Geologia
di Jean Goguel
Geologia
sommario: 1. Introduzione. 2. Il ruolo della geologia applicata. 3. Il grado di certezza o di probabilità dei risultati. 4. Le branche della geologia. a) La stratigrafia. b) La vulcanologia. c) Geomorfologia e geologia del Quaternario. d) Petrologia. e) Metallogenesi. f) Tettonica. g) Geologia e geofisica. h) Geologia applicata e idrogeologia. 5. L'importanza dell'analisi e della sintesi. 6. La geologia e il grande pubblico. a) Il ruolo della geologia nel passato. b) Il ruolo attuale della geologia. c) Il ruolo della geologia nel futuro. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La geologia è nata nel XVII secolo dal desiderio di conoscere la natura delle masse minerali che costituiscono il sottosuolo e di comprenderne la distribuzione. Questo resta il suo obiettivo principale, in vista del quale in tutti i paesi del mondo sono stati creati degli istituti geologici, col compito di analizzare tale distribuzione in tutti i particolari richiesti dalle applicazioni sempre più numerose, relative sia alla ricerca di materiali, di combustibili e di minerali, sia all'utilizzo delle acque sotterranee, sia alle costruzioni realizzate per utilizzare in un modo o nell'altro, il suolo naturale.
La geologia è diventata una scienza solo quando, a partire dalla fine del XVIII secolo, si è affermato il metodo storico come suo carattere specifico. Alla domanda: ‟qual è, attualmente, la distribuzione delle masse minerali?", si è aggiunta la richiesta, in apparenza più complessa, di ricostruire la storia dei fenomeni che hanno prodotto e modificato le rocce che osserviamo attualmente. Sono stati così definiti sia il metodo di ricerca che il quadro di classificazione dei risultati ai quali fare riferimento per far progredire la geologia. La ricostruzione storica mette in luce una coerenza che permette di comprendere la natura e la distribuzione delle masse rocciose e di prevedere anche la natura di quelle non direttamente accessibili. Solo per questo carattere storico la geologia, da un insieme di fatti, si è elevata al rango di scienza.
Durante i primi tentativi di ricostruzione storica si manifestarono alcune incertezze. Si dovevano far intervenire certi avvenimenti estranei alla nostra esperienza corrente, come catastrofi, diluvi oppure altri mezzi a cui avrebbe potuto ricorrere la potenza illimitata del Creatore? Quest'idea, che ora più ora meno traspariva da alcuni dei primi tentativi di ricostruzione delle grandi linee di questa storia, venne eliminata definitivamente a partire dalla prima metà del XIX secolo, specialmente per influenza di Ch. Lyell, che formulò il principio delle actual causes. La traduzione dall'inglese di questo principio può prestarsi a un controsenso particolarmente grave. Nella ricostruzione storica, non si tratta di ridurre i fenomeni del passato alle ‛cause attuali', cioè ai fenomeni osservabili nel loro svolgimento nell'epoca attuale - e che, com'è ovvio, hanno certamente potuto manifestarsi anche nel passato - ma si deve cercare di determinare le ‛cause effettive' delle trasformazioni osservate, cause le cui manifestazioni possono oggi non essere osservabili, sia perché non si riscontrano più, sia perché sono operanti a profondità per noi inaccessibili.
Il principio di Lyell afferma in sostanza la validità delle leggi della fisica e della chimica come basi per ricostruire il nesso causale dei fenomeni passati e delle loro ‛cause effettive', secondo la terminologia di Lyell. Ciò non significa in alcun modo che l'ambiente del passato sia stato lo stesso di oggi; al contrario, la determinazione delle sue caratteristiche fa parte degli obiettivi che la nostra ricostruzione storica deve porsi. Il trionfo dell'impostazione di Lyell è legato allo sviluppo della comprensione delle leggi della fisica e della chimica, al determinismo che ne deriva e, insieme, al venir meno della vecchia concezione mitologica che tendeva a spiegare ogni minima particolarità di quanto ci circonda ricorrendo alla potenza di un Creatore soprannaturale.
Il principio della ricostruzione storica si applica a tutti i problemi della geologia, ma può accadere che metta in luce solo una serie di episodi locali, la cui età esatta non ha importanza o non può essere determinata. L'importante è che, al di là delle analisi di dettaglio, sia stato possibile tracciare un quadro cronologico generale in cui possono inserirsi molti episodi locali.
Più avanti passeremo in rivista una serie di discipline particolari, corrispondenti a diverse specializzazioni. Il modo in cui si applica il principio della ricostruzione storica ci servirà come filo conduttore per classificarle, e potremo pertanto distinguere branche della geologia caratterizzate dall'oggetto al quale esse applicano il metodo storico (terreni sedimentari, deformazioni, vulcanismo, ecc.) e discipline annesse, indispensabili per analizzare i dati disponibili, ma non legate al metodo storico (mineralogia, petrografia, geofisica, ecc.). Avvicineremo queste ultime all'una o all'altra delle branche della geologia in modo necessariamente artificiale.
La scala cronologica entro la quale descriviamo i fenomeni geologici, ha potuto essere stabilita sulla base di ciò che a priori avrebbe potuto considerarsi secondario: la storia degli esseri viventi. In realtà questa storia non può essere ricostruita con la sola raccolta di tracce fossili effettuata dai geologi nei diversi strati; vi giocano un ruolo essenziale discipline puramente biologiche, come l'anatomia comparata, l'embriologia, la genetica, ecc. Darwin, in seguito all'osservazione delle specie attuali, della loro distribuzione, degli ottimi risultati ottenuti dai selezionatori, ha proposto e fatto ammettere definitivamente il trasformismo, cioè l'idea che le specie, che in un determinato momento ci appaiono separate le une dalle altre per la sterilità degli incroci interspecifici, abbiano potuto evolversi progressivamente nel corso dei tempi. Perché e come? Si tratta di problemi lungamente dibattutti da oltre un secolo e che non possono dirsi risolti, poiché non sembra sufficiente la soluzione proposta da Darwin, quella cioè della selezione naturale (v. evoluzione; v. genetica).
A proposito della scala dei tempi geologici si pongono due problemi, per i quali i dati obiettivi si sono svincolati con difficoltà da molti a priori filosofici; è necessario tenerli presenti perché ancora ne riaffiora qualche traccia. Il primo concerne la continuità o discontinuità dei processi considerati, il secondo la durata.
Quando Buffon parlava delle ‟epoche della natura", riprendeva una nozione comune a molte spiegazioni mitologiche della creazione del mondo. Una volta stabilita l'esistenza di faune oggi estinte e diverse da quelle attuali, è sembrato naturale immaginare, prima della creazione del mondo, di cui la Genesi ci dà un racconto, un'altra creazione più antica - senza l'uomo - seguita da un annientamento.
Tuttavia lo studio approfondito delle faune di Invertebrati ha mostrato che una sola creazione non era sufficiente ma era necessario distinguerne una serie (fino a 27), seguite da altrettanti annientamenti. Era naturale imputare le scomparse a catastrofi fisiche, e ci si poteva attendere che esse avessero lasciato tracce nella successione dei sedimenti. Il tempo era così scandito da episodi discontinui ed enumerabili, e quando l'accettazione del trasformismo ha permesso di rinunciare alla tesi di creazioni e distruzioni successive, si è cercato di ritrovare, sotto altra forma, delle discontinuità nel tempo, causate da fenomeni fisici e capaci di essere assunte come divisioni naturali.
Una delle ragioni ditale ricerca era la giustificazione del linguaggio che era stato creato (e che è ancora in uso), che attribuisce nomi ai ‛piani' e di conseguenza alle età durante le quali si sono formati i depositi corrispondenti. Ma in realtà nessun indizio mostra l'esistenza di interruzioni naturali e universali nel corso continuo del tempo, anche se in qualcuno è rimasta la nostalgia di ciò che avrebbe potuto fornire un quadro comodo per le nostre descrizioni.
L'idea che non catastrofi ma solo azioni graduali, come l'erosione che vediamo agire sotto i nostri occhi, potessero essere responsabili degli sconvolgimenti geologici, idea brillantemente sostenuta da Lyell, implicava per i tempi geologici una durata enorme. Un'interpretazione letterale dell'Antico Testamento aveva condotto ad ammettere una durata dell'ordine di 6.000 anni dalla Genesi.
Buffon, per aver postulato una durata maggiore, aveva avuto qualche noia con la Sorbona, che gli aveva imposto un'ambigua ritrattazione. Più tardi, nel tentativo di calcolare l'età della Terra basandosi sulle condizioni del suo raffreddamento (nonostante l'insufficienza della fisica di cui disponeva), egli la valutava in 63.000 anni. L'intervento del governo reale impedirà una reazione dei teologi della Sorbona, ma i manoscritti di Buffon mostrano che egli aveva considerato una durata dieci volte maggiore: in realtà, dunque, c'era stato un prudente compromesso.
Ma perché conservare l'idea d'una creazione del mondo piuttosto che quella di uno svolgimento infinito del tempo, con un eterno rinnovamento dell'erosione, della sedimentazione, dei sollevamenti? Le idee di Lyell sull'azione graduale di cause analoghe a quelle che noi vediamo agire implicavano tempi di grandissima durata, ‟forse di milioni di milioni d'anni", come appunto pensava lo stesso Lyell. Queste idee delineavano il quadro nel quale la selezione naturale considerata da Darwin, processo necessariamente lentissimo, sembrava poter render conto dell'evoluzione delle specie.
Questa teoria subì la critica di lord Kelvin che, per motivi religiosi, non ammetteva le conseguenze dell'evoluzione sull'origine dell'uomo; egli negò pertanto la possibilità di durate tanto lunghe sulla base del bilancio energetico sia della Terra, riprendendo essenzialmente in considerazione il suo raffreddamento secondo l'idea di Buffon, sia del Sole, per il quale non trovava altra sorgente d'energia che la condensazione per gravità, analizzata da H.L.F. von Helmholtz. Su queste basi, lord Kelvin sosteneva che le durate geologiche non potessero oltrepassare una dozzina di milioni d'anni, ma lo stesso Darwin avverti che ciò era del tutto insufficiente per spiegare la varietà del mondo vivente in virtù della semplice selezione naturale.
La scoperta della radioattività, all'inizio del XX secolo, mostrò l'inconsistenza dei bilanci energetici di lord Kelvin. Il calore liberato dagli elementi radioattivi è sufficiente perché un eventuale raffreddamento della Terra non ponga praticamente alcun limite alla sua età. Quanto al Sole, non ci si fidava più del bilancio di lord Kelvin già mezzo secolo prima che fosse conosciuta la natura delle reazioni nucleari di fusione che alimentano la sua radiazione (come quella delle altre stelle).
Ma la stessa radioattività, che fece sparire le limitazioni che lord Kelvin voleva imporre alla durata dei tempi geologici, permise la loro valutazione precisa e la datazione dell'origine del globo terrestre. Com'è stato riconosciuto recentemente, l'origine della Terra coincide con quella degli altri pianeti e risale a 4,6 miliardi d'anni or sono. Per quanto questa durata sia lunga, essa esclude l'idea di un rinnovamento perpetuo, che armonizzava così bene con le idee di Lyell.
Per ogni teoria che intenda spiegare l'origine della vita e l'evoluzione fino alle forme attuali attraverso una serie di eventi casuali le cui conseguenze, talvolta felici, sarebbero state conservate dalla selezione naturale, questa determinazione precisa del tempo disponibile introduce una limitazione che può rivelarsi troppo stretta. Ma questa difficoltà riguarda solo il mondo vivente. Per il globo minerale, anche se lo stadio iniziale resta molto oscuro, l'evoluzione, che si cerca di rintracciare nella durata disponibile, non solleva alcuna difficoltà di carattere essenziale.
Da poco tempo disponiamo di una serie di dati su altri pianeti di dimensioni e densità comparabili con quelle della Terra, cioè la Luna, Marte e Mercurio. Venere, coperta da un'atmosfera molto densa, ha fornito informazioni molto più scarse, e Giove ha presumibilmente una natura assai diversa. Sappiamo quindi che questi corpi celesti hanno subito una prima fase di bombardamento cosmico, che ha crivellato di crateri la loro superficie; certi impatti particolarmente intensi hanno prodotto rifusioni interne con fuoriuscite di lave vulcaniche. Su Marte, che possiede un'atmosfera molto meno densa di quella terrestre, si osservano fenomeni d'erosione nella zona equatoriale, che mancano sulla Luna e su Mercurio.
Questa planetologia comparata pone in evidenza caratteri particolari della nostra Terra: un campo magnetico proprio, un'atmosfera particolare e soprattutto un'attività interna che si traduce in un rinnovamento della superficie; donde l'estrema rarità dei crateri creati dalla caduta di meteoriti e quindi necessariamente recenti. E infine, l'esistenza della vita e, in particolare, dell'uomo, dotato di pensiero. Ma quali relazioni intercorrono tra queste diverse caratteristiche? Si può ammettere che il campo magnetico sia espressione di questa attività interna, documentata d'altronde dalla geologia, e che l'esistenza di un'atmosfera fosse una condizione necessaria per la comparsa della vita (che fosse anche una condizione sufficiente appare già dubbio).
Come ci dobbiamo rappresentare l'origine della Terra e degli altri pianeti? L'ipotesi più frequentemente ammessa è quella della condensazione per gravità di una materia fredda e dispersa. Ma questa materia è caratterizzata dalla ricchezza di elementi pesanti, tra i quali gli elementi radioattivi a vita lunga, che non possono essere, tuttavia, molto antichi. Bisogna dunque che questa materia sia stata generata da sintesi nucleari, che potevano prodursi soltanto all'interno di una stella. In seguito a quale fantastica esplosione ne è stata espulsa? Come ha potuto, successivamente, separarsi dall'idrogeno e dall'elio, costituenti essenziali di questa materia stellare? E compito dell'astrofisica, non della geologia, dare risposta a questi interrogativi.
Ma per la nostra Terra, se non addirittura per lo stesso Universo, la cosmogonia moderna c'impone l'idea di un'origine, d'una creazione (ma non di un Creatore, perché il metodo scientifico implica il riconoscimento di una successione di conseguenze necessarie). L'idea di un eterno ricominciare è scartata; ciò che dobbiamo interpretare su questa Terra è la storia di un'evoluzione in un tempo limitato, ancorché estremamente lungo rispetto alla storia del genere umano.
Dopo aver così inquadrato il ruolo della geologia, tra l'astronomia da un lato e le scienze della vita e quelle che descrivono i fenomeni attuali dall'altro, vediamo come si svolgono le ricerche che la riguardano.
2. Il ruolo della geologia applicata
Non si può passare sotto silenzio il fatto che la grande maggioranza dei geologi, cioè di coloro che applicano i metodi e le conoscenze acquisite dalla geologia, e in particolare il metodo di ricostruzione dei processi genetici delle masse rocciose, si dedicano a risolvere problemi aventi fini economici o, in altri termini, operano nel campo della geologia applicata.
Questi problemi sono di natura molto varia, ma la maggior parte dei geologi applicati collabora alla ricerca del petrolio. Segue il gruppo che si dedica alla ricerca e alla delimitazione dei giacimenti di materiali solidi: carboni, minerali metallici e altre materie prime minerali (come i giacimenti di fosfati o di sali potassici). Bisogna ricordare inoltre i problemi inerenti alla resistenza del suolo (in particolare per l'installazione di manufatti), e alla ricerca di acque sotterranee. Per alcuni di questi problemi sono stati impiegati in passato, e talvolta lo sono ancora oggi, metodi empirici; è tuttavia chiaro che il ricorso ai metodi di una geologia scientifica diventa indispensabile e dovrà, in un gran numero di casi, svilupparsi ulteriormente in avvenire.
Sarebbe assurdo contrapporre una geologia pura, animata solo da desiderio di conoscenza, a una geologia applicata, asservita a fini economici. La geologia applicata implica la risoluzione di problemi che contribuiscono sempre alla ricostruzione della storia del passato. Può accadere che grandi sforzi siano consacrati a un problema in apparenza minore, come, per esempio, la valutazione della resistenza meccanica di un versante destinato a sostenere un'opera d'arte, ma è raro che da queste esperienze non si ricavi qualche conclusione di valore paradigmatico. Spesso, invece, i problemi hanno un significato generale molto vasto, come quando si tratta di ricostruire la storia di un bacino precisando la natura e l'età del suo riempimento sedimentario, in vista della ricerca di eventuali giacimenti petroliferi.
Queste ricerche applicate possono impiegare mezzi di indagine molto ingenti e costosi, come grandi sondaggi e vaste campagne geofisiche, inaccessibili alla ricerca puramente accademica. Basta fare il punto sul progresso delle conoscenze negli ultimi cinquant'anni, in un paese o in una regione presi a caso, per rendersi conto di quanta parte vi abbiano avuto i risultati dei sondaggi eseguiti in primo luogo per il petrolio, ma talvolta anche per l'acqua o per la ricerca di altri minerali.
È noto che le ricerche applicate apportano al patrimonio comune della scienza non soltanto fatti, ma anche metodi di indagine e forme di pensiero più sofisticati. Non occorre guardare troppo lontano nel passato per vedere quanti benefici lo studio delle rocce sedimentarie abbia ricevuto dall'impulso delle ricerche petrolifere. Una branca del loro studio - la sedimentologia ne è stata totalmente rinnovata. Il progresso dell'indagine geofisica è stato stimolato dalle favorevoli prospettive economiche assicurate dalla ricerca petrolifera e dalle metodologie che implicano lo sviluppo e il costante perfezionamento di apparecchiature molto complesse.
La geologia applicata è un severissimo banco di prova per i metodi e per le ipotesi che essi inducono a formulare sulla costituzione di quanto è nascosto in profondità; le elevate spese connesse obbligano ad agire per fasi successive, sforzandosi di prevedere, specialmente con sondaggi, le strutture ancora nascoste prima di ogni intervento destinato a rivelarle. L'ipotesi è così sottoposta a un controllo continuo, relativamente rapido, di cui beneficiano largamente i metodi di indagine.
Se si confronta il progresso continuo delle conoscenze sulla costituzione di una regione oggetto di ricerche petrolifere, con le discussioni sterili e inconcludenti su questa o quella struttura profonda oggetto di sole ipotesi, risulta chiaro che la parte viva della ricerca è molto più vicina alla ricerca applicata che a quella pura, a carattere accademico. D'altronde molti laboratori universitari l'hanno compreso e seguono le ricerche petrolifere da vicino per cercare di trarne tutte le conseguenze. Tali risultati non dovrebbero però essere tenuti segreti più del tempo strettamente necessario per la protezione degli interessi commerciali.
Per parte loro, d'altronde, i geologi applicati, sia che lavorino nel campo del petrolio che in quello dei minerali metallici, sanno che è nel loro interesse tenersi al corrente delle nuove teorie che possono scaturire nel mondo accademico, per trarne immediatamente tutte le conseguenze suscettibili di interessarli.
3. Il grado di certezza o di probabilità dei risultati
È un problema che si pone raramente nella filosofia delle scienze, ma che non deve essere eluso. È noto che ogni risultato che sia il frutto di una misurazione si esprime col valore trovato, più l'indicazione del grado di approssimazione. Così, nel campo della descrizione qualitativa, di ogni ipotesi si dovrebbe indicare il grado di certezza. Questa certezza è assoluta per un teorema matematico ed è molto alta per le leggi classiche della fisica. Che valore ha nelle sintesi della geologia? Bisogna evidentemente tener distinte le sintesi molto antiche e confermate da osservazioni convergenti, di natura molto diversa. La crescita dei ghiacciai nel Quaternario, per esempio, è un'ipotesi che sembra avere un alto grado di certezza. Ma che cosa si può pensare della distinzione di glaciazioni successive? A varie riprese sono emersi motivi di contestazione, e pur se il monoglacialismo è sostenuto da un'infima minoranza di specialisti, sarebbe forse un eccesso di dogmatismo condannarlo come un errore assoluto. È più saggio dire che l'esistenza di più glaciazioni nel Quaternario è altamente probabile. Quanto al loro numero esatto, benché sembri fissato dai nomi ormai classici assegnati alle varie glaciazioni, si ha ragione di considerarlo come qualcosa di non molto bene stabilito. Accontentarsi d'imparare a memoria l'elenco dei loro nomi equivarrebbe a cadere in un nominalismo pericoloso, e quella così ottenuta sarebbe una conoscenza inutile se non si ricordassero le osservazioni sulle quali sono fondate tali definizioni e le conferme ad esse fornite da diverse località. Ma chi può permettersi questo lusso, al di fuori degli specialisti? E questi non sono forse tentati di raffinare e di complicare la dottrina di cui sono i depositari?
In realtà, per ciascuna delle glaciazioni sono state descritte varie fasi con i nomi delle località tipo, fasi che sono state riunite in bellissime tavole sinottiche, la cui disposizione tipografica rappresenta una presa di posizione su tutte le questioni di equivalenza e di sincronismo. Tali questioni sono tutt'altro che risolte ed è anche difficile proporle in termini precisi. Di fronte alle suddette tavole sarebbe opportuno ricordare che molte di queste fasi esprimono forse accidenti locali nelle località tipo (per es. oscillazioni del fronte glaciale), di cui è impossibile trovare altrove le tracce. Il consenso tra specialisti, che induce ad accettare la sintesi proposta da uno per aggiungervi qualche precisazione o per discutere solo un particolare, si basa sulla ufficializzazione di un'impalcatura d'ipotesi in gran parte fragili. Non sarebbe più onesto, nei riguardi dei non specialisti, che possono farsi qualche illusione, indicare il grado limitato di verosimiglianza di alcune delle ipotesi proposte, e ricordare le osservazioni, spesso molto localizzate, sulle quali sono fondate?
La stessa questione si pone in molte altre branche della geologia, diverse da quella da cui abbiamo tratto l'esempio. Riappare sempre il dilemma: la scienza avanza a condizione che, con un lavoro d'équipe, vengano sviluppate tutte le conseguenze dell'ipotesi di lavoro adottata, che pertanto costituisce una base di lavoro; ma d'altra parte incertezze ed errori talvolta durevoli possono essere evitati solo se si è pronti a rimettere in discussione la validità dell'ipotesi di lavoro. Secondo i tempi e i luoghi, si preferisce l'uno o l'altro di questi atteggiamenti, ma ci sembra fuor di dubbio che il primo è attualmente di gran lunga prevalente e che ci troviamo pertanto sotto la minaccia di un certo dogmatismo, per cieca fiducia nelle ipotesi di moda, mentre sarebbe più fecondo rivedere i loro fondamenti e non esitare a rimetterli in discussione.
Abbiamo già veduto quanta parte abbia la geologia applicata nello sviluppo della geologia, specialmente con le possibilità di controllo fornite dai sondaggi o da altre opere. Può dunque sembrare, a priori, che questi controlli debbano limitare l'importanza di ipotesi poco consistenti. Ma l'argomento richiede un esame ulteriore. La grandissima maggioranza delle ricerche di geologia applicata è rivolta al petrolio e ai metalli, i cui giacimenti sono, in partenza, totalmente sconosciuti. Il minimo indizio sulla loro posizione, anche se scarsamente probabile, deve, in tali condizioni, essere considerato prezioso. Nel campo del petrolio l'esame statistico dei risultati ottenuti mostra che, all'inizio dei sondaggi in un bacino nuovo, la probabilità di successo non supera il 10%; è un'operazione, dunque, estremamente aleatoria, che si giustifica solo per la possibilità di essere ripetuta e per il valore economico di un eventuale successo. Nell'insieme delle considerazioni che hanno portato a scegliere il luogo del primo sondaggio, entrano dati obiettivi (campagne geofisiche, ecc.), ma anche ipotesi fondate su una certa interpretazione teorica. La probabilità del risultato non è affatto intaccata se le basi teoriche dell'interpretazione non si fondano su certezze, ma solo su verosimiglianze. Lo stesso concetto vale per la ricerca di minerali metallici. Ogni ipotesi sulla genesi dei giacimenti, per quanto fragile e discutibile, purché prospetti un filo conduttore, è accolta e sfruttata avidamente, pur sapendo che la probabilità che a un indizio superficiale corrisponda un giacimento economicamente sfruttabile è solo dell'ordine del 10%. Il lavoro del geologo prospettore consiste nell'accrescere sistematicamente, attraverso prospetti sempre più perfezionati, il grado di probabilità di individuare un giacimento sfruttabile (al contrario, se la tendenza va in senso inverso, il prospetto sarà abbandonato). Quando vengono raccolte tante indicazioni da conferire alla probabilità di trovare un giacimento economicamente interessante un valore molto vicino alla certezza, allora viene presa la decisione di intraprendere lo sfruttamento. E la storia mostra, purtroppo, che non sempre quella certezza si traduce in realtà.
Senza dubbio la situazione non è la stessa in altre branche della geologia applicata. Gli idrogeologi dispongono di metodi di lavoro tali che, quando propongono l'esecuzione di un'opera, le probabilità di successo stanno tra l'80 e il 95%. Ma non rischiano di essere trascinati, sotto l'impulso della domanda, verso problemi per i quali la possibilità di soluzione sarà più aleatoria?
In materia di costruzioni, lo studio geologico ha lo scopo di evitare l'eventualità di un accidente imprevisto (impossibilità di esecuzione, rischio di sprofondamento, o forte aumento del costo di esecuzione). Si tratta cioè di precisare progressivamente le conoscenze e di adattarvi il progetto studiato fino a far diminuire a un valore infimo le probabilità sfavorevoli.
Rimane tuttavia il fatto che la maggior parte della geologia applicata, che lavora sulla base di probabilità molto deboli, introduce nella geologia generale un elemento di ambiguità, in quanto certe ipotesi vengono formulate come leggi, anche se la probabilità che dovrebbe essere assegnata alla loro esattezza è molto inferiore all'unità. Anche se tali ipotesi possono, in certe condizioni, rivelarsi utili, il rigore scientifico esigerebbe che, nello stesso tempo, ne venissero indicati i limiti e discusso il significato.
Verso il 1950 un gruppo di società petrolifere americane aveva deciso di dedicare una piccolissima parte del bilancio destinato alla ricerca a passare in rivista tutti i metodi non ortodossi d'indagine, nessuno escluso. Negli anni seguenti, perfino i rabdomanti presentavano fieramente le referenze della loro collaborazione con le società petrolifere. È un esempio estremo, ma illustra quello che può essere per la geologia un circolo vizioso.
Nella seguente rassegna delle diverse branche della geologia, ritroveremo esempi di un insieme d'ipotesi (esplicite e implicite) comunemente ammesse, sulle quali si fondano numerosi sviluppi, mentre i fondamenti stessi di tali ipotesi dovrebbero essere discussi e precisati.
4. Le branche della geologia
a) La stratigrafia
La stratigrafia occupa il primo posto tra le discipline della geologia, non perché il suo contenuto sia il più importante: i terreni sedimentari, studiati come tali, occupano infatti meno della metà delle terre emerse, e spesso costituiscono una pellicola relativamente sottile; ma lo studio della successione degli strati sedimentari, combinato con la paleontologia, ha fornito l'intelaiatura fondamentale per ogni ricostruzione storica, cioè una cronologia generale. Le tappe di questo studio sono note: in un determinato bacino si può stabilire la successione degli strati secondo la loro natura fisica, determinare per ciascuno i fossili contenuti e poi, nella comparazione tra bacini indipendenti, stabilire il sincronismo degli strati contenenti gli stessi fossili o, più esattamente, delle sequenze di strati contenenti le stesse successioni faunistiche; dallo studio di un numero sufficiente di bacini si può infine ricavare una successione ideale, nient'affatto completa, ma che rappresenta una scala cronologica generale.
Su questo schema, che corrisponde ai primi studi, si innestano sviluppi diversi: invece di considerare come un dato empirico la natura litologica degli strati successivi, si può analizzarla al fine di ricostruire le condizioni genetiche. Così è possibile interpretare le variazioni laterali osservabili in uno stesso gruppo di strati e ricostruire la ‛paleogeografia' del bacino al momento del deposito. Questo è il tema della sedimentologia, che recentemente ha avuto un grande sviluppo, specie grazie alle ricerche petrolifere. In questo campo i risultati sono molto precisi nel caso di rocce composte da elementi preesistenti trasportati, e quando si possono precisare l'agente e la direzione del trasporto. Ma bisogna riconoscere che, per spiegare la genesi dei depositi marini profondi, sono ancora in vigore ipotesi formulate in modo arbitrario, quando le conoscenze oceanografiche erano insufficienti. D'altronde è difficile prendere la distribuzione attuale dei sedimenti come termine di paragone, in quanto la nostra epoca è molto particolare per il fatto che il mare ha rioccupato di recente vaste estensioni che emergevano durante le fasi di massimi glaciali.
È evidente che la natura dei fossili contribuisce a precisare la ricostruzione dell'ambiente in cui gli strati si sono formati; ma la loro utilizzazione a questi fini è stata per molto tempo trascurata. I fossili sono stati soprattutto utilizzati per stabilire la cronologia. Da una parte la loro presenza fa presumere il sincronismo; dall'altra il raffronto di tutte le serie stratigrafiche, nelle quali si vede il succedersi di forme diverse, permette di descrivere l'evoluzione del mondo vivente. Questa s'interpreta oggi con l'ipotesi di una trasformazione progressiva, nel cui corso le diverse forme evolvono; ciò non esclude che faune molto importanti si siano sviluppate, differenziate, moltiplicate, e che siano scomparse dopo aver popolato l'intera terra o tutte quelle parti di essa in cui si erano verificate condizioni ambientali a loro favorevoli.
Questa descrizione è un risultato fondamentale per la comprensione del mondo vivente, e anche l'uomo, pur relativamente molto recente, trova il suo posto nell'evoluzione generale. La stratigrafia ha avuto una parte essenziale nello stabilire l'ordine di successione delle faune, ma, inversamente, quest'ordine ha permesso la formazione della scala stratigrafica generale.
Stabilita questa scala, il modo di procedere teorico di un'analisi stratigrafica comporta da un lato un'analisi litologica della successione degli strati, che conduce a suddividerla in ‛formazioni', delle quali interessa una definizione precisa; dall'altro lato un'analisi della loro fauna, che porta a distinguere ‛zone' definite, con la massima accuratezza possibile, secondo le variazioni della fauna stessa. Si cerca poi di situare le zone così identificate nei ‛piani' classici della cronostratigrafia e di attribuire un'età alle zone e alle formazioni che le contengono. Questo modo di procedere appare naturale, ma in realtà subisce l'influenza di abitudini ereditate da forme di pensiero ormai abbandonate.
Sembrerebbe naturale riunire tutte le indicazioni, dovunque raccolte, sulle variazioni successive delle faune, tracciarne un quadro sintetico e collegarvi una scala cronologica convenzionale; ma questo procedimento è stato formalmente ripudiato. Forse avrebbe dato l'avvio a discussioni difficili da dirimere, ma non è stato respinto solamente per questo motivo.
La terminologia tuttora in uso è fondata sulla nozione di ‛piano'. I piani costituivano unità naturali separate da tracce di sconvolgimenti fisici annientatori delle faune. In conformità con le abitudini dei naturalisti che, nello studio del mondo vivente, hanno a che fare con le divisioni naturali che separano le singole specie, isolate dalla sterilità degli incroci interspecifici, si è continuato a considerare i piani come divisioni temporali anche se è evidente il loro carattere convenzionale.
Poiché nulla può garantire il sincronismo dei limiti attribuiti alle formazioni in luoghi diversi, si è stabilito il principio che ogni piano viene definito con l'aiuto di uno ‛strato-tipo', analogamente a quanto avviene per le unità tassonomiche della classificazione zoologica che sono definite da ‛tipi'. Uno strato-tipo è un pacco di strati materialmente definiti, scelti di regola nel luogo il cui nome designa il piano stesso. Appartengono allo stesso piano tutti i terreni che risultano sincroni agli strati compresi nello strato-tipo. In pratica, poiché non vi è altro modo per stabilire il sincronismo, è come dire ‛che contengono faune giudicate sincrone a quelle contenute nello strato-tipo'; si ritorna in pratica al caso precedente. Ma quando uno strato-tipo, come nel caso del Luteziano (definito nei dintorni di Parigi), è di fatto compreso tra due lacune, come potranno definirsi i limiti del piano, quando si dispone di una successione continua di depositi fossiliferi? Sarà allora necessario ritornare alla nozione di stadio evolutivo di una fauna. Che cosa significano i limiti di piano? Essi possono risultare da una vecchia abitudine, fondata su una variazione di facies litologica nella località-tipo (ma che non possiamo attenderci di ritrovare altrove), oppure essere scelti, dopo uno studio attento della fauna o di una parte di essa, in modo da corrispondere, per lo strato-tipo, a una variazione caratteristica di questa fauna. Siffatti limiti sono, indubbiamente, convenzionali.
È stato tuttavia difficile rassegnarsi e qualche geologo cerca ancora di escogitare definizioni ‛naturali' per i limiti dei piani, dei sistemi, delle ere. Fra questi tentativi uno dei più noti è quello di far coincidere sistematicamente i limiti dei piani con fasi tettoniche di una certa entità, alle quali H. Staub assegnò nomi distintivi. È un modo di ritornare all'idea primitiva di sconvolgimenti fisici separanti i piani o le ‟epoche della natura", secondo la terminologia di Buffon, ma senza postulare alcun legame con l'evoluzione del mondo vivente. Sta di fatto che tutto induce a pensare che le deformazioni tettoniche si svolgano secondo un processo continuo, suscettibile di parossismi che non sono affatto simultanei in luoghi diversi.
Si è inoltre cercato - peraltro con minor successo - di attribuire certe tappe dell'evoluzione a processi fisici di presunta portata generale. Per esempio, si è invocata la sommersione di un ponte continentale che teneva in comunicazione le faune di due oceani, o, al contrario, l'emersione di esso per consentire scambi fra due faune continentali; ma avvenimenti di questo tipo agirebbero solo su scala locale. È stata suggerita l'ipotesi che le inversioni del campo magnetico terrestre abbiano potuto portare all'annullamento del campo stesso, con conseguente aumento della radiazione cosmica suscettibile di produrre numerose mutazioni e un'improvvisa accelerazione dell'evoluzione; ma tutto fa credere che il campo che s'inverte non si annulli.
Per quanto possa apparire sconfortante, bisogna rassegnarsi all'idea della continuità del tempo e della portata più o meno locale degli avvenimenti che ne segnano il corso. Non possiamo trovarvi quelle basi di riferimento che potrebbero costituire suddivisioni naturali e dobbiamo limitarci a stabilire delle correlazioni approssimative tra le successioni continue di faune osservate in regioni differenti. È d'altronde notevole che tali correlazioni siano abbastanza precise da rendere valida, per tutta la Terra, la delineazione di circa un centinaio di piani. Le correlazioni d'età fondate sulla paleontologia ed effettuate in buone condizioni tra località lontane ci forniscono conclusioni (sincronismo approssimato, priorità di un giacimento rispetto all'altro) molto più precise di quelle che ci potrebbero dare le migliori determinazioni fisiche fondate sulla radioattività.
Tra le discussioni provocate dal desiderio di conciliare le antiche nozioni di ‛divisioni naturali' con le concezioni moderne dell'evoluzione, le più sterili - ma non le più in- frequenti - riguardano i limiti delle ere o dei sistemi. Il Berriasiano deve essere collocato nel Giurassico o nel Cretaceo? Dove porre esattamente il limite tra il Mesozoico e il Terziario? Il Retico va collocato nel Trias o nel Lias? Sono questioni puramente convenzionali, che dovrebbero logicamente risolversi col rispetto dell'uso, o con un voto seguito dall'obbligo per la minoranza di uniformarsi, trattandosi di una semplice definizione di linguaggio. Ma qualcuno vi impiega tanta passione come se si trattasse di scoprire la verità. È necessario forse ricordare che i primi ricercatori che hanno proposto la distinzione delle ere e poi dei sistemi non disponevano di alcun punto di riferimento preciso, e hanno proposto tali distinzioni in un momento in cui non erano ancora stati effettuati quegli studi stratigrafici particolareggiati che hanno permesso la definizione dei piani e che permetterebbero di opporre le loro definizioni approssimative a quelle definizioni dei piani sempre più particolareggiate alle quali si è potuti pervenire solo attraverso studi sempre più approfonditi?
Per fortuna, in questo campo fondamentale della cronologia, lo sforzo principale degli stratigrafi tende a stabilire nel miglior modo i sincronismi tra successioni strati- grafiche in luoghi diversi. Mettendo insieme tutte le argomentazioni, sussiste spesso un'indeterminazione che riesce irritante nella ricerca del meglio. Ma non è forse nella stessa natura delle cose che la cronostratigrafia paleontologica presenti un potere di definizione, un limite di risoluzione, che non può essere superato?
Tuttavia talvolta - anche se troppo di rado - appaiono possibilità di riferimenti fisici più precisi per correlazioni temporali. Da molto tempo, ad esempio, un confronto tra analisi minuziose delle zone paleobotaniche di due bacini carboniferi, quello del Nord-Pas-de-Calais (Belgio) e quello della Saar, aveva condotto ad ammettere un certo grado di sincronismo. Ci si è poi accorti che certi strati argillosi, chiamati nel primo bacino gore e nel secondo tonstein, derivavano dall'alterazione di piogge di ceneri vulcaniche, abbastanza caratteristiche perché la loro identità potesse essere riconosciuta in entrambi i posti. In tal modo è stato possibile stabilire un certo numero di correlazioni fra i due bacini, addirittura con l'approssimazione dei giorni, mentre in genere le zonazioni paleobotaniche sono separate da intervalli di uno o mezzo milione di anni.
Si può sperare che le inversioni del campo magnetico potranno permettere correlazioni dell'ordine di qualche centinaio d'anni (ma con un serio rischio di errore) e si possono immaginare altri metodi fisici di correlazione fra depositi di regioni lontane, per esempio mediante l'identificazione di quelle piogge di meteoriti di natura particolare che sono le tectiti.
Non possiamo abbandonare l'argomento dell'istituzione di una scala cronostratigrafica senza richiamare i metodi fisici di datazione fondati sulla radioattività. Non ripeteremo il loro principio, oggi ben noto, né insisteremo sul loro vantaggio di fornire direttamente valutazioni in anni, ma vogliamo ricordare che ognuna di tali determinazioni implica una serie di ipotesi: composizione chimica, o isotopica, al momento della formazione del minerale o della roccia studiata, rapporto tra l'origine del minerale e quella della roccia che lo contiene, ritenzione dei prodotti di decadimento radioattivo (alcuni sono gassosi) sul posto o con diffusione limitata. In una prima fase si è tentato di determinare l'età di cristallizzazione di particolari minerali (minerali uraniferi privi di piombo) che meglio si localizzano nella scala cronostratigrafica (per es., granito intruso in una formazione coperta da un'altra in discordanza, ecc.). Così è stato possibile valutare in anni la scala cr0- nostratigrafica classica (sia pure con minor precisione) e soprattutto stabilire una cronologia per la lunga durata dei terreni precambriani, sprovvisti di fossili validi per la stratigrafia.
È stato ugualmente possibile, mediante considerazioni molto indirette, ma confermate dallo studio delle meteoriti e dei campioni lunari, valutare (a 4,6 miliardi d'anni) il tempo trascorso dall'origine della Terra a oggi. Forse è bene precisare che, in mancanza ditali studi, considerazioni assai attendibili, fondate sull'abbondanza dei prodotti di decadimento del potassio-40 e dell'uranio-235, avrebbero permesso di attribuire all'età della Terra un limite superiore poco diverso da quello ottenuto dall'analisi di campioni extraterrestri. Ma proprio oggi che i laboratori specializzati intensificano le misurazioni, spesso in condizioni difficili, appare chiaro che la loro attività deve rivolgersi alla verifica delle ipotesi di base e alla determinazione dei motivi per cui esse vengono eventualmente scartate.
La costruzione di una scala cronologica è un risultato della stratigrafia che ha grande utilità per tutte le branche della geologia. Ma la cronologia è solo una cornice, che la storia deve riempire.
Per la stratigrafia, la sola enumerazione delle successioni litologiche, in ciascun bacino, avrebbe un significato limitato, per cui ci si può proporre un obiettivo più vasto. Si tratta, cioè per ogni epoca, di ricostruire sia la paleogeografia, sia la geografia dei bacini di sedimentazione (con la distribuzione delle aree più profonde, dei fondali alti e delle zone litorali), sia la provenienza degli apporti sedimentari (che indica la posizione delle terre emerse soggette a erosione). Certi depositi forniscono inoltre indicazioni sul clima. L'interpretazione sedimentologica della natura dei depositi, delle direzioni di trasporto e del carattere delle faune presenti concorre a tale ricostruzione. Fatta per piani successivi, essa deve dare un'immagine coerente, con variazioni graduali che potranno essere interpretate in termini di abbassamento, colmamento o sollevamento, con conseguente spostamento delle linee di costa, o variazioni climatiche.
Tali ricostruzioni paleogeografiche si sono rivelate utilissime ai fini delle ricerche petrolifere, per cui si sono notevolmente moltiplicate (sia pure in forma provvisoria e con dati incompleti a disposizione) durante lo studio di una nuova regione.
Sintesi più elaborate dovrebbero fornire un'immagine, o meglio una serie di immagini coerenti su scala mondiale specialmente per la distribuzione dei climi e delle faune che possono differire, anche quando coeve, da un bacino all'altro. Ma questa coerenza esige che si tenga conto dei movimenti di deriva che i continenti possono aver subito in epoca successiva a quella dei depositi. L'andamento delle fasce climatiche nel Carbonifero, desunto dalle flore, denota da un lato un clima paleotropicale alle attuali latitudini medie boreali e dall'altro climi freddi, con tracce di glaciazione, in tutti i continenti australi. Questo quadro era quindi uno degli argomenti più forti in favore della deriva dei continenti, come l'aveva descritta A. Wegener nel 1912, pur senza darne una spiegazione. Nell'esaminare la deriva nei suoi aspetti particolari, le ricostruzioni paleogeografiche rivelano spesso tra serie stratigrafiche di regioni lontane similitudini tali da far ritenere verosimile una contiguità originaria.
b) La vulcanologia
Si può essere tentati di vedere nella vulcanologia una branca della stratigrafia, solo nel caso in cui le rocce prodotte dai vulcani s'intercalino localmente ai depositi sedimentari. Tra rocce vulcaniche e sedimentarie esistono gradazioni intermedie: una grandissima parte dei prodotti vulcanici viene emessa in forma di granuli, di ceneri o di polveri che possono deporsi o risedimentarsi per azione delle acque di ruscellamento in condizioni identiche a quelle dei depositi sedimentari, con eventuali fossili e con quei caratteri sedimentologici che permettono di precisare le modalità di deposito.
Ma una ricostruzione paleogeografica esige evidentemente una conoscenza precisa delle condizioni di formazione delle rocce, quale si può ottenere dall'osservazione dei fenomeni vulcanici attuali. In ogni modo tale conoscenza s'impone, se non altro per cercare di aumentare la sicurezza (o diminuire i rischi) delle popolazioni minacciate, o per valutare il significato di un fenomeno, limitato nella sua distribuzione geografica, ma spettacolare nelle sue manifestazioni. Uno degli aspetti più importanti della vulcanologia è dunque l'osservazione delle attività vulcaniche, accompagnata da un tentativo d'interpretazione fisica e di classificazione.
Tra i caratteri più singolari dei fenomeni vulcanici è l'estrema variabilità con il passare del tempo. Un'eruzione può durare qualche ora o qualche mese, oppure l'attività di un vulcano può conservare gli stessi caratteri per diecine d'anni, anche se con incessanti variazioni. Lo studio dei prodotti di un vulcano antico può permetterci di ricostruire alcune di queste variazioni, ma non si può sperare di ricavare molti dati da esse, in quanto non siamo neppure in grado di interpretare le variazioni di un vulcano in attività. Sappiamo che le proporzioni tra i materiali emessi allo stato liquido (lave) o proiettati, sia già solidi, sia ancora liquidi, e che si consolidano nell'aria (bombe) oppure al suolo, saldandosi più o meno, dipendono dalle quantità dei gas emessi e dalla viscosità della lava, che a sua volta dipende dalla sua temperatura e dalla sua composizione. Ma le cause di queste variazioni per i vulcani attivi rimangono sconosciute. A maggior ragione, nel caso di depositi antichi intercalati nella serie stratigrafica, i metodi della sedimentologia difficilmente permettono di ricostruire le modalità esatte di deposito. Si può citare, a titolo d'esempio, la difficoltà di distinguere i depositi formati da manifestazioni così diverse come i lahars (colate di fango acquoso, che coinvolgono, in modo spesso catastrofico, depositi di tufo recenti e instabili) o le nubi ardenti (frammenti trasportati da una nube di gas caldo, dotata di grande velocità). Non meraviglia quindi che la ricostruzione degli episodi successivi dia talvolta l'impressione di una storia che conserva tracce di fatti diversi, le cui ragioni profonde tuttavia ci sfuggono.
L'osservazione dei vulcani attivi ci fornisce quasi esclusivamente informazioni sui vulcani subaerei. Ma alcune osservazioni dirette, e soprattutto l'analisi paleovulcanologica, testimoniano la frequenza di vulcani sottomarini, con formazioni caratteristiche, come i pillow lavas, che sono accumuli a forma di cuscini, gonfiati dalla lava ancora fluida che viene iniettata in una pellicola consolidata al contatto con l'acqua, cuscini che talvolta si rompono dopo essersi formati. Come i vulcani recenti costituiscono un elemento caratteristico del rilievo continentale, così l'oceanografia ha rivelato l'esistenza di numerosissimi vulcani sottomarini, specialmente nei mari profondi; essi possono peraltro essere molto antichi, non avendo subito alcuna erosione salvo al momento della loro eventuale emersione. Le onde li erodono allora rapidamente e ne risultano forme coniche con la sommità spianata; di nuovo immersi, questi apparati vulcanici conservano la loro forma caratteristica a ‛Guyot' o fanno da supporto agli atolli corallini.
Lo studio delle formazioni vulcaniche antiche mostra con evidenza che, oltre a essersi espanse in superficie, le lave liquide possono essersi iniettate nell'interno di formazioni preesistenti, sedimentarie o no. Le intrusioni possono avere forme diverse, a seconda che occupino un camino vulcanico pressoché cilindrico, una fessura verticale o obliqua, oppure si siano insinuate tra due strati sedimentari con una giacitura che non deve essere confusa con quella di una colata subaerea.
Ma la vulcanologia è ben altra cosa che l'identificazione di alcune rocce intercalate nella serie stratigrafica. Essa fornisce osservazioni di valore inestimabile su quei complessi fenomeni profondi, certamente legati gli uni agli altri, dei quali altre manifestazioni sono i terremoti e le lente deformazioni della superficie terrestre.
Quando si assiste alla rapida emissione di un grande volume di lava liquida, nasce spontanea l'idea che essa, prima di uscire dal condotto craterico, si trovasse in un serbatoio. In alcuni casi la superficie del suolo s'infossa formando una ‛caldera', e questo fatto viene attribuito allo svuotamento del serbatoio. Ma bisogna riconoscere la mancanza quasi totale da parte nostra di qualsiasi informazione concreta su questo serbatoio, del quale non si conosce nulla di più quando lo si è definito come ‛camera magmatica'. In particolare, la sua profondità resta sconosciuta e, a maggior ragione, la forma e l'evoluzione. La sola cosa che conosciamo è la composizione chimica dei prodotti emessi, o più esattamente della loro parte refrattaria, perché i prodotti volatili, inizialmente disciolti nel magma, sfuggono dopo una separazione che può essere precoce pur perdurando fino alla solidificazione finale.
La composizione chimica delle lave emesse può variare da un'eruzione all'altra; ma il margine totale di variazione, tenuto conto del numero dei costituenti, è molto limitato; esistono cioè correlazioni dirette o inverse tra componenti indipendenti, di cui occorre tener conto. Il problema d'altronde non è esclusivo della vulcanologia, ma esiste anche nella petrologia per spiegare le variazioni della composizione di quelle rocce che non avevano mai raggiunto la superficie prima che un'erosione profonda ci consentisse di osservarle. Ma la vulcanologia ci fornisce direttamente la successione nel tempo delle diverse composizioni chimiche delle rocce emesse.
c) Geomorfologia e geologia del Quaternario
Le indicazioni che abbiamo dato sulla stratigrafia sarebbero sufficienti per lo studio di un bacino conosciuto unicamente attraverso dei sondaggi, come alcuni bacini scoperti sotto certe zone pianeggianti. Certo il materiale sedimentario di riempimento proviene, dopo un trasporto più o meno lungo, dall'erosione dei continenti circostanti, ma le condizioni del suo deposito forniscono solo indicazioni molto vaghe sulla direzione dei rilievi erosi, sul loro grado di alterazione e sull'intensità dell'erosione. Tuttavia è spesso possibile acquisire maggiori conoscenze su questa erosione attraverso lo studio delle forme residue, sia che esse siano rimaste isolate, sia che siano state ricoperte da altri depositi. Nell'insieme, la possibilità di raccogliere indicazioni dirette sull'erosione, parallelamente allo studio delle formazioni sedimentate, sarà tanto più frequente quanto più è recente l'età del bacino, ma l'età delle più antiche fasi di erosione utilmente analizzabili può variare in larga misura secondo le regioni: da un Quaternario recente in un paese giovane come l'Olanda, al Miocene o anche all'Oligocene nel caso di vecchie piattaforme, come quella russa o quella del Massiccio Centrale francese.
Lo studio delle erosioni, più o meno antiche, è legato allo studio complessivo del rilievo e della sua origine (o morfologia). Non se ne possono separare certi processi di accumulo che contribuiscono al modellamento del rilievo, come i depositi torrentizi e fluviali, che generano coni di deiezione o pianure, né l'attività vulcanica, potente edificatrice di rilievi.
La geomorfologia appartiene al campo della geografia o della geologia? La questione non ha senso se non per i docenti obbligati a ripartire le discipline tra le diverse strutture didattiche. Il geologo non può farne a meno: in un primo stadio la geomorfologia analizza e descrive i processi di erosione, di alterazione e di accumulo che si producono sotto i nostri occhi. Nel quadro di un'interpretazione storica questa analisi rappresenta la prima condizione per applicare il principio delle ‛cause attuali' di Ch. Lyell. Bisogna tuttavia tener presente che molti dei fattori di erosione non agiscono in modo continuo, ma secondo il ritmo imposto loro dalle variazioni meteorologiche. Col progredire dell'erosione di formazioni mobili, in concomitanza di piogge di notevole intensità, questa stessa erosione torrenziale (soprattutto se legata a ‛colate' di materiali solidi in sospensione, che si comportano come un fluido viscoso) può agire in modo efficace solo se le precipitazioni eccezionalmente violente interessano tutto il bacino idrografico, cosa che si può ripetere solo a intervalli di tempo dell'ordine di decine o di centinaia di anni. Il rifiuto - nello spirito di Lyell - del ricorso a un catastrofismo semplicista ha condotto qualche volta a disconoscere un fatto essenziale: che l'erosione continentale avviene soprattutto durante le poche ore di una piena eccezionale, il cui tasso di ripetizione (o, se si preferisce, di probabilità annuale) corrisponde a intervalli di decine d'anni o di secoli. La cadenza può essere diversa in regioni vicine: per esempio in una grande vallata alpina i coni di deiezione degli affluenti laterali possono formarsi a opera di piene che si ripetono a intervalli di qualche anno, mentre la loro erosione da parte del corso d'acqua principale diventa apprezzabile solo ad opera di piene che agiscono nell'arco di secoli o di millenni.
Spesso si parla di equilibrio, per esempio per il profilo longitudinale di un corso d'acqua. È più corretto parlare di un regime stazionario, quando uno dei fenomeni in atto (nel caso particolare, l'erosione delle sue alluvioni mobili da parte di un fiume a regime sostenuto) è relativamente rapido, mentre altri fattori operano con un ritmo molto diverso.
Anche le frane e gli smottamenti sembrano fenomeni discontinui, fino ad assumere il carattere di catastrofi imprevedibili. Dal punto di vista dell'evoluzione della morfologia del rilievo, rappresentano tuttavia un processo normale che occorre saper riconoscere e analizzare, nonostante i limiti dell'osservazione diretta. Quando si esaminano a fondo i particolari della storia delle grandi frane e le loro tracce, risulta che un piccolo numero di esse sembrano essersi prodotte secondo meccanismi che non entrano in gioco nelle frane di dimensioni minori e che provocano scivolamenti di grandissima portata. Nel caso di una frana iniziale, una massa abbastanza grande può muoversi a grande velocità per più chilometri, anche su un substrato orizzontale, scivolando su un cuscino di vapore formato dal calore dell'attrito o su un materasso d'aria. Conosciuti appena grazie alla reinterpretazione di frane avvenute in epoca storica, tali movimenti spiegano alcuni tipi di giacitura che si trovano con frequenza crescente nelle successioni stratigrafiche antiche, in regioni che erano in corso di deformazione. Si tratta di masse di terreni più antichi, le cui dimensioni possono arrivare ad alcune centinaia di metri, che s'intercalano nella successione stratigrafica, accompagnate da frammenti di ogni grandezza, fino a formare delle brecce. Questi ‛olistoliti' erano stati spesso interpretati nel passato come effetti di complicazioni tettoniche; oggi risulta sempre più chiara la loro origine da fenomeni puramente superficiali, implicanti però l'esistenza di rilievi molto ripidi, che dovevano essere sorti da poco in quanto non distrutti o smussati dai processi normali dell'erosione. Come spesso accade, lo studio dei processi antichi ci conduce ad allargare lo spettro delle possibilità rispetto all'esperienza limitata offerta dall'osservazione del mondo attuale.
Quando si cerca di applicare all'interpretazione di un certo rilievo la spiegazione così acquisita dei meccanismi di erosione e di accumulo, si giunge quasi sempre alla conclusione che, in tempi anteriori a quello attuale, l'erosione si è manifestata in condizioni molto diverse, con la partecipazione talvolta di agenti oggi scomparsi, come per esempio ghiacciai estesi molto più a valle della loro posizione attuale, o presenti in regioni dove non esistono più. Spesso si possono mettere in evidenza anche più fasi di azioni glaciali di sviluppo ineguale. Altrove, l'accentuata frammentazione del suolo, causata dall'azione alterna del gelo e disgelo, attesta un clima molto diverso dall'attuale. Un certo versante mostra un'alternanza ripetuta di fasi di demolizione e di accumulo di un mantello di detrito. In tutti questi casi la geomorfologia ci restituisce frammenti della storia dell'avvicendarsi di condizioni diverse di erosione e di accumulo. È compito del geologo coordinarli in un sistema completo e coerente, combinato il meglio possibile coi risultati di una stratigrafia classica, fondata sull'analisi delle faune fossili e dei depositi sovrapposti. In realtà l'alternanza di fasi di erosione e di accumulo può dar luogo a una struttura in cui materiali successivi sono contenuti in depositi precedentemente erosi.
Bisogna sottolineare che in questo caso viene a mancare l'evidenza di quei limiti cronologici che servono sia nella stratigrafia classica, sia nella geomorfologia. In Olanda, lo studio dei depositi quaternari, inclusi quelli lasciati dall'invasione marina dello Zuider-Zee nel Medioevo, si basa su una stratigrafia di depositi sovrapposti, accessibili solo con sondaggi, mentre altrove formazioni molto più antiche sono di competenza della geomorfologia. In molte regioni, e in particolare nell'Europa mediterranea, i depositi del Quaternario sono studiati specialmente dalla geomorfologia e molto spesso quelli più recenti sono incastrati nei più antichi e sono pertanto discontinui. I casi di successione continua sono quindi molto ricercati, anche nei riempimenti di grotte o nelle torbiere.
La geomorfologia, con l'analisi delle formazioni incastrate, permette d'altronde osservazioni molto particolareggiate di episodi di storia locale; le incertezze sorgono nelle correlazioni tra località diverse. Gli intervalli di tempo sono troppo brevi per poter utilizzare l'evoluzione biologica. Si è obbligati pertanto a prendere in considerazione la successione delle industrie litiche preistoriche, ma questo criterio è valido solo per singole località poiché la comparsa di un progresso tecnologico non può indicare dappertutto una data definita, se si tiene conto delle migrazioni delle tribù.
Altri fossili, e tra questi i granuli pollinici che possono essere raccolti nei posti più diversi, consentono un'analisi statistica della flora circostante e dipendono direttamente dalle oscillazioni climatiche che essi stessi permettono di ricostruire, ma che dovevano presentare differenze sistematiche fra le diverse località. Nell'insieme è chiaro che la validità dei metodi stratigrafici e paleontologici per la correlazione a distanza è molto minore di quella fornita da un'accurata analisi cronologica locale; di conseguenza, è assai poco sicuro ogni tentativo di sintesi che pretenda di applicare a vaste regioni il significato degli episodi rilevabili in un singolo luogo.
Se la geomorfologia è uno strumento essenziale per ricostruire la storia geologica recente, essa è anche un mezzo indispensabile per il geologo che studia terreni di ogni età. Egli è quindi legato (più o meno, secondo le diverse valutazioni) agli affioramenti, li dovrà scoprire e spiegarsi perché alcune zone ne sono prive, perché alcuni affioramenti sono teneri e facilmente erodibili, in quale caso deve aversi una cura particolare nella ricerca degli indici minori, in modo da averne a disposizione un inventario completo, perché la formazione del rilievo ha determinato anche una depressione dove si sono accumulati materiali recenti. Questi interrogativi si presentano a ogni istante e l'interpretazione del terreno, che permette al geologo di rispondervi talvolta istintivamente, poggia, al fondo, sulla sua comprensione della geomorfologia.
La geomorfologia classica, fin qui esaminata, è essenzialmente continentale. Ma, nella misura in cui progredisce lo studio geologico dei fondi oceanici, si viene delineando la geomorfologia corrispondente, anche se questa non è ancora stata oggetto di una sistematizzazione paragonabile a quella continentale. Formazioni di scogliera anche attualmente sommerse, vulcani sottomarini, eventualmente trasformati in ‛Guyot' con sommità appiattita, sono alcune tra le forme caratteristiche di episodi storici la cui datazione risulta peraltro difficile in quanto, per assenza di erosione, possono anche essere molto antichi. Gli strati che col loro sovrapporsi edificano la piattaforma continentale appaiono interrotti in corrispondenza della scarpata che la limita, semplicemente perché il deposito non ha potuto estendersi di più per mancanza di substrato. Lo studio approfondito della sedimentazione marina ci mostra come un insieme di strati può costituirsi per progradazione, cioè per accrescimento laterale al suo margine, e non per deposito simultaneo di strati orizzontali; ciò chiarisce l'origine di alcune formazioni antiche. In modo ancora confuso, appare già che la geomorfologia sottomarina non sarà meno indispensabile al geologo di quella continentale (v. geografia).
d) Petrologia
La spiegazione dell'origine delle rocce sedimentarie risponde al principio di Lyell nella sua forma più stretta, nel senso che noi possiamo osservare, o ricavare direttamente dalle osservazioni, i meccanismi messi in moto dall'alterazione delle rocce preesistenti, la loro erosione, il trasporto dei loro componenti e il loro deposito. Si può aggiungere che questi processi tendono a separare i diversi costituenti, tanto che le rocce sedimentarie presentano per lo più composizioni molto differenziate, fino a un alto grado di purezza di uno solo dei costituenti possibili: si trovano infatti calcari quasi puri (dovuti d'altronde essenzialmente a processi biologici), sabbie o arenarie formate da silice pressoché pura, strati con tenore elevato di ossidi di ferro, strati di carbone, di gesso, di fosfati o di altri sali, ecc. La descrizione e la classificazione di tali rocce non solleva problemi, a condizione di trovare un posto anche per le composizioni miste.
In realtà una tale classificazione imperniata o sulla composizione o sulle modalità di deposito dei materiali trasportati, lascia da parte un aspetto importante delle rocce sedimentarie, quello del loro consolidamento dopo il deposito e talvolta altre modificazioni chimiche, come le concrezioni che danno origine alle selci, così caratteristiche del gesso. Queste modificazioni, o ‛diagenesi', si producono dopo il deposito, a opera di migrazioni e cristallizzazioni di alcuni costituenti leggermente solubili nell'acqua. Certi spostamenti, in particolare quelli della silice, sembra che avvengano sotto il mare, poco dopo la sedimentazione; altri possono aver luogo soltanto dopo un'emersione regionale, per la circolazione di acque freatiche in regime continentale.
Se è lecito considerare la diagenesi come un fenomeno subordinato rispetto a una classificazione delle rocce sedimentarie fondata specialmente sul deposito iniziale, per le rocce metamorfiche il caso è diverso. Forse le classificazioni abituali non mettono in sufficiente evidenza la mancanza di un confine netto fra le rocce sedimentarie e le metamorfiche e l'impossibilità di giustapporre le loro rispettive classificazioni, che possono coprire largamente gli stessi minerali.
Il metodo classico di studio delle formazioni sedimentarie (classificazione litologica fondata sulla natura iniziale del deposito e interpretazione stratigrafica fondata sulla successione di gruppi di strati di natura litologica diversa, con o senza fossili) resta applicabile anche quando queste rocce siano state profondamente deformate e modificate dalla ricristallizzazione. Il lavoro può essere difficile, i risultati meno sicuri, ma l'interpretazione stratigrafica resta possibile, in certe zone alpine, per terreni molto deformati, scistosi, che hanno subito una ricristallizzazione spinta molto oltre la semplice diagenesi; essa si esprime con la comparsa di minerali nuovi, spesso stabili solo a una temperatura relativamente elevata. Inoltre, il punto al di là del quale questa interpretazione stratigrafica non è stata ancora realizzata appare come provvisorio e possiamo sempre sperare di superarlo
Ma d'altra parte esistono enormi estensioni (dell'ordine di un terzo della superficie terrestre) di natura iniziale sconosciuta o che presentano solo eccezionalmente indizi di un'origine primaria sedimentaria (per esempio tracce di un conglomerato alle quali i metodi stratigrafici sono inapplicabili). Occorre tuttavia descriverle e tentare di classificarle; a questo scopo sono stati creati metodi del tutto diversi da quelli applicabili ai terreni sedimentari. Queste descrizioni e classificazioni possono naturalmente applicarsi anche ai terreni metamorfici per i quali è stato possibile realizzare un'interpretazione stratigrafica e sedimentologica; in questi casi si dispone di due metodi di descrizione e classificazione del tutto diversi per le stesse rocce e le circostanze consiglieranno l'impiego dell'uno o dell'altro. Quando si applicano per indicare su una carta le estensioni occupate dalle diverse formazioni, il passaggio dall'uno all'altro tipo di classificazione può dare l'impressione di una discontinuità che in realtà non esiste e che si può rendere meno appariscente con artifici grafici. Il principio di questa classificazione, che non può richiamarsi alle condizioni originali della roccia, in una prima fase consiste nel descrivere lo stato attuale della roccia stessa, ed è l'oggetto della petrografia; in una seconda fase tende a determinare le trasformazioni da essa subite, e per questo indirizzo è stato creato il termine di petrologia.
La petrografia si fonda strettamente sulla mineralogia, disciplina autonoma che qui avrebbe potuto essere oggetto di un capitolo speciale; più propriamente la mineralogia potrebbe essere considerata come una branca della chimica, nella misura in cui enumera e descrive delle specie, dei composti definiti o delle serie di soluzioni solide esistenti in natura. Per ciascuna di queste specie, la descrizione di tutti i caratteri, in particolare quelli delle forme cristalline e delle proprietà ottiche a esse collegate, permette un'identificazione più o meno facile, con l'aiuto delle proprietà accessibili all'osservazione. Quando si osserva una roccia in sezione sottile al microscopio, cosa necessaria nella maggior parte dei casi a causa della finezza della grana, l'impiego della luce polarizzata consente di distinguere la natura dei diversi costituenti e i loro rapporti spaziali e quantitativi. Ma spesso ciò non basta e occorrono allora esami complementari (raggi X, microsonda di Castaing) per precisare la composizione chimica dei minerali.
I metodi della mineralogia possono applicarsi perfettamente anche a prodotti artificiali (ceramiche, cementi, ecc.), e la sintesi dei minerali naturali è un complemento del loro studio. Tuttavia la mineralogia resta legata alla scoperta, nelle rocce e nei minerali, di specie nuove, la gamma delle quali è spesso più ricca di quella delle sostanze sintetiche. La descrizione delle associazioni di minerali formatisi nelle stesse condizioni porta il ricercatore ad affrontare il problema della genesi dei minerali in natura, il che introduce la dimensione storica, caratteristica della geologia.
La petrografia non si limita all'identificazione dei minerali costitutivi di una roccia; descrive anche le mutue relazioni che ne definiscono la tessitura e le orientazioni relative. Spesso i granuli minerali non sono orientati a caso; per esempio, gli elementi di forma appiattita come le miche sono paralleli tra loro e ciò facilita una frattura parallela ai piani di sfaldatura, rendendo scistosa la roccia. Una roccia può inoltre non essere omogenea e presentare, per esempio, alternanze di strati microscopici di composizione diversa. Altre disomogeneità possono esser presenti alla scala (decimetrica) del campione o a quella (decametrica) dell'affioramento o della cava.
Ma non ci si può evidentemente limitare alla descrizione della roccia nel suo stato attuale senza porsi il problema della sua origine, risalendo il più lontano possibile nella sua storia; per mettere in rilievo questo indirizzo, che s'in- quadra nello spirito storico della geologia, è stato creato il termine ‛petrologia'.
Tralasciando il caso già considerato delle rocce sedimentarie, che hanno d'altronde composizione mineralogica relativamente poco varia, il problema della petrologia può porsi in modi molto diversi, a seconda delle circostanze.
Cominciamo a esaminare il caso delle rocce ‛eruttive' o per le quali saremmo tentati di dare una definizione in forma negativa: sono quelle rocce che non conservano alcuna traccia della storia precedente la cristallizzazione dei minerali da cui esse sono attualmente costituite. Ciò non significa che la storia di tale cristallizzazione non sia stata complessa, poiché le relazioni reciproche di posizione e di forma indicano che i minerali si sono formati l'uno dopo l'altro. La composizione di un minerale può essere mutata nel corso della crescita del cristallo (feldspati zonati) e ciò indica una variazione dell'ambiente chimico; alcuni minerali possono aver subito modificazioni durante il loro raffreddamento. La roccia può inoltre portare le tracce di avvenimenti posteriori alla sua cristallizzazione, come fessure (diaclasi), filoni di riempimento delle fenditure, ecc.
Lo studio delle relazioni di queste rocce con le formazioni circostanti non ci fornisce ulteriori dati; esse appaiono tagliate in vario modo e in tal caso si parla di giacitura ‛intrusiva'. Si notano tutt'al più tracce di riscaldamento nelle rocce vicine o la penetrazione in esse di filoni associati alla roccia intrusiva.
La ricostruzione della storia della roccia porta in primo luogo alla descrizione della sua cristallizzazione. A questo scopo servono i risultati sperimentali che hanno permesso di determinare i campi di stabilità, in temperatura e pressione, dei diversi minerali, in funzione dei costituenti e in particolare della composizione della fase liquida con la quale essi sono in contatto e in equilibrio chimico. I primi risultati sperimentali si sono rivelati difficili da applicare all'interpretazione della cristallizzazione di rocce come il granito. Ciò dipendeva dal fatto che le esperienze di laboratorio erano fatte a pressione atmosferica, e pertanto su miscele anidre. Esperienze successive, eseguite sotto una pressione d'acqua sufficiente perché la fase liquida (essenzialmente costituita da silice e da altri ossidi metallici) contenesse una certa proporzione d'acqua, hanno chiarito queste difficoltà; così oggi si è in grado di spiegare il meccanismo per cui, nel corso del raffreddamento, i diversi costituenti cristallizzano in un certo ordine.
Spesso sussiste ambiguità su quello che può essere ritenuto un punto essenziale. Si può considerare un modello corrispondente alla cristallizzazione per raffreddamento di un magma totalmente fuso. Ma si può anche considerare la ricristallizzazione completa di un insieme di minerali preesistenti con un processo di fusione soltanto parziale, in cui i minerali che si sono formati per primi si dissolvono (o fondono) nella fase liquida, mentre si depositano quelli che costituiscono le forme stabili in equilibrio. Al limite, certi autori hanno ipotizzato anche una ricristallizzazione allo stato solido, per diffusione, che porterebbe ugualmente a un'associazione di minerali stabili alla temperatura considerata. Scartando quest'ultima interpretazione, peraltro poco verosimile, risulta molto difficile determinare la percentuale di magma fuso che ha dato origine alla roccia.
Le modalità della ricristallizzazione possono avere una certa influenza sulla natura dei minerali presenti, ma il fattore essenziale è evidentemente la composizione chimica globale, che si può esprimere con le proporzioni relative di 7 o 8 ossidi. Altri costituenti, come il titanio e il fosforo, possono raggiungere tenori dello stesso ordine di grandezza; essi tuttavia si individualizzano in minerali particolari, e sembra che non abbiano influenza sul processo di cristallizzazione degli altri minerali. La petrologia ha un senso compiuto solo se si considera l'insieme di tutte le composizioni che si possono incontrare e che sarebbero teoricamente rappresentabili in uno spazio a sette dimensioni, in modo analogo a quanto avviene per i diagrammi triangolari, se usati nel piano.
Secondo le abitudini dei naturalisti, derivate dal contatto con il mondo vivente, si è voluto assegnare nomi a tipi di rocce accuratamente definiti. Quando si è constatato che le composizioni variano in modo continuo, per salvare i nomi entrati nell'uso, si è fatto ricorso a diagrammi di composizione a due o tre dimensioni, affiancati tra loro come le cellette di una piccionaia (pigeonholes). Ma è giusto l'uso essenzialmente discontinuo dei nomi (salvo transizioni, da indicarsi con un nome doppio) per rappresentare un continuo?
In realtà, il risultato sostanziale è che le composizioni chimiche globali presentano una variabilità molto minore di quanto il numero dei costituenti avrebbe potuto far pensare. Tra certi costituenti esistono correlazioni positive o negative, più o meno strette; tali correlazioni non sono rispettate nel caso di rocce qualificabili come eccezionali, data la loro rarità. Nel diagramma ideale a sette dimensioni le composizioni osservate non occupano tutto lo spazio, ma si raggruppano lungo linee o superfici in zone molto limitate. Gli indici che diversi petrografi hanno proposto per riassumere la composizione chimica delle rocce possono considerarsi come l'espressione di un cambiamento di coordinate che mette in evidenza dapprima la posizione lungo la linea generale di variazione, poi gli scarti da essa, in una direzione o in un'altra. Una constatazione fondamentale è che questo ristretto campo di variazione delle composizioni chimiche è praticamente identico per le rocce cristalline e per le lave vulcaniche esaminate in precedenza, ma con frequenze distribuite in modo assai diverso.
Il problema che si pone alla petrologia è dunque d'interpretare tanto i limiti delle variabilità di composizione quanto la loro esistenza. Uno degli elementi del problema è che, in una regione, e per rocce di una certa età, accade che alcuni caratteri particolari (minerali accessori, valori di certi indici secondari, proporzioni relative delle terre rare, ecc.) siano comuni a rocce di composizione molto diversa. Questo problema tende a precisare la storia del materiale di queste rocce prima della loro formazione, ma in un modo astratto, poiché non ci sono accessibili nè i luoghi nè le epoche.
Alcune risposte plausibili sono state indicate da tempo. È possibile che, per certe composizioni globali, avvenga una separazione in due fasi liquide non miscibili, ma si ammette generalmente che ciò avrebbe scarso rilievo. Nel corso di una cristallizzazione, si può considerare una separazione meccanica tra i cristalli già formati e il liquido residuale, di composizione diversa: una differenziazione di questo tipo è invocata spesso, anche se non è facile rappresentare tale separazione, date le piccole differenze di densità e l'elevata viscosità del liquido. Infine, in un magma liquido a una certa temperatura e di composizione determinata, alcune rocce preesistenti con le quali esso può venire a contatto sono solubili, mentre altre no. L'eventuale dissoluzione comporta un assorbimento di calore, che può d'altronde essere liberato dalla cristallizzazione dei minerali che il magma tende a formare. Una tale dissoluzione selettiva deve naturalmente modificare la composizione del magma, via via che esso si raffredda. Il problema della petrologia è di analizzare nei particolari l'andamento di questi processi, tenendo conto di quanto si sa sui campi di stabilità dei diversi minerali e dei diagrammi di cristallizzazione che se ne possono dedurre.
Non è possibile qui entrare nei particolari di queste analisi. Ben prima dell'acquisizione delle conoscenze necessarie, erano state formulate due ipotesi esplicative: esiste un solo tipo di magma primitivo (quello basaltico, di gran lunga il più abbondante tra i prodotti vulcanici), oppure due, corrispondenti ai tipi estremi, basaltico e granitico? La mescolanza dei due potrebbe spiegare le altre composizioni osservate? Il dilemma oggi non si pone più e tutti concordano sulla prima soluzione: i graniti, così diffusi tra le rocce eruttive, rappresentano l'ultimo termine di un'evoluzione, in equilibrio con le ultime tracce di magma, ricco di acqua e rimasto liquido alla temperatura più bassa.
Poco importa che i graniti siano il prodotto finale di un'assimilazione selettiva o di una differenziazione. Se la seconda eventualità è più frequentemente invocata, è forse perché si presta teoricamente a un'analisi razionale, mentre un'assimilazione selettiva dipende troppo dalla natura delle rocce presenti perché sia facile descriverla. Evidentemente non è un buon motivo per ritenere che essa non abbia in realtà una parte importante. L'idea di un tipo unico di magma primordiale, cioè basaltico, era stata ammessa da molto tempo; ma recentemente si è complicata con la distinzione di due varietà di basalti: ‛tholeitici' e ‛alcalini', ciascuno dei quali nella differenziazione ulteriore seguirebbe vie molto diverse. Dobbiamo proprio ammettere, in modo quasi metafisico, l'esistenza all'origine, cioè con provenienza profonda, di due varietà di basalti vicini ma nettamente diversi? Ricercando ancora più a monte l'origine dei magmi, A. R. Ringwood ha proposto l'esistenza di un materiale ipotetico o ‛pirolite', di composizione corrispondente a una miscela, secondo certe proporzioni, di peridotite e di basalto; la sua differenziazione, in una fusione parziale, darebbe, secondo le condizioni di pressione e temperatura, l'uno o l'altro dei basalti, tholeitico o alcalino, mentre il residuo solido corrisponderebbe alle peridotiti, che sono notevolmente diffuse, ma sempre in situazioni eccezionali (per es. in blocchi inclusi in un basaito). Il fatto che non si sono mai trovate rocce di composizione intermedia tra basalto e peridotite costituisce purtroppo una seria obiezione a un'ipotesi per altri versi seducente.
L'altro campo di ricerca della petrologia delle rocce non sedimentarie, più fertile di risultati e di analisi più concrete, è quello delle rocce metamorfiche. In queste si possono riconoscere molte tracce delle fasi precedenti e delle trasformazioni subite, a tal punto che bisogna rinunciare a una classificazione semplice, che trascurerebbe troppi dati. L'atteggiamento più realistico consiste nell'esaminare separatamente i vari criteri da usare e il modo di interpretarli. Abbiamo già citato quelli che, sulla base dei caratteri del sedimento originario, condurrebbero, quando è possibile, a una classificazione stratigrafica.
Caratteristica delle rocce metamorfiche è di essere composte di minerali stabili a temperatura più o meno alta, ricristallizzati allo stato solido, senza che siano cancellati certi caratteri strutturali precedenti né resa omogenea la roccia. Ci si può proporre di determinare le condizioni della ricristallizzazione (pressione, temperatura, ma anche pressioni parziali dell'acqua e dell'anidride carbonica) almeno in modo relativo, sulla base dell'associazione di minerali considerati in origine come in equilibrio tra loro. Un solo campione fornirebbe indicazioni molto incomplete; ma se si disponesse di una serie di rocce di composizione globale la più diversa possibile (raccolte in uno spazio molto limitato, per poter ammettere che siano ricristallizzate nelle stesse condizioni), questa determinazione potrebbe essere molto più precisa. Così è stato possibile definire una ventina di ‛facies metamorfiche'; ciascuna di esse, per una serie di composizioni diverse, è caratterizzata da equilibri tra minerali e corrisponde a condizioni di temperatura e pressione di cui sono note le posizioni relative.
In questo studio si suppone che i minerali presenti siano stati tutti in equilibrio tra loro. Può accadere tuttavia che una parte del materiale primitivo non sia ricristallizzato a causa della lentezza del processo; questo residuo, allora, può fornire indicazioni sulla composizione iniziale della roccia. Oppure, al contrario, si trovano relitti di uno stato anteriore corrispondente a una temperatura più alta di quella della ricristallizzazione finale (‛retrometamorfismo'). Così la ricostruzione della roccia può risultare arricchita.
Salvo il caso eccezionale del metamorfismo di contatto, dovuto all'innalzamento di temperatura determinato dalla vicinanza di rocce eruttive intrusive, la stragrande maggioranza delle rocce metamorfiche presenta un'anisotropia molto marcata, in quanto la loro tessitura è orientata. La conseguenza più evidente è la scistosità, cioè l'attitudine della roccia a dividersi lungo piani paralleli; questo si può accertare con evidenza quando tali piani non coincidono con quelli della stratificazione della roccia sedimentaria originaria. L'anisotropia può dipendere dall'orientamento delle direzioni cristallografiche dei granuli di un minerale (per es. i granuli fogliettati delle miche), dalla forma dei granuli, indipendentemente dall'orientamento, o dall'alternanza di strati di composizione diversa (per es. di quarzo e di mica).
Tale disposizione orientata, acquisita ai momento della ricristallizzazione, non può derivare che da una spinta meccanica, esprimibile con pressioni di valore diverso, principalmente secondo tre direzioni ortogonali, come avviene normalmente nei solidi, a differenza dei liquidi soggetti invece alla pressione idrostatica. Ma la ricristallizzazione può aver registrato non solo l'effetto di una compressione statica, che facilita la crescita dei granuli cristallini secondo orientazioni ben determinate, ma anche l'effetto della deformazione risultante, che può aver modificato l'orientazione di elementi cristallizzati in precedenza.
Non v'è dubbio che, per una roccia isotropa, l'effetto della prima compressione sia quello di far apparire una scistosità perpendicolare alla pressione massima, con gli elementi allungati lungo i piani della scistosità stessa. Ma la compressione di una roccia già anisotropa per una scistosità precedentemente acquisita secondo direzioni diverse è un fatto molto più complicato, non ancora convenientemente analizzato. Tuttavia si possono riconoscere talvolta due scistosità di direzioni diverse, rivelate dall'orientazione di minerali diversi, cristallizzati in condizioni di temperatura differenti, dei quali possono determinarsi le età relative. Forse in questo campo sono state compiute talvolta generalizzazioni affrettate, attribuendo a fasi di deformazioni successive scistosità caratterizzate singolarmente da orientazioni determinate su scala regionale e con età relative stabilite su qualche osservazione isolata. È evidente che una fase di deformazione deve disorientare profondamente tutti gli elementi precedentemente formati, e che può produrre deformazioni in direzioni diverse secondo i punti, o variabili nel tempo nello stesso punto.
Come molte altre tecniche la cui applicazione risulta particolarmente seducente, perché sono fondate su basi arbitrariamente semplificate, la ‛microtettonica', così come oggi è troppo spesso praticata, rischia di condurre a conclusioni molto dubbie; s'impone quindi una revisione dei suoi fondamenti teorici.
Per altre rocce metamorfiche, l'ipotesi che tutte le ricristallizzazioni successive si siano prodotte allo stato solido fa difetto, come nel caso delle migmatiti. In queste è presente una fase con aspetto di roccia ignea, simile al granito, distribuita in vene o letti con spessori variabili da un centimetro a qualche decimetro. Non vi è motivo di pensare che le vene siano formate da materiale liquido iniettato dall'esterno, mentre una fusione parziale può aver prodotto una fase liquida, contenente tutta l'acqua disponibile, con una composizione corrispondente alla minima temperatura di fusione, mentre il resto della roccia rimane solido e conserva una struttura e in particolare una scistosità, che testimoniano la presenza di una fase precedente. Così, per interpretare queste rocce occorre far intervenire un altro tipo di evento. La proporzione di materiale fuso può d'altronde essere così forte che la trama scistosa primitiva si riduce a brandelli discontinui, mentre la massa della roccia presenta tutti i caratteri di una roccia ignea (granito di anatessi). Tutto questo deve gettare un dubbio sull'interpretazione delle rocce ignee: in qual misura esse risultano dalla cristallizzazione di una magma primitivo, oppure da una fusione, forse graduale, di rocce preesistenti?
Quando si studia una roccia, ci si rivolge a quanto ci sembra essenziale in essa. La sua fessurazione in diaclasi sempre presenti appare come un accidente secondario, che si è tentati di trascurare. Ma queste fessure possono diventare più abbondanti ed essere occupate da quarzo o calcite ricristallizzati. Al posto di fratture può subentrare una caoticità locale dei letti scistosi. Queste deformazioni tardive possono essere così intense da formare brecce con cemento calcitico o quarzitico, e allora dovranno essere considerate a parte. Secondo i casi, per rocce vicine, si potrà dunque considerare come carattere essenziale, ai fini della classificazione, la presenza di tracce dell'una o dell'altra delle tappe della loro trasformazione.
Il geologo è un naturalista, tradizionalmente portato a descrivere e classificare gli oggetti della natura. La petrografia classica è basata su tali classificazioni; esse rimangono comode e anche necessarie per le descrizioni regionali e la compilazione di carte che le riassumono, e tuttavia rappresentano un quadro che mal si adatta alle ricerche moderne della petrologia. In una roccia, al di là del contenuto di tali classificazioni, si possono distinguere le tappe di un'evoluzione progressiva e ricostruire così varie vicende da essa subite, mentre altre si possono indovinare. Tali vicende, quando sono molto varie, non trovano alcuna classificazione adeguata. Al di là delle classificazioni che necessariamente trascurano ciò che appare secondario, la petrologia ci insegna a considerare le rocce metamorfiche come testimonianze di avvenimenti successivi che noi dobbiamo tentare di ricostruire, partendo dall'evoluzione dei magmi primitivi, a profondità sconosciute, fino alle tracce delle ultime deformazioni, responsabili della fessurazione, passando attraverso i riscaldamenti e le compressioni che, con ondate successive, hanno lasciato la loro impronta.
e) Metallogenesi
La petrologia cerca di interpretare le grandi masse rocciose; le eccezioni, che presentano composizioni anormali limitatamente a piccoli volumi, interessano soprattutto nella misura in cui possono chiarire l'origine delle masse in cui sono intercalate. Si può citare il caso delle pegmatiti, che costituiscono lenti o filoni ai margini o nei dintorni di massicci di rocce cristalline, e che possono interpretarsi come dovute al deposito di cristalli a partire dall'ultimo residuo fluido, ricco d'acqua. Esse contengono spesso una grande varietà di minerali rari.
In generale la metallogenesi è lo studio delle rocce eccezionali, dove sono concentrati certi elementi rari, che possono costituire materiali estrattivi quando il loro sfruttamento sia economicamente vantaggioso. Questa definizione dipende evidentemente dalle condizioni economiche e dalla richiesta. L'avvento della televisione a colori, per esempio, ha creato una richiesta di europio, che serve per il colore rosso degli schermi, cosicché alcuni giacimenti hanno assunto interesse economico.
La metallogenesi studia dunque casi eccezionali; essa serve non tanto per comprenderli e spiegarli, quanto per fornire utili indicazioni per il loro reperimento. Infatti il consumo delle materie prime minerali aumenta con un ritmo tale, per cui bisogna praticamente reperire ogni ventennio, per ogni sostanza, un quantitativo pari a quello estratto dall'origine del genere umano. I giacimenti più evidenti sono stati sfruttati da tempo: la scoperta di giacimenti nuovi diventa sempre più difficile e si dovrà ricorrere a tutte le conoscenze geologiche disponibili.
Distinguiamo anzitutto il caso dei giacimenti sedimentari; la sedimentazione è nella sua essenza un processo di separazione e di concentrazione: i giacimenti di questo tipo sono semplicemente formazioni geologiche.
Per gli idrocarburi si ammette oggi una derivazione dalla materia organica presente, a basso tenore, in quasi tutti i sedimenti marini. Dopo una lunga evoluzione questa materia diventa fluida e può migrare attraverso le rocce porose in quanto ha densità minore dell'acqua. Dove la migrazione si arresta per la presenza di rocce impermeabili, gli idrocarburi si concentrano e formano giacimenti, per lo più senza che traspaiano indizi alla superficie.
L'originalità della metallogenesi si manifesta nello studio dei giacimenti di origine profonda, che sono essenzialmente quelli metalliferi, e che appaiono largamente indipendenti dalle grandi formazioni rocciose. La loro descrizione è molto antica, ma la spiegazione della loro genesi è giunta tardi a interpretazioni soddisfacenti.
All'inizio è stata postulata un'origine profonda, quasi in termini metafisici, per descrivere la precipitazione, lungo fessure percorse da un fluido ipotetico, sia di minerali ricchi di metallo e quindi molto ricercati, sia d'altri senza valore economico, che formano la ganga: quarzo, calcite, fluorite (quest'ultima poi divenuta utile per l'impiego dei composti del fluoro) e così via. Poi, una quarantina d'anni fa, sorse una legittima diffidenza nei confronti delle interpretazioni semplicistiche, e si manifestò la necessità di conoscenze molto più precise sulla solubilità e sui campi di stabilità dei minerali in relazione alla temperatura e alla pressione. Si senti inoltre il bisogno di descrizioni obiettive, sganciate da ipotesi genetiche ancora troppo fragili. I ricercatori si dedicarono allora a descrivere e a classificare i giacimenti in funzione delle associazioni mineralogiche in essi contenute, a individuare il loro ambiente geologico, mentre per ciascuno dei tipi distinti venivano determinati, sui giacimenti noti, i tenori, il grado di continuità, la cubatura, ecc. La considerazione di semplici analogie empiriche permette allora al prospettore, che scopre un indizio, di classificarle in un certo tipo e di avere così elementi di comparazione per decidere la prosecuzione o la sospensione di lavori costosi e per scegliere, tra diversi indizi, quelli sui quali basarsi per proseguire le ricerche, con trincee, sondaggi o gallerie;
La metallogenesi sta entrando attualmente in una terza fase, in cui risulta indispensabile applicare compiutamente il metodo geologico, cioè la ricostruzione della storia genetica del giacimento, precisando le temperature, le pressioni e le composizioni dei fluidi. Questi possono essersi conservati all'interno di alcuni cristalli in forma di inclusioni microscopiche, delle quali si può determinare la composizione e talvolta la pressione e la temperatura iniziali. Spesso il dirigente minerario non vede l'interesse immediato di tali ricerche, ma sembra fuor di dubbio che, se le modalità genetiche dei giacimenti fossero meglio conosciute, non mancherebbero in seguito applicazioni utili per la loro ricerca. In mancanza di ciò, non resta che continuare a procedere per tentativi empirici, sulla base di analogie superficiali, fondate sul quadro geologico, sulla tettonica, sul modo di fratturazione delle rocce, ecc., con la difficoltà che i fattori determinanti per l'ubicazione di un giacimento possono essere confinati in profondità e pertanto risultare inaccessibili per le comparazioni.
Frattanto le indagini teoriche sull'origine lontana dei giacimenti non si sono interrotte. È risultato che non è sempre necessario invocare ipotetiche origini profonde. Il peso di uranio concentrato in un giacimento, per fare un esempio dei più chiari, è in definitiva poca cosa rispetto a quello che è disperso, con basso tenore, negli enormi volumi di granito circostante; sono sufficienti circolazioni locali di fluidi idonei a lisciviare una parte dell'uranio diffuso per depositarlo nelle fessure o in altre trappole, dando così origine a giacimenti suscettibili di sfruttamento.
Questo tipo di spiegazione singenetica è stato esteso ad altri minerali e, come accade quando subentra la moda, è possibile che si sia talora esagerato.
Forse per il fatto che la struttura economica dell'industria mineraria è più dispersa di quella petrolifera, i problemi della metallogenesi non vengono affrontati con la stessa larghezza di vedute che ha prevalso nelle ricerche fondamentali relative alla geologia del petrolio. L'aiuto immediato da dare al prospettore resta una preoccupazione troppo costante, che distoglie dalla via, lunga e ingrata, ma alla fine feconda, dello studio fondamentale della storia particolareggiata della genesi dei giacimenti.
f) Tettonica
La genesi delle rocce sedimentarie, sopra ricordata, implica un rinnovamento costante delle aree continentali soggette all'erosione e, quindi, il loro sollevamento; nello stesso tempo si ha un abbassamento dei bacini dove si accumulano i sedimenti. È noto che il peso di questi non è sufficiente a spiegare il fenomeno. Tutto ciò implica una mobilità generale della superficie terrestre della quale gli altri pianeti di cui conosciamo la struttura - la Luna, Marte e Mercurio - non offrono affatto l'equivalente. Abbiamo anche visto che le rocce metamorfiche mostrano tracce di una deformazione meccanica, talora molto spinta, e di un riscaldamento che ha permesso la loro ricristallizzazione. In certe zone montuose la deformazione si manifesta direttamente, quando gli strati, inizialmente orizzontali, appaiono piegati o comunque inclinati. L'analisi dei loro andamenti mostra forme svariate di pieghe e spesso accavallamenti, cioè scivolamenti lungo superfici quasi orizzontali.
Come ogni altro aspetto della storia geologica, queste deformazioni, oggetto particolare di studio della tettonica, devono essere datate secondo la scala della cronologia stratigrafica. Talvolta l'inclinazione crescente degli strati progressivamente più antichi permette una datazione precisa. Più spesso i terreni raddrizzati sono stati parzialmente erosi e una discordanza lascia indeterminata l'età della deformazione nell'intervallo tra i terreni deformati e quelli trasgressivi. L'arrivo in un bacino sedimentario vicino di materiali grossolani, strappati dall'erosione a una terra emersa in corso di sollevamento, può fornire una datazione indiretta, ma relativamente précisa.
Abbiamo già commentato, a proposito della storia dell'istituzione della scala stratigrafica, come certe idee, oggi abbandonate, sul modo di variare delle faune fossili, avevano condotto a prevedere, a priori, che gli sconvolgimenti fisici dovessero segnare i limiti dei piani. È strano constatare che quest'idea, oggi riconosciuta senza alcun fondamento, è ancora spesso implicitamente ammessa, se non altro per l'impiego di una nomenclatura delle fasi tettoniche che l'imprecisione delle datazioni mediante le discordanze permette di far coincidere convenzionalmente coi limiti dei piani. In realtà, quando la continuità dei depositi sedimentari è data per sicura, si constata che la deformazione è graduale, anche se la velocità può non essere uniforme. Con la precisione delle datazioni aumenta di pari passo il numero apparente delle fasi, tanto che la conclusione più verosimile è che la deformazione tettonica sia normalmente continua. Tuttavia vedremo che può dar luogo a rapidi scivolamenti per gravità, che possono localmente dare l'impressione di un fenomeno quasi istantaneo, per esempio quando le masse scivolate vengono a intercalarsi in una serie in corso di sedimentazione.
In una regione come l'Europa occidentale, le deformazioni tettoniche non sono continue per tutta la durata dei tempi geologici, ma si raggruppano in alcuni periodi (Cadomiano, alla fine del Precambriano; Caledoniano, verso la fine del Siluriano; Ercinico, dalla fine del Devoniano al Permiano; Alpino, dal Cretaceo superiore al Miocene), ciascuno dei quali si estende per una durata notevole, con diversi parossismi di età variabile da luogo a luogo; questi periodi sono separati da periodi di sedimentazione molto più calmi, ma tuttavia non esenti da qualche deformazione locale.
Su scala mondiale però questi periodi perdono la loro individualità e si deve concludere che i processi di deformazione sono sempre stati attivi, ma in regioni che variano progressivamente. In alcuni casi si ha l'impressione che le zone di più intenso corrugamento si siano accostate l'una accanto all'altra (il corrugamento ercinico si è giustapposto al margine meridionale del corrugamento caledoniano), ma in altri casi la stessa zona può essere interessata da altre orogenesi (il corrugamento alpino si è sovrapposto in Europa occidentale a quello ercinico).
Lo studio delle deformazioni tettoniche e delle strutture attuali che ne sono il risultato può avere diversi obiettivi. Se si vuol mettere in luce la distribuzione delle masse minerali in profondità, il solo esame particolareggiato di quanto è visibile in superficie lascia il campo aperto a molte incertezze; i dati, pertanto, devono essere integrati da una ricostruzione cinematica. Può essere utile tuttavia precisare le posizioni relative (quelle anteriori alle deformazioni) dei diversi elementi presenti nelle pieghe attuali, quando si ha una deformazione di questa ricostruzione e in particolare delle sue fasi successive. L'analisi dettagliata delle successioni stratigrafiche permette di raggiungere questo risultato, poiché le variazioni laterali sono spesso molto rapide nelle regioni ulteriormente deformate. In questo modo si sono potute interpretare strutture anche molto complicate, costituiteda falde accavallate le une sulle altre, come in Svizzera.
Se però si cerca una veduta d'insieme della natura profonda dei fenomeni tettonici, occorre immaginare una ricostruzione a ritroso, fino alla situazione originaria, dei movimenti che hanno generato le pieghe.
I terreni sedimentari, per il fatto che sono stratificati, si comportano in modo particolare nelle deformazioni meccaniche e possono formare delle pieghe. Il comportamento dello zoccolo cristallino sottostante è del tutto diverso; così, la copertura sedimentaria scivola su di esso, lungo una superficie di scollamento, e si piega. Questa tettonica di ricoprimento non può essere estesa allo zoccolo; anzi per comprendere il comportamento di quest'ultimo, bisogna fare astrazione dalla prima, considerando soltanto le azioni globali testimoniate dalle pieghe. Queste possono consistere in una compressione a tenaglia come in una morsa, oppure in uno scivolamento della copertura per gravità, lungo il pendio creato dal sollevamento di un massiccio profondo. Tale scivolamento, con le pieghe che può creare quando si verificano condizioni favorevoli, può proseguire rapidamente (e ciò non impedisce di riconoscervi una successione di tappe) senza altre azioni d'origine interna. Esiste tutta una serie di passaggi tra questa tettonica gravitativa e la semplice sistemazione per scivolamento, sul fondo d'un bacino sedimentario, di blocchi di terreni più antichi (olistoliti, o Klippen sedimentari) le cui dimensioni possono variare dal metro al chilometro.
Un'altra forma di tettonica gravitativa si manifesta con la comparsa di domi salini. Quando in una serie sedimentaria esiste uno spesso strato di sale a una profondità sufficiente, l'instabilità che risulta dalla presenza del sale, più leggero, sotto terreni più densi, può determinare una rottura d'equilibrio: il sale si solleva in forma di colonne o di cupole, mentre i terreni sovrastanti compresi fra queste si affossano. Queste strutture molto particolari, messe in evidenza dalle ricerche petrolifere nel sud del Texas, nel nord della Germania, nel Golfo Persico, nel sud degli Urali, non hanno alcun rapporto diretto con la tendenza caratteristica della superficie terrestre a subire ogni tanto profondi sconvolgimenti.
Per comprendere l'origine di questi ultimi conviene, astraendo dalla tettonica di ricoprimento e, beninteso, dalle deformazioni gravitative, confrontare le prove di deformazioni successive, per arrivare a una visione d'insieme di quanto costituisce localmente un grande periodo di deformazione tettonica. Questa ricerca si svolge da più di un secolo; se i risultati sono ancora confusi o discutibili, ciò dipende dal fatto che il corso degli avvenimenti può essere stato diverso da un esempio all'altro (e gli esempi non sono abbastanza numerosi per permettere un'analisi statistica). Lo schema che tratteggeremo brevemente comporta numerose eccezioni in tutte le sue tappe. Esso prende lo spunto dall'idea che, prima della deformazione propriamente detta, si delinea una fossa di sedimentazione, o ‛geosinclinale', nella quale si accumulano grandi spessori di sedimenti, sia di tipo banale, analoghi ai depositi di altri luoghi (miogeosinclinale, come per esempio quello degli Appalachi, o di età carbonifera, per il quale è stato creato il termine di geosinclinale); oppure di strati molto monotoni, corrispondenti forse a sedimenti di mare più profondo, spesso con presenza di espandimenti di rocce vulcaniche basiche o ultrabasiche (eugeosinclinale).
Nello sviluppo di una geosinclinale possono formarsi sul fondo creste parallele, dette ‛cordigliere', che dividono fosse caratterizzate da differenze nelle serie sedimentarie.
La deformazione propriamente detta è essenzialmente effetto di una compressione laterale, nel corso della quale i sedimenti contenuti nell'intera geosinclinale vengono piegati, schiacciati o eiettati come falde che possono scorrere anche per grandi distanze. Lo zoccolo stesso è fratturato e può formare scaglie, massicci in rilievo, o anche enormi pieghe coricate a comportamento plastico, come le falde pennidiche delle Alpi; ma si sospetta che lo zoccolo possa anche essere trascinato in profondità, secondo modalità ancora mal conosciute. Questa compressione può, o non, essere accompagnata da un innalzamento della temperatura, che determina un metamorfismo generalizzato; in questo caso lo studio della scistosità e di tutti i particolari a essa associati fornisce la prova della compressione stessa, spesso molto intensa; ma, come abbiamo già indicato, occorre prudenza nella distinzione di fasi successive.
Per restare nel campo di ciò che avviene in profondità, è da notare che talvolta (in certe parti della catena ercinica, raramente nelle Alpi propriamente dette, molto spesso nelle Ande e nelle Montagne Rocciose) si sviluppano a una certa profondità grandi masse granitiche, in generale dopo la fine della deformazione.
Mentre il metamorfismo si sviluppa in profondità, in superficie la deformazione crea rilievi vigorosi, alternati a bacini profondi. Questi bacini vengono rapidamente alimentati, oltre che dai già segnalati scivolamenti di masse di ogni dimensione, da sedimenti particolari derivati da un'erosione notevole. Tipici tra questi i depositi con carattere di flysch, che si formano a profondità sufficienti perché possano aver luogo le correnti di torbida. Queste riprendono i sedimenti mobili accumulati presso le coste, si muovono sul fondo lasciando su di esso impronte caratteristiche, depositando poi ciascuna una sequenza arenaceo-argillosa o calcareo-marnosa, caratterizzata da granuli maggiori alla base e da granuli fini alla sommità. Diversa è la ‛molassa', che si forma in condizioni più litorali, con alternanze di conglomerati, arenarie e argille, spesso con tracce di ripetute erosioni parziali, come avviene nei delta. In qualche caso tra flysch e molassa la distinzione non è netta, e ci si può chiedere se i depositi con carattere di flysch possano formarsi anche in acque poco profonde.
All'inizio il flysch si formerebbe nelle depressioni interne e le molasse nelle avanfosse, in quelle depressioni, cioè, che si determinano all'esterno della catena a seconda del suo sviluppo.
I flysch sono una conseguenza della deformazione, che tuttavia può interessare, almeno ai margini della catena, anche le molasse; ma è necessaria spesso una notevole esperienza per riconoscere in altri rilievi questi elementi caratteristici della catena alpina. Al contrario, in quest'ultima sono estremamente scarse le formazioni vulcaniche, peraltro notevolmente rappresentate in altre catene (in particolare le Ande) che non rientrano assolutamente nello ‛schema alpino'.
Meritano una considerazione speciale certe formazioni, molto dislocate, in posizione anomala e ricche di peridotiti, per le quali si pone la domanda se possano essere la traccia di eventi che abbiano portato alla superficie rocce di origine molto profonda.
Lo studio diretto delle zone deformate, nelle catene montuose, ci fornisce sulla deformazione delle rocce superficiali o di media profondità un'informazione talmente ricca, che riesce difficile discernere in essa caratteri generali che siano comuni a tutte le catene, se non l'idea di una compressione laterale, la quale implica movimenti che per le Alpi variano da un centinaio a un migliaio di chilometri. Quest'idea tuttavia non c'illumina sugli aspetti che la deformazione può avere in profondità, dove possono essere stati trascinati elementi di origine superficiale.
L'ampiezza della contrazione laterale, già ammessa per le Alpi dal principio di questo secolo, implica una mobilità relativa dei blocchi continentali ai due lati. L'ipotesi della deriva dei continenti, proposta da A. Wegener nel 1912, ne costituiva una generalizzazione. Rimaneva pero impossibile delineare un quadro d'insieme coerente di questo tipo di spostamenti relativi, finché lo studio rimaneva limitato alle aree continentali.
I mezzi di studio messi a punto durante la guerra e - occorre dirlo - i problemi inerenti alla navigazione in acque profonde dei sottomarini a propulsione nucleare, hanno dato, dopo il 1945, un impulso considerevole alle ricerche oceanografiche riguardanti la natura dei fondi. D'altronde, l'ipotesi della deriva dei continenti aveva ripreso un'improvvisa attualità verso il 1960, quando apparve un nuovo mezzo per documentare gli spostamenti relativi, fino allora puramente ipotetici. Tale mezzo era dato dal paleomagnetismo, che offre la possibilità di determinare la direzione dei campi magnetici di tempi passati, registrati nelle rocce vulcaniche e sedimentarie di età corrispondente.
Il progresso degli osservatori sismici ha permesso una localizzazione più precisa di tutti i terremoti, ivi compresi quelli in pieno oceano. Questi nuovi mezzi di indagine hanno permesso, verso il 1967, a una équipe di oceano- grafi di proporre un modello globale per la deformazione attuale. La crosta terrestre sarebbe composta di un certo numero di placche, mobili le une rispetto alle altre (con velocità relative di qualche centimetro annuo, più lente di quelle supposte da Wegener) lungo limiti nettamente segnati da linee quasi continue di sismi. Dove le placche si allontanano, lasciando una fossa caratteristica, o rift, quasi sempre situata nell'asse di un oceano, il nuovo spazio si colma per iniezioni di rocce vulcaniche che, raffreddandosi, assumono un magnetismo orientato secondo il campo terrestre. Questi materiali provenienti dal basso aderiscono, dividendosi in parti quasi uguali, alle due placche che si allontanano. I margini laterali delle placche corrispondono a faglie lungo le quali avviene lo scorrimento tra due placche contigue; questo tipo di fratture era in precedenza già stato riconosciuto in qualche caso e se ne era già sospettata una maggiore frequenza. Si riconobbe infine che l'incontro tra due placche in movimento l'una contro l'altra corrisponde agli archi insulari, come quelli che orlano il Pacifico, dove la sismicità si sviluppa lungo una superficie che s'immerge con inclinazione dell'ordine di 45° fino a profondità che possono raggiungere i 700 km. Si è dunque ammesso che negli archi insulari (e sotto le Ande) la placca oceanica s'infletteva per scivolare sotto la placca sulla quale poggia la ghirlanda insulare (o il continente, nel caso del Sudamerica). Questo modello, dapprima proposto come una generalizzazione ardita di pochi esempi, ha provocato molte campagne oceanografiche e sondaggi in mare profondo, penetrati per oltre 1.000 m nella roccia, che hanno fornito numerose conferme. In particolare è stato possibile fare un modello generale delle variazioni del verso e dell'intensità del campo magnetico terrestre nel corso degli ultimi 100 milioni di anni. Questo ha consentito d'interpretare le anomalie magnetiche ai due lati dei rifts e anche di determinare la cronologia relativa della loro apertura.
È fuori di dubbio che questa teoria della tettonica a placche, con la visione globale delle deformazioni della crosta terrestre che lo studio dei soli continenti non poteva dare, costituisce nello sviluppo storico della geologia una delle tappe più importanti.
Non diminuisce la portata di questa interpretazione la considerazione che, in conseguenza di divergenze tra scuole, i suoi autori fossero poco al corrente delle interpretazioni mobilistiche da tempo suggerite dalla geologia alpina, che era rimasta pressoché sconosciuta negli Stati Uniti (come nell'Unione Sovietica).
Si è dovuto pertanto ammettere, perché gli spostamenti relativi delle placche risultassero coerenti e compatibili tra loro, che la catena alpino-himalayana corrispondesse, nel suo insieme a una compressione attuale. La teoria delle placche è dunque apparsa ai suoi autori come interamente nuova, senza che fossero tenute nel dovuto conto le notevoli acquisizioni risultanti dall'analisi particolareggiata di certe catene montuose. La tettonica a placche descrive la situazione attuale, con un prolungamento nell'era terziaria, per la quale la cronologia risulta da un'estrapolazione. Quanto noi sappiamo della catena alpina ci conduce a pensare che, dove la teoria delle placche suggerisce una compressione globale, con direzione e velocità sensibilmente uniformi, deve in realtà avere avuto luogo una serie di deformazioni locali, in direzioni diverse e molto irregolarmente distribuite nel tempo. È d'altronde verosimile che le modalità delle deformazioni siano state molto varie; lo schema di base della teoria delle placche, costruito sul modello delle strutture oceaniche, dovrà essere seriamente modificato e arricchito per poter spiegare i complessi movimenti delle aree orogeniche continentali.
Non vi è ragione di pensare che i corrugamenti precedenti si siano svolti in modo molto diverso; ma molto rimane ancora da fare per un loro inquadramento globale. Sono state proposte varie ricostruzioni ipotetiche, ma bisogna ammettere che, allo stato attuale delle conoscenze, ognuna di esse è suscettibile di modificazioni radicali, in quanto rappresenta soltanto una tra le numerose soluzioni possibili.
g) Geologia e geofisica
Nell'ultimo paragrafo si è fatto cenno spesso all'utile impiego di certi risultati della geofisica. Benché questa sia trattata in un articolo a parte, non possiamo esimerci dall'indicare qui in breve la sua importanza nei confronti della geologia, in quanto disciplina che fornisce una grande quantità di dati.
Nel linguaggio corrente e nell'organizzazione pratica, tra prospezione geofisica e fisica terrestre si fa una distinzione che non si fonda su alcuna differenza di metodologie e di apparecchiature. La differenza sembrerebbe riferirsi, a prima vista, alle condizioni di lavoro. La prospezione geofisica sarebbe una disciplina applicata, che mette in opera mezzi considerevoli per risolvere problemi non di sua scelta. La fisica terrestre sarebbe, invece, una ricerca accademica, che sceglie liberamente i suoi problemi e può affrontare quelli che le sembrano fondamentali (anche se i finanziamenti di cui può disporre non corrispondono alle sue ambizioni).
Nella realtà la distinzione mi sembra molto diversa. La prospezione geofisica cerca di risolvere problemi imposta- ti dai geologi e di rispondere agli interrogativi che nascono dallo studio geologico: qual è la profondità di un certo bacino sedimentario? dove sono ubicate le irregolarità di struttura che ci aspettiamo di trovare? I risultati ottenuti sono rapidamenti sottoposti al controllo dei sondaggi, il che obbliga a perfezionare continuamente i metodi di interpretazione. Con tale controllo severo le possibilità della prospezione geofisica sono ben delineate: essa permette di precisare una struttura geologica e di superare certe ambiguità. In breve, ha un compito complementare: in nessun modo può definire completamente la natura di una struttura geologica se non si hanno informazioni per altre vie.
Quando viene superata la profondità alla quale può essere ipotizzato uno sfruttamento, non sono più necessarie le operazioni concatenate della prospezione geofisica e si entra nel campo della fisica terrestre, che si dedica all'interpretazione di misure molto meno particolareggiate, a- vendo a disposizione dati geologici molto scarsi e senza prospettive di controlli diretti. È chiaro che non ci si può più proporre lo stesso obiettivo, quello, cioè, di determinare per approssimazioni successive una struttura reale, che sappiamo quanto possa essere complessa. L'obiettivo in realtà diventa un altro. Il risultato delle misure non ha significato in sé; si cerca d'immaginare quali modelli o strutture ideali possano render conto dei risultati delle misure, con preferenza per i più semplici. Quando si affronta lo studio della Terra nel suo insieme, si possono considerare trascurabili in una prima approssimazione le deviazioni locali rispetto alla variazione delle proprietà in funzione del raggio terrestre. Per esempio, lo studio di un modello ideale di globo formato da strati omogenei concentrici ci permette di conoscere, a partire dallo schiacciamento del globo terrestre, le condizioni cui deve rispondere la distribuzione della densità secondo la profondità, con una valida approssimazione. Possiamo inoltre tentare di valutare questa approssimazione partendo dall'ampiezza delle irregolarità del campo gravitazionale. Il modello delle velocità sismiche, stabilito nell'ipotesi di una struttura concentrica d'involucri omogenei, rappresenta una valida approssimazione; ma ciò non significa che la struttura sia realmente omogenea. Attualmente un interesse speciale è rivolto all'imperfezione di trasmissione delle onde sismiche, la cui energia diminuisce più rapidamente di quanto diminuirebbe nel caso di un solido perfettamente elastico; si tende a interpretare questa dissipazione di energia come dovuta a un attrito interno, equivalente a una viscosità, che col calcolo si può ricollegare alla dissipazione di energia nella propagazione delle onde. Ma si dovrebbe prendere in esame un'altra interpretazione: in un mezzo formato dalla giustapposizione di blocchi con velocità sismiche leggermente diverse, le rifrazioni e le riflessioni sulle superfici di contatto determineranno la diffusione di una parte dell'energia delle onde sonore e quindi un'attenuazione della loro energia secondo la direzione di propagazione. Sarebbe questo un mezzo per valutare l'ampiezza degli scarti di omogeneità, e quindi il grado di approssimazione del modello, in mancanza della possibilità di determinarne la struttura reale.
Più vicino alla superficie, oltre le profondità - mal determinate - sulle quali la geologia può dare informazioni, dobbiamo limitarci a modelli semplici e regolari, che rendono conto di alcune proprietà geofisiche che possono essere misurate ma sono peraltro difficilmente combinabili tra loro. È verosimile che, passando da una profondità di 5-10 km (dove l'estrapolazione delle conoscenze geologiche fa prevedere una struttura estremamente complessa per il sovrapporsi degli effetti di più fasi di metamorfismo, d'intrusioni e di deformazioni), a quella di 30-40 km, si entri in una regione per la quale i modelli semplici dei geofisici, come quello di una superficie di Mohorovičič orizzontale e ben definita, possano dare una descrizione sufficiente? Basta osservare che tale discontinuità è rivelata dalla sismica a rifrazione, mediante misure che potrebbero esprimere ugualmente bene una variazione relativamente rapida di velocità media distribuita per uno spessore di alcuni chilometri. Inoltre questa superficie non può generalmente essere messa in evidenza dalle riflessioni di onde sismiche, che esigerebbero una definizione della superficie con l'approssimazione dell'ordine del chilometro per far prendere in considerazione l'ipotesi secondo la quale sarebbero soltanto variazioni graduali della velocità media all'interno di un insieme la cui struttura può essere molto irregolare. Più in generale, i geofisici hanno l'abitudine d'interpretare tutti i profili sismici a rifrazione secondo un modello a strati orizzontali, ed è essenzialmente per questo che essi hanno proposto modelli della crosta di questo tipo, con un'ipotetica discontinuità, detta di Conrad. Forse bisognerebbe piuttosto considerare una struttura con fluttuazioni irregolari della velocità, che, alla fine di un certo percorso, risulteranno espresse da variazioni della ripartizione dell'energia nella propagazione di un'onda.
Gli studiosi di gravimetria e di magnetismo cercano spesso d'interpretare le loro misure costruendo modelli di distribuzione della densità o della suscettività magnetica, senza tener conto, perché sarebbe troppo complicato, della magnetizzazione rimanente. Gli autori di questi modelli dimenticano d'indicare l'indeterminatezza di fondo del problema. In questo modo è possibile soltanto precisare alcuni caratteri di una struttura scelta a priori in funzione di certe ipotesi geologiche. Ogni modello dovrebbe essere accompagnato dall'avvertimento che con strutture meno profonde, essendo le discontinuità orizzontali sostituite da variazioni progressive, si avrà una distribuzione diversa. Se questa limitazione essenziale rimane sottintesa, si può correre il rischio che venga dimenticata.
Nella sismica a riflessione, che è uno degli strumenti fondamentali della prospezione petrolifera, i prospettori non mancano mai, quando una superficie di faglia risulta inclinata, di calcolare la sua posizione vera, che non è evidentemente sulla verticale del punto d'osservazione. I profili continui di sismica marina, che sono alla base delle ricerche oceanografiche, forniscono bellissimi grafici, nei quali le riflessioni sono indicate sulla verticale del punto d'osservazione. Per deboli profondità, questi grafici richiamano l'immagine diretta di una sezione geologica e come tali possono essere usati. Ma per profondità di 3.000-4.000 metri la cosa è diversa e lo spostamento laterale, sul grafico registrato, degli specchi di faglia inclinati diventa notevole. La correzione necessaria, tuttavia, generalmente non è praticata, se non altro perché, per un profilo isolato, si conosce soltanto una delle componenti dell'inclinazione, e ciò rende incerto il calcolo della correzione. Ma ne risulta che se lo strato riflettente presenta ondulazioni, anche di debole ampiezza relativa, le superfici di faglia appaiono spostate su entrambi i lati e lasciano una zona centrale sprovvista di riflessioni, e con un contorno marcato da una concentrazione di energia nei punti di retrocessione delle riflessioni apparenti. Queste zone di silenzio sono state interpretate come diapiri, cioè domi salini (benché le loro larghezze abbiano dimensioni inferiori a quelle dei domi noti nei continenti) e considerate come prove della presenza di evaporiti, la cui formazione in un ambiente marino porrebbe evidentemente qualche problema. Questi sono alcuni esempi delle incertezze che il solo ricorso alla geofisica lascia sussistere.
Il fatto che la geofisica abbia permesso di affrontare lo studio degli oceani e che il suo ruolo nello sviluppo delle conoscenze sulla tettonica d'insieme del globo sia stato determinante, le ha valso un meritato prestigio. Ed è certo che la geofisica può e deve apportare al geologo informazioni molto utili. Ma si correrebbe un rischio grave a misconoscere la natura di queste informazioni. Possono essere un mezzo per precisare una struttura già ricostruita nei suoi lineamenti essenziali coi metodi geologici. Ma senza informazioni geologiche, i modelli fondati sulla sola geofisica non sono che ipotesi semplicistiche, raramente univoche, lontane dalle reali complicazioni delle strutture geologiche. L'ideale sarebbe, evidentemente, di completare la descrizione di ogni modello fondato sulla sola geofisica con l'indicazione della variabilità delle sue caratteristiche compatibile con le osservazioni; certo si complicherebbe cosi un problema già difficile. In mancanza di ciò il geologo non deve rimanere abbagliato dall'arsenale matematico messo in opera dal geofisico e deve essere consapevole del carattere di approssimazione volutamente semplificato di ogni modello geofisico.
h) Geologia applicata e idrogeologia
Desterebbe forse meraviglia l'esclusione dalla nostra rassegna di questa disciplina della geologia (quale talvolta è considerata), cui si dedica una maggioranza schiacciante di geologi.
In realtà i metodi d'indagine non sono diversi. La ricerca supplementare necessaria per le applicazioni riguarda essenzialmente la conoscenza di certe proprietà delle rocce. In certi casi si tratta della resistenza meccanica (tenendo conto della fessurazione), o del valore di un minerale estrattivo, tenendo conto delle eventuali difficoltà di trattamento. Oppure, argomento spesso più delicato, si tratta di stabilire una correlazione tra la definizione della roccia secondo le classificazioni abituali e i metodi di riconoscimento che le giustificano. Queste proprietà devono essere definite, misurate, oppure stimate.
Nel campo della geologia applicata, una larga parte ha l'idrogeologia, o idraulica sotterranea, che è lo studio della circolazione dell'acqua o più generalmente dei fluidi, tenuto conto della permeabilità delle diverse rocce, della loro porosità e di altre proprietà meno importanti come la possibilità di scambi chimici, di rigonfiamenti, ecc. Si è costituito in questo modo un insieme di dottrine (in cui le strutture profonde sono uno degli aspetti più importanti) per lo studio, e in particolare lo sfruttamento, delle acque sotterranee.
Più complicato è il caso degli idrocarburi, che possono trovarsi sia in fase liquida che gassosa (fasi in cui si dividono le numerose specie chimiche presenti) a seconda della temperatura e della pressione. Quando il petrolio è mescolato con l'acqua, le circolazioni di tale fluido difasico sono particolarmente complesse. Esse però sono state studiate a fondo, in primo luogo perché condizionano lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio, secondariamente perché possono spiegarne la formazione, in quanto certe rocce si comportano come impermeabili al petrolio in circolazione difasica. Il petrolio viene cosi a trovarsi intrappolato in strutture favorevoli, nel corso della migrazione che segue il passaggio allo stato liquido delle sostanze organiche del sedimento. Questo è il ruolo dell'idraulica sotterranea in quegli episodi della storia geologica, di difficile datazione, che presiedono alla genesi dei giacimenti di idrocarburi. Si deve ricorrere ad essa anche per spiegare la formazione di certi giacimenti filoniani, in cui la ricostruzione delle temperature ha una parte fondamentale.
In genere, tuttavia, l'idrogeologia studia lo svolgimento dei fenomeni in corso, nel quadro delle strutture geologiche esistenti.
Quando si vuole spiegare la distribuzione delle temperature, in particolare in quelle zone anormalmente riscaldate che costituiscono i giacimenti geotermici, per comprenderne la genesi bisogna risalire nel passato, ma soltanto per un tempo limitato (qualche centinaio di millenni al massimo), breve in confronto alle durate geologiche, poiché tutte le anomalie più antiche nella distribuzione della temperatura sarebbero state cancellate dalla diffusione del calore. L'idrogeologia, applicata ai fenomeni geotermici, obbliga a prendere in considerazione l'eventualità di un passaggio dell'acqua allo stato di vapore; ma questa non è che una complicazione tecnica, che non altera i principi di base.
5. L'importanza dell'analisi e della sintesi
Il profano che si accosta alla geologia ha spesso l'impressione di addentrarsi in una massa dispersiva di conoscenze particolari, mentre avrebbe preferito visioni sintetiche d'insieme, capaci di fornire una chiave per la spiegazione generale delle strutture geologiche. Questa impressione è rafforzata dal fatto che la maggioranza dei geologi si dedica alla soluzione di problemi pratici che dipendono dai particolari della struttura di un giacimento o al massimo di un bacino. Nonostante ciò c'è sempre il desiderio di trovare delle chiavi sintetiche per la soluzione dei problemi economici, ricavando da una formula generale l'esistenza o la posizione di un giacimento. Ma questo desiderio, nonostante i numerosi tentativi, è rimasto insoddisfatto.
Certo è che nella geologia predomina il lavoro di natura analiticà. Le leggi su cui ci si fonda sono valide al livello dei fenomeni che interessano la ricostruzione storica; applicate all'estrema varietà delle condizioni locali, portano a conclusioni spesso dissimili, non esprimibili con enunciati semplici. La prima impressione data dalla geologia viene ulteriormente accentuata dall'impiego, e forse dall'abuso, della pesante terminologia delle diverse classificazioni - della scala cronostratigrafica, della natura delle rocce, ecc. - tanto più che tali classificazioni, come è stato esposto, non sono fondate su basi naturali, che permettono di capirne facilmente il significato (come avviene per le classificazioni zoologiche e botaniche), ma rappresentano una suddivisione, convenzionale e tradizionale, di eventi continui.
Il carattere più analitico che sintetico della geologia appare nella comparazione con le discipline vicine, la geografia e la geofisica, ma per ragioni molto diverse.
Il geografo sceglie un soggetto, per esempio lo studio di una regione, lo descrive, fino a una scala prefissata di particolari, sotto i suoi diversi aspetti (rilievo, clima, popolazione e attività economica) e cerca, in ciascuno di questi argomenti, solo quei dati elementari che gli servono per spiegare quello che ha scelto di descrivere. Al geologo che agisca in modo analogo, può accadere che la regione prescelta celi una complicazione di struttura che esige uno studio molto più approfondito del previsto. Allora egli si dedicherà ad approfondire questo o quell'argomento, specialmente se ritiene di poter ottenere risultati che portino a nuove conoscenze sul ruolo dei fenomeni genetici.
Abbiamo già accennato alle limitazioni della geofisica, che conferiscono ai risultati un aspetto più sintetico. Prescindendo dal caso in cui la prospezione geofisica sia destinata a fornire appoggio a uno studio geologico, il problema dell'interpretazione in geofisica (lasciando da parte quello, pur essenziale, delle misurazioni) è di cercare un modello, semplice per definizione, di cui siano specificate solo alcune proprietà - per esempio la densità, la velocità del suono, o la suscettività magnetica - e di individuare altre caratteristiche, in modo da tener conto del risultato delle misure. In generale è relativamente facile calcolare quali sarebbero i risultati delle misure in un modello interamente specificato; il problema reale è quello inverso: trovare le dimensioni o altre caratteristiche disponendo dei risultati delle misure. Lo scopo può essere raggiunto per tentativi, facendo i calcoli per una serie di modelli che presentano proprietà ordinate secondo una scala. Si cerca così di risolvere per via matematica almeno certi ‛problemi inversi' (per altri si può dimostrare l'impossibilità di trovare una soluzione); le difficoltà che s'incontrano sono molto istruttive. Se si facessero intervenire tutte le misure (che comportano inevitabilmente una possibilità di errore, se non altro degli strumenti), si rischierebbe di ottenere modelli inverosimili, che presenterebbero discontinuità o variazioni brusche, sulle quali evidentemente le misure fatte non potrebbero apportare informazioni realmente significative. È necessario imporre al modello cercato alcune condizioni di regolarità e accettare un certo accomodamento delle misure ottenute perché si verifichino tali condizioni.
Più spesso l'interpretazione riguarda i risultati di metodi quali la gravimetria e la sismica. Talvolta si tenta d'interpretare simultaneamente due serie di misure di natura diversa, per esempio gravimetriche e magnetiche. La ricerca di un modello comune presuppone l'esistenza di una correlazione tra le caratteristiche delle rocce che intervengono nelle due diverse misure, come la densità e la suscettività magnetica. Se una tale correlazione è frequente - a causa della natura petrografica della roccia - nulla permette di affermare che essa si riduce a una corrispondenza biunivoca stretta e ancor meno a una relazione lineare; proprio quello che è invece necessario ammettere quando si vuol costruire un modello comune.
Con tutto quello che un modello comporta di arbitrario, è chiaro che esso non dovrebbe avere la pretesa di rappresentare la realtà. Il suo compito dovrebbe essere limitato e consistere nel dare un'idea dell'ordine di grandezza e del senso di variazione di quelle proprietà che intervengono perché la realtà sia in accordo coi risultati delle misure. Ma si dovrebbe indicare sempre anche il possibile margine di variazione compatibile con le misure stesse. Tuttavia molti geofisici sembrano dimenticare queste limitazioni e considerano i loro modelli come rappresentazioni almeno approssimative della realtà. Accade perfino che la scelta arbitraria di una proprietà attribuita in partenza al modello sia accettata da altri, credendo al primo autore, come se si trattasse di una proprietà dimostrata. Un esempio di un caso di questo tipo è la distribuzione esponenziale degli elementi radioattivi secondo la profondità, dapprima scelta arbitrariamente per la comodità della formula, e rimbalzata poi da uno studio all'altro come se si trattasse di una legge di natura, mentre è un'ipotesi che non ha giustificazione fisica.
Non bisogna dunque lasciarsi ingannare dalla chiarezza e dal carattere ben determinato dei modelli geofisici. Essi non sono immagini di una realtà semplice che il geologo non ha saputo discernere, ma artifici necessari per determinare gli ordini di grandezza di certe proprietà delle masse rocciose profonde, in modo da render conto dei risultati di certe misure, indirette per loro stessa natura.
I geologi d'altronde da molto tempo hanno cercato di mettere in evidenza le linee più importanti dei loro risultati per poterle enunciare in forma semplice e sintetica. Abbiamo già accennato come, in origine, la scala del tempo sia stata messa in relazione a una serie di catastrofi, delle quali il diluvio biblico sarebbe la più recente. I capitoli della storia così individuati avrebbero potuto corrispondere alle tappe successive dello sviluppo del mondo animale fino alla comparsa dell'uomo. Anche se non tutti hanno rinunciato a riconoscere le grandi interruzioni naturali nello scorrere del tempo, tutti i progressi della stratigrafia ci portano invece a considerare uno svolgimento continuo dei fatti geologici nel tempo, in cui s'inseriscono avvenimenti locali, non simultanei. Lo stesso corso dell'evoluzione ci appare come ‛erratico', con diramazioni altamente sviluppate e poi estinte. Molti mammiferi hanno subito un'evoluzione morfologica più intensa di quella degli antenati dell'uomo, prima che l'uomo compensasse, con le sue facoltà intellettuali, la mancanza di adattamento del suo corpo a un tipo di vita particolare.
Se il contenuto cronologico della storia non può ordinarsi secondo avvenimenti salienti, cioè in ‟epoche della Natura" secondo l'espressione di Buffon, qual è la distribuzione nello spazio dei fenomeni geologici? Anche in questo campo i tentativi di sintesi hanno preceduto le conoscenze reali. Verso la fine del XIX secolo, un geologo francese, J.-B. L. Élie de Beaumont, che aveva da poco affermato che le montagne si sono formate in tutte le epoche della storia geologica e non in un solo periodo primitivo, credette di poter assegnare a ciascuna delle catene di età diversa una disposizione geometrica determinata; le direzioni delle catene corrisponderebbero agli spigoli di un dodecaedro pentagonale inscritto nel globo terrestre. Benché questo strano sistema sia stato abbandonato da oltre un secolo, ogni tanto si assiste al rilancio di sistemi analoghi, che pretendono di scoprire una geometria rigorosa, raggruppando elementi topografici scelti arbitrariamente. Basta guardare senza idee preconcette le carte della superficie terrestre per rendersi conto della sua estrema irregolarità, risultante da un'evoluzione lunga e complessa.
Il tentativo più interessante di sintesi geologica è senza dubbio quello che, raggruppando una serie di fenomeni intorno alla genesi di una catena montuosa, definisce uno scenario che, ripetuto a varie riprese, costituirebbe il motivo essenziale della storia geologica. Ricordiamone in breve gli elementi, già in precedenza indicati: formazione di una geosinclinale, con sedimentazione speciale, poi deformazione del suo contenuto ed eventualmente dei suoi margini, seguita o accompagnata da metamorfismo, sedimentazione speciale nei bacini interni della catena, o nelle avanfosse, e prosecuzione della deformazione che tocca il contenuto di questi bacini. Ma perché lo scenario abbia un senso abbastanza generale, bisogna esporlo, come sopra abbiamo fatto, in termini molto vaghi e generici.
Inoltre certe fasi sopra elencate possono mancare (assenza di geosinclinale nei Pirenei, di avanfossa nella catena caledoniana della Scandinavia) o presentare caratteri molto diversi (vulcanismo frequente nelle Ande e nel Caucaso, molto raro nelle Alpi); ciò dimostra quanto sia indeterminato l'andamento generale comune e come nessuna correlazione possa ritenersi sicura.
Dobbiamo riconoscere che, se i fenomeni che hanno prodotto e modificato le rocce obbediscono a leggi ben precise, essi si sono svolti in un quadro, divenuto sempre più irregolare, di forme determinate da tutte le trasformazioni precedenti e sotto l'influenza di strutture profonde, anch'esse irregolari, i cui particolari per lo più ci sfuggono. Non esiste per noi altra soluzione che studiare pazientemente la forma delle strutture risultanti come se fossero, se non del tutto, almeno largamente aleatorie, nel quadro di correlazioni scarse, vaghe e piene di eccezioni.
Per aleatorio non intendiamo dovuto solamente al caso, ma determinato da particolari strutture precedenti a noi inaccessibili, perché scomparse o sepolte. Con questo non si pone in dubbio il determinismo dei fenomeni del passato, al cui livello sono situate le leggi che la geologia può formulare. Fin dal principio abbiamo ben rilevato che proprio in questa ricostruzione storica la geologia si realizza come scienza. Ma, per il suo iniziale obiettivo pratico, dobbiamo rassegnarci al fatto che, in larga misura, solo certi aspetti generali delle strutture profonde, non direttamente visibili in superficie, possano essere previsti, e che per tutti i dettagli e le precisazioni si debba ricorrere all'osservazione diretta, attraverso le fasi successive della geofisica, dei sondaggi e dei lavori minerari. Questo vale in particolare per la ricerca dei giacimenti di minerali, per i quali sarebbe illusorio sperar di trovare un metodo diretto di previsione.
6. La geologia e il grande pubblico
a) Il ruolo della geologia nel passato
Sembra quasi superfluo ricordare quale importanza abbia avuto l'astronomia, specialmente in seguito alla rivoluzione copernicana, per far superare la concezione del mondo comunemente accettata e la visione antropocentrica che vedeva nel mondo stesso null'altro che il quadro creato al fine di permettere lo sviluppo del genere umano. Caduta l'idea della Terra al centro del mondo e conosciute le distanze fra gli astri e le loro dimensioni, spesso enormemente superiori a quelle della Terra, ci si è dovuti convincere che il teatro dello sviluppo del genere umano non è che un'infima parte dell'Universo, e non certamente posta al centro di questo.
La geologia ha avuto una parte analoga dal punto di vista del tempo. Si credeva in un Universo creato con l'uomo e per l'uomo: la sua origine, seguendo l'interpretazione della Genesi, era ritenuta molto recente. La portata filosofica di questo prolungamento della scala del tempo introdotto dalla geologia si manifestò ancora nel XVIII secolo, quando alla Sorbona i difensori del pensiero tradizionale reagirono contro la stima delle durate delle ere geologiche proposta da Buffon sulla base di un tentativo d'interpretazione geofisica. Queste reazioni non furono molto diverse da quelle opposte a Galileo, 150 anni prima, a proposito della posizione della Terra al centro dell'Universo. Dopo Buffon la durata assegnata alla storia della Terra ha continuato a crescere, oltrepassando di gran lunga l'età del genere umano, che pure nel frattempo si era accresciuta di tutta la preistoria, la quale aveva fatto conoscere una lunga esistenza dell'uomo precedente a ogni traccia di cronaca scritta. Il lunghissimo periodo trascorso prima della comparsa dell'uomo si popolava, per merito della paleontologia, di faune successive, le cui variazioni furono interpretate come tappe di un progresso culminante nell'uomo.
Per la verità, il gradino decisivo è stato superato non tanto dalla geologia quanto dalla biologia. Ch. Darwin, quando si dedicò allo studio dell'origine delle specie, fu consapevole di staccarsi dalla geologia, alla quale doveva la sua prima formazione. Ma il suo pensiero si sviluppava nel quadro di una cronologia lunga, postulata dai geologi per spiegare le immense trasformazioni del mondo fisico derivate dall'accumulo di piccoli cambiamenti, identici a quelli che vediamo prodursi oggi. Fu appunto questa lunga durata che gli permise d'intravvedere l'evoluzione delle specie per accumulo selettivo di piccole modificazioni. Dopo Darwin, il pensiero umano non ha più potuto non considerare l'origine dell'uomo come una tappa della trasformazione progressiva delle specie animali.
Acquisite queste cognizioni, le tappe successive della stima dei tempi geologici ebbero importanza minore agli occhi dell'opinione pubblica, incapace di cogliere il vero significato delle cifre proposte. Se lord Kelvin insisté sull'idea che i bilanci energetici limitano l'età della Terra e del Sole a una dozzina di milioni d'anni, lo fece in fondo per difendere le idee tradizionali sull'origine dell'uomo attaccando lo stesso Darwin, che era convinto che il meccanismo della selezione naturale non avesse potuto operare in un tempo così breve. Al principio del XX secolo la scoperta della radioattività annientò le argomentazioni di lord Kelvin e in pari tempo permise una misurazione espressa in anni e non contestabile dell'età degli avvenimenti essenziali della storia geologica e in seguito anche dell'origine stessa della Terra e del sistema solare.
La geologia ha dunque avuto una parte essenziale nel modo d'impostare un problema che interessa ogni essere pensante: qual è il nostro posto e il nostro ruolo nell'Universo? Essa ha mostrato che il tempo disponibile era sufficientemente lungo per ammettere l'evoluzione progressiva delle specie, il cui meccanismo, analizzato dalla paleontologia, comporta certamente la differenziazione dell'uomo all'interno di una delle classi di Mammiferi.
Il dibattito non è concluso; il modo in cui nell'ambito delle specie si producono le piccole mutazioni, che accumulandosi portano alla modificazione delle specie stesse, resta oscuro. L'origine della vita e la successiva acquisizione di gradi organizzativi più elevati possono essere dovuti al caso e alla selezione naturale? Per una tale sequenza di casi è sufficiente il tempo di 3-4 miliardi d'anni assegnatole dalla geologia? Qualcuno ne dubita ancora.
b) Il ruolo attuale della geologia
Pochi dei nostri contemporanei si preoccupano del problema sopra accennato, perché non è facile valutare a priori il grado di probabilità dei cambiamenti indicati dalla dottrina dell'evoluzione e il loro probabile accumulo in un periodo di tempo che, pur essendo limitato, oltrepassa la nostra immaginazione. Un'inchiesta presso il grande pubblico darebbe senza dubbio la seguente immagine del geologo: una persona che, provvista di conoscenze che le permettono di scoprire i giacimenti di petrolio o di metalli, gira il mondo per applicarle e scoprire i nuovi giacimenti richiesti dal progresso tecnologico. Meno spesso si penserà alla sua capacità di scoprire acque sotterranee o di valutare la possibilità di realizzare le fondamenta di grandi opere. Della scienza che egli professa ci si ricorda soltanto che essa fa uso di una terminologia pesante e oscura. Tutt'al più si fa credito alla geologia di spiegare certi paesaggi singolari, come le ‛piramidi di terra' e altre forme pittoresche dell'erosione.
Sarebbe qui troppo lungo ricercare quali sono le responsabilità degli stessi geologi nella creazione di una tale immagine stereotipa. Da molto tempo gli insegnanti hanno trovato comodo imporre dapprima l'apprendimento mnemonico di una terminologia, chiarendone poi il senso: ma questo metodo è ormai rifiutato e i giovani d'oggi vogliono comprendere prima di apprendere. Forse quelli tra noi che avevano il compito di presentare la geologia al grande pubblico o agli studenti si sono adattati troppo lentamente a questa evoluzione.
Che il geologo attualmente abbia un ruolo di protagonista nell'esplorazione di nuove terre è fuor di dubbio. Non v'è più posto per un'esplorazione puramente geografica, e la fotografia aerea o i satelliti artificiali possono risolvere quasi tutti i problemi di cartografia fisica. È trascorso più di un secolo da quando sono stati risolti i problemi geografici del tracciato dei fiumi, come le sorgenti del Nilo o il corso del Colorado. La botanica o la zoologia possono accontentarsi di campionature, e non esistono più incognite. Solo l'analisi geologica particolareggiata pone ancora problemi di esplorazione; le conseguenze pratiche che ci si può attendere, specialmente per la scoperta di giacimenti, invitano a una prosecuzione molto attiva di questa forma di esplorazione. Dopo le terre più lontane, si esplorano ora i fondi marini, e il grande pubblico è senza dubbio sensibile alle condizioni di lavoro molto particolari come quelle, per esempio, relative all'esecuzione di sondaggi effettuati da piattaforme in mare. Ma quale distinzione fa tra il lavoro di pura esecuzione, compito del sondatore, e quello d'impostazione e di analisi, compito del geologo? In ogni caso, senza entrare in particolari tecnici, il grande pubblico si affida a noi geologi per la soluzione dei problemi che ci vengono posti. Si tratta di una forma di fiducia fondata sull'esperienza del passato, ma può accadere che le responsabilità che essa fa pesare sulle nostre spalle siano troppo pesanti.
c) Il ruolo della geologia nel futuro
È chiaro che oggi il ruolo dei geologi nella società non potrà più limitarsi alla semplice esecuzione dei compiti richiesti da una crescita illimitata. La crescita non potrà continuare con lo stesso ritmo, e alcuni dei fattori limitanti che cominciano a manifestarsi, come quelli relativi alla produzione di metalli, alle fonti d'energia, alle conseguenze dell'inquinamento, hanno rapporti diretti con la geologia. Uno solo di questi fattori, ma in verità il più importante, è essenzialmente al di fuori della competenza dei geologi: la possibilità, cioè, di produrre nutrimento per una popolazione mondiale in crescita esponenziale (v. alimentazione).
Tutti questi problemi, ai quali si aggiungono i rimedi e le difese contro le catastrofi naturali, non possono certo essere trattati separatamente. È indispensabile considerarli nel loro insieme; a questo scopo non v'è preparazione migliore di quella del geologo, abituato a inquadrare in un'ampia scala di tempi l'evoluzione dellà superficie del nostro pianeta.
Da queste considerazioni risulta che i geologi, nel corso dei prossimi anni, dovrebbero recuperare una funzione importante nell'elaborazione delle concezioni proprie della società a cui appartengono.
La nozione di crescita merita di essere analizzata perché vari sono i suoi aspetti. Alla base troviamo, evidentemente, la crescita esponenziale della popolazione mondiale, che ha raggiunto la cifra di 4 miliardi e 150 milioni nel 1975, raddoppiandosi quindi in 32 anni. È facile dimostrare che, proseguendo con questo ritmo per uno o due secoli (o semplicemente per una durata uguale a quella trascorsa da quando questo ritmo è stato raggiunto), si arriverebbe a situazioni evidentemente impossibili. Il fattore fondamentale di questa crescita è la diffusione dell'igiene, mentre il controllo delle nascite interessa soltanto una ristretta frangia che ha raggiunto un certo livello di cultura (v. demografia; v. popolazione).
La crescita della popolazione mondiale e quella del tenore di vita, pur essendo diverse, si traducono entrambe in una crescita del consumo di sostanze minerali: metalli, combustibili minerali (carbone e petrolio) o semplicemente materiali cementizi. Si potrebbero elencare qui molte statistiche; è forse più istruttivo ricavarne l'essenza tralasciando i dettagli. Da un secolo il consumo annuale di quasi tutte le sostanze raddoppia all'incirca in un periodo tra i 15 e i 25 anni. Per molte di esse oggi le riserve conosciute (cioè quelle contenute nei giacimenti scoperti) sono dell'ordine di 30-35 volte il consumo annuale; possono cioè essere consumate in 20-25 anni, tenendo conto del tasso di crescita. Fanno eccezione a questa regola soltanto le risorse che, invece di trovarsi a concentrazione sfruttabile solo in giacimenti eccezionali, la cui scoperta richiede sforzi metodici, costituiscono formazioni geologiche, che sono messe in evidenza con uno studio sistematico regionale. È il caso del carbone, del ferro, dell'alluminio, degli scisti bituminosi, dei fosfati, dei sali potassici, ecc. Le riserve conosciute equivalgono, in tal caso, a qualche secolo del consumo attuale; però le prospettive di scoprire altri giacimenti sembrano molto limitate. Quanto ai materiali da costruzione, si tratta di rocce di un'abbondanza quasi infinita su scala mondiale. Ciò non toglie che, vicino ai grandi centri di consumo, i giacimenti possano esaurirsi, obbligando a uno sfruttamento più lontano e più costoso. L'argomento verrà ripreso a proposito dei problemi dell'ambiente.
I metalli, concentrati in giacimenti relativamente eccezionali, sono sempre stati ricercati anche oltre le zone di consumo, quando i giacimenti più vicini risultavano insufficienti. Già l'Impero romano importava dalla Cornovaglia lo stagno necessario per il bronzo delle armi. La prospezione mineraria è stata spesso la prima forma di esplorazione dei territori vergini (si pensi all'Ovest degli Stati Uniti). Ma oggi non esistono più nuovi territori e la ricerca si rivolge, quindi, al mondo marino, che già ha dato buoni risultati per il petrolio, ma che per i metalli offre possibilità incerte (v. risorse naturali).
L'opinione pubblica, fino a tempi molto recenti, è rimasta stranamente indifferente al problema delle riserve di materie prime. Le previsioni di cui si preoccupano gli economisti sono in generale a scadenze molto più brevi. Spetta dunque ai geologi il compito di presentare, a un'opinione pubblica che comincia a essere sensibile, il problema delle riserve di materie prime e di impostarlo in modo corretto.
Ora, due tendenze opposte si manifestano tra i geologi in tema di valutazione delle riserve. È evidente che per ogni sostanza ricercata esiste un tonnellaggio totale presente entro il limite dei primi chilometri di crosta terrestre, oltre i quali scoperte e sfruttamenti non potranno mai aver luogo. Ma dove si può collocare questo limite, in rapporto a tutto quanto oggi è scoperto e sfruttato?
Secondo i pessimisti, è molto vicino e non si può contare sul fatto che per molto tempo ancora sia possibile scoprire ogni 20-25 anni nuovi giacimenti per un tonnellaggio pari a quello estratto fino a oggi. Se prendiamo come esempio un'area limitata, come il territorio degli Stati Uniti, dove le ricerche di petrolio sono state particolarmente intense, troviamo geologi che sostengono che non vi è più spazio per scoperte dell'entità di quelle del passato, e che la diminuzione della frequenza delle scoperte in rapporto alla lunghezza totale dei sondaggi testimonia che è prossimo l'esaurimento finale. L'adozione di un modello matematico, comodo ma arbitrario, ha permesso di calcolare l'ultima riserva.
Certamente quello che vale per gli Stati Uniti deve valere anche per il resto del mondo, pur tenendo conto dello stato meno avanzato dell'esplorazione; accadrà semplicemente che le ultime riserve saranno raggiunte più tardi, dopo due, tre o quattro periodi al massimo di raddoppio dei consumi, ma in meno di un secolò.
Questo punto di vista pessimistico, largamente diffuso negli Stati Uniti, ma molto meno in Europa, non ha convinto gli industriali interessati; invece è stato recepito dai responsabili dei paesi sottosviluppati produttori. Questi paesi, considerando di poter disporre delle risorse estrattive per un tempo limitato, hanno ritenuto di avere interesse a rallentare la produzione, in previsione del momento dell'esaurimento. Lo stesso punto di vista si afferma per i giacimenti metalliferi e conduce ad ammettere che ogni sfruttamento corrisponde alla sottrazione di parte di un bene esistente in quantità limitata.
Ma per la maggioranza dei geologi impegnati nelle ricerche petrolifere o minerarie questo pessimismo non è giustificato. Certo riconoscono che i giacimenti più accessibili sono stati sfruttati e che non si può contare di trovarne altri simili. Ma ritengono che, se si intensifica il numero delle prospezioni, con un certo aumento del consumo di energia e dei costi di produzione, si possono sfruttare giacimenti di tenore più basso. La quantità disponibile aumenta allora enormemente e si può così dimostrare che l'aumento del prezzo del metallo può essere economicamente sopportabile. Anche ammettendo che il costo della scoperta di nuovi giacimenti debba aumentare, in molti casi è verosimile che le riserve siano d'un ordine di grandezza completamente diverso da quanto è stato scoperto finora, e che le scoperte future saranno direttamente proporzionali allo sforzo di prospezione.
Secondo questo modello, la limitazione delle riserve note (per le sostanze i cui giacimenti costituiscono concentrazioni anormali che solo apposite ricerche possono scoprire) a 30-35 anni col consumo attuale, oppure a 20-25 anni con un consumo crescente, dipende semplicemente dal tasso degli investimenti effettuati nella ricerca, scelti in modo da mantenere tale proporzione delle riserve. Questo ritmo corrisponde pressappoco alla ricerca di giacimenti di sostituzione per le miniere quasi completamente sfruttate, per le quali è calcolabile il tempo di esaurimento.
La scelta tra questi due modelli è attualmente uno dei compiti essenziali che la società affida ai geologi. Ed è indispensabile che tale scelta sia oggetto di una larga intesa internazionale, affinché possa imporsi a tutti i governi. Un errore di valutazione potrebbe compromettere gravemente l'avvenire di certi paesi in via di sviluppo.
Ma la crescita esplosiva della popolazione pone altri problemi, vere sfide di fronte alle quali la responsabilità dei geologi è pesante. Uno di questi è la minaccia di un inquinamento quantitativo e qualitativo (v. inquinamento ambientale). Quantitativamente, esistono molti rifiuti gassosi, liquidi o solidi, per i quali la semplice dispersione era finora sufficiente per la loro eliminazione senza inconvenienti. Il moltiplicarsi delle sorgenti d'inquinamento, in vicinanza delle grandi città e di certe industrie, è oggi tale che le concentrazioni possono restare superiori ai valori ammissibili, per tempi e distanze difficilmente tollerabili. Basta citare il diossido di carbonio, il solo rifiuto di cui l'atmosfera planetaria si è arricchita, il diossido di zolfo, ecc. L'effetto, locale o generale, di queste variazioni di concentrazione deve essere valutato obiettivamente e devono anche essere previsti gli effetti a lungo termine (per esempio, eventuali cambiamenti climatici). Ma questo rientra nella competenza degli specialisti dell'atmosfera e degli oceanografi. La responsabilità specifica dei geologi riguarda soprattutto le acque sotterranee, che sono in generale protette naturalmente dalle contaminazioni biologiche. Ma gli inquinamenti moderni presentano anche aspetti qualitativi nuovi. Vengono scaricati in quantità crescenti, dopo l'uso o nel corso di un processo di fabbricazione, prodotti nuovi per i quali non ci si preoccupa delle possibili trasformazioni. Citiamo i composti di mercurio, i vapori di fluoro o arsenico, i pesticidi, certe materie plastiche, ecc. La loro diluizione in mare sarebbe a rigore ammissibile, se non ci fosse il rischio di riconcentrazioni locali, in particolare biologiche (mercurio). Ma quello che interessa specialmente i geologi è il rischio d'inquinamento delle falde acquifere utilizzate per l'alimentazione; i processi che neutralizzano l'inquinamento biologico non intervengono nel caso di prodotti chimici e noi sappiamo che, data la lentezza nel ritmo di rinnovo dell'acqua, l'inquinamento può impiegare anni a manifestarsi, ma occorrerebbero tempi molto più lunghi per la sua scomparsa, una volta rimossa la causa. Il rischio è grave e spetta ai geologi di segnalarlo in tempo utile per prevenirlo.
Un'altra forma d'inquinamento del tutto nuova è data dai residui radioattivi dell'industria nucleare, che rimangono estremamente dannosi per migliaia d'anni. Si sa che devono essere isolati e fino a oggi si è continuato a tenerli sotto controllo: ma è stato anche proposto di seppellirli a grande profondità, aprendo così il problema delle loro ulteriori trasformazioni e accrescendo quindi in prospettiva la responsabilità dei geologi. È un campo in cui non abbiamo il diritto di sbagliare.
Mentre questi problemi rientrano, in tutto o in parte, nella nostra responsabilità diretta, ve ne sono altri, ugualmente connessi con l'aumento della popolazione, che ci interessano in quanto geologi, anche se il loro campo può essere estraneo alla nostra attività professionale. Sono i problemi, presentati spesso in termini confusi, che si ricollegano alle espressioni vaghe di ‛ambiente' e di ‛ecologia'.
Se si trattasse soltanto di rendere più gradevole l'ambiente artificiale in cui viviamo, non avremmo gran che da dire. Ma il desiderio di molte persone sarebbe che questo ambiente divenisse conforme a una certa idea che essi si sono formati della natura, allo scopo di ritrovarvi condizioni di vita ritenute migliori, indenni dalle modificazioni più recenti. In particolare questa scelta, essenzialmente estetica, può comportare la proibizione di impiantare cave o miniere in certi luoghi, il che complica ulteriormente il problema dei rifornimenti. Il geologo è ben qualificato per esprimere un pensiero sulla natura, così chiamata in causa. La storia dell'evoluzione mostra come ogni specie abbia potuto espandersi nelle aree dove trovava condizioni ambientali favorevoli. Soltanto l'uomo ha messo a profitto le sue capacità intellettuali per modificare l'ambiente, dissodare la terra, distruggere gli animali nocivi, imbrigliare le acque, aprire strade e canali. È strano sentir decantare da certi ecologi la perfezione ideale di un ambiente naturale che dovrebbe essere rispettato, quando in realtà nella maggioranza delle regioni l'ambiente primitivo era molto ostile all'uomo, tanto che si dovette modificarlo profondamente per potervi abitare. Queste modificazioni volute hanno avuto numerose conseguenze secondarie impreviste, per la complessità dell'equilibrio ecologico tra la flora e la fauna. Ad alcune di queste conseguenze si potevano apportare correttivi, tanto più che le modificazioni erano lente. Oggi esistono possibilità tecniche di modificazioni rapide, che impongono la previsione delle conseguenze ecologiche, al fine di evitarne gli aspetti dannosi.
Noi possiamo contribuire allo sviluppo di questa tecnologia dell'equilibrio ecologico, ma la nostra conoscenza del passato dovrà soprattutto permetterci di evitare la tendenza semplicistica a reclamare il rispetto dell'equilibrio precedente, come se rappresentasse uno stato di natura voluto dal Creatore. Comunque l'ambiente sia mutato dal suo stato naturale a oggi, noi siamo responsabili soltanto delle nuove modificazioni che apportiamo, e dobbiamo imparare a prevederne tutte le conseguenze ecologiche, anche le più indirette. Ciò non impedisce che sia desiderabile, tanto per una scelta estetica quanto per uno scopo scientifico, conservare, in parchi naturali o riserve, certi campioni di ambienti particolari, tra i meno perturbati dalle attività umane.
La geologia è chiamata in causa molto più direttamente da uno degli aspetti sociali dell'evoluzione delle società sviluppate. I membri di queste non accettano più di essere soggetti ai colpi della sorte e reclamano una protezione. A questa contribuiscono diverse forme di assicurazione, ma quando si tratta di catastrofi naturali, come inondazioni, frane, terremoti o eruzioni vulcaniche, si fa appello al geologo. Certo noi dobbiamo studiare attivamente i fenomeni naturali dei quali le catastrofi sono le conseguenze, ma dobbiamo far conoscere i limiti delle nostre possibilità, per non caricarci di responsabilità che non ci competono. Generalmente l'unico mezzo protettivo è l'allontanamento della popolazione, se lo sviluppo della catastrofe ne lascia il tempo, il che non avviene nel caso dei terremoti. Le possibilità di previsioni, nonostante le speranze imprudentemente espresse da alcuni, restano pressoché nulle per i terremoti, e molto deboli per le eruzioni vulcaniche. La sola cosa che possiamo fare è studiare la distribuzione geografica del pericolo, stimando l'ordine di grandezza della probabilità dell'evento. Ma allora sorge il problema politico delle conseguenze che debbono trarsi dalle previsioni. L'esperienza mostra che, sotto la pressione delle esigenze di sviluppo legate all'aumento della popolazione, quando la probabilità del ripetersi d'una catastrofe supera un periodo di qualche decina d'anni, l'autorità politica non prende più in considerazione il pericolo e lascia che nelle zone minacciate si stabiliscano abitati permanenti. Ciò può avvenire nel Bangla Desh, dove il delta del Gange è soggetto a inondazioni, o altrove, per esempio sulle pendici dei vulcani. Il geologo dispone di un margine molto limitato per definire con sufficiente precisione le zone minacciate, quando si tratta di ubicare gli insediamenti che l'aumento della popolazione rende necessari. Solo in questi limiti ritretti possiamo sperare di segnalare approssimativamente i rischi di frane, tipiche delle zone montuose, nell'impianto di future stazioni di sport invernali. Ma noi sappiamo che nessuno accetta di frenare lo sviluppo di grandi città in aree di forte sismicità, come San Francisco o Tokyo. Si vorrebbe almeno essere sicuri che venissero adottate precauzioni costruttive adeguate per limitare i danni.
Comunque il problema della previsione e della prevenzione delle catastrofi naturali richiederà che i geologi elaborino nei prossimi anni molti studi tecnici, e che le conclusioni di tali studi siano tenute nel dovuto conto dalle decisioni politiche; ciò imporrà ai geologi non solo di partecipare a esse, imparando a valutare i fattori umani dello sviluppo, ma anche di far conoscere all'opinione pubblica i limiti esatti delle possibilità di previsione.
Per concludere, i geologi hanno forse avuto la tendenza a rinchiudersi in una torre d'avorio, celandosi dietro un gergo esoterico. Le prossime tappe dello sviluppo sociale comporteranno per essi responsabilità che non potranno assumersi senza aver fatto conoscere al pubblico le conclusioni a cui saranno giunti, sia nel campo delle riserve di materie minerali, sia in quello dei rischi connessi alle catastrofi naturali.
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