Ghetto
Fin dagli inizi del Medioevo si riscontra il fenomeno di nuclei ebraici della diaspora che si raccolgono in quartieri particolari, secondo una tendenza emergente anche presso altre minoranze sociali ed etniche nelle città europee di maggior sviluppo commerciale. Tali concentrazioni si creano per lo più volontariamente e senza coercizioni esterne per rispondere alle esigenze religiose e socioculturali della collettività ebraica e talvolta con scopi chiaramente difensivi e protettivi. Il fenomeno si va estendendo nei secoli XI e XII soprattutto nelle città della Francia e della Provenza, in quelle di lingua tedesca e della Spagna ai tempi della Riconquista che, per attirare gli ebrei stabilmente, consentono loro di vivere in quartieri speciali. Queste aree, spesso designate con nomi particolari (in Spagna Juderia; in Francia Juiverie; in Germania Judengasse; in Inghilterra Jewry; in Italia Giudecca; in Polonia Ulica Zydowska), non presentano quasi mai le caratteristiche di residenza coatta o segregata, mentre gli ebrei continuano ad avere contatti a ogni livello, culturale come socioeconomico, con la società cristiana circostante.Va quindi notevolmente sfumata l'idea di un quartiere, precursore del ghetto, rifugio esclusivo e residenza obbligatoria della minoranza ebraica. Anzitutto la Judengasse e la Giudecca non sempre si collocano in località fuori mano, alla periferia dei centri abitati, a ridosso o all'esterno della cinta muraria; in molti casi si trovano in pieno centro cittadino, vicino al mercato (Tolone, Marsiglia), nei pressi di cattedrali e abbazie (Spira, Worms, Praga, Tudela, Carpentras) o di palazzi nobiliari fortificati, in grado di proteggere i loro abitanti da attacchi ostili (Siviglia, Saragozza, Toledo, Salon, Tarascona). La posizione periferica del quartiere non costituisce necessariamente la concretizzazione urbanistica dell'emarginazione ebraica dalla società cristiana, ma talvolta è una semplice persistenza, risalente al periodo in cui agli ebrei, oltre ad altri compiti, era affidato quello di difendere una parte delle mura dagli attacchi esterni, come in molte città spagnole ai tempi della Riconquista.
D'altronde, molte città hanno due o tre zone differenti d'insediamento ebraico, mentre in altre gli ebrei vivono dispersi in tutte le aree urbane. Comunque, anche dove essi preferiscono concentrarsi in un determinato quartiere, si trovano a vivere a fianco di famiglie cristiane e non è vietata loro la residenza in altre contrade cittadine (v. Abrahams, 1896, pp. 62-82; v. Grayzel, 1933, pp. 59-60; v. Roth, 1972). È soltanto a partire dalla fine del XII secolo che risultano precise disposizioni ecclesiastiche tendenti a limitare la presenza ebraica entro sedi designate, o a relegarla all'interno di quartieri particolari. La Chiesa medievale, che in questo periodo ha notevolmente rafforzato le proprie strutture e la propria forza di penetrazione, considera con sempre maggiore ostilità i contatti tra cristiani ed ebrei, e nel 1179 il terzo Concilio Lateranense decide di vietare la loro coabitazione.
Quasi un secolo dopo, nel 1277, il Concilio di Bourges proibisce agli ebrei, "la cui perfidia assai di frequente si fa beffe fraudolentemente dei semplici cristiani e li induce maliziosamente in errore, di abitare nelle città, nei castelli e nelle località più importanti, perché ciò costituisce pericolo di perversione" (v. Grayzel, 1933, p. 60). Nel 1267 il Concilio provinciale di Breslavia aveva posto in termini analoghi le condizioni di residenza degli ebrei nell'arcidiocesi di Gnesen: "Poiché il paese polacco è ancora una giovane pianta nel giardino della cristianità, affinché i cristiani non siano facilmente infettati dalle superstizioni e dai depravati costumi degli ebrei che pullulano in mezzo a essi [...] gli ebrei [...] avranno le loro case tutte insieme in qualche zona segregata della città o del villaggio, in maniera che il quartiere degli ebrei sia separato dalla dimora dei cristiani da una cinta di mura o un fossato" (v. Kisch, 1949, p. 293; v. McCall, 1979, tr. it., p. 220).
A partire dalla metà del Duecento, sulle orme di questa nuova normativa della Chiesa, si moltiplicano soprattutto in Francia, Spagna e Inghilterra le ordinanze locali che impongono la residenza coatta degli ebrei nelle località già da loro prescelte per abitarvi. La prima città a realizzare le misure segregative è Londra nel 1276. Ma generalmente, se si fa eccezione per alcune città della Francia e dei territori tedeschi, la legislazione tendente a chiudere gli ebrei in quartieri segregati resta priva di reale applicazione. Nei casi limitati in cui nel tardo Medioevo gli ebrei sono reclusi effettivamente in aree di residenza coatta - il più famoso dei quali è probabilmente quello di Francoforte sul Meno, a partire dal 1460 - tali aree non sono mai chiamate 'ghetti', perché questo termine ha origine a Venezia e passa a significare il quartiere segregato per gli ebrei soltanto nel Cinquecento.
È infatti nella primavera del 1516 che il Senato veneziano decide di recludere gli ebrei in un'area separata, chiamata 'ghetto' o 'geto' (da 'gettare'), perché in precedenza era stata sede delle fonderie della città, dove si gettavano le bombarde e i cannoni della Repubblica. Benché sia indubbia l'origine veneziana e non ebraica del termine ghetto, è importante notare, per i suoi risvolti psicologici, che gli ebrei in genere preferiscono fin dagli inizi attribuirgli una trasparente etimologia ebraica, facendolo derivare dalla parola ghet, 'divorzio'. Il ghetto segnerebbe infatti il momento culminante e significativo della separazione e del divorzio della società cristiana da quella ebraica, e con esso il rifiuto di quella convivenza e 'conversatione', spesso aperte, amichevoli, e basate sulla tolleranza e il rispetto reciproco, che agli occhi di molti ebrei, soprattutto in Italia, avevano caratterizzato il periodo precedente del Medioevo e del Rinascimento (v. Toaff, 1973).
Il termine ghetto, nel suo nuovo significato di area di emarginazione, si diffondeva ben presto al di là della laguna. Nel 1555, durante la Controriforma, quando la Chiesa adotta una politica conversionistica aggressiva nei confronti degli ebrei, Paolo IV emette la bolla Cum nimis absurdum, dove, tra le misure repressive di cui fa oggetto la minoranza ebraica, emerge quella di relegarli in quartieri di residenza coatta in tutte le località dello Stato pontificio. Nello stesso anno gli ebrei di Roma sono rinchiusi in un'area segregata, sulle sponde del Tevere, povera e malsana, che dapprima viene designata con il nome di 'serraglio dei giudei' e successivamente, dal 1562, sull'esempio del precedente veneziano, con quello di ghetto. La politica pontificia di segregazione viene ben presto seguita da molti Stati italiani, che rinchiudono i loro ebrei in ghetti di nuova istituzione: a Firenze e Siena nel 1571, a Verona nel 1599, a Padova nel 1601, a Mantova nel 1612.
In seguito, il termine ghetto viene esteso a designare ogni quartiere densamente o prevalentemente abitato da ebrei, anche in località dove a questi è lecito risiedere altrove o dove in effetti non mancano gli ebrei che vivono in altri quartieri a prevalente popolazione cristiana. Più tardi ancora, esso viene a indicare aree urbane densamente popolate da minoranze etniche, per motivi di ordine socioeconomico più che come conseguenza di una specifica legislazione di carattere segregativo, che rimane limitata al caso dei ghetti ebraici italiani nel periodo della Controriforma. È soprattutto Wirth a sottolineare come oggi la parola ghetto non designi specificamente il luogo di insediamento degli ebrei in una determinata città, ma piuttosto aree culturali locali, sorte col tempo e volontariamente scelte e sviluppate da una minoranza etnica. Particolarmente essa è passata a indicare quei quartieri in cui risiedono i gruppi più poveri e arretrati della popolazione urbana (v. Wirth, 1928; tr. it., pp. 11-15).
Ad esempio, storicamente in America con ghetto si designa l'area del primo insediamento di un nucleo d'immigrati, la loro prima dimora, che talvolta può coincidere con il quartiere dove in passato sono vissuti gli ebrei, ma che in seguito è stato abitato da altre minoranze. Sulle orme di Wirth, Cavalli individua due tipi ideali di ghetto, dalla cui combinazione nascerebbero le forme storiche concrete del ghetto: il ghetto come forma stabile di dominio e come espressione del pregiudizio razziale (realizzato nei suoi aspetti di segregazione e d'isolamento sociale coatto soprattutto nei ghetti ebraici europei e italiani della Controriforma), che costituirebbe lo stadio finale della marginalità; il ghetto come struttura sociale temporanea, che accompagna i processi di migrazione e trova espressione, ad esempio, in America nei quartieri dove minoranze etniche d'immigrati vivono in condizioni d'isolamento fisico e sociale (v. Cavalli, 1968, pp. XIII-XV). Il secondo costituirebbe, a differenza del primo, uno stadio verso l'assimilazione e l'integrazione della minoranza.
In questo senso anche Park sostiene l'esigenza che il sociologo non veda nel ghetto soltanto l'esperienza di un dato popolo in uno specifico contesto storico, ma piuttosto un capitolo nella storia culturale dell'uomo (v. Park, Foreword, 1928, pp. IX-X). Alcune teorie recenti si oppongono decisamente a quella che definiscono una dilatazione arbitraria dei significati del ghetto. Non si dovrebbe parlare di segregazione né a proposito dei cosiddetti ghetti europei della prima età moderna e neppure a proposito dei quartieri ebraici medievali precedenti. Sarebbe legittimo il riferimento ai ghetti nel senso di aree residenziali coatte per gli ebrei nell'Europa preindustriale soltanto per quanto concerne la situazione italiana e quella di sporadiche località nei territori tedeschi.
La grande diaspora ebraica in Polonia e in Russia, caratterizzata principalmente dalla dispersione in una miriade di insediamenti minori in villaggi rurali, non avrebbe conosciuto la segregazione in quartieri particolari, cinti da mura ed eretti a sancire la separazione degli ebrei dai loro vicini cristiani. Per Ravid, se vogliamo usare il termine ghetto nei suoi significati originari, in connessione con la diaspora ebraica nei paesi dell'Europa orientale, l'unica possibilità di riferimento rimane quella del periodo successivo all'occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale (v. Ravid, 1987, pp. 244-247, e 1988). Ma allora emergerebbe in tutta la sua evidenza una differenza basilare tra i due modelli. Diversamente dai ghetti di tipo italiano, stabiliti con caratteri definitivi per fissare lo status della minoranza ebraica nei confronti della maggioranza cristiana mediante la sua emarginazione e segregazione, i ghetti nazisti non costituirebbero che una tappa nel viaggio pianificato verso la soluzione finale del problema ebraico.
La marginalità implica uno statuto più o meno formale all'interno della società e si riferisce a una situazione che, almeno teoricamente, può essere transitoria. La realtà storica è costituita da fenomeni di emarginazione, che possono portare tanto all'esclusione, cioè a una rottura, talvolta ritualizzata, in rapporto al corpo sociale, quanto al recupero e all'integrazione, che esprime la perdita di una posizione marginale in seno alla società (v. Schmitt, 1978; tr. it., pp. 262-277). In questo senso la marginalità è una condizione instabile, fragile ed effimera. Per Geremek la marginalità concerne due piani di realtà sociale, che spesso non coincidono: 1) il piano socioculturale; 2) il piano delle relazioni socioeconomiche. Un individuo o un gruppo possono essere inseriti nei rapporti di produzione, pur non accettando le norme etiche della società in cui operano o essendo esclusi dalla gerarchia di valori che le è propria (v. Geremek, 1976, pp. 12-21; 1987, p. 419). Nella società medievale gli ebrei, che pure sono inseriti nel sistema socioeconomico di molti paesi europei, al cui interno operano come elementi d'importanza non secondaria, sono quasi sempre dei marginali, se non degli esclusi, sul piano socioculturale. In questo senso godrebbero di una posizione di marginalità parziale ed elastica, in funzione del loro ruolo di 'utilità sociale' rispetto alla società cristiana che li ospita. I criteri di 'utilità sociale' costituiscono nel Medioevo la linea di discriminazione che decide dell'integrazione dei marginali, e tra questi degli ebrei usurai come dei mercanti, quando la collettività si attende da loro benefici e vantaggi materiali, ritenendo che la sicurezza dei beni, delle persone e dell'ordine costituito non ne venga minacciata. Gli ebrei, deicidi e pregiudicati dalla dura cervice, sono emarginati e separati dalla comunità dei fedeli in Cristo sul piano socioculturale. Ma proprio in quanto tali, trovandosi al di là dei limiti della morale religiosa, che li esclude, si vedono concesso l'ambivalente ruolo di detentori del prestito usurario, vietato ai cristiani ma loro necessario. Ecco quindi che proprio l'usura, che spesso nel Medioevo viene fatta rientrare nei criteri dell''utilità sociale', costringe de facto la società cristiana a recuperarli e a integrarli, almeno parzialmente, con un prodigioso sforzo di legittimazione, a dispetto delle norme etiche che li spingono ai margini.
È comunque da tener presente la prudenza metodologica di chi sottolinea come le relazioni socioeconomiche da sole non annullino ipso facto la condizione di marginali, neppure in maniera provvisoria. I rapporti commerciali sono infatti possibili anche quando non esista altra forma di contatto tra due gruppi, essendo basati su astrazioni e su considerazioni razionali e impersonali, e non sulle emozioni o sulla esigenza di rapporti sociali (v. Park, Human migration..., 1928, p. 891; v. Wirth, 1928, tr. it., p. 27). Comunque l'ambiguità dell'atteggiamento cristiano nei confronti degli ebrei è sempre riscontrabile nei paesi europei durante il Medioevo, e i livelli della loro marginalizzazione e segregazione nella società urbana sembrano essere variabili da luogo a luogo (in Italia e Spagna meno severi che in Germania) e da periodo a periodo nello stesso luogo (nell'Italia della Controriforma assai più severi che nel tardo Medioevo e nel Rinascimento). Come osserva bene Le Goff (v., 1983, p. 172) "la società cristiana sembra detestarli e ammirarli ad un tempo, ne ha paura in una mescolanza di attrazione e di terrore; li tiene a distanza, ma fissa questa distanza ad un livello abbastanza vicino tanto da averli alla propria portata".
L'uomo del Medioevo colloca le sue fantasie e i suoi sogni esotici al di là dei 'margini' del mondo che conosce (i paesi dei neri etiopi, le terre del prete Gianni, i mostri, i buoni selvaggi che ignorano il peccato originale e praticano la libertà sessuale in un paradiso dove la nudità, l'incesto e l'erotismo sono fenomeni naturali), proiettando nell'ignoto una sorta di mondo capovolto. Ma questo si rivela un gioco assai pericoloso, perché restituisce nuovamente rovesciate quelle stesse immagini, inserendole nel vivo dei conflitti religiosi e sociali. Gli ebrei, e con essi eretici, streghe, zingari e prostitute, sono accusati delle peggiori nefandezze e la loro persona è avvolta da un alone d'impurità e malvagità. Turpitudine di costumi e promiscuità nei rapporti sessuali sono tra le loro caratteristiche salienti.
A partire dalla seconda metà del XIII secolo, numerosi statuti e leggi locali, in Francia, in Provenza, nei territori tedeschi, ma anche in talune città italiane (in Piemonte, in Umbria, nel Veneto e in Sicilia), accomunano ebrei, lebbrosi e meretrici nell'esclusione sociale. Agli ebrei, considerati 'intoccabili', è vietato anche il contatto con le mani dei cibi, della frutta e della verdura esposti sui banchi del mercato, contatto che è considerato causa di corruzione e d'inquinamento (v. Kriegel, 1976; v. Toaff, 1989, pp. 81-108). I rapporti sessuali di cristiani con ebrei sono puniti severamente e paragonati a quelli con i lebbrosi.
Una tappa fondamentale nel tragitto dalla marginalità all'esclusione nei ghetti è costituita dal segno distintivo. L'imposizione della rotella gialla sugli abiti, prevista nei paragrafi del quarto Concilio Lateranense nel 1215, e applicata generalmente nelle città italiane a partire dalla fine del Trecento dietro le pressioni degli ordini mendicanti, è giustificata con la preoccupazione di limitare la possibilità di rapporti sessuali tra ebrei e cristiani. Verso la metà del Quattrocento fra' Roberto Caracciolo, nelle sue prediche, poi raccolte nello Spechio della christiana fede, fa riferimento alle Decretali di Gregorio IX e non ha esitazioni in proposito: "Che li iudei portino el signo sì che siano cognosciuti tanto mascoli quanto donne, acciò che per errore non si imbrattino li christiani con le iudee, né le christiane con li iudei". È da notare che per le donne ebree il segno distintivo viene fissato negli orecchini a cerchio, che nel Quattrocento finiscono con lo scomparire dalla moda femminile nelle città italiane e sono relegati nell'opinione comune a simboli di lussuria e malcostume, accomunando le donne ebree alle prostitute dei bordelli (v. Owen Hughes, 1986, pp. 21-59; v. Toaff, 1989, pp. 214-219).
È indubbio che sussistono di volta in volta precisi elementi condizionanti sotto il profilo storico, che consentono di spiegare la segregazione nei ghetti nelle sue varianti cronologiche e geografiche, come pure nella diversa severità della sua applicazione, riferendosi a contingenti ragioni politiche e socioeconomiche. Esse servono a qualificare i differenti riflussi antisemitici che promuovono la ghettizzazione degli ebrei, inserendoli nella loro ambientazione temporale e nella dinamica del rapporto con gli altri elementi della società. Ma il fenomeno nella sua vastità e continuità cronologica assume storicamente gli aspetti di un'opzione latente e permanente, di cui la maggioranza decide di servirsi quando un gruppo minoritario (gli ebrei in questo caso), inserito in un certo contesto sociale e religioso, resistendo a esso e ai suoi schemi ideologici e socioculturali, è percepito come pericoloso e destabilizzante. In questo caso il malessere della società maggioritaria, le cui origini possono essere diverse, e la sua crisi di identità si scaricano in tensioni irrazionali collettive, che trovano sfogo nella persecuzione e nell'emarginazione delle aree minoritarie.
L''ostinazione ebraica' viene così punita dalla maggioranza cristiana nell'Europa della prima età moderna con la segregazione nei ghetti o l'espulsione, che costituiscono le due facce della stessa medaglia, mentre la liceità morale di tali misure viene sostenuta con il ricorso a motivazioni di carattere socioeconomico (gli ebrei parassiti, che dissanguano la società cristiana mediante l'usura; gli ebrei disintegratori dei valori socioculturali e religiosi della società cristiana) e a una tematica trascendentale giustificativa (gli ebrei deicidi; la maledizione divina, collettiva ed etnica, sul popolo che ha rifiutato il Messia; gli ebrei puniti da Dio perché refrattari alla conversione alla vera fede) (v. Oberman, 1988, pp. 128-134).
In altre parole, quando la società cristiana avverte maggiormente l'estraneità ebraica e la sua resistenza all'assimilazione dei modelli socioculturali predominanti - e ciò avviene soprattutto nei periodi di crisi - il fenomeno antisemitico si alimenta di sotterranee istanze irrazionali, variamente ideologizzate sul piano teorico, storico, socioeconomico, culturale e religioso, volte a scaricare in funzione liberatoria le tensioni collettive della maggioranza sulle minoranze sociali, etniche e religiose. Nel caso degli ebrei, spesso la loro resistenza all'assimilazione e alla propria disintegrazione culturale e religiosa viene punita mediante la regolamentazione di un rapporto definito giuridicamente e istituzionalmente, che trova nella segregazione dei ghetti uno dei suoi cardini. La minoranza ebraica va segregata o espulsa per proteggere una società cristiana chiusa e uniforme, spesso terrorizzata ad arte con lo spauracchio di pericoli immaginari. La forzata segregazione della realtà ebraica esprime la volontà della maggioranza di controllare e umiliare una minoranza, dopo che sono falliti gli sforzi per assimilarla. La relativa libertà religiosa e socioeconomica, di cui l'ebreo ha goduto spesso in precedenza, lo ha fatto ormai assurgere a simbolo d'insicurezza per una società cristiana malata e in recessione. Va quindi rimosso e allontanato dalla vista, perché è divenuto uno specchio deformante dei suoi mali e delle sue magagne (v. Szasz, 1970; tr. it., p. 310).
In effetti il mondo cristiano, a partire dal tardo Medioevo, tende sempre più alla segregazione degli ebrei, proponendo le proprie strutture e i propri valori in chiave di validità esclusiva rispetto all'alterità destabilizzante rappresentata dalla specificità culturale ebraica, che si esprime non soltanto in ambiti astratti, teorici e ideologici, ma anche nel quotidiano, nel politico, nel socioeconomico. In Italia il ghetto è lo spartiacque nella storia dei rapporti tra cristiani ed ebrei in una società, quella del Medioevo e del Rinascimento, tendenzialmente e pragmaticamente tollerante e pluralistica. È il prodotto di un lento e costante processo, acuitosi nella seconda metà del Quattrocento, che porterà al crollo della ragione, triste appannaggio della Controriforma.
In effetti i tentativi di segregare gli ebrei in un quartiere particolare, loro destinato, sono fino alla metà del XV secolo sporadici e di breve durata. Ci prova nel 1312 Federico III, ordinando agli ebrei di Palermo di sgomberare la città per ridursi in una località fuori le mura "sicché siano separati dai fedeli in Cristo". Ma il suo provvedimento resta senza pratica attuazione. Circa un secolo dopo, nel 1427, è la volta di Giovanna II che, dietro le pressioni di fra Giovanni da Capistrano, impone agli ebrei di Lanciano negli Abruzzi di confinare le loro case in una sola strada periferica. Ma anche in questo caso la disposizione ha breve vita e viene abrogata due mesi dopo, senza che sia dato principio alla sua attuazione. I Savoia ripetono più volte il tentativo di segregare gli ebrei residenti nei loro territori e Amedeo VIII, nel 1430, raccomanda il progetto "perché le menti dei fedeli non siano corrotte dalla vicinanza con gli ebrei [...] e per evitare qualunque dannata commistione tra uomini e donne cristiani ed ebrei".
Ma è assai dubbio che questi ghetti piemontesi ante litteram siano stati mai eretti. È soltanto nella seconda metà del Quattrocento, e soprattutto verso la fine del secolo, che si moltiplicano gli sforzi di imporre agli ebrei la residenza coatta, facendoli sloggiare dai quartieri abitati in precedenza, spesso nelle zone signorili della città. È questo il caso di Bari nel 1463, Cesena nel 1487 e probabilmente Ravenna nel 1492. I ghetti, ufficialmente istituiti in Italia soltanto a partire dal XVI secolo, sono direttamente preannunciati da queste interdizioni (v. Poliakov, 1967; tr. it., p. 157). Se quindi è vero che il primo ghetto a essere fondato è quello di Venezia nel 1516, seguito da quello di Roma, voluto da Paolo IV nel 1555, gli immediati prodromi dell'istituzione vanno ricercati nell'ultimo scorcio del XV secolo, nel periodo della fondazione dei primi Monti di pietà e della grande predicazione antiebraica dei minoriti.
La polemica francescana lega infatti apertamente l'istituzione dei Monti di pietà, intesi a sostituire e a punire l'usura ebraica, con la promozione dei ghetti di residenza coatta per gli ebrei, per impedire anche fisicamente ogni amichevole commistione tra questi e la vulnerabile società cristiana. Chiarisce assai bene questo punto la petizione rivolta nel 1493 dai rappresentanti di Spoleto al governatore apostolico Giovanni Borgia: "Proponiamo che in futuro sia proibito agli ebrei di prestare ad usura e i loro capitoli vengano annullati, dato che a Spoleto è stato fondato un Monte di pietà, al quale possono fare ricorso per le loro necessità i cittadini poveri e indigenti; e poiché il diritto canonico proibisce che gli ebrei, in pregiudizio della fede cristiana, abitino in mezzo ai cittadini cristiani, perché altrimenti questi potrebbero esserne in qualche modo influenzati, a causa della mala fede degli ebrei, commettendo atti contrari alla consuetudine ed in pregiudizio della religione, si disponga che essi vadano ad abitare in luogo lontano e separato dai cittadini cristiani, alla periferia della città, sicché questi non siano costretti a vedere i loro malvagi costumi".
In altre parole, una volta che il credito ebraico è stato sostituito e soppiantato dai Monti di pietà e il problema della presenza degli ebrei in seno alla società cristiana non è più giustificabile nei termini dell''utilità sociale', che in precedenza ne ha consentito l'integrazione, almeno parziale, non rimangono aperte che le alternative dell'emarginazione totale, dell'espulsione o del ghetto (v. Toaff, 1989, pp. 227-230). L'ostilità, di cui si fanno portavoce principalmente gli ordini mendicanti, evidenzia un crescente timore nei confronti della proposta etico-economica, rappresentata dalla gestione ebraica del mercato del denaro e del commercio, e più in generale l'intenzione di rimuovere dal proprio interno, segregandola, una minoranza religiosa demonizzata e caricaturizzata per i suoi specifici codici comportamentali e i suoi modelli religiosi, politici e socioeconomici.
Il serraglio degli ebrei è il prodotto dell'insofferenza cristiana per una specificità culturale che si ritiene abbia avuto l'ardire di presentarsi in alternativa all'universo totalizzante della maggioranza. La sua strada è preparata, prima che dai roghi delle persone, da quello dei libri, come il Talmud e gli altri testi giuridici e religiosi, sequestrati alle comunità ebraiche e bruciati a migliaia di copie nelle piazze dell'Europa cristiana dall'Inquisizione. Ma come abbiamo sottolineato, ghettizzazione e segregazione, da una parte, ed espulsione dall'altra, non sono che due facce della stessa moneta con la quale una società cristiana, quella della Controriforma, ormai chiusa e uniforme, intende saldare i conti con tutti i gruppi dei marginali, e non soltanto con gli ebrei. Verso la metà del Cinquecento, ad esempio, ebrei e zingari sono sulla stessa barca, in un mare che è ormai in tempesta. In molte città europee il problema della presenza degli zingari è trattato insieme a quello della presenza degli ebrei, e mentre per questi si prospetta il concentramento in quartieri di residenza coatta, per gli zingari la sola via aperta è quella dell'espulsione. Solo più tardi, nel 1576, il Concilio di Napoli ammette anche per gli zingari, come per gli ebrei, la segregazione nei ghetti come unica possibile alternativa all'espulsione (v. Geremek, 1982, pp. 40-41; v. Toaff, 1989, pp. 230-232).
Paradossalmente, è spesso proprio il ghetto a provocare una più decisa e intensa cristallizzazione della connotazione autonoma e irriducibile del mondo ebraico e dei suoi schemi socioculturali, ponendo fine a quegli incontri e scambi con la società circostante che caratterizzano i periodi in cui la segregazione non è istituzionalizzata. Richiamandosi ai concetti di santità e di separazione dalle genti, presenti nella tradizione biblica e arricchiti dall'esegesi rabbinica, talmudica e midrashica, l'ebreo rinchiuso nel ghetto, umiliato, degradato, vittima di ogni sorta di violenze e prevaricazioni, trova nel suo patrimonio culturale e religioso, contrapposto a quello di chi lo ha emarginato e segregato, motivi di conforto nelle amarezze, di fuga dalla disperazione, di fiducia messianica in un avvenire che dovrà per forza di cose essere migliore del presente. È chiaro quindi che, al di là dei processi sociali oggettivi, bisogna tener conto anche dei processi sociopsicologici degli emarginati, che nascono dalla consapevolezza della diversità della loro situazione.
In questo senso il ghetto non rappresenta soltanto l'isolamento degli ebrei dalla società circostante, ma significa anche la loro autonomia, che si concretizza a tutti i livelli, culturale, religioso, educativo, giuridico, amministrativo, sociale e sanitario. Il ghetto viene così a perpetuare la solidarietà del gruppo, ne rafforza i legami culturali e religiosi, protegge le peculiarità del suo patrimonio spirituale, trasforma e riutilizza le barriere esterne imposte in funzione difensiva dai pericoli dell'acculturazione e dell'assimilazione, impostando sempre più in termini manichei il suo rapporto con il mondo circostante. Nel microcosmo della comunità forzatamente isolata, le istituzioni religiose, culturali e assistenziali, che hanno il loro centro nella sinagoga dove si concretizza a tutti i livelli l'unità del gruppo, organizzano e controllano fin nei minimi particolari, tanto nel quotidiano che nell'evenemenziale, la vita dei suoi membri. Le cariche e le funzioni dei singoli in seno alla comunità, le nomine e le elezioni agli incarichi del gruppo sono esageratamente enfatizzate, con intenti chiaramente compensatori sul piano psicologico. Fino a che la comunità è in grado di mantenere se stessa e di conservare l'integrità delle sue strutture, essa si pone come rifugio, come alternativa rassicurante al mondo esterno, infido e ostile, offrendo ai suoi membri il conforto della religione e delle tradizioni. L'ebreo, umiliato e privato della libertà al di là delle mura del ghetto, la ritrova nelle pareti domestiche e nella sinagoga, pregando nella sua lingua sacra, incomprensibile ai gentili, o seguendo con orgoglio le variopinte processioni dei rotoli della Legge nei sudici vicoli del suo quartiere.
È chiaro d'altra parte come queste connotazioni del ghetto non possano non accompagnarsi a un ripiegamento su se stessi. L'ebreo segregato, cedendo di fronte alla realtà, si sottrae a essa, quasi per non avvertirne più la dimensione drammatica, instaurando con Dio un rapporto di tipo ascetico-contemplativo, e intorno a lui, per soddisfarne i bisogni e rafforzarne la solidarietà familiare e comunitaria, proliferano le confraternite pie, che si occupano dello studio della tradizione, con prevalenti tendenze mistico-ascetiche. Spiritualmente e psicologicamente l'ebreo del ghetto è pronto a ricevere quel che gli offre la Cabbala: un'interpretazione mistica della storia, che si pone al di là della storia stessa e gli offre la possibilità d'inserirsi attivamente nel processo apocalittico che ne prepara e affretta la totale liquidazione nell'attesa messianica (v. Sachar, 1958, pp. 25-31; v. Yerushalmi, 1982, tr. it., p. 87; v. Israel, 1985, pp. 72-74). C'è quindi chi considera la vita intellettuale e culturale degli ebrei, chiusi nel ghetto, sterile e improduttiva, contaminata come è da forti componenti di ascetismo masochista. La loro esistenza sarebbe livellata a un comune denominatore, che ne rispecchierebbe la mancanza di significato, essendo improntata all'odio verso la minacciosa società circostante che li disprezza e umilia, ponendoli in una condizione di costante pericolo, e all'odio verso se stessi, per la propria incapacità di difendersi e per il servilismo cui sono stati ridotti. La loro vita intellettuale avrebbe perso il gusto dell'avventura e sarebbe divenuta espressione di un popolo immerso in una condizione di perpetua ansietà. Nella polemica definizione di Spinoza, l'ebraismo del ghetto sarebbe divenuto culturalmente 'effeminato', svirilizzato, avendo privato di ogni vigore, con disperato masochismo, i propri modelli culturali (v. Feuer, 1963; tr. it., pp. 271-276).
La segregazione, fra le tante conseguenze, ha anche quella di provocare notevoli differenziazioni fra ebrei e cristiani quanto alla lingua parlata, un fenomeno quasi sconosciuto in precedenza, dato che nei ghetti si vengono in genere conservando senza ulteriore evoluzione, o meglio con sviluppi particolari e rallentati, le parlate in uso nelle singole località al momento della clausura. Di queste parlate arcaiche restano tracce ancora oggi in talune località, già sedi di ghetti (v. Colorni, 1968, p. 831).
È sorprendente soltanto all'apparenza il fatto che l'ebraismo del ghetto finisca con l'attribuire una connotazione positiva alla propria condizione di isolamento, che consentirebbe il rafforzamento dei legami religiosi e della solidarietà di gruppo. Non c'è quindi da stupirsi se in Italia, nei ghetti di Verona e di Mantova, si commemorava annualmente in sinagoga, con una speciale liturgia festiva, la data di reclusione degli ebrei all'interno delle mura del ghetto. Al ripetersi di ogni anniversario la sinagoga si illuminava come nelle grandi occasioni. Venivano letti i salmi festivi, mentre i rotoli della Legge erano portati in processione, scortati da torce accese e al canto di inni di giubilo. Seguiva poi la predica commemorativa del rabbino, che si apriva di consueto con le parole: "In questo giorno il Signore fece uscire il popolo di Israele di mezzo alle genti e fece per noi miracoli e prodigi; perciò noi celebriamo in festa e letizia, a ricordo eterno e perpetuo, il nostro felice ingresso in questa clausura". Il celebre rabbino veneziano Leon da Modena (1571-1648) si congratulava con i capi della comunità ebraica di Verona, da poco rinchiusa nel ghetto, vedendo in quell'avvenimento "il segno divino della prossima riunione degli esuli di Israele e della redenzione" (v. Roth, 1924; tr. it., pp. 35-37). I processi sociopsicologici degli emarginati portavano inevitabilmente alla giustificazione della propria clausura in termini religiosi e al capovolgimento della sua immagine e dei suoi significati originari, che venivano ad assumere nuove connotazioni, benefiche e provvidenziali.
L'isolamento sociale provoca conseguenze di vasta portata sul piano biologico, caratteriologico e demografico. Da una parte l'endogamia, prevalente o esclusiva, segna sempre più la tipologia fisica dell'ebreo; dall'altra, la minaccia permanente costituita dal mondo esterno ne sottolinea i caratteri di ansietà, di aggressività e d'intraprendenza, rafforzando contemporaneamente i vincoli di solidarietà familiare e comunitaria. La vita nei ghetti si rivela dunque insalubre non soltanto dal punto di vista sanitario, poiché incide nel fisico di chi vi si trova recluso, ma anche da quello psichico ed emotivo. La paura scuote l'equilibrio psichico e porta al proliferare delle malattie mentali. In ogni caso aumenta la carica di ansia e di apprensività e sviluppa le nevrosi. La tipologia dell'ebreo del ghetto è soprattutto psichica (v. Wirth, 1928; tr. it., p. 63).
A livello demografico l'urbanizzazione coatta in ambienti malsani, caratterizzati da una popolazione fortemente concentrata, presenta effetti aggravanti sugli indici di mortalità degli ebrei, incidendo inoltre sugli aspetti della loro morbilità tipica e sulle loro caratteristiche antropologiche. Forme infettive caratterizzate da alta letalità, che si manifestano in età giovanile, come la tubercolosi, mietono vittime in soprannumero durante le prime fasi del processo di ghettizzazione in Europa. Successivamente la selezione naturale e i processi ereditati d'immunizzazione favoriscono livelli inferiori di morbilità in tali forme infettive tra i discendenti. Un processo di tipo opposto si verifica invece per certe forme patologiche caratteristiche dell'invecchiamento, come il diabete, che miete schiere di vittime all'interno dei ghetti (v. Livi, 1918-1920, vol. I, pp. 149-203; v. Della Pergola, 1983, pp. 146-159).
Per ritornare alle conseguenze dell'endogamia praticata all'interno dei ghetti, che nelle condizioni di segregazione trova la sua principale spiegazione, esse si manifestano non soltanto nelle caratteristiche antropologiche degli ebrei, ma anche nell'elevata intensità di alcune forme patologiche tipiche che li colpiscono e delle cause di morte e di malformazioni collegate a tali patologie. In conclusione possiamo dire che l'incidenza negativa dei fattori legati allo stato marginale e subalterno degli ebrei nei ghetti, oltre a determinare a più riprese gravi crisi di mortalità, ha lasciato tracce profonde sulla tipologia ebraica dal punto di vista strutturale, fisico e psicosociale. (V. anche Antisemitismo; Discriminazione razziale; Giudaismo; Razzismo).
Abrahams, I., Jewish life in the Middle Ages, Philadelphia 1896.
Cavalli, A., Introduzione a Il ghetto, di L. Wirth, Milano 1968, pp. IX-XXVIII.
Colorni, V., Ghetto, in Novissimo digesto italiano, vol. VII, Torino 1968, pp. 770 ss.
Della Pergola, S., La trasformazione demografica della diaspora ebraica, Torino 1983.
Feuer, L. S., The scientific intellectual: the psychological and sociological origins of modern science, New York 1963 (tr. it.: L'intellettuale scientifico: origini psicologiche e sociologiche della scienza moderna, Bologna 1969).
Geremek, B., Les marginaux parisiens au XIVe e XVe siècle, Paris 1976.
Geremek, B., L'arrivée des tziganes en Italie: de l'assistance à la répression, in Timore e carità: i poveri nell'Italia moderna (a cura di G. Politi, M. Rosa e F. Della Peruta), Cremona 1982, pp. 27-44.
Geremek, B., L'emarginato, in L'uomo medievale (a cura di J. Le Goff), Roma-Bari 1987, pp. 393-421.
Grayzel, S., The Church and the Jews in the XIIIth century, Philadelphia 1933.
Israel, J. I., European Jewry in the age of mercantilism (1550-1750), Oxford 1985.
Kisch, G., The Jews in medieval Germany: a study of their legal and social status, Chicago 1949.
Kriegel, G., Un trait de psychologie sociale dans les pays méditerranéens du bas Moyen-âge: le juif comme intouchable, in "Annales. Économies, sociétés, civilisations", 1976, n. 2, pp. 326-330.
Le Goff, J., Il meraviglioso e il quotidiano nell'Occidente medievale (a cura di F. Maiello), Roma-Bari 1983.
Livi, L., Gli ebrei alla luce della statistica, 2 voll., Firenze 1918-1920.
McCall, A., The medieval underworld, London 1979 (tr. it.: I reietti del Medioevo, Milano 1987).
Oberman, H. A., Gli ostinati giudei: mutamento delle strategie nell'Europa tardo-medievale (1300-1600), in Ebrei e cristiani nell'Italia medievale e moderna: conversioni, scambi, contrasti (a cura di M. Luzzati), Roma 1988, pp. 123-140.
Owen Hughes, D., Distinguishing signs: ear-rings, Jews and Franciscan rhetoric in the Italian Renaissance city, in "Past and present", 1986, n. 112, pp. 3-59.
Park, R. E., Foreword, in The ghetto, di L. Wirth, Chicago 1928, pp. IX-XI.
Park, R. E., Human migration and the marginal man, in "American journal of sociology", 1928, XXXIII, pp. 881-893.
Poliakov, L., Les banquiers juifs et le Saint Siège du XIIIe au XVIIe siècle, Paris 1967 (tr. it.: I banchieri ebrei e la Santa Sede dal XIII al XVII secolo, Roma 1974).
Ravid, B. C. I., The religious, economic and social background and context of the establishment of the ghetto of Venice, in Gli ebrei e Venezia (a cura di G. Cozzi), Milano 1987, pp. 211-259.
Ravid, B. C. I., The Venetian ghetto in historical perspective, in The autobiography of a seventeenth-century Venetian rabbi (a cura di M. C. Cohen, T. K. Rabb, H. E. Adelman e N. Zemon Davis), Princeton, N. J., 1988, pp. 279-283.
Roth, C., La fête de l'institution du ghetto, in "La revue des études juives", 1924, LXXIX, pp. 163-169 (tr. it.: La festa per l'istituzione del ghetto a Verona, in "La rassegna mensile di Israel", 1928, III, pp. 33-39).
Roth, C., Jewish quarter, in Encyclopaedia Judaica, vol. X, Jerusalem 1972, coll. 81-88.
Sachar, H. M., The course of modern Jewish history, New York 1958.
Schmitt, J.-C., L'histoire des marginaux, in La nouvelle histoire (a cura di J. Le Goff), Paris 1978, pp. 277-305 (tr. it.: La storia dei marginali, in La nuova storia, a cura di J. Le Goff, Milano 1980, pp. 257-287).
Szasz, T. S., The manufacture of madness, New York 1970 (tr. it.: I manipolatori della pazzia, Milano 1972).
Toaff, A., Getto-ghetto, in "The American Sephardi", 1973, VI, pp. 70-78.
Toaff, A., The ghetto of Rome in the XVIth century: ethnical conflicts, social and economic problems, Jerusalem 1984 (in ebraico).
Toaff, A., Il vino e la carne: una comunità ebraica nel Medioevo, Bologna 1989.
Wirth, L., The ghetto, Chicago 1928 (tr. it.: Il ghetto, Milano 1968).
Yerushalmi, Y. H., Zakhor: Jewish history and Jewish memory, Seattle, Wash. - London 1982 (tr. it.: Zakhor: storia ebraica e memoria ebraica, Parma 1983).