Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
Filosofo tedesco, nato a Stoccarda nel 1770 e morto a Berlino nel 1831. Il nome di M. compare raramente sotto la penna di H., e mai nelle opere da lui stesso date alle stampe (se si prescinde dalla invocazione ironica ai «mani di Machiavelli» in uno scritto del 1817). Prima del 1844, quando Karl Rosenkranz, nella sua biografia, dette notizia dell’inedito giovanile sulla costituzione della Germania, e suggerì che, nel redigerlo, H. aveva voluto essere il «Machiavelli tedesco», si ignorava che H. avesse parlato del Principe; e molto più tardi (1931) si seppe che in un manoscritto jenense (1805-1806) H. aveva di nuovo citato e lodato Machiavelli. Dopo quella data, M. pare dimenticato. Il suo nome venne fatto, di passaggio, nelle lezioni berlinesi di storia della filosofia, insieme a quelli di Montaigne e di Pierre Charron; si dice, di essi, che erano «uomini notevoli», che a torto però sarebbero stati inseriti in una storia della filosofia, in quanto essi avevano sì formulato pensieri acuti, attinti dalla esperienza e dalla vita, ma non avevano affrontato il «supremo problema della filosofia». A proposito di questo passo, i commentatori hanno rilevato che H., qui come in altri casi, seguiva la traccia della Geschichte der neuern Philosophie (18001804) di Johann Gottlieb Buhle – e, per questi autori, la rifiutava; nelle lezioni di filosofia della storia, M. è appena nominato. Da un appunto, di poche parole, buttato sulla carta prima del 1820, risulta infine che, leggendo un’opera di Johannes von Müller, H. si era annotato che M. aveva scritto un «Della Alemagna».
Il nome di M. egli lo incontrò fin dall’adolescenza, quando (febbr. 1786) lesse, e in parte trascrisse, la prefazione di Johann Matthias Gesner a una edizione di Tito Livio, in un luogo della quale si ironizzava su chi avesse ritenuto di diventare «civilium rerum peritus» soltanto leggendo il Breviarium politicorum (attribuito al cardinale Giulio Mazarino) o due o tre delle «Machiavelli ad Livium dissertationes»; nel riassumere quel passo, H. omise la frase. Lesse certamente il Principe, verosimilmente prima del 1801; la supposizione, recentemente avanzata, di una prova testuale della lettura dei Discorsi, è senza fondamento. L’impressione che M. gli lasciò fu comunque duratura; quando gli accadde di citarlo, in un corso universitario del 1819-20, adoperò quasi le stesse parole con cui lo aveva lodato nel 1802.
Dell’opera cui H. lavorò, tra il 1799 e il 1803 (alla quale gli editori dettero titoli affini, ma non identici; il titolo assegnatole nell’edizione critica è Fragmente einer Kritik der Verfassung Deutschlands; qui lo si citerà, per brevità e secondo la tradizione, come Verfassung) sono rimasti sia frammenti sia alcuni capitoli in bella copia. Il primo editore (Georg Mollat, 1893 e 1935) unificò quel materiale in una trattazione continuata; il secondo (Georg Lasson, 1913 e 1923) dette un testo costituito da quelle parti che riteneva belle copie, facendo seguire abbozzi e frammenti; i curatori dell’edizione critica (Manfred Baum e Kurt Rainer Meist, 1998) hanno pubblicato i singoli capitoli e frammenti in base alla data di redazione, facendoli seguire da ciò che si è salvato degli appunti relativi; essi hanno anche finalmente identificato l’edizione, in lingua francese, dalla quale H. trascrisse, non fedelmente, una parte del capitolo finale del Principe: è di Amsterdam, 1664.
Avendo presente lo stato in cui H. lasciò il suo lavoro, si capisce perché non riuscì a dargli una redazione definitiva; ci fu certamente una causa esteriore, cioè la deliberazione della Deputazione dell’impero (25 genn. 1803), che aveva dissolto il tessuto degli Stati tedeschi che H. proponeva di federare; ma altrettanto forte deve essere stata la sua constatazione dello squilibrio tra le parti, e del sovrapporsi di prospettive niente affatto coerenti. Come che sia, in alcuni di questi testi ci sono pagine tra le più suggestive che H. abbia scritto; tra queste, spiccano quelle ove viene evocato Machiavelli. La cornice di esse è l’analogia del ‘destino’ della Germania e dell’Italia, di ‘popoli’ divisi, e quindi facili vittime dei grandi Stati confinanti. Dell’Italia, viene ricordata non solamente la successione di eventi iniziata nel 1494, ma anche quella legata alle recentissime campagne napoleoniche, con la fine della Serenissima e la formazione di repubbliche vassalle; per quanto riguarda la Germania, viene ricordato l’esito della guerra dei Trent’anni, che autorizzò le potenze straniere a intervenire negli affari interni dell’impero, e, naturalmente, si dice anche delle recentissime ‘guerre francesi’, della perdita della riva sinistra del Reno, della politica francese di separare ulteriormente gli Stati tedeschi concludendo con essi paci separate.
Due storie parallele, delle quali una, quella dell’Italia, si era conclusa, mentre l’altra, della Germania, era – così H. mostrava di credere – suscettibile di una inversione di tendenza, in quanto la maggior parte del Paese non era ancora sottomessa a una dominazione straniera. È in questo contesto che viene introdotto un «uomo di Stato italiano» (M., si sa, era noto come il ‘Segretario fiorentino’) il quale «con freddo giudizio» aveva concepito «la necessaria idea che per salvare l’Italia era necessario unificarla in un solo Stato» (in Gesammelte Werke [d’ora in poi abbreviata in GW], hrsg. Nordrhein-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, 5° vol., 1998, p. 131); e a questo punto avrebbe dovuto essere inserita una parte della Exhortatio. L’idea di M., continuava H., era che «un popolo dovesse costituire un solo Stato». Questo enunciato va messo in evidenza, perché lo scritto sulla Verfassung è l’unico, tra quelli hegeliani, nel quale viene esplicitamente proposto lo Stato nazionale o, per citare l’espressione usata, la «nazionalità dello Stato» come forma matura della storia di un popolo, il che suscita qualche difficoltà se si ricorda che H. aveva definito lo Stato una «accolta di uomini (Menschenmenge) uniti per la difesa comune della loro proprietà» (in GW, 5° vol., cit., p. 66); concezione che non implicava alcun connotato nazionale; e del resto il filosofo aveva detto espressamente, facendo l’esempio della Russia, che non era necessario, nell’età moderna, che ci fosse una compattezza etnica, linguistica, religiosa perché uno Stato ci sia.
È assai verosimile che l’enfasi nazionale sia stata ispirata anche dall’affermarsi della ‘grande nazione’, la Francia rivoluzionaria; sarebbe però fuorviante ritenere che M. e la condizione dell’Italia ai primi del 16° sec. siano stati una copertura prudenziale per far passare in Germania il modello di oltre Reno. H. dice espressamente che la tendenza a costituire grandi Stati si era manifestata già al passaggio tra Medioevo ed età moderna, con il dissolversi del mondo feudale, e con l’affiorare dell’elemento cittadino, ‘borghese’; mentre in Francia, in Inghilterra e in Spagna si era avuto un processo di unificazione, in Germania e in Italia c’era stato quello, opposto, della moltiplicazione dei centri di potere autonomi; l’Italia, essendo più avanzata nella cultura (Bildung) aveva rimosso completamente l’autorità dell’impero, mentre in Germania essa era stata sì mantenuta, ma soltanto nominalmente; anche qui si era avuta la disgregazione, mascherata però sotto una sempre più complicata articolazione giuridica; per cui era in nome del ‘diritto’ che i corpi territoriali paralizzavano l’autorità dell’impero, o addirittura lo combattevano. Ciò che in Italia era attribuito alla cultura, in Germania lo era al carattere ‘ribelle’ dei tedeschi; si trattava di un residuo di ‘barbarie’, dell’istintivo rifiuto di riconoscere che «l’interesse dello Stato» è superiore al diritto; non fosse che perché il diritto si esprime in diritti, i diritti entrano in collisione, e dipende dalla ‘politica’, cioè dalla ‘violenza calcolata’ decidere quale diritto abbia la prevalenza sull’altro.
Qui ‘diritto’ designa la prerogativa soggettiva, di un individuo o di una comunità; merita rispetto soltanto se non contrasta con «l’utile dello Stato» (H. usa di proposito la parola Nutze, per irritare i ‘moralisti’); ora, l’utile dello Stato consiste nel mettere a frutto tutte le forze del popolo onde arrivare a quella potenza (Macht) che consente di affermarne l’indipendenza; e la potenza consiste nella forza militare, e nei mezzi finanziari per mantenerla. Era recente l’ascesa della Prussia, proprio con quei mezzi; ma H. non guarda a essa (la considera anzi una delle minacce più gravi per l’unità germanica), né alla Francia giacobina (che citerà, per esempio, quattro anni più tardi); evoca invece un precedente fallito – egli stesso scrive: «La voce di Machiavelli si è dileguata senza produrre alcun risultato» (GW, 5° vol., cit., p. 136). Quel precedente lo affascinava almeno per due motivi; che «nella corruttela e nel cieco delirio del suo tempo» (p. 131) M. avesse saputo muovere dal ‘presupposto’ che ci fosse un Universale (l’idea dello Stato); e che il compito di assicurargli realtà egli assegnasse a un ‘principe’, al quale presentava vari exempla e, tra questi, con insistenza, il Valentino; certe azioni del quale non richiedevano deplorazione, perché «ciò che sarebbe riprovevole se esercitato da un privato contro un privato, o da uno Stato contro un altro Stato o contro un privato, è [contro l’anarchia] una giusta pena»; «promuovere l’anarchia è [...] l’unico delitto che si possa commettere controuno Stato» (p. 133). È, questa che si è citata, una frase complessa: anzitutto, si devono segnalare i limiti che H. pone all’operare imperioso del suo principe – che deve usare i suoi mezzi soltanto contro i nemici interni; e poi che lo Stato di cui M. auspicava la costituzione era un ‘presupposto’, in quanto l’Italia non aveva mai avuto un’unità statale, a differenza della Germania: «la Germania non è più uno Stato» è la constatazione che H. enuncia almeno tre volte nei frammenti della Verfassung. Sotto il segno dell’idea dello Stato nazionale H. identifica le due situazioni. La ‘fede’ di cui M. dette testimonianza era che «il destino di un popolo il quale precipita verso il suo tramonto politico possa essere salvato dall’opera di un genio» (p. 135); ‘genio politico’, poche pagine prima, è «l’individuo che si identifica con un principio» (p. 127). Più tardi, nelle Lezioni di filosofia della storia, H. dirà «individui storici», esemplificati in Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone Bonaparte, e si soffermerà a lungo sul loro carattere; qui basterà dire che essi sono strumenti della storia universale e che in essi predomina la «potenza naturale della passione», e non «la disciplina, artificiosa e noiosa, che pretendono l’ordine e la moderazione, il diritto e la moralità» (GW, 18° vol., 1995, p. 156). Rettificando M., H. contesta che sia stato un semplice gioco del caso (la malattia al momento della morte del padre) a impedire al Valentino di «giungere ad una potenza anche maggiore»; intervenne invece una ‘più alta necessità’, perché egli non aveva il «diritto naturale interiore» (si può intendere: il ‘genio’) di fondare uno Stato; qui M. sarebbe stato in contraddizione con sé stesso, tenendo conto dei «tratti davvero ideali che M. esige da un principe che sia eccellente» (GW, 5° vol., cit., p. 133).
È manifesta qui l’oscillazione di H. tra l’auspicare un principe dalla mente pura, senza ‘vizi’ personali, e l’attribuirgli la facoltà di servirsi di mezzi anche terribili per combattere ‘l’anarchia’; eppure, il fine può anche prescindere dalle qualità interiori di un uomo. Documento significativo di questo suo riflettere sul tema sono alcune pagine della Filosofia dello spirito di Jena (1805-1806), ove oggetto della polemica non è più l’arcaico diritto germanico, bensì l’idea che uno Stato possa nascere da un ‘contratto originario’ di singoli individui; al contrario, tutti gli Stati sono fondati dalla ‘violenza esteriore’, dalla «nobile violenza di grandi uomini» (GW, 8° vol., 1976, p. 258). «Privilegio del grande uomo è sapere e dichiarare la volontà assoluta, tutti si raccolgono sotto il suo vessillo, è il loro Iddio» (p. 258); M. aveva scritto «sotto la sua insegna» (Principe xxvi 29), e chissà se questa frase era rimasta nella mente di Hegel. Ciò che costui pratica non è dispotismo (che per H. significa assenza di legge), bensì tirannia, ‘necessaria e giusta’, in quanto impiegata a costituire lo Stato, il quale, a sua volta, ‘sta sopra’ i concetti di bene e di male,
in quanto il male, in lui, si è conciliato con se stesso. È in base a questa concezione che è stato scritto il Principe di Machiavelli; nella costituzione di uno Stato, l’assassinio a tradimento, l’inganno, la crudeltà non hanno affatto il significato di male.
I tedeschi – continua H. – hanno aborrito il machiavellismo perché soffrivano proprio della malattia che M. voleva curare, «e ne sono morti» (p. 259).
Queste parole fanno ritenere che, intorno al 1806, H. pensasse che anche per la Germania, come già per l’Italia, la possibilità di una rinascita nazionale fosse venuta meno; e attraverso un collegamento che si può soltanto supporre, in questo contesto compare una sorta di legittimazione del Terrore, e del ruolo storico di Robespierre, il quale ebbe il «coraggio di essersi comportato in modo completamente tirannico in quello stato di eccezione nel quale l’esistenza dell’Intero è compromessa» (p. 260). H. non considerava certo Robespierre un ‘grande uomo’: se fosse stato tale, avrebbe deposto il potere appena ristabilita ‘l’obbedienza’ – per cui, ciò che fece dopo «merita di essere aborrito come male» (p. 260). Si fa qui una interessante applicazione del machiavellismo alla dinamica delle rivoluzioni, che prelude al paragrafo La libertà assoluta e il terrore della Fenomenologia dello spirito (1807); le pagine di cui si è dato conto confermano ciò che era già trasparito nella Verfassung, cioè il limite temporale della tirannide; H., lì, aveva infatti auspicato che, dopo aver ‘costretto’ i tedeschi a unificarsi, il ‘conquistatore’ avesse la ‘magnanimità’ di concedere loro «la partecipazione agli affari di interesse comune», cioè, si può interpretare, di introdurre una sorta di monarchia costituzionale. Stabilito un governo, forte all’interno e all’esterno, sarebbe venuto il tempo della libertà civile; vien da pensare alle «buone legge e le buone arme» nelle quali M. vedeva «e’ principali fondamenti che abbino tutti li Stati» (Principe xii 3).
Si sa che, fin dalla gioventù, H. aveva letto Tucidide, per la cui opera conservò sempre grandissima ammirazione; era già orientato, insomma, su cosa fosse la politica realista; la lettura del Principe, in anni nei quali la sua patria minacciava rovina, gli suggerì di applicare agli Stati ciò che egli aveva già pensato per le religioni, che essi dovevano essere fondati da un uomo. Non si poteva contare sulla virtù collettiva, cara all’immaginario repubblicano, quando la cultura moderna aveva dissolto i rapporti elementari di comando e di obbedienza; occorreva un uomo che non tenesse conto delle teorie morali e giuridiche che avevano preso il posto di quei rapporti; spettava a lui costituire di nuovo «l’organizzazione delle masse spirituali nella quale viene distribuita la moltitudine delle coscienze individuali», come è detto nella Fenomenologia (GW, 9° vol., 1980, p. 320). E anche nel quadro di monarchia costituzionale (non parlamentare!) della Filosofia del diritto, la figura del potere principesco conserverà il primo posto, come il momento «della decisione ultima, da cui tutto il resto comincia ad avere autentica realtà» (§ 275, in GW, 14° vol., 2009, p. 230).
Gli scritti nei quali M. compariva come il testimone di una concezione della politica che H. faceva sua furono pubblicati, come si è detto, quando l’immagine del pensiero di H. si era consolidata, per i non filosofi soprattutto in base al più popolare dei suoi libri, le Lezioni di filosofia della storia. Era in queste ultime che al popolo germanico veniva attribuita la funzione di essere stato, e di essere, l’elemento traente dell’età che si era aperta con il crollo dell’impero romano, e con il cristianesimo; ed era nelle medesime, e ancor più nella Filosofia del diritto, che veniva presentata l’eticità moderna, come confluenza consapevole degli individui nelle istituzioni. Fu spontaneo tentare di armonizzare quelle pagine del primo Ottocento con il pensiero del tardo H., dimenticando che, quando le scriveva, H. non era affatto sicuro che la Germania sarebbe uscita dalla sua nullità politica. Le orgogliose parole della prolusione di Heidelberg (1816), che la nazione tedesca aveva «salvato la sua nazionalità, il fondamento di una vita davvero tale» sarebbero state impossibili (lo si è visto) soltanto dieci anni prima. Per cui il peculiare della ricezione hegeliana di M., lo Stato, e il fondatore di esso, come entità ancora ‘esterne’ rispetto a un popolo disgregato, non vennero percepiti. Friedrich Meinecke (→), in Weltbürgertum und Nationalstaat (1908), aveva sì collocato H., insieme a Leopold von Ranke e a Otto von Bismarck, tra i ‘liberatori dello Stato’, ma non aveva neppure citato lo scritto sulla Verfassung, pur pubblicato quindici anni prima. Fu dopo la prima guerra mondiale che la Verfassung fu riscoperta e adoperata per spiegare ciò che era considerata l’anomalia tedesca, di aver cioè concepito lo Stato come Stato di potenza (Machtstaat); la critica dello Stato bismarckiano era stata condotta, prima del 1914, dagli esponenti dell’opposizione – liberali e socialdemocratici –, e sembrava ora convalidata non solamente dalla disfatta, ma anche dalle accuse delle potenze dell’Intesa, che avevano messo in causa l’ordinamento costituzionale dell’impero tedesco. Il machiavellismo venne evocato come uno degli elementi che, entrati nello spirito tedesco, avevano contribuito a dargli quel carattere abnorme. Aprì il dibattito la brillante dissertazione di Hermann Heller, Hegel und der nationale Machtstaatsgedanke in Deutschland (1921); questi, che ripubblicò anche la Verfassung nella popolare collana Reclam (1922), inserì la riabilitazione hegeliana di M. nella polemica del filosofo contro la concezione etico-politica sia giusnaturalistica sia kantiana: lo Stato di potenza, insomma, invece che lo Stato di diritto. Non ci si era mai resi conto – così Heller – che H. era un Machtpolitiker, che si era consapevolmente richiamato «alla politica rinascimentale di Machiavelli»; a dar maggior forza alla sua tesi, Heller addirittura intese la Exhortatio come rivolta a Cesare Borgia invece che ai Medici. Ai capitoli dedicati a H. seguivano altri, su personaggi grandi e piccoli della cultura e della politica tedesca. Lo scopo era di dimostrare come l’insegnamento di H. avesse continuato a farsi valere, sino alla vigilia della guerra, anche quando il nome del filosofo non era più fatto. La tesi di Heller fu ripresa dopo il 1945, in modi spesso quasi caricaturali, dei quali non val la pena di dar conto; ma il volume non era privo di pregi e sollecitò le riflessioni di studiosi di rilievo. Meinecke ritornò sull’argomento nel suo libro sull’idea della ragion di Stato (1924), ove il capitolo su H. parte proprio dalla Verfassung; qui si dice esplicitamente che prima ancora di ideare il suo sistema,
H. aveva intuito che il rinnovamento del carattere tedesco passava attraverso uno Stato ‘potente’, cioè in grado di contrapporsi ad altri Stati, e fu così che «rivisse in lui uno dei sentimenti fondamentali di Machiavelli». Meinecke non si nascondeva la problematicità dell’inserimento del machiavellismo in una concezione idealistica del mondo («quasi la legittimazione di un bastardo»), e additava, in questo, una rottura con la tradizione del diritto naturale cristiano che aveva dominato nel 18° sec.; H., certo, non era un immoralista, ma aveva esercitato una ‘influenza fatale’ per aver occultato quel tanto di oscuro e minaccioso che è latente in ogni dottrina della ragion di Stato.
Alla generazione successiva a quella di Meinecke appartenne un altro storico illustre, Gerhard Ritter (→), il quale toccò ripetutamente il tema del machiavellismo in area tedesca; nel libro Die Dämonie der Macht (1940), anch’egli, come Meinecke, imputò alla «pagano-ottimistica fede di Hegel nello Stato» l’aver cancellato «qualsiasi aspetto demoniaco del potere»; più tardi (1956), nella sua voluminosa opera sul militarismo in Germania, Staatskunst und Kriegshand werk, attribuì a H., oltre che a Johann Gottlieb Fichte, l’aver concepito la politica estera, sulle orme di M., come «uno stato di lotta permanente, latente o aperto».
Questo tipo di problemi, nato nel clima spirituale della prima metà del 20° sec., ha perso oggi quasi ogni interesse; rimane che, per comprendere il pensiero politico di H., non si può dimenticare Machiavelli.
Bibliografia: Fragmente einer Kritik der Verfassung Deutsch lands (1799-1803), in Gesammelte Werke, hrgs. Nordrheim-West fälischen Akademie der Wissenschaften, 5° vol., Hamburg 1998, pp. 1-219 (trad. it., in base all’ed. Lasson, Scritti politici, a cura di C. Cesa, Torino 1972, pp. 3-132); Naturphilosophie und Philosophie des Geistes (1805-1806), in Gesammelte Werke, hrsg. Nordrhein-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, 8° vol., Hamburg 1976, pp. 231-52 (trad. it. La filosofia dello spirito jenese, a cura di G. Cantillo, Roma-Bari 1984, pp. 141-63). Si vedano inoltre Scritti storici e politici, a cura di D. Losurdo, trad. di G. Bonacina, Roma-Bari 1997, pp. 3-106.
Per gli studi critici, oltre a W. Jaeschke, Hegel-Handbuch, Stuttgart-Weimar 2010, pp. 100-106 e 169-75, si vedano: F. Rosenzweig, Hegel und der Staat, München-Berlin, 1° vol., 1920, pp. 110-30 (trad. it. Hegel e lo stato, Bologna 1976, pp. 123-43); F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, München-Berlin 1924, München 19572, pp. 403-33 (trad. it. L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Firenze 19702, pp. 351-76); H. Meier, Hegels Schrift über die Reichsverfassung, «Politische Vierteljahrsschrift», 1963, pp. 334-49; O. Pöggeler, Hegel et Machiavel. Renaissance italienne et idéalisme allemand, «Archives de philosophie», 1978, 41, pp. 435-67; M.J. Königson-Montain, L’écrit de Hegel sur la constitution de l’Allemagne, in Hegels Philosophie des Rechts, hrsg. D. Henrich, R.-P. Horstmann, Stuttgart 1982, pp. 38-55; J.-F. Kervégan, Hegel, Carl Schmitt. Le poli tique entre spéculation et positivité, Paris 1992, pp. 135-43; D. Losurdo, Hegel e la Germania, Milano 1997, pp. 585-698; G. Faraklas, Hegel et Machiavel. Imposer la loi, «Revue philoso phique de la France et de l’étranger», 1999, 1, pp. 61-78; J.M. Buée, Les lecteurs de Machiavel en Allemagne dans la première moitié du XIXème siècle, in Machiavelli nel XIX e XX secolo, a cura di P. Carta, X. Tabet, Milano 2007, pp. 49-65.