e costituiva il fondamento concettuale necessario per la nascita della tettonica delle placche (v. Hallam, 1973; v. Bosellini, 1978).
4. La tettonica delle placche
Mentre si perfezionava l'interpretazione delle anomalie magnetiche negli oceani, H. H. Hess (v., 1962) aveva preso in esame la controversa questione del meccanismo della deriva continentale. Riprendendo i modelli di convezione termica formulati da A. Holmes, F. A. Vening Meinesz e D. T. Griggs negli anni trenta, Hess affermava che il movimento dei blocchi continentali era una traslazione di tipo passivo, indotta dai processi di convezione termica attivi nel mantello sottostante; riteneva inoltre - ed è questa una delle innovazioni cruciali - che i continenti fossero traslati assieme alla contigua crosta oceanica, non al di sopra di essa, come era stato sostenuto da tutti gli autori precedenti. Le dorsali oceaniche, strutture effimere caratterizzate da sismicità superficiale (v. Sykes, 1967) e da elevato flusso di calore, erano il sito dove si formava in continuazione nuova crosta oceanica che, a sua volta, rimpiazzava quella generata in precedenza e poi traslata lateralmente. D'altro canto, la sismicità concentrata su piani inclinati individuati da Wadati, Benioff e altri geofisici sino a profondità molto elevate, soprattutto ai margini dell'Oceano Pacifico, poteva costituire la prova decisiva del progressivo inabissamento (subduzione) di litosfera oceanica e del suo riassorbimento (consunzione) nell'astenosfera, un processo che, bilanciando l'espansione oceanica, tracciava la posizione del ramo discendente di grandi celle convettive (v. Isacks e altri, 1968). Lo studio delle isole oceaniche, svolto da J. T. Wilson, aveva mostrato nel frattempo che l'età di questi edifici vulcanici aumentava in funzione della distanza dalle dorsali medio-oceaniche; lo strano fenomeno era spiegabile ipotizzando il movimento di una placca oceanica al di sopra di una sorgente magmatica (punto caldo, hot spot) che manteneva nel tempo una posizione stazionaria. I punti caldi costituiranno in seguito il più efficace sistema di riferimento per valutare la dinamica delle placche.
Erano ormai disponibili tutte le tessere per la costruzione di un nuovo modello di tettonica globale, ma era necessario riunirle in un armonico mosaico. Una prima sintesi, ancora parziale, sorse dalle discussioni di un gruppo di geofisici nordamericani e inglesi (J. T. Wilson, E. C. Bullard, H. H. Hess, P. E. Matthews e F. J. Vine; v. Hallam, 1973; v. Bosellini, 1978). Essa fu formalizzata in una breve nota (v. Wilson, 1965) dedicata alle grandi faglie a spostamento orizzontale (trasformi) e alle loro relazioni con la deriva continentale; vi si formulava tuttavia anche l'idea basilare che le catene montuose, gli archi insulari, le dorsali oceaniche e le faglie trasformi costituissero una rete continua di cinture mobili, sismicamente attive, tali da suddividere l'intera superficie terrestre in numerose tessere rigide in movimento relativo tra loro, dette ‛placche litosferiche'. Il modello raffigurava il moto delle placche su una superficie piana. Come passo successivo fu affrontato con successo il problema di ricostruire il mosaico e la dinamica delle placche sulla superficie sferica della Terra, esprimendo i movimenti con rotazioni e misure angolari. Fu così possibile verificare il buon incastro degli attuali continenti nella posizione che avevano assunto sulla sfera terrestre prima dell'apertura dell'Oceano Atlantico e valutare l'effettiva cinematica delle placche nella loro esatta configurazione geometrica. Questi progressi furono sviluppati essenzialmente da E. C. Bullard, J. F. Dewey, B. L. Isacks, X. Le Pichon, D. P. McKenzie, W. J. Morgan, A. G. Smith e altri ancora (v. Hallam, 1973; v. Bosellini, 1978; v. Dal Piaz, 1997).
La nuova teoria globale sorgeva dall'analisi e dall'interpretazione della dinamica terrestre in atto, ma fu presto applicata ai fenomeni geologici più remoti, ottenendo nuove conferme della sua validità. Nasceva così, per la prima volta nella storia del pensiero geologico, una teoria globale della dinamica terrestre, un'armonica concezione unitaria sulla genesi di tutti i principali processi geologici presenti e passati.
a) La litosfera terrestre.
I classici modelli statici dell'interno della Terra, ripartita in tre involucri concentrici (crosta, mantello e nucleo) su base sismologica e composizionale (v. geochimica, vol. III; v. terra solida, vol. VIII), non prevedevano l'esistenza della litosfera. Il ‛modello terrestre di riferimento preliminare' (PREM, Preliminary Reference Earth Model) offre invece una ricostruzione dinamico-reologica della struttura interna della Terra, basata sulla densità, sulla velocità di propagazione delle onde sismiche e sulla risposta della Terra a stress con periodo molto piccolo (v. Ranalli, 19952). In particolare, esso consente di definire fisicamente le placche litosferiche, configurate dalla nuova tettonica globale come frammenti mobili della litosfera terrestre dotati di specifica autonomia cinematica rispetto al mantello astenosferico sottostante. La litosfera è l'epidermide rigida e mobile della Terra; comprende l'intera crosta terrestre, oceanica e continentale, e la parte sommitale del mantello peridotitico, detta mantello litosferico (lid). La separazione tra crosta e mantello è definita dalla discontinuità di Mohorovičić (Moho), riconoscibile per la brusca accelerazione delle onde sismiche nel passaggio da rocce crostali di vario tipo (gabbri metamorfici, granuliti felsiche e mafiche) alle peridotiti con struttura (fabric) tettonitica del mantello. Tranne casi eccezionali, circoscritti a particolari fasi evolutive di alcuni margini di placche continentali (rifting asimmetrico, orogenesi collisionali), la Moho non è un orizzonte di scollamento; nonostante la loro composizione eterogenea, crosta e lid sono di norma strettamente interconnessi, formando alla scala globale un insieme litosferico unitario dal punto di vista cinematico.
Le placche litosferiche, rigide ed elastiche, scorrono sul sottostante canale astenosferico, la cui temperatura è prossima alla temperatura di fusione della peridotite; il canale ha viscosità molto bassa, comportamento duttile e percentuali variabili di fluido intrappolato negli spazi intracristallini, condizioni a cui è imputata la ridotta velocità delle onde sismiche di taglio (low velocity zone; v. Jordan e Fyfe, 1976). Il materiale peridotitico del canale astenosferico, caldo e soffice, è in grado di scorrere lentamente (creep) e di deformarsi per flusso plastico, consentendo la traslazione (passiva o attiva, a seconda dei modelli) della litosfera rigida soprastante. Lo spessore dell'involucro litosferico varia da 100÷130 km nelle aree continentali a 60÷70 km in quelle oceaniche, riducendosi ulteriormente al di sotto delle dorsali oceaniche attive. Il canale astenosferico si spinge invece a profondità di circa 700 km.
Le variazioni laterali della litosfera sono imputabili soprattutto alla presenza di differenti tipologie crostali. Nei continenti stabili (cratoni), la crosta ha spessore sui 30÷40 km; nelle fasce mobili, in corso di deformazione, si riduce per distensione a 15÷25 km (fosse tettoniche, rifts) o è ispessita in compressione sino a 50÷70 km (catene orogeniche recenti), dando origine a marcate anomalie di gravità, rispettivamente positive e negative. La discontinuità geofisica di Conrad, che si trova nei continenti a 20 km circa di profondità, consente di separare la crosta superiore da quella inferiore: la prima è costituita da sequenze sedimentarie, non sempre presenti, da rocce di grado metamorfico basso-medio (scisti, gneiss), ricche di minerali silicatici idrati, e da abbondanti granitoidi; la seconda è formata da rocce di alto grado metamorfico (granuliti), prevalentemente anidre, derivate da protoliti felsici, mafici e subordinatamente ultramafici (complessi gabbro-peridotitici stratificati), e da prodotti residuali (restiti) dei processi di anatessi che hanno generato i fusi granitici. Questi ultimi tendono a risalire nella crosta superiore e l'intero processo corrisponde di fatto a una degranitizzazione della crosta inferiore. Si noti che la ricostruzione della crosta profonda non deriva soltanto dall'interpretazione di indagini geofisiche e da esperimenti petrologici: in alcune catene orogeniche essa è stata sollevata sino alla superficie, senza subire significative modificazioni, ed è quindi perfettamente analizzabile sul campo (ad esempio la zona Ivrea-Verbano nelle Alpi occidentali).
La crosta oceanica (v. Bott, 19822) ha invece uno spessore molto ridotto (6÷7 km, escludendo la colonna d'acqua sovrastante) e una composizione sostanzialmente mafica, del tutto differente, quindi, dalla crosta sialica dei continenti. L'analisi sismologica consente di suddividerla in tre principali ‛strati' geofisici (layers), definiti da rapidi incrementi di velocità delle onde sismiche. Il primo strato, assente nelle dorsali oceaniche a causa della loro giovane età, è composto di fanghi e sedimenti consolidati, prevalentemente carbonatici; ha spessore medio di 0,4 km, con valori che crescono progressivamente procedendo dai piedi della dorsale, ove inizia a comparire, verso il bordo sommerso (scarpata) dei continenti. Il secondo strato è costituito da una sequenza di colate sottomarine di basalti tholeiitici poveri in alcali, detti MORB (basalti di dorsale medio-oceanica), con spessore complessivo medio di 1,4 km; variazioni tessiturali e sismologiche interne consentono suddivisioni ulteriori e la definizione dei settori 2a, 2b e 2c, formati rispettivamente da basalti con struttura brecciata o a cuscini, da colate massicce e da una zona basale ricca di filoni subverticali. Questi basalti sono spesso idrati e arricchiti in sodio (spiliti) a opera di processi di alterazione idrotermale (metamorfismo oceanico). Il terzo strato, spesso 4÷5 km, ha composizione gabbrica, espressione plutonica dei magmi basaltici. Esso è suddiviso in una zona superiore (3a) di gabbri a struttura omogenea, anch'essi in parte affetti da trasformazioni idrotermali di temperatura medio-alta, e in una zona inferiore (3b) di plutoniti mafico-ultramafiche (gabbri, pirosseniti e peridotiti cumulitiche), con tipica stratificazione magmatica prodotta dalla cristallizzazione frazionata del fuso in lento raffreddamento nella camera magmatica. Si tenga presente che le peridotiti del mantello mostrano invece un ‛fabric tettonitico', generato da riequilibrazioni metamorfiche e deformazioni di flusso a temperatura e pressione elevate.
La natura litologica degli strati 1 e 2 è stata verificata in modo diretto da dragaggi e trivellazioni a carotaggio continuo eseguite dall'Ocean Drilling Program. Le perforazioni hanno dimostrato inoltre che l'età della base dei sedimenti dello strato 1, appoggiati direttamente sui basalti, cresce progressivamente dai piedi della dorsale verso la scarpata continentale, confermando su base cronostratigrafica l'espansione dei fondi oceanici desunta dai dati magnetici. I gabbri dello strato 3 e le sottostanti peridotiti del mantello litosferico sono localmente esposti nelle grandi zone di frattura oceanica che favoriscono la risalita di lame e diapiri di queste rocce profonde, consentendone la campionatura. I litotipi della crosta oceanica attuale sono analoghi a quelli delle falde ofiolitiche presenti in terraferma.
b) Le placche litosferiche e i margini di placca.
La litosfera terrestre è suddivisa in enormi frammenti tabulari (plates, quindi placche e non zolle) in continuo scorrimento sul canale astenosferico. I confini laterali delle placche, detti ‛margini', sono contrassegnati da intensa attività sismica, espressione di una dinamica persistente, e da caratteristici elementi morfostrutturali in rilievo (dorsali) o fortemente depressi (fosse oceaniche, rifts). Su basi sismologiche e geologico-strutturali sono stati riconosciuti tre tipi di margini, ognuno dei quali è condiviso da due placche contigue in movimento relativo tra loro: 1) margini divergenti (costruttivi, distensivi, in espansione, in accrescimento); 2) margini convergenti (distruttivi, compressivi, in consunzione); 3) margini trasformi (conservativi). Nei primi due casi si registrano vistose modificazioni nell'assetto dei settori marginali delle placche litosferiche, fenomeni che sono invece assenti nel terzo tipo di margine.
Margini divergenti. - Negli oceani i margini divergenti sono marcati da un gigantesco rilievo sottomarino (dorsale medio-oceanica), da un elevato flusso di calore e da terremoti superficiali che non superano il limite tra litosfera rigida e astenosfera soffice; gli ipocentri dei terremoti si dispongono lungo una fascia verticale, centrata sull'asse della dorsale. Un margine divergente è il sito dove due placche litosferiche si accrescono lateralmente e in modo simmetrico; l'accrescimento è prodotto dalla risalita di enormi volumi di magmi basaltici, che ritroviamo negli strati 2 e 3 della crosta oceanica, e dall'aggregazione, a livello del lid, di peridotiti residuali derivate da corpi astenosferici risaliti sotto la dorsale e modificati da processi di fusione parziale e dalla continua estrazione dei magmi basaltici (v. geochimica, vol. III; v. petrologia, vol. XI). Il processo ha come risultato il progressivo allontanamento, dall'asse di espansione, della litosfera oceanica formatasi in precedenza. L'anomalia termica e la circolazione di acqua marina nelle rocce porose e fessurate delle dorsali e di alcune zone di frattura producono le trasformazioni chimico-mineralogiche di tipo idrotermale ricordate in precedenza e la formazione di depositi idrotermali con elevate concentrazioni di Fe e Mn. Questi processi di alterazione, indicati con il termine di metamorfismo oceanico, sono controllati da un regime divergente (distensivo) e non hanno quindi nulla a che vedere con il metamorfismo orogenico dei margini convergenti che è legato a condizioni geodinamiche compressive.
Le dorsali medio-oceaniche (MOR) hanno una morfologia variabile, controllata dalla velocità del processo di espansione. In molti casi esse sono suddivise in segmenti, delimitati e spostati lateralmente da faglie trasformi. Una dorsale lenta (ridge), tipica nell'Oceano Atlantico (velocità d'espansione = 2 ÷ 3 cm/anno), è un rilievo con fianchi relativamente ripidi, culminanti in due creste parallele, separate da una valle mediana, cioè da una zona di sprofondamento tettonico (rift oceanico) larga qualche decina di chilometri e profonda 1.500÷3.000 m. Le dorsali in espansione veloce (9÷16 cm/anno; rise), tipiche nel Pacifico orientale, sono invece prive della depressione mediana e delle relative creste. Allontanandosi dalla dorsale ove si era formata in origine, la litosfera oceanica si raffredda e quindi si contrae, riducendo la propria capacità di galleggiamento (subsidenza termica); è questa la causa fisica che relega le zone più profonde degli oceani nei settori più lontani dal centro di espansione, ai piedi della scarpata continentale, nonché una delle concause dell'innesco di un processo subduttivo.
In ambiente continentale, i margini divergenti si trovano in uno stadio embrionale. Essi sono rappresentati da fosse tettoniche (rifts) che sono espressione superficiale dei processi di attenuazione litosferica e frammentazione crostale (rifting) antecedenti allo stadio di espansione oceanica. L'assottigliamento della litosfera è controllato da meccanismi di taglio puro (estensione coassiale) o di taglio semplice (non coassiale) e le strutture risultanti sono, rispettivamente, di tipo simmetrico e asimmetrico. Nel secondo caso, il processo è guidato dallo sviluppo di una zona di taglio di estensione litosferica, il cui andamento obliquo consente di individuare una placca superiore e una placca inferiore, entrambe divergenti (v. Wernicke, 1985). Nella parte superficiale della crosta continentale la deformazione ha carattere fragile e la zona di taglio corrisponde a un orizzonte di scollamento o a una faglia maestra a bassa inclinazione, cui si raccordano vari sistemi di faglie curvilinee (listriche) che delimitano e svincolano elementi tettonici cuneiformi in progressiva rotazione; la loro evoluzione superficiale è marcata da depositi peculiari, detti di sin-rift. In profondità, la zona di taglio ha carattere duttile, con sviluppo di rocce finemente macinate e ricristallizzate (miloniti). La tettonica distensiva è accompagnata da sismicità, anomalia termica positiva, metamorfismo di bassa pressione e attività magmatica bimodale, alimentata da processi anatettici e dalla fusione parziale di corpi astenosferici in risalita. L'esempio attuale più significativo è rappresentato dal sistema dei rifts dell'Africa orientale, lungo oltre 3.000 km.
Col procedere della tettonica distensiva, la crosta continentale, sempre più stirata e disarticolata, si lacera definitivamente ed è sostituita da nuova crosta oceanica, dando inizio alla fase di spreading. Da questo momento, l'originario rift continentale è suddiviso in due parti che si allontanano progressivamente, man mano che le due placche litosferiche, di cui sono parte integrante, si accrescono grazie alla formazione di altra crosta oceanica nel centro di espansione. Il Mar Rosso, ancora privo di dorsale, è l'esempio di una oceanizzazione allo stadio giovanile, in propagazione verso nord. Il Golfo di Aden, poco più ampio, ma già provvisto di dorsale (Sheba ridge), rappresenta uno stadio più evoluto verso la formazione, per ulteriore espansione, di un oceano di vaste proporzioni. Riunendo insieme queste configurazioni è possibile visualizzare, in sequenza cinematica, la storia evolutiva di un margine divergente, dallo stadio embrionale di un rift continentale a quello finale di un oceano maturo.
Ritornando ai due segmenti di rift ormai separati definitivamente dalla nuova crosta oceanica, ciascuno di essi è costituito da crosta continentale sottile e disarticolata, che raccorda lateralmente la litosfera continentale normale, solida e indeformata, con quella oceanica. Questi settori particolari sono denominati ‛margini passivi'. Essi hanno perduto definitivamente il ruolo di margine di placca, assunto durante il rifting continentale e ora trasferito alla dorsale medio-oceanica, ove si svolge il processo di spreading. I margini passivi sono soggetti a subsidenza termica e sono sede di importanti bacini sedimentari, spesso ricchi di idrocarburi (v. Bally e altri, 1985). Margini passivi sostanzialmente simmetrici sono preservati alla periferia dei continenti che circondano l'Oceano Atlantico. Si tratta di strutture profonde, localizzate al di sotto della superficie marina (piattaforme continentali) o sepolte sotto i depositi recenti delle pianure costiere; la loro ricostruzione è stata resa possibile da sistematiche indagini geofisiche e dalle perforazioni che hanno accompagnato lo sviluppo dell'esplorazione petrolifera. La loro genesi risale all'apertura dell'Atlantico, un processo che è iniziato nel settore centrale di questo oceano (Giurassico superiore) e si è poi propagato all'Atlantico meridionale (Cretacico) e a quello settentrionale (Terziario). Altri margini passivi mostrano invece un'architettura e una distribuzione degli indicatori sedimentari e magmatici di tipo asimmetrico, giustificabili con l'ipotesi che essi siano stati generati per taglio semplice; a questo modello si ispira, ad esempio, la recente ricostruzione dei margini passivi della placca araba e di quella africana, derivati da un rift asimmetrico e separati dall'espansione del Mar Rosso. Alcuni autori ritengono che, in alcuni rifts fossili, il processo di attenuazione crostale possa aver raggiunto uno stadio evolutivo estremo, caratterizzato dalla denudazione meccanica del mantello litosferico che verrebbe così esposto al fondo del bacino prima dell'inizio delle estrusioni basaltiche; tale ipotesi è stata prospettata per il bacino ligure da A. Decandia e P. Elter e poi estesa da altri autori ad alcuni segmenti della Tetide occidentale (v. Dal Piaz, 1995).
Vi sono infine margini passivi profondamente modificati da eventi orogenici. La loro congenita debolezza meccanica li rende siti privilegiati per l'innesco di un nuovo margine convergente e per assorbire buona parte della deformazione iniziale di un evento orogenico che ottimizzi gli sforzi riutilizzando in compressione le faglie ancestrali della fase di rifting (inversione tettonica). Un caso emblematico è rappresentato dai margini passivi formatisi al bordo dell'Eurasia e dei continenti meridionali (Africa, India) con l'apertura degli oceani permo-mesozoici della Tetide, attualmente incorporati nelle catene collisionali alpino-himalaiane. La loro estrema frammentazione è però compensata da ottime condizioni di affioramento e dalla possibilità di analizzarne alcune porzioni in modo diretto, senza ricorrere alle indagini geofisiche che sono indispensabili nei margini passivi sepolti o sommersi. Nelle Alpi meridionali, ad esempio, è possibile ricostruire un segmento crostale completo del margine passivo della microplacca adriatica (Africa), dalle classiche coperture sedimentarie delle Dolomiti alla crosta profonda della zona Ivrea-Verbano. La decifrazione di questi frammenti deformati e delle associate cinture ofiolitiche lungo l'intero sistema alpino-himalaiano ha consentito di ricostruire, a grandi linee, la paleostruttura della Tetide e la sua evoluzione spazio-temporale (v. Ziegler, 1988; v. Dercourt e altri, 1990): la geosinclinale intracontinentale dei modelli classici è sostituita da un insieme complesso di oceani, microcontinenti e margini passivi in rapida evoluzione dinamica. Come si vedrà in seguito (v. cap. 7, § a), la loro configurazione è stata oggetto di accese discussioni ed è tuttora un problema aperto.
Margini convergenti. - Gli attuali margini convergenti sono messi in evidenza da una fossa oceanica e da un piano di Benioff che marca il limite superiore della placca oceanica in subduzione. L'energia sismica è liberata dalla frizione e dalla deformazione interna di una litosfera oceanica, fredda, densa e rigida, che sta inabissandosi in subduzione; l'inclinazione del piano di Benioff varia, a seconda dei casi, da una decina a una settantina di gradi. La costante asimmetria della struttura consente di distinguere in tutti i margini convergenti una placca inferiore (in subduzione), almeno inizialmente di tipo oceanico, e una placca superiore, estranea alla subduzione, di natura oceanica o continentale. In qualche caso, nonostante la relativa leggerezza del materiale, possono essere coinvolte nella zona di subduzione anche sottili porzioni di crosta continentale; lo si desume a posteriori dall'impronta metamorfica di alta pressione presente in alcune unità continentali di svariate catene orogeniche, dalle Alpi (Sesia-Lanzo, Monte Rosa, Dora-Maira, Adula, ecc.) alla Scandinavia, dalla Nuova Zelanda alla Cina.
La placca superiore presenta un settore frontale a elevata mobilità, detto ‛margine attivo', esteso per un migliaio di chilometri dalla fossa verso l'interno. La denominazione deriva dal fatto che esso è sede di rilevanti processi tettonici e petrologici, indotti direttamente o indirettamente dalla subduzione della placca inferiore. A grandi linee, in un margine attivo si osservano, a partire dalla fossa, i seguenti elementi strutturali (v. fig. 8): prisma orogenico, arco magmatico, bacino marginale e/o catena antitetica esterna (foreland belt). Il loro sviluppo modifica l'originario assetto crostale della placca superiore che assume una configurazione differente a seconda che sia di natura oceanica o continentale: nel primo caso gli elementi essenziali sono un arco insulare e un bacino marginale (retroarco), nel secondo una catena eruttiva, detta cordigliera, e una foreland belt. I margini attivi continentali derivano di norma da antichi margini passivi, invertiti e orogenizzati.
La mancanza di esempi attuali di subduzione litosferica allo stato embrionale non consente di definire con assoluta certezza le cause dell'attivazione di un margine convergente e la sua ubicazione. Il suo innesco è certamente facilitato dalla subsidenza termica della litosfera oceanica e dalla debolezza meccanica dei margini passivi; non è un caso, quindi, se molte zone di subduzione si sono impostate al limite tra litosfera oceanica e margine passivo, mentre meno chiara è l'origine della subduzione intraoceanica. Una volta attivato il processo, sono invece certe le forze principali che agiscono in una piastra di litosfera subdotta e la distribuzione degli sforzi al suo interno, come indicato nella fig. 9 (v. Bott, 19822).
Se esaminiamo in pianta il movimento della placca inferiore, desumibile dai punti caldi, dalle anomalie magnetiche e dalla posizione della dorsale, riscontriamo la presenza di due situazioni geometriche distinte: in certi casi il moto è subortogonale al sistema arco-fossa (compressione pura), cioè alla direzione del margine convergente, in altri è obliquo. Il vettore che esprime la subduzione obliqua può essere scomposto in due componenti, l'una ortogonale e l'altra parallela al margine convergente: la prima è responsabile della tettonica compressiva e del raccorciamento trasversale del margine attivo, la seconda della tettonica trascorrente, tipica nelle cordigliere americane (v. Bally e altri, 1985; v. Bally e Palmer, 1989).
I margini convergenti sono sede di modificazioni termiche, indotte e mantenute attive dalla subduzione di litosfera fredda. La bassa conduttività delle rocce silicatiche consente alla litosfera oceanica in subduzione di mantenere a lungo l'assetto termico iniziale e la sua peculiare rigidità, attestata dall'energia sismica liberata. Solo a profondità notevoli la litosfera si riscalda sino alla temperatura del mantello astenosferico entro cui si ‛consuma'; si tratta di una omogeneizzazione termo-meccanica che priva definitivamente la litosfera della sua identità fisica e sismologica, rendendola simile all'astenosfera circostante. L'assetto termico di una placca in subduzione è controllato da vari fattori (v. Kearey e Vine, 1989): lo spessore della litosfera; la velocità di subduzione; l'inclinazione del piano di Benioff; il trasferimento di calore per conduzione dall'astenosfera circostante; il calore prodotto dal decadimento di minerali radioattivi, dall'attrito opposto dall'astenosfera alla penetrazione della piastra litosferica e dalla compressione di quest'ultima all'aumentare della profondità; il calore latente delle trasformazioni di fase esotermiche. Il processo, modellizzato con precisione sin dai tempi di Toksoz e altri (v., 1971), è espresso graficamente nella fig. 10: le isoterme di riferimento, inizialmente suborizzontali, subiscono una profonda depressione e si distanziano in funzione del gradiente geotermico che, da valori attorno a 25÷20 °C/km (normale), si riduce a valori di 10÷5 °C/km. In altre parole, l'aumento istantaneo della pressione che agisce in un dato elemento di volume della piastra litosferica in subduzione è accompagnato, per ogni incremento di profondità, da un aumento di temperatura estremamente limitato. Queste particolari condizioni fisiche, definite di alta-P e bassa-T, sono possibili solo in un margine convergente, cioè nell'unico ambiente geodinamico in cui avviene subduzione di litosfera; esse generano specifiche trasformazioni metamorfiche in successione prograda (aumento di P), rinvenute in natura e riprodotte in laboratorio dalla petrologia sperimentale. Non è possibile, ovviamente, esplorare in modo diretto una zona di subduzione, ma in numerose catene vi sono unità ofiolitiche e continentali con impronta metamorfica e traiettorie P-T perfettamente compatibili con il regime predetto dai modelli termici di un margine convergente, che documentano l'esistenza di antichi processi di subduzione avvenuti con modalità analoghe a quelli attuali (v. Ernst, 1971). I prismi orogenici, descritti in seguito (v. cap. 5), sono le strutture che consentono, con meccanismi di vario tipo, l'espulsione di unità tettoniche dalla zona di subduzione e il loro ritorno verso la superficie.
Anche l'arco vulcanico è un prodotto della subduzione di litosfera oceanica. Nonostante il nome, esso comprende anche diffuse manifestazioni plutoniche e il suo andamento, grosso modo parallelo alla fossa oceanica, non è necessariamente curvilineo. La larghezza della fascia magmatica e la sua distanza dalla fossa (lacuna arco-fossa) sono inversamente proporzionali all'inclinazione del piano di Benioff e la sua posizione è soggetta a sistematiche migrazioni. L'attività magmatica è alimentata dalla fusione parziale della crosta oceanica in subduzione e/o del mantello sovrastante, permeato dai fluidi liberati dalle trasformazioni eclogitiche che tendono a produrre associazioni mineralogiche anidre. Il processo inizia a una profondità di almeno un'ottantina di chilometri e a una distanza di 150÷200 km dalla fossa, con variazioni legate al regime termico, alla velocità di subduzione e all'inclinazione del piano di Benioff; ne consegue che il magmatismo di arco si manifesta sempre con un certo ritardo rispetto all'inizio del processo di subduzione. I principali sistemi di archi vulcanici attivi sono situati ai margini dell'Oceano Pacifico (cintura di fuoco circumpacifica), alimentati dalla subduzione delle varie placche oceaniche ivi presenti. Essi si suddividono in due gruppi principali, legati alla tipologia della placca superiore: gli ‛archi insulari' (Aleutine, Kamčatka, Giappone, Filippine, Indonesia, ecc. v. fig. 11) crescono su litosfera oceanica; il magmatismo di ‛cordigliera', tipico nelle Ande e in Nordamerica, su litosfera continentale. Le cinture vulcaniche sono zone di elevato flusso termico e a questa anomalia è attribuita la genesi di locali trasformazioni metamorfiche in regime di bassa pressione e alta temperatura; possono quindi svilupparsi, come riscontrato nell'arcipelago del Giappone, due cinture metamorfiche appaiate (paired metamorphic belts; v. Miyashiro, 1973), l'una di alta pressione, verso l'oceano, l'altra di bassa pressione, all'interno, che sono il risultato di contrastanti regimi termici, generati tuttavia nello stesso contesto geodinamico. Il magmatismo di subduzione ha caratteri geochimici peculiari (affinità calcalcalina) ed è suddiviso in ‛serie' contraddistinte da un diverso rapporto silice/alcali (v. geochimica, vol. III); è rappresentato da una vasta gamma di prodotti piroclastici, effusivi e intrusivi, di composizione variabile dai basalti alle rioliti, attraverso predominanti tipi andesitici. Le Alpi e altre catene di collisione continentale sembrano prive di un magmatismo di arco attribuibile con certezza allo stadio precollisionale e quindi, come nei sistemi arco-fossa circumpacifici, alla subduzione di un bacino oceanico ancora aperto. Di contro, le Alpi sono sede di un imponente ciclo magmatico di prevalente età oligocenica che, pur avendo un'affinità geochimica di arco, si è sviluppato in piena collisione continentale (v. Dal Piaz, 1995).
La crescita di un arco vulcanico è accompagnata dalla formazione nella placca superiore di un bacino marginale, o di retroarco (v. Bally e altri, 1985; v. Kearey e Vine, 1989). I classici bacini marginali sono situati nelle zone periferiche del Pacifico settentrionale e occidentale, alle spalle di una lunga cintura di archi vulcanici insulari. Essi hanno un substrato oceanico, seppure con caratteri geochimici leggermente diversi rispetto a quelli della crosta generata nelle dorsali; mostrano inoltre elevato flusso di calore e, in certi casi, evidenze di una tettonica distensiva. Se ne vedano alcuni esempi nella fig. 11. La loro espansione, di natura controversa, è attribuita a processi diapirici di tipo attivo o passivo, a celle convettive di secondo ordine, oppure al progressivo arretramento della zona di subduzione. Alcune falde ofiolitiche, o parte di esse, sono attribuite alla sutura di antichi bacini marginali. In alcuni margini attivi di tipo continentale sono noti analoghi processi di distensione, accompagnati da debolezza meccanica nel mantello, assottigliamento crostale, elevato flusso termico e attività magmatica (ad esempio il Basin and Range negli Stati Uniti). La morfologia delle strutture è tuttavia diversa rispetto a quella dei bacini marginali oceanici a causa della differente tipologia crostale; si tratta di bacini subsidenti relativamente circoscritti, con caratteristiche simili ai rifts. Una loro prolungata attività potrebbe produrre una parziale oceanizzazione, ipotesi formulata, ad esempio, per la genesi dell'Egeo e del Tirreno meridionale. Si noti che il termine ‛retroarco' è usato da alcuni autori anche per bacini intracontinentali situati nel lato concavo di catene orogeniche arcuate, collassate durante la fase matura di un'orogenesi collisionale, come nel caso dei Carpazi e del bacino pannonico.
Molti margini attivi, specie di tipo americano, presentano all'esterno dell'arco magmatico una catena intracontinentale in progressiva migrazione verso l'avampaese (foreland thrust-and-fold belt). Essa corrisponde alle catene di miogeosinclinale delle concezioni classiche.
Un tipo particolare di margine convergente è rappresentato, infine, dalle catene di collisione continentale, trattate in seguito (v. cap. 7); esse si formano nello stadio finale di un processo convergente che ha inizio con la completa chiusura dell'oceano originariamente interposto tra due continenti.
Margini trasformi. - Sono rappresentati da grandi fratture subverticali, sismicamente attive, che dislocano lateralmente, anche su distanze enormi, i segmenti di una dorsale medio-oceanica, nonché dai sistemi di frattura posti al confine tra placche o microplacche continentali dominate da moti orizzontali contrapposti (v. Wilson, 1965; v. Bally e altri, 1985). Classici esempi di margini trasformi sono le zone di frattura dell'Atlantico equatoriale e, nei continenti, la faglia di San Andreas, responsabile di molti terremoti della California, o il sistema che collega il Mar Rosso (margine divergente) con le catene orogeniche della Turchia (margine convergente collisionale), attraverso la valle del Giordano e il Mar Morto. Nel caso di tre placche contigue, i loro margini hanno una giunzione tripla; essa può riunire tre margini divergenti (tre dorsali, o dorsali e rifts), mantenendo stabile la sua configurazione geometrica nel tempo, oppure margini di tipo diverso, ove la stabilità strutturale dipende dall'orientazione relativa dei vettori di velocità delle placche coinvolte (v. Bally e altri, 1985; v. Kearey e Vine, 1989).
c) Il mosaico delle placche litosferiche.
Il riconoscimento di una rete continua di margini divergenti, convergenti e trascorrenti, estesa all'intera superficie terrestre, ha consentito di delimitare i principali frammenti mobili della litosfera (v. Le Pichon e altri, 1973). Agli inizi furono individuate sei placche maggiori (africana, americana, antartica, euroasiatica, indiana e pacifica) e, con analisi successive, ulteriori sei placche (arabica, somala, caraibica, delle Filippine, di Cocos e di Nazca) e altre minori. Esse sono formate da litosfera oceanica e continentale e, in qualche caso, esclusivamente da litosfera oceanica (placca pacifica, di Nazca, di Cocos). I loro margini sono rappresentati da tutte le tipologie ricordate in precedenza. Ad esempio, la placca africana si espande sia a ovest, lungo il margine divergente rappresentato dalla dorsale medio-atlantica, che a est, in corrispondenza del Mar Rosso e del rift continentale dell'Africa orientale; il suo margine settentrionale è invece di tipo collisionale, marcato dalle catene di età alpina del Mediterraneo. Di contro, la placca indo-australiana, in accrescimento lungo il margine divergente meridionale e quello occidentale, si consuma sul lato settentrionale, in collisione con l'Eurasia (Himalaya) e in subduzione sotto il sistema arco-fossa indonesiano.
Si noti che questo mosaico corrisponde alla configurazione attuale della litosfera terrestre; essa è paragonabile al fotogramma di un film che descrive le continue modificazioni dell'involucro esterno della Terra, dalle sue lontane origini alle tendenze attese nel futuro più prossimo. La storia geologica della Terra, ricostruita a ritroso in base alla memoria delle rocce, mostra il continuo variare delle tessere del mosaico con modalità analoghe a quelle attuali, a conferma della validità generale dei concetti della tettonica delle placche e a testimonianza della perenne instabilità del sistema Terra.
5. Margini convergenti e catene orogeniche
Tutte le catene montuose recenti (fanerozoiche), distribuite attorno all'Oceano Pacifico e nel sistema alpino-himalaiano, e le forze orogeniche che le hanno generate sono il risultato della storia evolutiva di margini convergenti. Lo sono verosimilmente anche gli innumerevoli cicli orogenici più antichi, di età paleozoica o precambriana (v. Kroener, 1981), le cui catene sono state ridotte dagli agenti erosivi a sistemi montuosi di modesta elevazione o sono state spianate e amalgamate in aree continentali stabili da tempo immemorabile. L'intera Europa centro-settentrionale ha una strutturazione tettonica paleozoica (ercinica o caledoniana), insieme agli Urali e agli Appalachi. Suture di catene più antiche sono diffuse in tutte le aree cratoniche del mondo, dall'Africa all'Asia e dall'Antartide alle Americhe.
Ritornando alla fig. 8, il primo elemento strutturale che si osserva a partire dalla fossa è il ‛prisma orogenico', detto anche ‛prisma di accrezione' o ‛complesso di subduzione'. Il riconoscimento dei prismi attuali si fonda su indagini geofisiche e perforazioni profonde, trattandosi di strutture prevalentemente sepolte. Osservazioni dirette sono invece possibili su segmenti di paleoprismi risaliti verso la superficie in svariate catene collisionali. Il prisma orogenico è una catena a falde di ricoprimento di sezione subtriangolare, larga centinaia di chilometri e talora notevolmente profonda (30 km nelle Barbados, 50 km nella Vancouver Island), che si sviluppa sopra il piano di Benioff tra la fossa oceanica e la fronte della placca litosferica superiore. Le unità del prisma sono formate da pacchetti di sedimenti pelagici e soprattutto torbiditici (Flysch), strappati dalla fossa e affastellati sulla fronte del margine attivo in una successione di scaglie embricate che si appilano dal di sotto (underplating). Ne consegue che la scaglia sommitale è generalmente la più antica, quella più bassa la più recente. Rilievi emersi e un drenaggio ben sviluppato forniscono buona parte del materiale terrigeno necessario alla sua crescita. Il prisma può contenere anche sottili frammenti del basamento oceanico, sotto forma di falde ofiolitiche (v. Coleman, 1977; v. Bosellini, 1978) o di prodotti detritici provenienti dalla demolizione di rilievi suboceanici di varia natura (pilastri, vulcani, plateaux basaltici, gradini di faglia, diapiri, segmenti di dorsali inattive, ecc.) che difficilmente restano integri quando entrano nella stretta zona di subduzione. Possono esservi infine unità tettonico-sedimentarie di aspetto caotico, dette mélanges, costituite da frammenti di dimensioni estremamente variabili di ofioliti o di rocce continentali, spesso arrotondati da deformazioni milonitiche e dispersi in una matrice clastica. La formazione di un prisma orogenico corrisponde, in sostanza, a un graduale processo di accrescimento frontale del margine attivo, di esclusiva natura tettonica, generato dal trasferimento di materia allo stato solido dalla placca inferiore a quella superiore: è questo il significato preciso del termine ‛accrezione'.
Alcuni prismi orogenici contengono scaglie tettoniche di antica crosta continentale, la cui provenienza è controversa. Essi possono rappresentare: a) frammenti residuali della parte epidermica di uno o più microcontinenti intraoceanici, in parte digeriti dalla zona di subduzione; b) blocchi esotici maggiori (terranes), appartenenti in origine alla placca inferiore, traslati sino alla fossa lungo sistemi trascorrenti, per poi collidere con il margine attivo; c) frammenti del margine attivo, agganciati e trascinati nella zona di subduzione da rilievi morfo-strutturali della placca oceanica inferiore, operanti come punzoni (indenters); il fenomeno è definito con il termine di erosione tettonica (v. Polino e altri, 1990). Mentre i primi due casi rientrano nei processi di accrezione, il terzo corrisponde a un semplice riciclaggio meccanico di materiali della placca superiore.
I prismi orogenici sono situati nella zona di anomalia termica negativa indotta dal processo di subduzione e, quindi, sono soggetti a regimi termici di bassa temperatura che garantiscono alle unità tettoniche in risalita di preservare le associazioni metamorfiche formatesi nella zona di subduzione (v. fig.10). Il continuo appilamento di nuove unità alla base del prisma produce il progressivo sollevamento delle unità sovrastanti; il prisma può quindi emergere e subire processi di erosione (se ne trovano le tracce nei Flysch della fossa), ma è difficile che si sviluppi un sistema montuoso ad alto rilievo, poiché la sovrastruttura del prisma è assottigliata da ciclici processi di denudazione tettonica, di tipo estensionale-gravitativo, accompagnati da progradazione delle falde verso l'oceano e, a volte, da traslazioni in direzione opposta (v. Platt, 1993). Con questi meccanismi è possibile spiegare la graduale risalita verso livelli superficiali (esumazione) di unità tettoniche precedentemente subdotte, mentre il regime termico permane freddo sino a che persiste la subduzione litosferica. In sostanza, un prisma orogenico è una catena a falde caratterizzata da appilamento e dislocazione continua di unità tettoniche, le quali sono modificate da deformazioni duttili e fragili e da trasformazioni metamorfiche prograde e decompressionali, compatibili con le traiettorie cinematiche che esse descrivono. Tale evoluzione dinamica si protrae per decine di Ma, in evidente contrasto con la tradizionale suddivisione dei cicli orogenici in fasi o eventi tettono-metamorfici autonomi.
I prismi orogenici attivi, prevalentemente sommersi, sono il substrato di una serie di bacini di sedimentazione che si sviluppano nella zona di avanarco (v. Bally e altri, 1985). Si tenga presente che la geologia individua i bacini sedimentari in base alle caratteristiche strutturali e batimetriche del loro substrato, a prescindere dal fatto che essi si trovino, o meno, in un bacino marino unitario dal punto di vista geografico. L'elevata mobilità tettonica del prisma controlla l'evoluzione dei bacini di avanarco, caratterizzati da fondali molto articolati, con alti strutturali, soglie e zone subsidenti in rapida modificazione verticale e laterale. Altri bacini, più stabili, si estendono verso l'interno sulle parti del margine attivo comprese tra il retroterra rigido (buttress) del prisma e l'arco vulcanico; essi sono alimentati in prevalenza dai prodotti di disfacimento degli edifici vulcanici.
L'evoluzione di un margine continentale attivo, ad esempio quello americano (v. Bally e altri, 1985; v. Bally e Palmer, 1989), è caratterizzata dallo sviluppo di una seconda catena orogenica, situata oltre l'arco magmatico e comunemente definita foreland thrust-and-fold belt. Si tratta di una imponente pila di falde di copertura e basamento, con vergenza opposta rispetto a quella del prisma di accrezione, generate da scollamenti su vasta scala lungo orizzonti di minore competenza, paleozoici e mesozoici, deformazioni listriche e ripiegamenti, in progressiva migrazione verso l'avampaese. La deformazione si propaga lungo le superfici di stratificazione, a tratti tagliandole, guidata da discontinuità nella competenza dei materiali e producendo geometrie listriche o a gradinata (di tipo flat-ramp-flat; v. Boyer e Elliott, 1982). Le Montagne Rocciose americane e canadesi sono un classico esempio di foreland belt; esse sono state studiate in modo completo grazie alla stretta integrazione tra osservazioni geologico-strutturali e prospezioni sismiche a riflessione. L'avampaese ha un assetto monoclinale e si immerge con bassissima inclinazione sotto la catena. La superficie principale di distacco intacca livelli crostali sempre più profondi, assumendo il carattere di una zona di taglio duttile. Si ritiene inoltre verosimile che il piano di distacco si estenda verso le zone interne della catena sino a collegarsi, seguendo la Moho, con il complesso di subduzione, realizzando quindi la connessione tra i due sistemi tettonici; se questo è vero, l'intera cordigliera risulterebbe una ‛catena galleggiante' (float belt; v. Bally e Palmer, 1989), svincolata dalla litosfera oceanica in subduzione e, sull'altro lato, da quella continentale dell'avampaese in sottoscorrimento antitetico. Sembrano mancare, invece, le rotture e le duplicazioni della Moho che caratterizzano le catene collisionali e le Alpi in particolare.
Analoghe strutture tettoniche sono presenti anche nei sistemi orogenici collisionali (ad esempio il dominio elvetico e quello sudalpino nelle Alpi, grosso modo coevi, ma con vergenza opposta, e gli Appennini). Questi sistemi a falde sono accomunati dal loro carattere ensialico, cioè dal fatto che l'avampaese in sottoscorrimento è di natura continentale.
6. Le cordigliere
In un loro classico lavoro, J. F. Dewey e J. M. Bird (v., 1970) hanno reinterpretato la formazione delle principali catene orogeniche del globo alla luce dei nuovi paradigmi della tettonica delle placche (v. fig. 15). La fig. 15A mostra in successione cinematica la storia di una catena formatasi su di un margine continentale attivo in risposta alla subduzione, ancora in corso, di litosfera oceanica. Le cordigliere andine e nordamericane sono l'esempio migliore di questo tipo di catene. La placca nordamericana e quella sudamericana, separate dalla microplacca caraibica, sono entrambe in espansione lungo la dorsale medio-atlantica, mentre a occidente terminano con un margine continentale attivo che si estende lungo l'intera costa pacifica. Seguendo il modello di Dewey e Bird, l'evoluzione delle cordigliere americane è contraddistinta dalla formazione, verso la fossa, di prismi embricati di rocce oceaniche, Flysch e mélanges in facies scisti blu (v. Ernst, 1971) e, all'interno, dalla crescita di una intumescenza magmatica in espansione, il cui nucleo mobile tenderebbe a migrare verso il continente, innescando scivolamenti gravitativi delle coperture e sovrascorrimenti profondi. Il modello è stato perfezionato in ricerche successive che hanno riconosciuto la grande importanza della tettonica trascorrente e messo in luce alcune differenze nella struttura e nell'evoluzione delle cordigliere andine e nordamericane.
a) La cordigliera andina.
La cordigliera andina è ubicata sul margine attivo della placca sudamericana, al di sopra della litosfera oceanica della placca di Nazca, in subduzione obliqua ad alta velocità (9 cm/anno) e con piano di Benioff ad angolo variabile, ma generalmente molto basso (v. Zeil, 1979). Il processo convergente ebbe inizio tra il Triassico superiore e il Giurassico inferiore, prima dell'apertura dell'Oceano Atlantico, ed è tuttora in atto, come attestato dalla vistosa neotettonica e dall'intensa attività sismica. La struttura delle Ande è assai meno conosciuta e, almeno in apparenza, più semplice di quella delle catene nordamericane. Secondo la rassegna di Kearey e Vine (v., 1989), la zona di avanarco, esposta nella stretta fascia costiera e in forte sollevamento recente, è caratterizzata da sovrascorrimenti sintetici e antitetici, in propagazione verso est, e da faglie dirette e trascorrenti. Segue la cordigliera occidentale, la cui formazione iniziò con la crescita di un imponente arco vulcanico, di composizione andesitico-basaltica, e proseguì con l'intrusione di enormi batoliti compositi, favorita da una tettonica trascorrente e distensiva. Misure paleomagnetiche documentano la presenza di rotazioni rispetto all'avampaese stabile nelle zone esterne. La vigorosa compressione (Cretacico superiore-Terziario inferiore) delle potenti serie paleozoiche che ricoprono il basamento precambrico portò alla formazione e al sollevamento della cordigliera orientale, larga alcune centinaia di chilometri e sede di intense deformazioni fragili e duttili, con struttura tipo foreland belt. La tettonica a falde è particolarmente vistosa nell'oroclino boliviano, ove sono state riconosciute traslazioni orizzontali di parecchie decine di chilometri. L'ispessimento crostale, che sfiora i 70 km tra l'altipiano peruviano e la Bolivia, è ricondotto essenzialmente a processi di accrescimento magmatico e, in misura controversa, al raccorciamento tettonico del margine attivo. Una situazione particolare si registra in Patagonia, agli estremi meridionali della catena andina. La collisione tardo-miocenica di un segmento della dorsale oceanica del Cile con il margine attivo e la conseguente migrazione del punto triplo nella zona di avanarco avrebbero causato fenomeni di erosione tettonica, la messa in posto delle ofioliti della penisola di Taitao, la temporanea interruzione del magmatismo di arco e la genesi di un foreland thrust-and-fold belt, seguito da magmatismo basaltico di plateau.
b) Le cordigliere nordamericane.
La struttura delle cordigliere nordamericane (v. Monger e Price, 1979; v. Bally e Palmer, 1989; v. Kearey e Vine, 1989), in parte delineata nei paragrafi precedenti, è schematizzata nella fig. 16. Il loro assetto si distingue, rispetto a quello delle Ande, per la grande diffusione dei processi di accrezione, la presenza di unità con metamorfismo di subduzione, la grande importanza della tettonica trascorrente, un minore ispessimento crostale e una maggiore estensione e continuità delle catene a falde vergenti verso l'avampaese orientale. La principale peculiarità sembra tuttavia consistere nel fatto, noto dalla fine degli anni settanta, che il settore costiero-assiale dell'attuale fascia orogenica, dagli Stati Uniti occidentali all'Alaska, è costituito da un mosaico di circa 200 blocchi esotici e di natura ‛sospetta' (suspect terranes), di forma allungata e di dimensioni estremamente variabili, delimitati da contatti tettonici e aggregati lateralmente a una antica catena marginale. Si tratta di frammenti di crosta continentale e oceanica, di archi insulari relitti (Quesnellia, Wrangellia), di complessi caotici con elementi ofiolitici e di altri terreni di età variabile dal Giurassico al Precambriano, ciascuno contrassegnato da caratteri litologici e biostratigrafici peculiari, indipendenti da quelli delle unità adiacenti; essi mostrano inoltre inclinazioni del campo magnetico fossile incompatibili con l'attuale latitudine, a riprova di una loro origine lontana e di ingenti traslazioni longitudinali guidate da direttrici trascorrenti, alcune ancora attive. Questi terreni esotici furono inizialmente interpretati come frammenti di microplacche litosferiche staccate dal Gondwana, poi come porzioni di archi insulari e di alti topografici oceanici, di varia natura, trasportati gradualmente da placche oceaniche, in buona parte già consumate in subduzione, sino a collidere con il margine continentale americano; si prospettava così un grandioso processo di accrescimento tettonico secondo direttrici oblique. Ricerche recenti hanno segnalato la presenza di possibili ‛terreni sospetti' anche lungo la fascia costiera delle catene centroamericane e delle Ande, apportando nuovi motivi di analogia tra i due principali segmenti delle cordigliere americane.
Seguendo le ricostruzioni più recenti, la cordigliera nordamericana comprende svariati elementi strutturali che, nel loro insieme, formano una catena ‛galleggiante' sul mantello litosferico del margine attivo, completamente scollata lungo la Moho (v. fig. 16; v. Oldow e altri, 1989). Da questo gigantesco orizzonte di scollamento basale si diramano, verso l'alto, numerosi piani di taglio che coinvolgono basamento metamorfico e coperture, assieme a frequenti svincoli trascorrenti di tipo destrorso. Essi sono l'espressione tettonica di compressioni trasversali e traslazioni longitudinali, entrambe indotte dalla subduzione obliqua della litosfera oceanica. Procedendo da ovest a est, troviamo i seguenti elementi strutturali (v. fig. 16): 1) la placca oceanica in subduzione; 2) un profondo prisma di accrezione vergente verso l'oceano, primo elemento del margine attivo, formato da sedimenti oceanici e da lame ofiolitiche; 3) numerosi terranes esotici (I-IV) alternati a prismi orogenici suturati, più antichi di quello frontale, contenenti l'arco magmatico mesozoico-cenozoico e i bacini di avanarco; 4) un nucleo di scaglie metamorfiche con intensa deformazione duttile, derivate dall'originario margine passivo dell'America occidentale; 5) un vistoso raddoppio di crosta continentale, seguito dal foreland thrust-and-fold belt, larga catena a falde che si estende per migliaia di chilometri dall'Alaska al Messico; la sua progressiva propagazione verso oriente ha prodotto un raccorciamento crostale di parecchie centinaia di chilometri; 6) la crosta normale dell'avampaese, in subduzione continentale a basso angolo, localmente scagliata e compressa a formare il cosiddetto rialzo esterno (foreland basement uplift). Le varie unità strutturali del foreland belt possono essere restaurate nell'area attualmente occupata dall'insieme dei terranes esotici, derivati a loro volta da misteriose regioni lontane. A differenza delle catene collisionali alpino-himalaiane, le cordigliere americane sembrano prive di radici litosferiche.
7. Le catene collisionali
Le nuove concezioni sulla formazione delle catene di collisione continentale sono sintetizzate nella fig. 15B, tratta da Dewey e Bird (v., 1970). Essa mostra quattro ‛istantanee' dell'evoluzione cinematica di un margine convergente. Con il procedere della subduzione litosferica, il bacino oceanico si riduce d'ampiezza e il continente retrostante si avvicina progressivamente alla fossa (1-2), sino a collidere con il margine attivo della placca superiore (3). Dell'oceano originario resta soltanto una sottile sutura ofiolitica. Il processo collisionale continua con la crescita della catena a falde nell'ambito di una struttura crostale fortemente ispessita (4). Modelli successivi hanno integrato questo schema evolutivo postulando lo sviluppo, prima della collisione, del prisma orogenico e di un regime termico di bassa-T di cui si è già parlato. Il prisma orogenico continua ad accrescersi durante la collisione, aggregando nuove unità tettoniche provenienti dal margine passivo della placca inferiore, riattivato in compressione. Il controllo cinematico dell'accrezione collisionale è garantito da un piano di Benioff che assume carattere intracontinentale (ensialico). Il processo di subduzione riduce la sua velocità, frenato dai maggiori attriti prodotti dalla penetrazione della crosta continentale in profondità. Tale rallentamento si riflette nella graduale restaurazione delle condizioni termiche iniziali, integrate dal calore prodotto dal decadimento radioattivo nella crosta continentale ispessita e, in certi casi, da quello trasferito dalla risalita di corpi astenosferici caldi e dell'eventuale underplating di magmi femici. Il nuovo assetto termico trova riscontro in un metamorfismo regionale di tipo barroviano, in evoluzione verso gradienti di alta temperatura, spesso accompagnato, o seguito, da un magmatismo collisionale a dominante affinità calcalcalina. Mentre la catena si solleva, innescando vistosi processi erosivi, la pila delle falde si raffredda gradualmente, continuando a deformarsi in modo duttile sinché il suo stato termico lo consente. Con l'irrigidirsi della parte assiale della catena ispessita, ormai raffreddata, la compressione litosferica tende a sfogarsi alla periferia dell'orogene, generando nuove fratture profonde e nuovi sistemi di falde. È soprattutto in questa fase tardo-collisionale che si forma la struttura crostale a doppia vergenza, ove presente.
L'esistenza in molte catene collisionali di molteplici suture ofiolitiche o di sequenze assimilabili a prodotti di arco hanno favorito la nascita di modelli evolutivi più articolati e di configurazioni iniziali dell'oceano più complesse. Queste ricostruzioni si basano sull'ipotesi che la continuità della litosfera oceanica in subduzione sia interrotta da microcontinenti, antichi archi insulari e altri corpi esotici, trasportati passivamente sino a collidere con il margine della placca superiore prima che si verifichi la collisione continentale sopra descritta. Se la fossa non riesce a inghiottire l'oggetto in questione, il processo di subduzione può esaurirsi o migrare verso l'oceano, garantendo la continuità della dinamica convergente. Un caso emblematico di subduzioni e collisioni multiple di vari sistemi arco-fossa, chiusura dei bacini marginali interposti e collisione continentale finale, è rappresentato dall'orogene della regione arabo-nubiana, pervenuto allo stadio terminale di collisione tra i due cratoni antagonisti alla fine del Proterozoico superiore.
a) Le Alpi.
Dal punto di vista geologico, le Alpi sono un'intumescenza crostale estesa in profondità sino a 50-55 km e tuttora mobile, generata dalla chiusura della Tetide e dallo scontro della microplacca adriatica con il margine continentale passivo della sottostante placca europea. Le Alpi hanno una struttura a doppia vergenza, espressione che indica la coesistenza di due sistemi tettonici traslati in senso opposto: le Alpi (sensu stricto) e le Alpi meridionali (sudalpino), appilate rispettivamente verso l'avampaese europeo e quello padano-adriatico (africano; v. figg.18 e 19). Si noti, tuttavia, che la doppia struttura è un accidente locale, legato allo sviluppo di deformazioni epidermiche nella crosta adriatica, mentre l'orogene alpino denota, a livello profondo, una generale configurazione asimmetrica, dovuta alla sovrapposizione della litosfera adriatica su quella europea. Lo hanno dimostrato, negli ultimi anni, le indagini eseguite dal progetto CROP-ECORS nelle Alpi italo-francesi (v. Polino e altri, 1990) e analoghi esperimenti nelle Alpi centrali.
La catena alpina a vergenza europea è separata dalle Alpi meridionali tramite un fascio di faglie neogeniche, detto lineamento periadriatico, ed è costituita dai seguenti elementi strutturali di primo ordine, elencati in successione dall'alto al basso e procedendo dal lineamento periadriatico verso l'avampaese: 1) austroalpino orientale, enorme piastra di falde di basamento e copertura, di origine adriatica, estese per oltre 400 km dall'Engadina al bacino di Vienna; 2) austroalpino occidentale (Sesia-Lanzo e Dent Blanche), circoscritto al settore nordoccidentale delle Alpi; 3) zona pennidica, grande pila di sottili falde di basamento e copertura, alternate a molteplici unità ofiolitiche; molto estesa nelle Alpi centro-occidentali, è esposta a oriente solo lungo la fronte del sovrascorrimento austroalpino (Flysch reno-danubico) e in alcune finestre tettoniche aperte al suo interno (Engadina, Tauri, Bernstein-Rechnitz); 4) zona elvetico-delfinese, costituita da cunei listrici di basamento granitico-gneissico (Argentera, Monte Bianco, Aar-Gottardo, ecc.), da coperture sedimentarie e da estese falde di scollamento; 5) avanfossa oligocenico-miocenica (molassa esterna), in parte traslata sotto la catena; 6) Giura franco-svizzero (falde pellicolari neogeniche).
Ulteriori dettagli emergono dall'esame di uno spaccato verticale della catena, spinto sino alla Moho. Commenteremo la geotraversa delle Alpi nordoccidentali, dal Verbano al Lago di Ginevra; essa comprende il transetto piemontese delle Alpi meridionali e l'intera pila di falde a vergenza europea, dalla culminazione tettonica dell'Ossola-Ticino alla depressione assiale della Valle d'Aosta e al settore elvetico. La fig. 19 mostra la parte di catena che è accessibile alle osservazioni sul campo, mentre la fig. 20 presenta una ricostruzione litosferica dell'intero orogene, ottenuta integrando la fig. 19 con i dati forniti dalla geofisica sulla parte sepolta dell'orogene (v. fig. 18). Si notino, in particolare, il ruolo e la configurazione della zona assiale (marcata 4 in fig. 18) nel contesto della collisione tra la litosfera europea (2 + 3) e quella adriatica (1, Alpi meridionali), nonché la sua struttura interna, comprendente le sottili falde pennidiche di basamento e copertura, le ofioliti e l'austroalpino. Nel loro insieme, queste unità formano un multilayer crostale, spesso una trentina di chilometri, privo di un proprio mantello peridotitico e svincolato meccanicamente dalle superunità litosferiche circostanti (1, 2 e 3 in fig. 18); esso palesa la geometria e l'intima struttura di un prisma collisionale, una sorta di ‛catena galleggiante' in avanzata fase di esumazione. Si osservi, inoltre, il carattere epidermico delle Alpi meridionali, una catena scollata e senza radici che, nel suo piccolo, mostra geometrie paragonabili a quelle dei foreland thrust-and-fold belts delle cordigliere americane.
La configurazione attuale delle Alpi e le molteplici informazioni insite nelle rocce sono il punto di partenza per decifrare la storia evolutiva dell'orogenesi alpina. A grandi linee, essa si articola in due cicli principali: a) un'orogenesi precollisionale, a vergenza europea e in certa misura affine a quella registrata da alcuni segmenti delle catene circumpacifiche; b) un'orogenesi di collisione continentale, che inizia con la definitiva chiusura dell'oceano mesozoico della Tetide, coinvolge le due litosfere contrapposte ed è tuttora in atto (sismicità).
Il processo convergente ha inizio nel Cretacico, quando l'Europa e la litosfera oceanica della Tetide alpina assumono, unitariamente, il ruolo di placca inferiore, in subduzione sotto il margine attivo della microplacca adriatica. È verosimile, tuttavia, che alla fronte della placca superiore esistesse un limitato tratto oceanico, necessario per giustificare il ‛detrito ofiolitico' ad affinità appenninica (liguride) presente nel Flysch delle Prealpi franco-svizzere (v. fig. 19). L'esistenza della subduzione è attestata da peculiari associazioni mineralogiche di alta-P e bassa-T (in facies eclogitica e scisti blu), presenti in tutti i dominî strutturali della catena, tranne la zona elvetica e le Alpi meridionali. Il metamorfismo di subduzione ha età cretacico-paleocenica (eoalpina) nell'austroalpino, ma è essenzialmente eocenico nelle falde continentali e oceaniche della zona pennidica. In altre parole, mentre le falde austroalpine furono coinvolte precocemente nel ‛basso termico' indotto dalla subduzione, la crosta continentale pennidica e le ofioliti associate vi sarebbero entrate in tempi successivi, anche durante le fasi iniziali della collisione continentale. Il concetto di prisma orogenico (v. Polino e altri, 1990; v. Platt, 1993), applicato alle Alpi negli anni ottanta, fornisce nuove prospettive sia per la genesi e l'appilamento precoce delle falde con metamorfismo di alta-P, sia per la loro progressiva esumazione, imputata a pulsazioni distensive della soprastruttura del prisma in accrescimento basale e frontale. Questa soluzione supera precedenti ipotesi che postulavano una risalita verticale per galleggiamento isostatico, un ritorno forzato di scaglie imbricate lungo una zona di taglio duttile, a tetto del piano di Benioff collisionale, oppure un evento distensivo a scala litosferica. Il prisma orogenico, parzialmente emerso e sottoposto a erosione, costituì inoltre la sorgente dei Flysch cretaceo-paleogenici.
L'orogenesi collisionale è contrassegnata dal coinvolgimento del margine passivo europeo nella zona di subduzione intracontinentale, dal rallentamento del processo e da un radicale cambiamento del regime termico. Ne è espressione il metamorfismo regionale mesoalpino, di tipo barroviano e di età eocenico-oligocenica, con picco termico attorno ai 38 Ma. Esso cresce di grado (in termini termo-barici) procedendo dalle falde pennidiche sommitali verso quelle più profonde (v. fig.19) e raggiunge l'acme (facies anfibolitica, anatessi incipiente) nel cuore della finestra dell'Ossola-Ticino. Le sue isograde, discordanti rispetto ai confini delle falde, documentano l'esistenza di una perturbazione termica di origine profonda. L'elevata temperatura e il perdurare della dinamica convergente favorivano, nel contempo, la deformazione duttile dei sistemi tettonici appilati in precedenza (v. le pieghe a grande raggio in fig. 19).
Il metamorfismo collisionale mesoalpino è seguito, a distanza di pochi milioni di anni, da imponenti manifestazioni magmatiche di età oligocenica (33÷29 Ma), estese per 700 km attorno al lineamento periadriatico, dalla bassa Valle d'Aosta alle Karawanken. Esse hanno affinità geochimica di tipo calcalcalino e sono alimentate da magmi progenitori di origine sottocrostale. Nelle Alpi meridionali, ove manca il metamorfismo mesoalpino, il ciclo oligocenico è preceduto dall'intrusione di plutoni eocenici (Adamello meridionale) e dalle coeve eruzioni basaltiche del Veneto occidentale e del Trentino. Il metamorfismo mesoalpino e il magmatismo periadriatico sono stati generati dallo stesso evento termico di origine profonda, imputabile verosimilmente al distacco (delaminazione, break-off) di un lembo del mantello litosferico colliso e dalla concomitante risalita di astenoliti caldi (v. Dal Piaz, 1995). Questo lembo corrisponde alle ‛radici litosferiche' presenti nel settore interno delle Alpi sino alla profondità di qualche centinaio di chilometri (v. Panza, 1984); se le paragoniamo alla zavorra di una barca a vela, si comprende immediatamente come il loro distacco dalla sovrastante catena collisionale abbia potuto generare condizioni di marcato disequilibrio isostatico della crosta ispessita, espresse in superficie dal rapido sollevamento del rilievo, dalla sua erosione (depositi di molassa) e dall'effimera distensione della soprastruttura alpina che forniva nuovi spazi all'intrusione passiva dei corpi ignei.
Il magmatismo periadriatico si esaurisce improvvisamente alla fine dell'Oligocene, soffocato da una vigorosa ripresa della convergenza litosferica. Inizia lo stadio conclusivo (neoalpino) dell'evoluzione collisionale. Esso è caratterizzato dalla risalita del prisma orogenico e dalla propagazione del fronte compressivo al dominio elvetico, al bacino della molassa e al Giura franco-svizzero; questi processi sono governati dalla dinamica della litosfera continentale europea che continua a scendere sotto la catena, favorendo lo scollamento di estese falde di copertura e il distacco dei cunei di rocce granitiche e metamorfiche che formano il Monte Bianco e gli altri massicci elvetici. Sul lato opposto, iniziano a deformarsi anche le Alpi meridionali, retroterra della preesistente catena a vergenza europea. La litosfera sudalpina comprime il settore radicale delle falde a vergenza europea, che si sollevano e si retroflettono; per contraccolpo antitetico, la crosta adriatica si scolla e si raccorcia, dando origine ai ricoprimenti a vergenza padano-adriatica. In questa prospettiva, la doppia vergenza delle Alpi è imputabile a un processo di ‛indentazione' tettonica, già concepito da Argand (v., 1916); esso modifica solo la soprastruttura della catena e non ha ripercussioni sul suo assetto litosferico, che è dominato da una vergenza europea.
Dall'evoluzione cinematica della catena alpina passiamo ora al problema della configurazione iniziale della Tetide, riaperto nell'ultimo quarto di secolo e tuttora oggetto di vivaci discussioni. Con l'avvento della tettonica delle placche entrava in crisi il metodo di restaurazione della Tetide proposto da Argand (v., 1916); infatti, superato il paradigma della contrazione duttile della geosinclinale mediante lo sviluppo di una sequenza continua di ricoprimenti per piega coricata, si infirmava anche la validità della procedura inversa, che si riteneva garantisse una soluzione univoca alla ricostruzione palinspastica della catena. Le antiche certezze erano messe in discussione dalla comparsa di nuove ‛variabili', quali la presenza di molteplici intercalazioni ofiolitiche, il loro significato in relazione all'esistenza di una o più suture oceaniche e l'origine delle sottili scaglie di crosta continentale presenti nella zona pennidica.
La distribuzione delle ofioliti nell'orogene alpino non è omogenea. Nel settore italo-francese si osserva un solo complesso ofiolitico (zona piemontese), situato al tetto della catena in assenza della falda austroalpina. In Valle d'Aosta, nel Vallese e nell'Ossola vi sono invece tre distinti orizzonti tettonici marcati da unità ofiolitiche (v. fig. 19): la zona piemontese, la zona di Antrona, interposta tra il Monte Rosa e il settore radicale del Gran San Bernardo, e la zona del Versoyen (vallesana). Analoghi complessi ofiolitici ricompaiono a oriente della culminazione assiale Ossola-Ticino, dalla Valmalenco all'Engadina, e a essi si aggiungono le ofioliti di Platta-Arosa, unità situata a un livello strutturale ancora più elevato, sopra la Margna, possibile omologo dell'austroalpino occidentale. Le ipotesi classiche sulla paleostruttura della Tetide, avanzate agli inizi degli anni settanta, postulavano l'esistenza di un solo bacino oceanico (piemontese) nelle Alpi italo-francesi, prosecuzione diretta del bacino ligure (culla delle ofioliti appenniniche; v. Abbate e altri, 1988). L'oceano era allocato tra il margine passivo europeo e quello adriatico (africano): al primo si attribuivano la zona elvetica e le falde pennidiche presenti al di sotto delle ofioliti, giustapposte lateralmente rispettando l'attuale sequenza verticale; al secondo le falde austroalpine e le Alpi meridionali. Nel settore svizzero e austriaco, la molteplicità dei complessi ofiolitici portava invece a sostenere l'ipotesi di due bacini oceanici appaiati, chiamati rispettivamente nord-pennidico (o vallesano) e sud-pennidico (piemontese), separati da un promontorio di litosfera continentale (zona brianzonese). A partire dagli anni ottanta, l'assunto che ogni unità ofiolitica fosse la sutura di uno specifico bacino oceanico trovava nuovi fautori: aumentavano così il numero dei canali oceanici (sino a quattro) e quello dei microcontinenti interposti (Brianzonese-Hochstegen, Monte Rosa, Margna). Nel frattempo, si consolidava l'ipotesi che il settore svizzero e austriaco della Tetide avesse carattere trascorrente e di raccordo cinematico tra l'Oceano giurassico ligure-piemontese, in espansione, e l'Oceano triassico di Vardar-Meliata (Carpazi), in contrazione (v. Dal Piaz e altri, 1995).
Partendo da assunti così variegati sulla configurazione della Tetide alpina, non deve sorprendere l'esistenza di divergenze altrettanto profonde nella ricostruzione dell'orogenesi e, in particolare, delle sue fasi iniziali. I modelli classici, fondati sulla provenienza europea dell'intera zona pennidica, privilegiavano il concetto di ‛subduzione sincollisionale' di tutte le falde con metamorfismo di alta-P, e il suo progradare verso le zone esterne; solo l'austroalpino sarebbe stato coinvolto nell'orogenesi prima della chiusura dell'oceano piemontese. Altre ricostruzioni, più o meno popolari, ipotizzavano o l'esistenza di due zone di subduzione, così da giustificare la sutura dei due canali oceanici postulati nel dominio alpino centro-orientale, oppure una configurazione del margine convergente ispirata ai sistemi arco-fossa circumpacifici, con subduzione intraoceanica (zona piemontese) associata alla crescita di un prisma di accrezione, di un arco vulcanico insulare e di un bacino retroarco (sud-pennidico; v. Dal Piaz e Gosso, 1984; v. Dal Piaz, 1995).
Negli anni novanta si acuivano i contrasti sulla paleogeografia della Tetide alpina e sulla sua evoluzione orogenica, i cui termini estremi erano l'assunto di un solo bacino oceanico e quello di canali oceanici alternati a microcontinenti. Nel primo caso, si attribuiva al prisma orogenico la funzione di creare il sistema multifalda pennidico prima della collisione continentale, attraverso la combinazione di processi di accrezione di unità ofiolitiche e di erosione tettonica del margine attivo, già smembrato durante la fase di rifting. Questo modello - che proponeva una ricostruzione del tutto eterodossa della Tetide ed enfatizzava il ruolo dell'erosione tettonica - si basava sulla presunta età eoalpina del metamorfismo di subduzione nell'intera zona pennidica, età peraltro in parte smentita da successive datazioni. Nel secondo caso, a fronte di una maggiore consonanza con la paleogeografia classica, sorgevano gravi difficoltà relative alle dimensioni litosferiche dei microcontinenti (postulabili dal confronto con moderni omologhi, ad esempio il ‛blocco sardo-corso'). In particolare, non era facile spiegare la mancata ostruzione della zona di subduzione, la ripetuta estrazione delle sottili falde pennidiche dai microcontinenti, in collisione con il margine attivo, e la sorte della restante litosfera continentale destinata a finire nelle radici della catena.
Molti di questi problemi possono essere superati ricorrendo a una terza ipotesi, fondata sul concetto che le falde di basamento della zona pennidica e dell'austroalpino occidentale siano state ‛confezionate' in distensione, molto prima dell'orogenesi alpina, come sottili frammenti crostali (extensional allochthons) della placca superiore di un rift asimmetrico (v. Dal Piaz, 1995). In particolare, assumendo che il processo di rifting si sia evoluto sino alla lacerazione della crosta continentale e alla denudazione del mantello sottostante, non è irragionevole pensare che alcuni di questi allochthons siano rimasti intrappolati nel bacino oceanico e poi avvolti dalla crosta basaltica durante lo stadio di spreading. Se le sottili falde in questione erano realmente tali sin dalle origini, vengono eliminati a priori i problemi ricordati in precedenza: il rischio di una prematura ostruzione della zona di subduzione, il lavoro richiesto per delaminare un microcontinente e la difficoltà di trasferire nelle ‛radici' gli ingenti volumi residui di crosta continentale.
Il quadro risultante della Tetide alpina potrebbe sembrare simile a quello della classica alternanza di canali oceanici e microcontinenti, ma in realtà è radicalmente diverso. La novità consiste nel prospettare l'esistenza di una placca inferiore che, pur contenendo alcuni frammenti continentali, mantiene, a causa del loro esiguo spessore, le caratteristiche fisiche e geometriche di una litosfera oceanica normale, cioè di una piastra densa, fredda e subsidente che favorisce l'innesco del processo di subduzione e non frappone ostacoli al suo procedere. Tale configurazione favorisce anche lo sviluppo del prisma orogenico e la genesi precoce di coppie di falde continentali e ofiolitiche caratterizzate da analoghe traiettorie cinematiche. La collisione continentale - intesa come processo di rango litosferico - inizia dopo la chiusura di questo particolare bacino oceanico (allochthons inclusi), quando arriva alla fossa l'ingombrante struttura litosferica del margine passivo europeo. È verosimile che tale margine fosse costituito, nella parte frontale, dalla zona elvetica, dalle unità pennidiche inferiori ad affinità ultraelvetica e, forse, ma non necessariamente, anche dalla zona brianzonese, rispettando in ogni caso l'ipotesi classica di una chiusura relativamente tardiva (Eocene) dell'oceano della Tetide.
b) Gli Appennini.
Gli Appennini sono una catena tipo foreland belt, di età tardo-collisionale in riferimento alle Alpi, generata sulla placca superiore e nel retroterra dell'orogene alpino (Adria), collassato e in parte sostituito dalla crosta semioceanica in espansione del Tirreno. Esaminando in visione planimetrica l'accavallamento frontale degli Appennini sull'avampaese adriatico, si notano due principali strutture arcuate, di età post-tortoniana, convesse verso l'alto Adriatico e lo Ionio e delimitate da una profonda avanfossa plio-quaternaria (v. Patacca e altri, 1992 e 1993): l'arco degli Appennini settentrionali e quello, più accentuato, che si estende dagli Appennini centro-meridionali alla Sicilia. Tale suddivisione è valida anche a livello del mantello (v. Panza, 1984; v. Serri e altri, 1993). Si può inoltre osservare che la zona di compressione frontale plio-quaternaria è priva di un riscontro orografico, essendo generalmente sepolta sotto i depositi recenti della pianura padana, dell'Adriatico settentrionale e dello Ionio; fanno eccezione l'Appennino meridionale, dal Gargano al Golfo di Taranto, e la Sicilia.
Gli Appennini non sono l'estensione geologica delle Alpi, come si potrebbe a prima vista desumere dalla continuità orografica, estensione che è rappresentata invece dal sistema a falde della Corsica nordorientale. Rispetto alle Alpi, la catena appenninica è molto più giovane (si è formata essenzialmente negli ultimi 15 Ma), ha vergenza opposta (africana), rilievo decisamente più basso, un'architettura interna tipo thrust-and-fold belt e un esteso bacino retroarco (Tirreno). Essa è costituita da discontinue unità ofiolitiche sommitali (liguridi; v. Abbate e altri, 1988), da un potente sistema di sottili falde di scollamento (prisma sedimentario) e da minori scaglie di basamento metamorfico, in prevalenza sepolte, generate dalla deformazione del margine adriatico. Catena e avanfossa hanno subito una progressiva migrazione verso l'avampaese continentale adriatico (in sottoscorrimento), alla velocità di qualche cm/anno, mentre le zone interne sono ora in estensione; compressione e distensione, entrambe sismogeniche, agiscono contemporaneamente in settori diversi dell'orogene. Si noti che il rilievo della catena è controllato dal regime distensivo, che si espande verso est, e quindi anche lo stesso spartiacque appenninico migra verso l'Adriatico, modificando il sistema idrografico e la morfologia della regione. Le ofioliti e le unità di basamento della catena costiera della Calabria, comprendenti scaglie di crosta continentale profonda, attestano tuttavia l'esistenza di deformazioni più antiche, imputabili all'orogenesi alpina.
La ricostruzione palinspastica degli Appennini, desunta dall'analisi integrata dei dati stratigrafici, geologico-strutturali, geofisici e paleomagnetici disponibili, consente di tracciare l'evoluzione cinematica della catena, con particolare riguardo alla progressiva migrazione e rotazione antioraria del fronte compressionale. Il processo è correlato con alcuni eventi geodinamici che hanno contrassegnato la storia del Mediterraneo centrale a partire dall'Oligocene superiore. In quel tempo ebbe inizio l'apertura del bacino a crosta oceanica del Mare Ligure-Balearico, espansione che provocò il distacco dalla costa provenzale del blocco litosferico sardo-corso (ex avampaese alpino), la sua rotazione sino alla posizione attuale e la compressione delle zone antistanti, dove approssimativamente passava la struttura collassata della catena alpina. A questo processo dinamico è probabilmente imputabile il trasferimento di frammenti alpini nel dominio appenninico (le ofioliti con metamorfismo di subduzione del Giglio, dell'Argentario e della Calabria e le unità di basamento calabre). A partire dal Miocene superiore si verificò l'apertura del bacino del Tirreno, un processo, tutt'ora attivo, che produsse la definitiva frammentazione e l'inabissamento del prolungamento meridionale delle Alpi e, all'esterno, la compressione del dominio appenninico, con progressivo accrescimento della catena a falde a spese di ulteriori porzioni dell'avampaese adriatico.
Alcuni autori ritengono che l'orogenesi appenninica sia dovuta essenzialmente all'apertura del Tirreno, per effetto di una denudazione tettonica estensionale e della risalita ‛attiva' di corpi astenosferici caldi. Di contro, nei modelli classici e in recenti approfondimenti (v. Patacca e altri, 1992; v. Serri e altri, 1993) la genesi degli Appennini è attribuita alla subduzione della litosfera adriatica, responsabile dello sviluppo, dopo la collisione continentale (Eocene-Oligocene), di una serie di eventi tettono-magmatici e della migrazione degli Appennini verso l'Adriatico. Tra questi eventi sono compresi: il magmatismo di arco (Oligocene-Miocene inferiore) della Sardegna; l'apertura di bacini retroarco, dapprima nella zona balearica e poi nel Tirreno; la tettonica distensiva delle zone interne della catena; il magmatismo miocenico della Corsica e quello plio-quaternario della provincia toscana e romana, esteso dalle isole tirreniche alla fascia costiera. Il massimo del raccorciamento crostale si registra in corrispondenza dell'arco calabro ed è correlabile con la massima espansione del bacino tirrenico, verificatasi nel suo settore meridionale. Molti aspetti sono ancora incerti e dibattuti: la durata del processo di subduzione, che potrebbe essersi esaurito nel Miocene, o essere tuttora attivo; la natura oceanica oppure continentale della fronte, ormai sepolta, della placca adriatica in subduzione; l'originaria tipologia del mantello e le cause delle sue anomalie geochimiche.
In una ricostruzione fondata soprattutto sull'interpretazione petrologica del magmatismo e sul confronto con possibili omologhi, Serri e altri (v., 1993) hanno prospettato un'evoluzione a tre stadi, neogenico-quaternari, del settore tirrenico-appenninico: 1) la litosfera adriatica, resa instabile dall'ispessimento collisionale, avrebbe subito un processo di delaminazione, suddividendosi in due parti: la sezione crostale, che iniziava a deformarsi in strutture embricate con vergenza orientale, e la sezione mantellica, che proseguiva la subduzione verso occidente trascinando con sé, soprattutto nelle fasi iniziali, estese porzioni di crosta profonda; la risalita diapirica dell'astenosfera tra crosta e mantello, in progressiva separazione, avrebbe prodotto l'erosione termica della litosfera collisionale sovrastante (Corsica), inducendovi processi di estensione e fusione parziale; 2) tra la fine del Miocene e il Pliocene, si sviluppa un magmatismo dominato da prodotti acidi la cui genesi richiede la fusione parziale di crosta continentale e l'interazione di magmi generati dall'astenosfera contaminata; 3) nel Quaternario l'onda orogenica continua a migrare verso oriente, mentre l'erosione termica prodotta dal cuneo di astenosfera intacca la litosfera adriatica e perdurano gli apporti del mantello in subduzione.
c) L'oroclino dei Carpazi.
I Carpazi sono una catena collisionale dalla caratteristica forma arcuata (oroclino). Essi sono la prosecuzione orientale delle Alpi, ma la connessione fra le due catene è attualmente sepolta, per collasso tettonico, al di sotto dei sedimenti neogenici del bacino di Vienna. L'arco dei Carpazi è il risultato di un lungo processo di convergenza obliqua, che dal Cretacico superiore si protrasse fino al Neogene, tra la placca inferiore europea e la microplacca adriatica, promontorio continentale dell'Africa (v. Royden e Horvath, 1988; v. Dal Piaz e altri, 1995). Procedendo dall'avampaese europeo verso il bacino pannonico si incontrano, in successione dal basso all'alto, i seguenti dominî strutturali: 1) la molassa neogenica, riempimento del bacino di avanfossa e direttamente connessa con la molassa alpina; 2) il prisma dei Flysch esterni, classica catena a falde di scollamento generata dall'Oligocene al Neogene a spese di depositi clastici sinorogenici cretacico-neogenici; 3) la sottile cintura suturale dei Pieniny Klippen Belt, costituita da Flysch cretacei e da lembi rigidi di rocce carbonatiche mesozoiche; 4) i Carpazi interni, una potente pila di falde di basamento e locali coperture (Tatra, Dacidi, ecc.), di provenienza discussa, collassate verso il settore concavo dell'arco al di sotto del bacino pannonico. L'evoluzione della catena di collisione continentale, iniziata con la chiusura dell'Oceano giurassico della Tetide, è segnata dall'appilamento dei Carpazi interni, dalla propagazione verso l'avampaese del prisma dei Flysch esterni e dallo sviluppo progressivo dell'oroclino, accompagnato dalla fuga laterale (verso oriente) di alcuni blocchi interni, e si conclude con l'apertura del bacino pannonico all'interno dell'arco.
Vistose tracce dell'Oceano mesozoico della Tetide (ofioliti) sono ancora preservate, come si è visto, nelle Alpi, negli Appennini e in altre catene del Mediterraneo (v. Abbate e altri, 1988; v. Dercourt e altri, 1990); esse sono invece molto scarse nei Carpazi, ove sono esposti solo limitati e discontinui corpi ofiolitici (Meliata, Transilvania), localizzati all'interno della pila di falde continentali dei Carpazi interni, cioè entro il margine attivo della placca superiore, ove definiscono un'evanescente sutura oceanica più antica della sutura dei Pieniny. Quest'ultima, benché priva di unità ofiolitiche, contiene abbondanti clasti di ofioliti in facies scisti blu entro corpi conglomeratici del Flysch cretacico, alimentati dall'erosione di una paleostruttura (exotic ridge) attualmente scomparsa dal panorama della catena. Mentre le ofioliti alpine sono riferibili al Giurassico medio-superiore e sono state sottoposte a subduzione a partire dal Cretacico o dal Terziario, quelle dei Carpazi risalgono al Triassico e hanno un'impronta metamorfica in facies scisti blu di età calloviano-oxfordiana (v. Dal Piaz e altri, 1995). Ne consegue che l'Oceano di Vardar (Tetide triassica) raggiungeva l'area carpatica a est del promontorio africano e si chiudeva dal Giurassico medio-superiore, contemporaneamente all'espansione del bacino oceanico ligure-piemontese. Nel Giurassico il promontorio africano era quindi delimitato da un margine convergente a est e da un margine divergente a ovest; la loro connessione cinematica era garantita, sul lato settentrionale, da una zona trascorrente che si estendeva, con direzione circa est-ovest, lungo il segmento svizzero-austriaco della Tetide (v. Abbate e altri, 1988; v. Dal Piaz e altri, 1995).
d) Il sistema himalaiano.
L'immensa catena himalaiana, di poco più giovane delle Alpi, ha un'estensione di circa 3.000 km e comprende i massimi rilievi del globo. Essa è tuttora in forte sollevamento (sino a 4 mm/anno, valore quattro volte superiore a quello delle Alpi) ed è soggetta a vistosi processi di erosione accelerata che sono la causa dei potenti depositi clastici dell'avanfossa sub-himalaiana (Siwalik, bacino del Gange), di età miocenico-quaternaria. Il processo collisionale, che ha coinvolto scaglie di mantello litosferico, ha prodotto un notevole ispessimento crostale, con un massimo di circa 70 km sotto l'altopiano del Tibet (quota media 5.400 m). La catena comprende alcune discontinue suture ofiolitiche, uniche tracce dell'estesa litosfera oceanica (Tetide orientale) consumata in subduzione al di sotto del margine attivo asiatico, ed elementi strutturali che risalgono a uno stadio di convergenza precollisionale, verosimilmente di tipo andino. L'orogenesi collisionale iniziò nell'Eocene (50±10 Ma), con lo scontro e la sovrapposizione del continente euroasiatico su quello indiano, proveniente da sud, in seguito alla completa consunzione della litosfera oceanica della placca inferiore di cui l'India faceva parte. Le tappe della migrazione verso l'Asia del continente indiano sono desunte dalle anomalie magnetiche della crosta oceanica in espansione alle sue spalle (v. Molnar e Tapponnier, 1977; v. Bosellini, 1978). Iniziata la collisione, il continente indiano continuò il suo movimento verso nord, seppure a velocità ridotta dalla fine dell'Eocene, penetrando profondamente all'interno del margine continentale asiatico; gli svincoli cinematici laterali erano garantiti da grandi sistemi trascorrenti. Si realizzò così un grandioso processo di ‛punzonamento' collisionale (indentazione tettonica), accompagnato da vistosi raccorciamenti crostali e dallo sviluppo di sistemi di faglie trascorrenti che consentivano l'estrusione laterale di grandi frammenti crostali, creando nuovo spazio per l'ulteriore avanzamento del blocco indiano (v. Tapponnier e altri, 1982). Il processo è stato simulato con modelli matematici e meccanici, utilizzando nel secondo caso una piastra di plastilina (margine asiatico) compressa da un punzone rigido (India). La modellizzazione meccanica, pur nella sua estrema semplificazione rispetto alla complessità geometrica e di comportamento reologico della catena, ha riprodotto tuttavia con buona approssimazione le principali strutture fragili osservate nella regione.
A grandi linee, la catena himalaiana comprende i seguenti elementi strutturali, vergenti a meridione, elencati in successione dal basso (sud) verso l'alto (nord) (v. Molnar e Tapponnier, 1977; v. Kearey e Vine, 1989): 1) il main basal thrust; 2) il bacino recente del Siwalik; 3) il sovrastante sistema di falde di basamento e copertura formanti la Bassa Himalaya; 4) il main central thrust, che ha guidato la traslazione del sistema a falde dell'Alta Himalaya; 5) le ofioliti della sutura Indo-Zangbo; 6) la catena della Trans-Himalaya; 7) l'altopiano del Tibet. La sutura Indo-Zangbo separa le unità tettoniche dell'Alta Himalaya, di origine indiana, da quelle di pertinenza asiatica (Trans-Himalaya), cioè la placca inferiore da quella superiore. Alcune ofioliti presentano tracce di un metamorfismo di subduzione, sfuggite localmente agli effetti del susseguente metamorfismo collisionale. L'Alta Himalaya è formata da un antico basamento cristallino, da potenti coperture paleozoiche e mesozoiche, situate in origine sul margine passivo dell'India settentrionale, e da enormi corpi granitici di età terziaria. La Trans-Himalaya è costituita principalmente da sedimenti paleozoico-mesozoici, da un gigantesco batolite di granitoidi cretacico-eocenici e, verso occidente, dai relitti di un arco vulcanico cretacico, espressione di un magmatismo orogenico di tipo andino. Nell'altopiano del Tibet si riconoscono due antiche suture ofiolitiche; ne consegue che il Tibet si sarebbe formato con l'amalgama di due frammenti di crosta continentale, accreti al margine asiatico durante il Mesozoico, molto prima della chiusura dell'Oceano della Tetide e della collisione dell'India con l'Eurasia (v. Allègre e altri, 1984). La straordinaria elevazione del Tibet, raggiunta nel tardo Cenozoico, è stata attribuita all'assottigliamento, per erosione convettiva, del mantello litosferico sottostante, sostituito da corpi astenosferici caldi che si avvicinavano alla base della crosta. Il processo avrebbe generato una progressiva variazione delle condizioni di galleggiamento isostatico, compensate da un rapido sollevamento regionale. Il modello è corroborato da dati geofisici, da una tettonica regionale distensiva, parallela all'orogene, e da un magmatismo basico di origine mantellica. Un contributo addizionale alla perturbazione termica e al sollevamento regionale del Tibet potrebbe essere stato fornito dal distacco di una porzione del mantello litosferico colliso, relativamente freddo e denso. È importante rilevare infine che il rapido innalzamento del Tibet ha avuto rilevanti effetti climatici, modificando sensibilmente il regime dei monsoni.
8. Alle soglie del terzo millennio
Ripercorrendo l'evoluzione delle concezioni mobiliste nel Novecento, abbiamo constatato che la geologia moderna è in grado di ricostruire, a ritroso nel tempo, la paleostruttura e la dinamica della litosfera terrestre e di prevedere, a grandi linee, le sue tendenze evolutive, grazie alla nuova teoria globale della tettonica delle placche. In prospettiva, è difficile immaginare che i fondamenti di questa teoria possano prima o poi indebolirsi; se ciò accadrà, non se ne vedono per ora gli indizi.
Le scienze della Terra consolideranno la loro dimensione planetaria, favorita dallo sviluppo degli studi geologici dei corpi celesti più vicini. Sul nostro pianeta, la crescita esponenziale dei risultati analitici renderà cruciale il problema, anche politico, della gestione integrata dei dati e della loro utilizzazione ai fini di un controllo più efficace dell'ambiente e della sua evoluzione. L'obiettivo centrale sarà quello di affrontare il sistema Terra in modo globale, indirizzando le grandi potenzialità teoriche, sperimentali e analitiche delle scienze della Terra, tuttora sottostimate, e l'entusiasmo dei suoi adepti verso la previsione e il controllo dei processi che segnano le cicliche modificazioni della superficie terrestre e della biosfera, con particolare riguardo alle variazioni climatiche, al livello dei mari, ai rischi naturali, alla corretta gestione delle risorse vitali e alla mitigazione delle ferite indotte dall'impatto umano. Se le scienze della Terra sapranno affrontare questi problemi in modo organico, superando le barriere attualmente esistenti al loro interno, è logico attendersi che esse possano assumere un ruolo centrale nello studio del sistema Terra e di raccordo tra la fisica e le scienze biologiche.
La geologia strutturale potrà svolgere un ruolo fondamentale in questa direzione. Come possibili linee di sviluppo sembra ragionevole prevedere l'intensificarsi degli sforzi per una valutazione ancora più accurata della dinamica litosferica e di tutti i processi correlati, in atto e fossili. Nel campo della ricerca di base e delle sue applicazioni alla risoluzione di problemi di interesse generale, saranno certamente intensificati gli approcci quantitativi, la modellizzazione sperimentale, la simulazione analogica e l'integrazione con altre discipline della sfera fisico-matematica e tecnica, senza abbandonare l'analisi sul campo, che rimarrà un'esperienza insostituibile per l'educazione dei giovani e un punto di partenza per nuovi progressi, con la certezza che le montagne e le altre grandi strutture della Terra continueranno a offrire il mistero dei loro segreti alla curiosità dei ricercatori.
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