ANTONELLI, Giacomo
Cardinale e uomo di stato, nato il 12 aprile 1806 in Sonnino. Suo nonno, semplice contadino, aveva avuto occasione di entrare nelle grazie del cardinale Gian Francesco Albani, al quale soleva recare in dono qualche suo prodotto pastorizio, che il porporato gradiva molto. Questi, che aveva avuto campo di apprezzare l'onestà e l'alacrità del vecchio A., gli aveva ottenuto le prime forniture e i primi appalti. Per tal modo, l'A. poté giungere a formarsi un discreto patrimonio, che gli permise di far educare il figlio Domenico fuori di Sonnino. Alla prima restaurazione del governo pontificio, Domenico venne scelto a prender parte ai lavori del bonificamento pontino, nei quali seppe meritarsi ampie lodi dal prefetto del buon governo. Deportato Pio VII, Domenico che era rimasto fedele al governo caduto, fu accusato di complicità nel brigantaggio, che aveva cominciato ad infuriare, non appena nelle provincie di Velletri e Frosinone s'era stabilito il governo francese. Non tardò molto a provarsi pienamente la sua innocenza. Trasferitosi a Terracina, vi aspettò il ritorno del governo pontificio, che, appena ristabilito, lo adoperò di nuovo nella direzione del bonificamento. Giacomo entrò convittore nel Seminario romano e qui e poi all'università della Sapienza studiò discretamente, ma senza mostrare nessun desiderio di abbracciare la vita ecclesiastica. Il padre, che ora bramava di elevare maggiormente sé e i suoi, pur non forzandolo a farsi prete, gli assegnò il patrimonio necessario per costituire una prelatura di famiglia. Divenuto, iI 15 luglio, referendario di Segnatura, non tardò, con la figura prestante, con il fare disinvolto, signorile, a cattivarsi la benevolenza di autorevoli cardinali e prelati, specialmente del cardinal Lambruschini, al quale sembra che dovesse nel 1835 il posto di assessore al tribunale criminale di Roma e quello di delegato apostolico, prima a Orvieto e poi a Viterbo. Scoppiato il colera in tutto lo stato (1837), ciò costituì un nuovo disastro per l'erario pontificio, che già versava in cattive condizioni finanziarie. L'A., in questa circostanza, poté far valere le sue qualità amministrative, in guisa da ottenere una relativa tranquillità in alcune delle provincie e alleggerire le condizioni dell'erario. Poco dopo, fu mandato come delegato apostolico a Macerata, dove però non pare che incontrasse molto le simpatie di quelle popolazioni.
Mentre era ancora in Macerata, fu nominato sostituto del cardinale Mario Mattei, segretario di stato per l'interno. Poco dopo, il papa Gregorio XVI lo creò canonico di S. Pietro, e gli assegnò in più una pensione di scudi 30 al mese, oltre ad averlo annoverato tra i sette protonotari apostolici permanenti. Ancora un poco, e, decisosi il cardinale Antonio Tosti ad abbandonare l'ufficio di protesoriere della reverenda Camera apostolica, la quale corrispondeva al Ministero delle finanze, veniva al suo posto nominato l'A. (5 gennaio 1845). Di lui lo Sterbini, che faceva parte di quel dicastero, scrivendo a monsignor Pecci (il futuro Leone XIII), allora nunzio a Bruxelles, il 28 gennaio, così diceva: "monsignor Antonelli agisce con volontà ed intelligenza...". Certo, l'A. non aveva nella curia emuli in fatto di finanze, tanto più che, oltre alle qualità proprie, aveva la cooperazione autorevole, sicura, cordiale, dei fratelli, divenuti influentissimi presso i cosiddetti "mercanti di campagna", i quali facevano a Roma il buono e il cattivo tempo, e, in materia economica agricola, s'imponevano a tutto lo stato. Quando l'A. perdé il padre a Ceccano (25 marzo 1845), Gregorio XVI gl'inviò monsignor Caterini, uditor santissimo, affinché gli annunziasse che il S. Padre voleva gli si spedisse subito il biglietto di tesoriere generale, perché gli servisse di sollievo in mezzo a tanto dispiacere. Il 24 aprile, l'A. riusciva a terminare l'eterno affare della ricompra dei beni dell'appannaggio, che il congresso di Vienna aveva assegnato a Eugenio di Beauharnais. Per il riacquisto di quei beni, il governo papale doveva sborsare 3.740.000 scudi, che l'erario pontificio purtroppo non. possedeva. L'A. non si smarrì d'animo. Il 4 aprile, il governo emetteva alla pari, con l'interesse del 6% netto, un prestito di 3.750.000 scudi, garantito con ipoteca su quelle terre. Il prestito fu del tutto e prontamente coperto, e il 24 dello stesso mese il nuovo tesoriere firmava un contratto di vendita generale dei beni dell'appannaggio a una società privata, che si obbligò a rivenderli, in piccoli lotti, a sudditi pontifici. Le due operazioni, così felicemente concluse, procacciarono al giovane prelato altissima fama.
Il cardinale Giovanni Maria Mastai, divenuto papa e preso il nome di Pio IX, non tardò a giovarsi dell'A., specialmente nelle questioni di ordine economico e finanziario. Creato cardinale l'11 giugno 1847, e chiamato poco appresso alla presidenza della Consulta di stato, l'A. prese viva parte ai lavori di questa, dichiarandosi favorevole tanto alla pubblicità degli atti della Consulta, quanto alla progettata lega difensiva, qualora si riuscisse a venire a un'intesa con gli altri governi d'Italia. Ugualmente grande parte ebbe nella formazione dello statuto fondamentale e in generale in tutto il movimento per le riforme di carattere amministrativo e politico, inaugurato da Pio IX. In rispondenza a ciò, finché fu vivo Pellegrino Rossi, ne approvò le idee e il programma, ed è possibile che lo facesse con tutta sincerità; ma, ucciso barbaramente il Rossi, e avendo il partito democratico ormai forzato la mano al governo e iniziato il moto rivoluzionario, l'A. si mostrò ostile a successive novità politiche. Composto il ministero (10 marzo 1848), l'A. ne fu il capo, con funzione di segretario di stato; ma quando il papa pronunziò l'allocuzione del 29 aprile, e il ministero sí dimise, l'A. si scusò di non firmare le dimissioni, perché, come ecclesiastico, doveva ubbidienza al papa. Disse però al Pasolini e al Minghetti, suoi colleghi di ministero: "Ah! Pio IX non mi ci piglia più al suo servizio. Se qualche cosa mi comanda come pontefice, ubbidirò, perché il giuramento ecclesiastico mi lega, ma come principe, non mi avrà più". In realtà, l'A. non fu mai prete nel senso proprio della parola. Egli non volle mai andare oltre il diaconato, quindi non disse mai messa. È falso però che non fosse credente; tra le sue carte, m ne sono di quelle in cui egli invoca con fervore l'aiuto di Dio e della Madonna. Morto il Rossi, egli esercitò un'influenza sempre maggiore sull'animo di Pio IX, che, per averlo più vicino a sé, lo nominò prefetto dei sacri palazzi apostolici, carica per l'innanzi tenuta dal maggiordomo e che diede diritto all'A. di dimorare nello stesso palazzo del papa.
È difficile determinare in che misura egli influisse perché il papa, nel momento dei maggiori trambusti in Roma, andasse a Gaeta e vi rimanesse. Certo la prima intenzione del papa non era stata quella, e tanto il conte Luigi Mastai quanto il Rosmini fecero del loro meglio perché il papa, pur lasciando Roma, non divenisse ospite del re di Napoli, con il quale fino allora non era andato punto d'accordo nelle direttive politiche.
Da quel momento, l'A. dichiarò, non pubblicamente, ma sostanzialmente, guerra al Rosmini, e cercò di essere solo a godere della fiducia del papa. L'azione sua in quell'epoca fu energica e accorta, e spianò la via alle varie potenze cattoliche per ricondurre il papa a Roma. Pio IX riconobbe questo merito dell'A., e, a mostrargli la sua riconoscenza e la fiducia che aveva in lui, quando seppe che le cose volgevano favorevoli al ritorno in Roma, lo abbracciò e gli disse che a lui avrebbe riservato il posto di segretario di stato e non se ne sarebbe mai separato. In segno del suo compiacimento, gli regalò un bellissimo anello con uno smeraldo, che il cardinale, amantissimo dei gioielli, portava sempre, soprattutto quando temeva che il papa non fosse soddisfatto di lui. Tornato da Gaeta a Roma, il cardinale adottò una politica assolutamente retrograda e subì l'influenza dell'Austria, proprio di quell'Austria, che egli, nel passato, aveva biasimata, compiacendosi della rivoluzione di Vienna.
Una delle sue tattiche era questa: che all'interno si sapesse una cosa e all'estero si diffondesse precisamente il contrario. Comunque, tornato da Gaeta, non si avvide dei grandi mutamenti politici che si andavano sviluppando, non in Italia soltanto ma in gran parte del mondo. Egli credette dunque alla possibilità di salvare il dominio temporale allo stesso modo come l'aveva salvato a Gaeta; non volle quindi tenere alcun conto di quello che gli si diceva intorno ai mutamenti della situazione e alla necessità di ricorrere ad altri sistemi, attuando specialmente le promesse riforme. A quanto sembra, solo negli ultimi anni, tra il 1868 e il 1870, si avvide dell'errore, ma non trovò rimedio efficace, anche perché, avendo isolato il papa, per timore che altri lo sostituisse nella carica di segretario di stato, non trovò nel Sacro Collegio che pochi colleghi, e non dei più intelligenti, che lo volessero sostenere presso il papa. Non v'ha dubbio che il 20 settembre 1870 egli soffrì per la catastrofe del dominio temporale, ma anche più per il timore ch'ebbe per l'incolumità del pontefice, e questo può servire a spiegare alcuni degli atti da lui compiuti in quei giorni: atti che sorpresero molti, in Italia e fuori.
Senza dubbio, il cardinale A. non pensò un istante a venir meno agli obbiighi che lo legavano al papa. Fu ambizioso e geloso, ma sempre nel senso che non gli sfuggisse quel potere che esercitava sull'animo di Pio IX: potere tuttavia che era venuto a mano a mano scemando. Di bella presenza, di modi gentili, insinuante, la prima impressione che se ne aveva, era piuttosto gradevole; ma era tenace nelle sue idee e non perdonava facilmente. Ebbe pochi amici veri, nemici molti e persistenti. Ottimo amministratore per i suoi tempi, cercò di migliorare le finanze della sede apostolica' ed era curioso un certo taccuino che sempre portava seco, sul quale ricapitolava le entrate e le uscite dello stato. Fu accusato di tradimento. Dalle carte sue appare infondata l'accusa, e sembra invece che egli fosse vittima di un volgare intrigo, ordito da chi fece credere di essere incaricato di negoziare un accordo tra il cardinale e Cavour. Morì a Roma il 3 novembre 1876, e si spense cristianamente: il che fu di grande conforto per Pio IX, il quale, quando seppe che il morente aveva fatto chiamare il confessore, esclamò: "Ringraziamo Dio", rivelando così l'interesse che sentiva per la salvezza dell'anima di chi tanto a lungo gli era stato a fianco e forse, dal lato spirituale, lo aveva lasciato dubbioso.
Bibl.: A. Isaia, Negoziato tra il conte di Cavour e il cardinale Antonelli per la cessione del potere temporale, Torino 1862; V. Vetere, I ventidue anni del cardinale Antonelli, Roma 1871.