Vedi Georgia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Georgia, indipendente dall’Unione Sovietica dall’aprile del 1991, ha avviato un difficile percorso di costruzione statale e nazionale caratterizzato dal tentativo di affrancarsi dalla tradizionale influenza di Mosca. Al contempo, la Georgia ha dovuto contrastare istanze secessionistiche affiorate contestualmente alla fondazione dello stato nazionale in regioni abitate da minoranze etniche, linguistiche o confessionali. È il caso dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, che nella Repubblica Socialista Sovietica di Georgia godevano rispettivamente dello status di repubblica e regione autonoma. Le due realtà risposero ai primi segnali di disgregazione sovietica con richieste di maggior autonomia, sfociate dopo il 1991 in aperti scontri etno-territoriali contro le autorità di Tbilisi.
Agli accordi per il cessate il fuoco, siglati dal governo georgiano con i separatisti osseti (giugno 1992) e abkhazi (maggio 1994), non è seguito un vero negoziato di pace. Si è così generato un precario scollamento tra il controllo de facto delle regioni da parte delle autorità separatiste e la sovranità de jure su di esse, riconosciuta a Tbilisi. Su questo sfondo, il tentativo georgiano di riguadagnare militarmente il controllo sull’Ossezia del Sud ha portato, nell’agosto 2008, a uno scontro con la Federazione Russa, arbitro della sorte delle regioni separatiste sin dalla fase immediatamente successiva alla svolta del 1991. I conflitti dei primi anni Novanta del Novecento hanno rappresentato delle ‘guerre per procura’ attraverso le quali Mosca – sostenendo i separatisti prima e mediando gli accordi per il cessate il fuoco poi – si è ritagliata uno spazio di influenza nei confronti del più filoccidentale tra gli stati non europei emersi dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’adesione alla Comunità degli stati indipendenti (Cis), l’accettazione di truppe di peacekeeping russe e la concessione di quattro basi militari rappresentarono il prezzo pagato da Tbilisi a Mosca per la cessazione delle ostilità. Su questo sfondo, la débâcle militare dell’agosto 2008 ha avuto conseguenze profonde sul processo di state-building georgiano, reso oggi più difficile dal riconoscimento delle auto-proclamate repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud da parte di Russia, Nicaragua, Venezuela, Nauru, Tuvalu e Vanuatu. In realtà, Vanuatu ha di fatto ritirato il riconoscimento nel luglio 2013 a seguito della apertura di relazioni diplomatiche con Tbilisi.
A guidare il paese nella difficile fase post-indipendentista è stato Eduard Ševardnadze. L’ex ministro degli esteri sovietico ha monopolizzato la vita della repubblica tra il marzo 1992, quando ha assunto la carica di primo ministro, e il novembre 2003, quando la ‘rivoluzione delle rose’ ha posto prematuramente fine al suo secondo mandato presidenziale. Si è aperta così la strada all’affermazione politica di Mikheil Saakašvili, nel 2008 rieletto presidente per un secondo – e costituzionalmente ultimo – mandato quinquennale. Dalle elezioni legislative del 2004 e fino al 2012 Saakašvili ha potuto contare sul sostegno parlamentare assicurato dalla solida maggioranza detenuta dal Movimento nazionale unito (Enm), partito liberal-conservatore di cui è fondatore e indiscusso leader. Ciò gli ha concesso di rafforzare i poteri della presidenza e di accelerare il percorso d’avvicinamento alle strutture euro-atlantiche, avanzando domanda di ammissione alla Nato, aderendo al Partenariato orientale dell’Unione Europea e mettendo parallelamente fine, nell’agosto 2009, alla partecipazione della Georgia alla Cis. L’involuzione autocratica dell’esperienza di Saakašvili ha progressivamente dato forza all’opposizione. Tutti i gruppi si sono uniti nella primavera 2012 attorno alla figura del miliardario georgiano Bidzina Ivanišvili e alla sua piattaforma partitica, Sogno georgiano. La sconfitta dell’Enm alle elezioni parlamentari del 2012 a opera di Sogno georgiano – che ha spianato la strada alla nomina di Ivanišvili a primo ministro, sostituito oggi nella carica da Irakli Garibašvili – ha aperto un nuovo capitolo nella storia repubblicana della Georgia. Significativamente, ha anche segnato il primo passaggio di poteri effettuato nel quadro delle dinamiche istituzionali. L’ascesa politica di Sogno georgiano è stata confermata dalle elezioni presidenziali dell’ottobre 2013, che hanno visto la larga vittoria – con oltre il 60% delle preferenze – del candidato della coalizione Giorgi Margvelašvili.
La Georgia è costituita da un crogiolo di etnie tipico della regione caucasica. Benché la maggioranza della popolazione (circa il 70%) sia georgiana, sono presenti circa un’ottantina di nazionalità differenti, le maggiori delle quali sono quelle armena (8%), russa (6%), azera (6%), osseta (3%), greca (2%) e abkhaza (2%). Come nel caso di Abkhazia e Ossezia, la concentrazione delle minoranze armene e azere in regioni di confine, rispettivamente in Javakheti e Kvemo Kartli, ha generato tensioni interetniche e richieste di maggior autonomia dal governo centrale. Ciò si è verificato anche per l’Agiara, regione etnicamente georgiana, la cui popolazione, convertita all’islam nel corso del dominio ottomano, ha lungamente beneficiato di un’autonomia basata sull’appartenenza religiosa. In un paese prevalentemente cristiano-ortodosso, i musulmani rappresentano la principale minoranza religiosa (circa il 10% della popolazione), seguiti da minoranze armeno-gregoriane e cattoliche. Un problema che affligge la Georgia – e che deriva dai conflitti etno-territoriali – è quello dei rifugiati, che spesso vivono in condizioni molto difficili.
Secondo i dati governativi, alla fine del 2012 vi erano nel paese 280.000 sfollati – un decimo circa dei quali in conseguenza del conflitto russo-georgiano del 2008.
La ‘rivoluzione delle rose’, la prima delle incruente ‘rivoluzioni colorate’ che hanno interessato lo spazio post-sovietico nel triennio 2003-05, aveva suscitato grandi speranze sulle possibilità di rinnovamento della corrotta e autoritaria classe dirigente dell’area. Definita dall’allora presidente statunitense George W. Bush un ‘faro di libertà per la regione e per il mondo’, la Georgia ha parzialmente disatteso le aspettative di democratizzazione. Nonostante ciò il paese resta il più libero nel complesso scenario del Caucaso meridionale. I processi elettorali, in particolare – caso unico nella regione –, hanno registrato una costante approssimazione agli standard di trasparenza, libertà e correttezza internazionalmente riconosciuti. Ultima conferma di questa tendenza è giunta dalla tornata presidenziale del 2013, giudicata dagli osservatori Osce come ‘trasparente ed efficamente organizzata’. A seguito delle manifestazioni antigovernative della primavera del 2009, è stato varato un pacchetto di emendamenti costituzionali che, finalizzato a riequilibrare le prerogative e l’indipendenza dei tre poteri dello stato, ha introdotto un rapporto fiduciario tra parlamento ed esecutivo e ha rafforzato i poteri del primo ministro rispetto a quelli del presidente della repubblica. Si è passati così di fatto da un sistema semipresidenziale a uno parlamentare.
Chiusa la fase di instabilità interna dei primi anni Novanta, i governi georgiani hanno attuato un’efficace politica di transizione verso il libero mercato, attraverso la privatizzazione delle imprese pubbliche e successive riforme fiscali e finanziarie. A partire dal 2000, l’economia ha così registrato rilevanti tassi di crescita, risentendo solo parzialmente degli effetti negativi della crisi internazionale. Solo nel 2012 si è registrata una lieve flessione nell’afflusso di rimesse e di investimenti dall’estero (ide), che costituiscono tradizionalmente una rilevante fonte di capitali per lo sviluppo economico georgiano. Nonostante la contrazione del flusso, nel 2012 le rimesse hanno comunque costituito oltre il 6% del pil.
Paese ricco di risorse idroelettriche ma povero di idrocarburi, la Georgia importa la quasi totalità del petrolio e del gas. Tradizionalmente dipendente dagli approvvigionamenti energetici russi, la Georgia ha unito la necessità di diversificazione dei fornitori di idrocarburi alla possibilità di acquisire un ruolo chiave nel transito di risorse energetiche tra il Caspio e i mercati occidentali. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, la Georgia è così diventata lo snodo geografico della direttrice energetica tra Azerbaigian e Turchia, lungo la quale sono stati costruiti l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (2005) e il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum (2006). Nel frattempo è stato ampliato l’oleodotto che va da Baku al porto georgiano di Supsa, sul Mar Nero (1999). L’Azerbaigian rappresenta dunque il principale fornitore di idrocarburi della Georgia, nel cui settore energetico ha inoltre fortemente investito. L’asse energetico azero-georgiano si è inoltre rafforzato con l’approvazione dei progetti di gasdotti che dal 2018 collegheranno Baku e i mercati europei.
A dimostrazione della crescente rilevanza del ruolo georgiano, Tbilisi ospita l’ufficio di coordinamento per il Caucaso dell’Inogate, programma europeo finalizzato alla tutela della sicurezza energetica dello spazio comunitario e alla promozione della cooperazione con i paesi ex sovietici e la Turchia.
Il contrasto delle forze secessionistiche e la presa di distanza dalla ridefinizione russo-centrica dello spazio post-sovietico hanno costituito le priorità della difesa georgiana sin dal conseguimento dell’indipendenza. Pietra angolare di questa politica è stato l’approfondimento della cooperazione alla sicurezza con gli Stati Uniti e il progressivo avvicinamento alla Nato, con l’obiettivo ultimo della piena integrazione nell’Alleanza. Membro della Partnership for Peace dal 1994, la Georgia ha aderito a tutti i meccanismi di cooperazione tra la Nato e i partner esterni, contribuendo all’operazione antiterrorismo marittima Active Endeavour nel Mediterraneo e prendendo parte alle missioni di peacekeeping in Kosovo (1999-2008) e in Afghanistan, dove per lungo tempo è stato il secondo paese contributore in relazione alla popolazione.
L’obiettivo ultimo dell’ingresso nella Nato, attraverso la sottoscrizione del Membership Action Plan (Map) con l’Alleanza, è tuttavia naufragato nel corso del summit di Bucarest del 2008. In quell’occasione, nonostante il fermo sostegno statunitense, i membri della Nato si sono mostrati recalcitranti nell’accordare il Map a Georgia e Ucraina, limitandosi a rilasciare una dichiarazione di principio sulla futura membership dei due paesi. A pesare in maniera decisiva sulla decisione di rimandare sine die l’ingresso di Georgia e Ucraina nella Nato è stata anzitutto la dura opposizione della Russia alla prospettiva di un ulteriore allargamento dell’Alleanza verso est. D’altra parte, a pochi mesi di distanza dal summit di Bucarest, il conflitto russo-georgiano sembra aver tracciato un’invalicabile linea rossa rispetto alle possibilità di ulteriore penetrazione della Nato nello spazio post-sovietico. La battuta d’arresto nel percorso d’avvicinamento della Georgia alla Nato non ha impedito il rafforzamento della cooperazione bilaterale alla sicurezza con gli Stati Uniti. Sin dal 2001 Washington e Tbilisi hanno attivamente collaborato nella lotta al terrorismo internazionale.
Il Dipartimento della difesa, in particolare, ha contribuito all’addestramento delle truppe di frontiera georgiane schierate al confine con la Cecenia. La sicurezza delle frontiere georgiane, d’altra parte, era stata al centro di diversi incidenti diplomatici tra Tbilisi e Mosca che, accusando la Georgia di garantire ai terroristi ceceni zone franche oltre confine, aveva effettuato a più riprese operazioni aeree in territorio georgiano. La Georgia, dal canto suo, ha fermamente appoggiato le iniziative regionali della Casa Bianca, a partire dall’operazione Iraqi Freedom cui ha contribuito, nella fase tra il 2003 e il 2008, con un massimo di 2000 soldati. Nel gennaio 2009 Stati Uniti e Georgia hanno sottoscritto la Carta per il partenariato strategico, attraverso la quale sono stati istituiti quattro gruppi di lavoro stabili per la cooperazione nel campo della difesa e della sicurezza, della democratizzazione, del commercio e dell’energia.
Nel settembre 2010 il governo georgiano ha approvato il Documento di valutazione delle minacce per il triennio 2010-13. La Russia, che mantiene una presenza militare in Ossezia e Abkhazia, è ancora considerata come la maggior minaccia alla sovranità georgiana e come il più rilevante ‘fattore di destabilizzazione politica, economica e sociale’.
La ‘guerra dei cinque giorni’ tra Georgia e Russia (7-12 agosto 2008) è stata provocata dal tentativo di Tbilisi di riacquistare militarmente il controllo della regione separatista dell’Ossezia del Sud. Dopo il conflitto del 1991-92, le autorità ossete avevano avviato un processo di costruzione statale e istituzionale nella regione, culminato con il referendum sull’indipendenza del novembre 2006. A rendere possibile tale processo è stato soprattutto il sostegno politico ed economico fornito da Mosca, le cui truppe di peacekeeping erano state dispiegate sul territorio nel 1992, dopo la fine delle ostilità. Come nel caso dell’Abkhazia, la Russia ha concesso la propria cittadinanza alla quasi totalità della popolazione osseta. Rispetto al conflitto del 2008, l’intervento russo è stato giustificato dalla necessità di proteggere i propri cittadini e le proprie truppe dall’aggressione georgiana. Dopo cinque giorni di conflitto, durante i quali le forze abkhaze hanno appoggiato il contrattacco russo-osseto, il 12 agosto le parti hanno sottoscritto un accordo per il cessate il fuoco mediato dall’Unione Europea. Benché le truppe russe si siano ritirate dai territori georgiani occupati, hanno mantenuto le posizioni acquisite in Ossezia del Sud. Dopo aver riconosciuto ufficialmente la Repubblica di Ossezia, la Russia ha siglato un accordo per il pattugliamento congiunto della frontiera osseto-georgiana e per la concessione di una base militare, opponendosi al contempo, a partire dal 1° gennaio 2009, al rinnovo della missione di monitoraggio OSCE, attiva nella regione sin dal 1992.
Dal settembre 2008 in Georgia è presente una missione civile europea di monitoraggio, la European Union Monitoring Mission, con compiti di stabilizzazione, normalizzazione e confidence-building.
Un rapporto commissionato dal Consiglio dell’EU e pubblicato nel settembre 2009 ha imputato alla Georgia la responsabilità del conflitto, condannando al contempo la ‘sproporzionata’ reazione russa.
L’Abkhazia ha proclamato unilateralmente l’indipendenza dalla Georgia nell’ottobre 1999. Già nel novembre 1994, a pochi mesi di distanza dall’accordo per il cessate il fuoco mediato dalla Russia sotto l’egida della Nazioni Unite, l’Abkhazia si era dotata di una propria Costituzione e di organi statali. Isolata dalla comunità internazionale, l’Abkhazia è sopravvissuta grazie al sostegno economico della Russia, che dal 2002 ha concesso la cittadinanza alla quasi totalità dei circa 200.000 abitanti della regione. Non riconoscendo le autorità secessionistiche di Sukhumi, la Georgia ha sostenuto la formazione di un governo in esilio con sede a Tbilisi. Nel 2006, nel tentativo di riacquistare il controllo sulla regione, Saakašvili ha favorito il rientro del governo legittimo in Abkhazia, da dove è stato espulso a seguito della ‘guerra dei cinque giorni’. Il sostegno assicurato da Mosca all’Abkhazia dopo il 2008 si è concretizzato, nel luglio 2009, nella decisione di bloccare in sede del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il rinnovo della missione di monitoraggio e polizia UNOMIG, schierata nel paese sin dal 1993. La Russia mantiene truppe nella regione, acquartierate nella base di Gudauta. Dopo il formale riconoscimento russo della Repubblica di Abkhazia, Mosca e Sukhumi hanno sottoscritto un accordo di amicizia, cooperazione e mutua assistenza (settembre 2008) e un accordo cinquantennale per la concessione di una base militare (febbraio 2010). Entrambi gli atti sono stati fermamente condannati dalle maggiori cancellerie occidentali e dalla NATO come violazione della sovranità georgiana e degli accordi per il cessate il fuoco successivi al conflitto dell’agosto 2008.