MAZZINI, Giacomo
– Settimo di dodici figli, nacque a Chiavari il 2 marzo 1767 da Giuseppe, genericamente qualificato come negoziante, e da Maria Turio. Suo amico d’infanzia fu Luca Descalzi, il futuro giansenista, la cui precoce vocazione al sacerdozio parve influenzare anche il M., inducendolo a chiedere di entrare negli agostiniani scalzi presso i quali compì i primi studi come chierico.
Tuttavia, terminati gli studi inferiori con il biennio di retorica, mise da parte un futuro da religioso e si iscrisse alla facoltà di medicina dell’ateneo pavese dove, allievo dei corsi di anatomia di A. Scarpa, si laureò nel 1790 in chirurgia e nel 1792 in filosofia. Forse lo stesso Scarpa subito dopo lo sollecitò a recarsi a Milano per effettuare alcune ricerche sulle affezioni morbose del nervo acustico, poi riferite nelle Osservazioni sull’organo dell’udito dei sordi e dei muti, in Accademia imperiale delle scienze e belle arti di Genova, 1809, t. 2, p. 77. Un effetto di queste frequentazioni pavesi potrebbe essere stato l’apertura del M. al pensiero illuminista.
Nel 1794 il M. si trasferì a Genova dove il 25 settembre di quell’anno sposò Maria Drago con cui andò a vivere nella casa di via Lomellini di proprietà del marchese G. Di Negro, ben noto per i suoi orientamenti democratici. Lì nacquero i quattro figli della coppia: Rosa (1797-1823), Maria Antonietta (1800-83), Giuseppe e Francesca (1808-38). Non potendo esercitare la professione per essersi laureato fuori della Repubblica, il M. divenne il medico personale del marchese Di Negro. Questo rapporto di stretta amicizia non modificò le sue idee molto severe sull’oligarchia cittadina in cui il M. vedeva il maggior baluardo della conservazione politica e il vero responsabile del declino della Repubblica. Pur interessato alle vicende rivoluzionarie della Francia e alla circolazione delle idee di rinnovamento, non sembra però che egli abbia fatto nulla di concreto per abbattere il vecchio regime caduto nel maggio del 1797; tuttavia, come membro della guardia nazionale, non esitò a schierarsi con i volontari incaricati di operare la repressione dei moti del «Viva Maria» scoppiati all’inizio del settembre 1797 in Val Polcevera e ad Albaro contro la neonata Repubblica democratica. Nella circostanza il M. meritò una menzione onorevole.
Come si sarebbe constatato in seguito, un innato equilibrio lo rendeva contrario agli eccessi. Fu principalmente con l’intento di consolidare le fragili istituzioni democratiche che accettò di entrare a far parte della redazione de Il Censore italiano (dal 13 febbr. 1798 Il Censore), un foglio semiufficiale di chiara impronta giacobina per il quale curò fino all’ottobre del 1798 la rubrica di «Notizie interne» caratterizzata, finché fu possibile, da un forte spirito anticlericale ma non irreligioso (il M. coltivava aspirazioni di ritorno al Vangelo e all’eguaglianza di tutti gli uomini); altro bersaglio furono il patriziato e gli istituti che ne perpetuavano l’esistenza (maggiorasco, fedecommesso). Non mancava una specifica attenzione per le vicende di Chiavari, che nel 1797 lo aveva scelto come rappresentante presso il governo provvisorio, ma ciò non toglie che tra gli obiettivi sbandierati del giornale ci fosse anche quello della «Repubblica italiana una e indivisibile», dal M. inteso come un traguardo a cui tendere solo a partire da una compiuta rieducazione del popolo alla virtù civica e alla moralità dei costumi pubblici e privati.
Tale fu la sua regola di comportamento in tutte le cariche che gli occorse di occupare sia sotto la Repubblica democratica sia durante la dominazione francese, dopo che nel 1805 la Liguria fu annessa all’Impero napoleonico; ma proprio per la sua moderazione già durante la breve occupazione austriaca del 1800 fu chiamato a far parte della Commissione consultiva che doveva rappresentare ai nuovi dominatori le esigenze della popolazione. Membro nel 1801 della Consulta legislativa istituita dai Francesi, nel 1803 fu nominato viceprovveditore del Centro, una delle sei giurisdizioni – quella comprendente Genova – in cui era stato diviso il territorio della Repubblica ligure. Nel 1805 entrò a far parte del Consiglio circondariale di Chiavari, quindi del Consiglio municipale di Genova e anche del locale comitato dell’Annona. Le sue competenze lo portavano essenzialmente verso l’assistenza sanitaria, soprattutto dopo che nel 1800, superato l’esame per l’abilitazione all’esercizio della professione medica, si era guadagnato larga fama come colui che, avendo elevato l’amore per il prossimo a pratica di vita, curava gratuitamente i poveri. Di temperamento mite e contrario a ogni violenza, il M. aveva invece rifiutato nel 1802 di essere inserito nella commissione incaricata di punire i colpevoli di reati contro la persona e la proprietà.
Nel 1814, con l’annessione della Liguria al Piemonte, il M. diede l’addio all’attività politica. Rapporti di polizia del tempo o di poco successivi lo dipinsero come un soggetto che aveva collaborato con il regime napoleonico e anche come esponente della setta massonica degli Indipendenti. Sarà poi il M. stesso a confidare un giorno al figlio, cresciuto nel ricordo dell’esperienza giacobina spesso rievocata in famiglia, di essere stato favorevole all’annessione al Piemonte «giacché non potevo attendere calma o dall’aristocrazia o dalla democrazia» (Luzio, p. 191): il timore dell’anarchia aveva ormai preso il sopravvento sulla sua passione giovanile per la libertà repubblicana. Rassicurato sulla sua lealtà di suddito, il governo piemontese non lo infastidì e anzi, dopo che nel 1814 il M. era stato chiamato a far parte del ricostituito Collegio medico dell’Università di Genova, gli aprì la strada alla carriera universitaria attribuendogli nel 1823 la cattedra di patologia e igiene e nel 1830 quella di fisiologia e anatomia. Né gli fu avaro di riconoscimenti, tra i quali ebbe particolare significato la medaglia al merito civile tributatagli per i soccorsi prestati ai colerosi durante l’epidemia del 1835-37, allorché quasi tutti i suoi colleghi avevano abbandonato la città per paura del contagio.
Proprio a partire dal 1830 erano intanto cominciati i problemi giudiziari del figlio, momentaneamente conclusisi con l’esilio in Francia. Il M. ne ebbe la vecchiaia angosciata per le preoccupazioni che gliene derivarono e per la divergenze che l’opposero alla moglie, molto più di lui predisposta caratterialmente a condividere l’universo ideale del figlio.
Di questa fase della vita del M., e delle continue ma mai acerbe diatribe familiari che essa gli procurò, un documento di estremo interesse anche umano è costituito dallo spezzone del carteggio (pubblicato da A. Luzio) che madre e figlio si scambiarono tra il 1835 e il 1839. Le righe aggiunte dal M. in calce a molte di quelle lettere mostrano in lui non un personaggio arcigno né tanto meno un conservatore, ma un uomo che la sfiducia verso le capacità di miglioramento dei propri simili e il rifiuto di ogni forma di lotta avevano ormai consegnato al conformismo, sia verso il sovrano sia verso la Chiesa (frequentissimi erano allora i suoi incontri con i padri filippini). Tuttavia l’ipotesi di un M. arido, moralista e sollecito solo del benessere materiale del figlio, di un M. «tirchio e prudente all’eccesso» (Luzio, p. 9), viene in parte corretta dalla trepidazione con cui ne seguì le vicende che lo condussero in esilio e dall’orgoglio con cui ne registrò i successi in campo pubblicistico e culturale: quindi la polemica continua con i progetti politici del figlio, più che un modo per ribadire la distanza dei rispettivi punti di vista o per manifestare la propria parsimonia, gli servì a mantenere in piedi un dialogo in cui il suo ruolo di padre, impossibilitato a competere con la moglie sul piano dell’identità di vedute e tanto meno dell’affetto, si esprime con lunghe tirate al fondo delle quali si scorge soprattutto il desiderio che il giovane si orienti verso una tranquilla esistenza borghese: il vero limite del M. è quello di ostinarsi a credere di poter correggere un carattere come quello del figlio ripetendo all’infinito ammaestramenti basati su valori totalmente diversi da quelli su cui esso si era formato. A spiegare poi questa sua ostinazione c’è, sì, il pessimismo della vecchiaia e anche la considerazione della propria posizione sociale e professionale (che talvolta era servita a evitare a Giuseppe più pesanti conseguenze penali), ma c’è anche l’apprensione per i rischi non lievi cui il coinvolgimento nelle pratiche settarie espose una generazione di giovani che aveva già dato un suo tributo di sangue alla causa abbracciata dal figlio. Appunto con il M. si era laureato in medicina Jacopo Ruffini, morto suicida nel carcere in cui lo aveva portato la cospirazione mazziniana del 1833.
Il M. morì a Genova il 13 dic. 1848 senza più rivedere il figlio Giuseppe.
Questi, quando ne apprese la scomparsa, manifestò il proprio dolore tra gli altri a G. Lamberti, «perch’io – diceva – non ho mai dato gioia a mio padre e l’unica che sarebbe stata compenso supremo per lui sarebbe stata quella di vedere la mia idea, quella che ci ha tenuti divisi, realizzata» (lettera del 21 dic. 1848, in G. Mazzini, Ed. nazionale…, XXXVII, p. 220): come dire che il M., troppo sensibile al giudizio dell’opinione pubblica, lo avrebbe approvato solo quando avesse visto i suoi sforzi premiati dal successo.
Fonti e Bibl.: A. Neri, Il padre di Giuseppe Mazzini, in Riv. ligure di scienze, lettere ed arti, X (1910), pp. 137-157; A. Luzio, La madre di Mazzini: carteggio inedito del 1834-39, Torino 1923, passim; V. Vitale, Onofrio Scassi e la vita genovese del suo tempo (1768-1836), in Atti della Soc. ligure di storia patria, LIX (1932), ad ind.; L. Morabito, Il giornalismo giacobino genovese 1797-1799, Torino 1973, ad ind.; L. Caratti, La genealogia di Mazzini, in Boll. della Domus mazziniana, XXIV (1978), 2, pp. 151-183; A. Galante Garrone, Salvemini e Mazzini, Firenze 1981, ad ind.; M. Ferrari, Un giornalista giacobino nella Repubblica democratica ligure: G. M., in Idee e parole nel giacobinismo italiano, a cura di E. Pii, Firenze 1990, pp. 87-112; M. D’Amelia, La mamma, Bologna 2005, ad indicem. Per i rapporti con Giuseppe si v. G. Mazzini, Ed. naz. degli scritti, per la consultazione dei quali si rinvia agli Indici, a cura di G. Macchia, II, 2, Imola 1974, pp. 460 s.; e Lettere a [Giuseppe] Mazzini di familiari ed amici (1834-1839), a cura di S. Gallo - E. Melossi, I-II, Imola 1986, ad ind.; l’argomento è affrontato in tutte le biografie del figlio, da ultime quelle di R. Sarti, Giuseppe Mazzini: la politica come religione civile, Roma-Bari 2005, ad ind., e J.-Y. Frétigné, Giuseppe Mazzini: père de l’Unité italienne, Paris 2006, ad indicem.