CARDANO, Gerolamo
Nacque a Pavia il 24 sett. 1501 da Fazio e Chiara Micheri.
Fazio (1445-1524), di famiglia originaria di Cardano (oggi Cardano al Campo, vicino a Gallarate), che vantava un'antica nobiltà di antenati illustri, era di professione giurista, ma di cultura enciclopedica e versato particolarmente negli studi matematici, tanto da essere consultato da Leonardo da Vinci su alcune questioni geometriche. Pubblicò una edizione commentata del De Perspectivis Communis di John Peckham, e insegnò matematica e geometria nelle scuole Piattine di Milano fin da quando, nel 1501, furono istituite per volere testamentario dell'umanista Tommaso Piatti, che era stato discepolo di Fazio. A cinquantasei anni conobbe a Milano una vedova trentaseienne, Chiara Micheri (o de Micheriis), già madre di tre figli e se ne innamorò. Quando la donna, che viveva con la famiglia del defunto marito, rimase incinta, Fazio, per coprire lo scandalo, si rivolse a un amico di Pavia (dove aveva compiuto gli studi), il patrizio Isidoro Resta, perché la prendesse in casa come governante. Ma prima che nascesse il C. nella casa del Resta, i tre precedenti figli di Chiara morirono quasi contemporaneamente di peste. Sconfortata, la madre cercò di procurare la morte anche del nascituro, ma non vi riuscì. Lo stesso C. poi, nei primi mesi di vita, si ammalò di peste, contraendola dalla sua balia: ma a differenza di questa, si salvò, e fu affidato ad altre balie di Moirago (un paesino vicino a Milano), fino all'età di tre anni. Dietro pressione di Chiara, Fazio si convinse infine a portare lei, la sorella Margherita e il figlio quattrenne a Milano, sistemandoli in un modesto alloggio di via Arena a Porta Ticinese, ma evitando ancora di abitare con loro fino a che il bambino non ebbe sette anni. Allora, trasferita la famiglia in via del Maino, Fazio prese l'abitudine di portare con sé il figlio nei suoi giri d'affari.
A questo modo il C. cominciò ad apprendere, ma la sua costituzione debole non resse a questa vita, e si ammalò gravemente. Dopo una lunga convalescenza riprese ad accompagnare il padre nel suo lavoro, continuando frattanto privatamente, e disordinatamente, gli studi, per i quali dimostrava tuttavia attitudini eccezionali per la sua età. Infine, a diciassette anni, spronato anche dal desiderio di sottrarsi a un ambiente familiare turbato dai continui litigi dei genitori, chiese ed ottenne di essere inviato, in compagnia dell'amico Gian Ambrogio Targi, all'università di Pavia, dove preferì gli studi di medicina e matematica agli studi giuridici a cui il padre avrebbe voluto indirizzarlo.
Si distinse ben presto tra i condiscepoli, sostenendo e vincendo pubbliche dispute coi suoi stessi professori di medicina, Andrea Carnuzio, e di filosofia, Branda Porro. Sospesi gli studi nel 1523, perché la ripresa della guerra francospagnola non gli consentì di abbandonare Milano, li riprese l'anno successivo a Padova, e nell'agosto di quello stesso anno conseguì a Venezia la laurea nelle cosiddette "arti liberali". Rientrato quell'estate a Milano, vi trovò il padre morente (sarebbe morto pochi giorni dopo il ritorno del C. a Padova), che nel frattempo aveva regolarizzato la sua unione con Chiara. Eletto rettore dell'ateneo patavino (una sorta di decanato degli studenti, con compiti amministrativi), nel 1526 conseguì in quella università il dottorato in medicina, dopo essere stato respinto due volte.
Non potendo tornare a Milano, sconvolta dalla guerra e dalla peste, si stabilì per quasi sei anni a Saccolongo, piccolo centro nei dintorni di Padova, aiutato dal medico Francesco Buonafede. Nel 1529 tentò invano un rientro a Milano: il Collegio dei medici non volle accoglierlo tra i suoi membri, col pretesto di una norma di statuto discriminatoria nei confronti degli illegittimi. Guarito dall'impotenza sessuale, che lo aveva afflitto per tutta la giovinezza, nel 1531 prese in moglie Lucia Bandareni, una giovane di Saccolongo, figlia di un piccolo commerciante, capitano della milizia veneta. Da quest'unione nacquero, nel 1534, Giovanni Battista, nel 1537 Chiara, e nel 1543 Aldo. La moglie sarebbe morta nel 1546.
Trasferitosi nella primavera del 1532 a Milano, e di nuovo respinto dal Collegio dei medici, fu costretto ad accettare l'offerta del cugino Iacopo, parroco di Cardano, e a sistemarsi a Gallarate per esercitarvi la professione medica. Nel 1534 risolse temporaneamente le difficoltà economiche familiari ottenendo - per intercessione del senatore milanese Filippo Archinto - l'insegnamento di matematica nelle scuole Piattine di Milano, dove già aveva insegnato il padre. Poco dopo, poté assumere servizio medico presso il capitolo di S. Ambrogio, con una piccola retribuzione, ma con la possibilità di incominciare a far conoscere la sua perizia. E in campo medico incominciò ad acquistare rinomanza - in ciò aiutato da alcune fortunate cure praticate a membri della famiglia Borromeo, della cui protezione in seguito si avvalse - e a suscitare i risentimenti dei colleghi con le sue prime pubblicazioni, dove attaccava molti errori della pratica medica corrente. Nel 1536 gli fu offerta la cattedra di medicina all'università di Pavia, ma non poté accettarla perché non retribuita. Rifiutò anche di entrare al servizio di papa Paolo III e del luogotenente del re di Francia Charles de Cossé. Tuttavia, ancora nel 1535, il Collegio dei medici di Milano aveva rifiutato di accoglierlo con pieni diritti, e solo nel 1539 la sua domanda ebbe finalmente esito positivo per intercessione del senatore Francesco Sfondrato e del giurista Francesco della Croce. Nel 1543 accettò la cattedra di medicina all'università di Pavia: dopo un primo anno di insegnamento a Milano (dove si tenevano i corsi a causa della guerra) proseguì le lezioni nell'ateneo pavese fino al 1551, anche se in maniera discontinua a causa delle difficoltà dei tempi. Rifiutate nel frattempo nuove offerte del papa e del re di Danimarca, accettò nel 1552 di andare in Scozia a curare l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, sofferente di asma, per un compenso di 1.700 scudi francesi. Rientrato a Milano, dopo aver curato con successo il malato, nel gennaio dell'anno successivo, rifiutò nuove vantaggiose offerte del re di Francia e della regina di Scozia.
Riprese l'insegnamento a Pavia nel 1559, e lo protrasse fino al 1562, nonostante che, nel 1560, fosse colpito dal più tremendo dolore della sua vita: la condanna a morte del prediletto figlio Giovanni Battista (nato nel 1534 e laureato in medicina nel 1556) eseguita nelle carceri di Pavia sotto l'imputazione di uxoricidio.
Le disgraziate vicende del suo matrimonio e la sua fine sono descritte minutamente dal C. (capp. XXVI-XXVII dell'autobiografia De propria vita liber), che vide in esse avverarsi cupe predizioni e sciagurate vendette. GiovanBattista che, crescendo s'era acquistato fama di dissoluto e d'impulsivo, si innamorò di Brandona Seroni (o de Serono), donna povera e di facili costumi, e volle sposarla nel 1557 contro il parere del padre. Le difficoltà economiche lo costrinsero ad andare ad abitare coi parenti della moglie; ma le pretese di questi e la nascita di tre figli in rapida successione (essi però morirono poco tempo dopo i loro genitori) resero assai difficile la convivenza. I litigi erano assai frequenti, come del resto le palesi infedeltà della moglie. Venuto a sapere di non essere il padre dei suoi figli, Giovanni Battista, con la complicità di una serva, preparò una focaccia con l'arsenico per la moglie, che da poco aveva dato alla luce l'ultimo figlio, chiamato Fazio in onore del bisnonno. Arrestato immediatamente per uxoricidio il 17 febbr. 1560, egli confessò dopo pochi giorni. Dopo un rapido processo, in cui il C. prese pubblicamente la difesa del figlio, il Senato milanese lo condannò alla decapitazione, eseguita il 13 aprile. Il tragico epilogo, a ventisei anni, della vita del figlio, sconvolse il padre, che pur si era tanto adoperato per salvarlo, assoldando avvocati, stampando petizioni, muovendo le sue influenti amicizie.
Per la morte del figlio il C. scrisse una naenia e il saggio di antropologia criminale De utilitate ex adversis capienda, Basileae 1561, in cui delinea principî di eugenetica e di pedagogia, affinché i figli crescano sani moralmente e fisicamente. Tra le opere del C. si trovano tre scritti generalmente attribuiti a Giovanni Battista: De fulgure tractatus, alla fine del tomo II delle Opere, Lugduni 1663, De abstinentis ab usu ciborum foetidorum libellus (che venne stampato anche a Basilea nell'anno 1581 assieme al De utilitate) e infine Fragmenta de cura morborum prodigiosa.
Scorgendo nella severità della sentenza una vendetta dei suoi nemici, e inoltre amareggiato dalle voci circolanti su suoi presunti rapporti immorali con i giovani allievi, il C. decise di trasferirsi a Bologna, dove - grazie all'intercessione del cardinale Borromeo, che valse a superare le iniziali opposizioni - insegnò medicina all'università dal novembre del 1562, ottenendo l'anno successivo un nuovo contratto di otto anni, con lo stipendio di 800 scudi d'oro. A Bologna fu ancora tormentato dalla condotta dissoluta del figlio Aldo, che andava diffamandolo per la città, e che nel 1566 giunse a derubarlo, tanto da costringere il padre a denunciarlo al tribunale, provocandone l'espulsione dal territorio bolognese. Le voci malevole sul suo conto, tuttavia, si intensificarono, e un'accusa di eresia giunse alle orecchie del legato pontificio cardinale Giovanni Morone, che amichevolmente lo consigliò di abbandonare l'insegnamento ancor prima dello scadere del contratto ottennale. Ma l'aver seguito prudentemente questo consiglio non valse a preservarlo dai rigori del pontificato di Pio V. La sera del 6 ott. 1570 fu tratto in arresto insieme con il discepolo Rodolfo Silvestri, che spontaneamente volle seguirlo.
Non si conoscono le accuse rivoltegli dal tribunale dell'Inquisizione: si può solo supporre che vertessero su alcuni degli aspetti più irriverenti delle sue opere - peraltro poco ligie a un ossequio più che formale alle verità della Chiesa - quali l'oroscopo di Gesù Cristo e l'encomio di Nerone. Non sembra neppure estraneo alle imputazioni un suo - per quanto prudente - rapporto con gli ambienti protestanti, ai quali era legato il discepolo e genero Lodovico Ferrari, e dai quali provenivano l'editore e il tipografo delle sue opere. Nonostante le testimoniane in suo favore dei discepoli (soltanto uno, il bolognese Giulio Pozzi, si rifiutò di testimoniare), il C., dopo avere versato una cauzione di 1.800 scudi d'oro, rimase in carcere fino al 22 dicembre, e agli arresti domiciliari per altri ottantasei giorni. Il 18 febbr. 1571 la Sacra Congregazione, tramite l'inquisitore di Bologna Antonio Baldinucci, gli impose un'abiura de vehementi (cioè in forma grave). Il 10 marzo successivo un'altra disposizione ammetteva che l'abiura avvenisse soltanto coram congregationem, e non coram populo (forma ben più infamante). Il C. vi si sottomise senza reticenze, impegnandosi anche in una lettera a Pio V a non tenere più pubbliche lezioni e a non pubblicare altre opere. La cattedra all'università, che nel frattempo gli era stata rinnovata per altri due anni, gli venne tolta.
Su consiglio del cardinal Morone, nel settembre del 1571 partì per Roma, accompagnato dal fido Silvestri, per mettersi sotto la diretta protezione del pontefice. A Roma fu accolto con onore, ma Pio V gli rifiutò la pensione per lui richiesta dal Morone. L'ottenne invece nel 1573 dal nuovo papa Gregorio XIII, già suo collega d'insegnamento all'università di Bologna: ma in cambio, per mostrare la sua buona volontà, egli distrusse centoventi suoi scritti, giudicandoli eccessivamente confusi.
Il 13 sett. 1575 fu accolto dal Collegio dei medici romano, ma praticò assai raramente la professione, preferendo condurre una vita ritirata, dedicata alla stesura dell'autobiografia.
Morì a Roma il 20 sett. 1576. Si ignora il luogo dove fu sepolto: sembra comunque che la sua salma non potesse essere trasportata nella chiesa dei frati agostiniani di S. Marco in Milano - com'egli aveva chiesto - a causa dellapeste che devastava quella città.
La produzione del C. è sterminata, e investe quasi tutti i campi dello scibile. Nel De propria vita egli fornisce l'elenco di cinquantacinque opere e opuscoli già pubblicati e di altri quarantacinque rimasti manoscritti. Ma precedentemente, in uno dei suoi tanti testamenti, quello del 13 luglio 1571, le opere a stampa ricordate sono centotré, e i manoscritti quarantatré (Bellini, p. 251). L'edizione in dieci tomi degli Opera omnia, stampata a Lione nel 1663 dal medico francese Charles Spon, comprende settantun opere già pubblicate, e quaranta fino allora ancora manoscritte (di cui una, Paralipomenis, in diciotto libri).
La prima opera pubblicata dal C. è il De malo recentiorum medicor usu libellus (dedicata alla polemica coi medici contemporanei), che l'amico Ottaviano Scoto fece stampare a sue spese a Venezia nel 1536. Nel 1539 pubblicò a Milano un manuale di matematica, Practica arithmetice et mensurandi singularis, che, ristampato poco dopo a Norimberga, segnò l'inizio della sua fama europea. Nel 1541 affrontò - con venature eterodosse - un problema cruciale nel dibattito filosofico del tempo nel De animi immortalitate; quello stesso anno pubblicò anche il De supplemento ephemeridum, nel 1543 il De consolatione e nel 1544 il De sapientia, tutte opere di argomento filosofico-morale, alle quali si aggiunse, infine, nel 1547, il Libellus praeceptorum filiis, di argomento pedagogico.
Nel 1545 pubblicò a Norimberga l'Ars magna (più precisamente Artis magnae sive de regulis algebraicis liber unus), che suscitò la famosa polemica con Nicolò Tartaglia: nel primo capitolo di quest'opera, infatti, il C. espone il procedimento di soluzione delleequazioni di terzo grado, che aveva appreso dal Tartaglia fin dal 1539, dietro promessa di non divulgarlo; ma da questa promessa, mantenuta per sei anni, il C. credette di essere sciolto allorché venne a sapere che la proprietà della scoperta spettava a Scipione Dal Ferro. Il comportamento del C. provocò l'ira del Tartaglia che nei suoi Quesiti et inventioni diverse (1546) lo accusò di spergiuro e lo provocò con parole offensive, ripetute nel General trattato di numeri et misure (1556-1560), opera divenuta notissima ai matematici e che perciò contribuì non poco a deprimere nei posteri la fama del Cardano.
La sua opera più famosa, il De subtilitate, iniziata nel 1534, comparve a stampa a Norimberga nel 1550. Divisa in ventuno libri, è una sorta di mastodontica enciclopedia delle scienze naturali che contiene un po' di tutto: dalla cosmologia alla costruzione di macchine; dalle leggi della meccanica alla criptologia; dall'utilità delle scienze della natura al nefasto influsso dei demoni. Tradotta in francese da Richard Le Blanc, e pubblicata a Parigi nel 1556, l'opera ebbe un grande successo, che invano si sforzò di contrastare - ponendosi dal punto di vista dell'ortodossia cattolica - Giulio Scaligero nell'opera Exotericarum exercitationum liber quintus decimus, uscita a Parigi nel 1557, alla quale il C. replicò con una Apologia adversus calumniatorem pubblicata in appendice all'edizione di Basilea del De subtilitate (1560). Una sorta di prosecuzione di questa ultima opera è il De rerum varietate, in diciannove libri, iniziata nel 1538 con la collaborazione di Lodovico Ferrari (che la trascrisse interamente) e pubblicata a Basilea nel 1557.
Nel 1554 pubblicò il De Astrorum iudiciis, l'operetta che contiene il famigerato oroscopo di Cristo, e un calcolo astrologico sulla fine del mondo. Ancora importanti dal punto di vista fisico-matematico sono l'Opus novum de proportionibus numerorum,motorum,ponderum,sonorum,aliarumque rerum mensurandarum... Item de aliza regula liber, Basileae 1570, nonché il Liber de ludo aleae (pubblicato per la prima volta negli Opera omnia), frutto della passione del C. per il gioco dei dadi, e contenente un interessante calcolo delle probabilità.
Inedita (e pubblicata postuma da Gabriel Naudé a Parigi nel 1643) rimase pure l'autobiografia del C., il De propria vita, composta a Roma nell'estrema vecchiaia (dal settembre 1575 al maggio 1576), quando il C. fruiva della pensione di Gregorio XIII. Allo stesso papa il C. aveva rivolto una supplica nella quale prometteva di emendare i propri errori ("errori, e non heresia"), se gli fossero stati segnalati, e si offriva di scrivere una propria apologia, per mostrare di non essere mai stato un eresiarca (Vacca, pp. 22 s.). La realizzazione di questo progetto sembra appunto essere il De propria vita: un'opera scritta sul modello del De vita Caesarum di Svetonio (non secondo un ordine cronologico, ma raggruppata per argomenti, attività, ecc.) che, nonostante il suo carattere apologetico, per la sua apprezzabile sincerità costituisce tuttora il principale documento sulla vita e la personalità del C. (insieme con il suo Liber de libris propriis, Lugduni 1557). 2 oggi l'opera più letta del C.: oltre a molte traduzioni in italiano (Milano 1821 e 1922; Torino 1945) ne esistono anche in tedesco (Jena 1914), in inglese (New York 1930), in francese (Paris 1936). Quest'ultima, dovuta a Jean Dayre, riporta anche il testo latino con le varianti di un manoscritto del sec. XVII, conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano.
La produzione letteraria del C. riflette le caratteristiche peculiari della sua personalità: geniale ma caotica, alternante un acuto spirito critico a una credulità infantile, minata nel suo equilibrio da un temperamento psicopatico (aspetto, quest'ultimo, che richiamò l'attenzione di Cesare Lombroso e della sua scuola). Da un punto di vista culturale e filosofico, il C. affonda le sue radici nell'aristotelismo padovano, con venature averroistiche, pur risentendo, d'altra parte, di confuse influenze neoplatoniche. Dal suo pensiero, non sistematico e spesso contraddittorio, emerge una concezione dell'animazione universale che lo pone tra Telesio e Bruno, cui si accompagna un modo di concepire l'anima umana prettamente naturalistico - e a tratti sensistico - dove il problema dell'immortalità è risolto in senso non personale e totalizzante. Su questo impianto metafisico si svolge una filosofia morale che risente di forti - per quanto celati - influssi machiavellici, e che, con la sua concezione "politica" delle religioni, e la sua visione naturalistica e spregiudicata della vita politica servirà da tramite alle correnti libertine. Ma è specialmente nel campo delle scienze naturali che la sua impostazione filosofica produce i frutti migliori, aperta com'è ad una concezione non dogmatica dei problemi. Giacché se l'insegnamento degli antichi viene confermato dalla ragione e dall'esperienza e se Aristotele e Galeno sono reputati superiori ai dotti contemporanei, l'età moderna, con le grandi scoperte geografiche, la stampa e la polvere da sparo, è riconosciuta come un momento di progresso nei confronti delle epoche precedenti. Non sempre la revisione del C. nei confronti del sapere tradizionale rappresenta un vero progresso per le scienze. A volte egli sembra sfiorare, per quanto confusamente, nuove conquiste conoscitive, come quando, riducendo a tre gli elementi fondamentali, e omettendo il fuoco, concepito come aria che brucia, sembra intuire l'esistenza dell'ossigeno; ma altre volte si pone nettamente alla retroguardia, come quando rifiuta la teoria copernicana sostenendo che il moto della Terra non potrebbe passare inosservato all'occhio umano. Se scarso è il contributo del C. nel campo delle scienze mediche, biologiche e chimiche, se consistente è la sua impostazione magica e astrologica, più valido è il suo contributo nel campo della meccanica. Descrisse numerosi dispositivi meccanici inventati da lui o da altri, e tra questi la cosiddetta "sospensione cardanica", che egli attribuisce a un tal Iannello Turriano da Cremona. In campo teorico, seppe trovare una via di mezzo tra i sostenitori della teoria aristotelica che attribuivano ad impulso dell'aria il moto dei proiettili e i fautori della teoria dell'impeto, ritenendo il proiettile mosso all'inizio della traiettoria da un impeto impressogli dal proicente, ma successivamente accelerato per effetto dell'agitazione dell'aria, e osservando acutamente che la traiettoria descritta dai proiettili non è rettilinea nella parte centrale, ma è una linea "che imita la forma della parabola". Giunse inoltre ad affermare l'impossibilità del moto perpetuo - tranne che nei corpi celesti - mentre ancora ai suoi tempi, e anche molto dopo, erano numerosi i tentativi di ottenerlo. Importanti sono anche i contributi del C. all'idrodinamica: contro la credenza del tempo, egli osserva che in un condotto d'acqua fluente, l'acqua non risale all'altezza da cui è scesa, ma ad una altezza minore e tanto minore quanto più lungo è il condotto; confuta l'aristotelico "orrore del vuoto" e ritiene che i fenomeni attribuiti ad esso vadano invece spiegati con la "forza della rarefazione"; ricerca la misura della portata dei fiumi e la ritiene proporzionale alla sezione e alla velocità; osserva che l'acqua dei fiumi preme contro le sponde, e infine, contro il parere dei contemporanei, sostiene che gli strati superficiali dell'acqua corrente sono più veloci degli strati profondi.
Ma il maggior merito scientifico del C. è costituito dai contributi alla matematica. Già nella Practica arithmetice dimostra non comuni capacità matematiche nell'esposizione di molti originali artifici di calcolo mnemonico e nella sicurezza con la quale trasforma espressioni ed equazioni algebriche, pur non disponendo del relativo simbolismo, perché l'algebra del tempo era ancora "retorica", cioè espressa con le parole. La padronanza del calcolo gli consentì di risolvere anche qualche equazione di grado superiore al secondo, mentre l'algebra contemporanea arrivava soltanto alla soluzione di equazioni di secondo grado. Nell'Arsmagna, poi, si trovano organicamente esposte le principali novità algebriche, tra le quali sono da ricordare: la regola di soluzione, oggi detta cardanica, dell'equazione di terzo grado ridotta (cioè, mancante del termine di secondo grado); le trasformazioni lineari che servono per far sparire il termine di secondo grado in un'equazione cubica completa (che Tartaglia non sapeva risolvere); l'osservazione che un'equazione di grado superiore al primo ammette più radici; l'abbassamento di grado di un'equazione, quando se ne conosca una radice; la soluzione, applicata a un gran numero di problemi, dell'equazione di quarto grado, dal C. attribuita al suo discepolo Lodovico Ferrari; la ricerca delle soluzioni approssimate di un'equazione numerica col metodo delle parti proporzionali e l'osservazione che con reiterate operazioni si possono ottenere radici sempre più prossime alle vere.
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