VICO, Giambattista.
– Nacque a Napoli il 23 giugno 1668, sestogenito di Antonio, piccolo libraio originario di Maddaloni, e di Candida Masullo. L’indomani fu battezzato nella parrocchia di S. Gennaro all’Olmo con il nome del nonno materno, e forse pure per la vicina ricorrenza della festa di s. Giovanni Battista.
Anche a causa di una rovinosa caduta all’età di sette anni, ricordata nella sua autobiografia, e di una lunga convalescenza protrattasi tre anni, dal 1675 al 1677, la sua formazione fu quasi per intero quella di un autodidatta, pur frequentando saltuariamente le prime scuole di grammatica, quelle di umanità e, nell’ottobre del 1680, la scuola dei gesuiti presso il Collegio Massimo al Gesù Vecchio, dove ebbe per maestro Antonio Del Balzo. Se ne allontanò dopo poco più di un semestre per avere subito un’ingiustizia scolastica che lo indusse a studiare per proprio conto la parte dei programmi non svolti a scuola. Cominciò lo studio della logica attraverso le opere di Pietro Ispano e di Paolo Veneto (Paolo Nicoletti da Udine) ma, deluso dall’aridità di quei testi, inadatti alla sua giovane età, si fece per «un anno e mezzo [...] disertore negli studi» (Vita scritta da se medesimo, in Opere, a cura di A. Battistini, 1990, p. 7). L’occasione per riprenderli, sempre stando al racconto di Vico, fu quando, nel 1683, assistette per caso alla seduta di un’accademia cittadina che gli ridestò l’antica passione per l’apprendimento. Ritornò così al collegio gesuita, seguendo le lezioni di Giuseppe Ricci, ma il campo troppo ristretto di questo insegnamento indusse di nuovo Vico a ritirarsi dalla scuola e a studiarsi da solo le Disputationes metaphysicae di Francisco Suarez.
Dal 1684 si dedicò al diritto civile e canonico, frequentando alcune lezioni universitarie di Felice Acquadia pur senza essere ancora iscritto nell’ateneo napoletano e facendo pratica forense presso l’avvocato Fabrizio Del Vecchio. Immatricolatosi nel 1689 alla facoltà di giurisprudenza, risulta esservi stato iscritto fino al 1692. Non si sa di preciso quando si laureò: di certo prima del dicembre 1694 perché è a questa data che nel rogito di un atto notarile Vico è detto «utriusque iuris doctor». Queste notizie sulla sua carriera di studente universitario fanno credere che, contrariamente a quanto asserito nella Vita, non avesse stabilmente «dimorato ben nove anni» (ibid., p. 12), tra il 1686 e il 1695, a Vatolla, nel Cilento, ma solo in modo saltuario, in veste di istitutore dei figli di Domenico Rocca. Sono questi gli anni in cui più si concentrano i componimenti poetici di Vico, scritti seguendo i rituali encomiastici che sarebbero divenuti usuali presso l’Accademia dell’Arcadia, da cui sarà peraltro cooptato soltanto nel 1710, in seno alla Colonia Sebezia di Napoli, ove fu registrato con il nome di Laufilo Teri.
Le sue poesie, in totale un centinaio in italiano e una trentina in latino, seguono un galateo encomiastico usuale a quel tempo, ma non sono del tutto convenzionali. È vero che la versificazione rappresentò un cerimoniale collettivo condotto in primo luogo per garantire a chi la praticava un’integrazione e una promozione sociale, cui Vico, di povere origini, teneva molto, ma non si trattò solo di questo. Nel suo artigianato poetico, improntato a un classicismo razionalistico non del tutto dimentico degli esempi barocchi poi ripudiati al momento della reazione dell’Arcadia, confluirono temi teoretici, metafisici e pedagogici del suo pensiero filosofico. Significativa da questo punto di vista è la canzone edita nel 1693 intitolata Affetti di un disperato, dove i debiti petrarcheschi, consistenti in continue riprese lessicali, convivono con i drammatici accenti lucreziani prossimi a quelli circolanti nel gruppo degli ‘ateisti’ napoletani, portati al pessimismo per l’impossibilità dell’uomo di trascendere i limiti ontologici imposti dalla natura. E analogamente le altre canzoni vichiane di fine Seicento, ancorché di natura epidittica, non rinunciano a esporre la cosiddetta filosofia dei luminosi, secondo cui la virtù nascerebbe da una luce universale che serve a dare ordine al mondo delle cose e a indurre all’azione.
La frequenza di queste prove poetiche si diradò dal 1697, anno in cui si rese vacante la cattedra di retorica all’Università di Napoli. Il concorso che fu bandito vide vincitore Vico, che prese servizio nel 1699, con uno stipendio di cento scudi annui. Distolto dai doveri accademici, dagli studi di metafisica e fisica approdati al De antiquissima Italorum sapientia e dai nuovi doveri familiari, dopo che il 2 dicembre di quello stesso 1699 sposò Teresa Caterina Destito e l’anno dopo gli nacque Luisa, prima di otto figli, Vico non scrisse quasi più versi, stando a quanto ci è rimasto, fino al 1719, allorché li riprese parallelamente agli sforzi speculativi del Diritto universale e della Scienza nuova, di cui traspose in poesia le idee mitologiche e antropologiche nell’epitalamio Giunone in danza (1721) e le tesi sulle origini della poesia in una canzone del 1723. La voce prosodica di Vico si fece dunque udire, a intervalli, lungo tutta la sua vita, anche se nell’ultimo periodo, dal 1730 all’anno della sua morte, tornò di nuovo a scemare.
Di ben altra rilevanza è la sua opera in prosa, quasi tutta in latino almeno fino alla Scienza nuova. In latino era il suo stesso insegnamento universitario che oltretutto, in qualità di docente di retorica, prevedeva il compito d’inaugurare con una prolusione l’anno accademico. È ciò che Vico fece, per più di un ventennio, ogni 18 ottobre, festa di s. Luca, anche se solo alcune di queste orazioni sono rimaste, non essendone prevista, se non eccezionalmente, la stampa. I temi trattati proponevano «universali argomenti» di carattere pedagogico, con cui la «metafisica» era fatta discendere alla vita «civile». Le sette orazioni inaugurali che vanno dal 1699 al 1708 vertevano appunto sui «fini degli studi» e «il metodo di studiare» (Vita..., cit., p. 31), risentendo dell’influsso di Francesco Bacone, sostenitore di un sapere capace di trasferirsi nella pratica. Ma insieme con Bacone molte e varie sono le fonti di queste prolusioni, che vanno dal platonismo rinascimentale agli ideali del ciceronianesimo, dalle reminiscenze cartesiane ai dibattiti culturali del milieu napoletano di fine Seicento, tra i quali quelli tenuti presso l’Accademia Palatina fondata nel 1697 dal viceré Luis Francisco de la Cerda duca di Medinaceli, una delle più vivaci tra quelle in cui Vico fu cooptato (1699).
Recitate dinanzi agli studenti, al corpo docente e all’intellettualità napoletana, le prolusioni esaltavano il valore degli studi e dei loro benefici recati alla vita civile e politica. Auspicavano pertanto un’eloquenza al servizio della sapienza e dell’etica, una simbiosi tra utile e onesto, esaltando il profitto che la cultura e la conoscenza apportano alla società, fino a fare la grandezza degli Stati, pur dovendo essere consapevoli dell’impossibilità di attingere la «vera conoscenza della realtà» (Le orazioni inaugurali, a cura di G.G. Visconti, 1982, p. 143) a causa della «corruzione della natura umana» (p. 189). Ma proprio per questo occorreva coltivare lo sviluppo armonico di tutti i rami del sapere, senza che ci fossero discipline egemoni.
Di queste dissertazioni ebbe un rilievo particolare quella pronunziata il 18 ottobre 1708, non solo per la presenza del viceré Vincenzo Grimani, ma anche per gli intenti del tema trattato, più ambiziosi di quelli solitamente ascrivibili a un rito accademico. Interrogandosi sul metodo degli studi del proprio tempo, la prolusione, recante appunto questo titolo (De nostri temporis studiorum ratione), proponeva una riforma in grado di ovviare agli inconvenienti di curricula troppo squilibrati che, sulla scia della «voga» della filosofia cartesiana diffusasi a Napoli come una moda (Vita..., cit., p. 29), sacrificavano lo sviluppo della fantasia per favorire la componente logica e razionale. L’orazione, stampata a differenza delle precedenti nella primavera successiva, a riprova dell’importanza attribuitale, si inseriva nella cosiddetta querelle des anciens et des modernes, ma anziché volere per forza stabilire la superiorità degli uni o degli altri, cercava di mettere a profitto tanto i vantaggi dei metodi passati quanto di quelli del presente. Pertanto Vico non ripudiava i vantaggi del metodo moderno, riconoscendo con franchezza i progressi delle scienze fisiche. Non accettava però che ciò andasse a detrimento degli «studi delle lingue, degli oratori, degli storici e de’ poeti» per valorizzare soltanto la «metafisica, fisica e mattematica» (ibid.). Anziché restringersi al vero indubitabile, il De ratione estendeva la circoscrizione del sapere anche al verisimile e al probabile, avvicinati con la retorica, che dimetteva la veste ornamentale per indossare quella speculativa, alleata e non subordinata alla logica, avendo per obiettivo finale una cultura praticata come valore sociale grazie all’eloquenza, alla poesia, al diritto. Le acquisizioni di questo metodo erano pragmatiche e comprensive, rivolte all’uomo nella sua interezza e non al solo piano nobile dell’intelletto. A ciò miravano i suoi corsi di retorica, di cui sono rimaste le dispense delle Institutiones oratoriae, dove è dato uno speciale rilievo alla metafora e di conseguenza all’ingegno, la risorsa sintetica che scopre relazioni tra immagini e idee concettualmente distanti.
Che, pur movendo critiche a Cartesio, Vico nutrisse, almeno nel primo decennio del Settecento, interesse per le scienze della natura è dimostrato dal De antiquissima Italorum sapientia, un’opera nata dalle conversazioni con un gruppo di intellettuali napoletani. Delle tre parti di cui doveva essere composta uscì soltanto la prima, il Liber metaphysicus (1710), mentre la seconda, il Liber physicus, fu solo abbozzata e la terza, il Liber moralis, non fu probabilmente mai scritta. Seguendo una consuetudine del tempo, Vico attribuiva le proprie tesi a un passato assai remoto, dalle radici addirittura mitiche, patrimonio autoctono di una civiltà preromana, il cui pensiero, pur essendosi perduto, si poteva comunque ricostruire con un’indagine etimologica del sostrato linguistico del latino. Con questo escamotage si affrontavano in realtà i temi della filosofia affacciatisi sulla scena europea con Cartesio, Nicolas de Malebranche, Benedetto Spinoza, Galileo Galilei, opponendo alla prevalente visione meccanicistica e corpuscolare della nuova scienza una cosmologia esoterica, di ascendenza ermetica rinascimentale. Con tale scelta, senza dubbio anacronistica, si trovava comunque la via per una critica al Cogito cartesiano, accusato di consentire all’uomo soltanto la coscienza del proprio esistere, ma non la conoscenza. A questo canone psicologico Vico sostituiva il canone genetico del «verum et factum convertuntur», secondo cui è possibile conoscere solo ciò che si è in grado di fare. Era per il momento una conclusione parzialmente scettica perché secondo il principio gnoseologico del «verum ipsum factum» la conoscenza rimaneva confinata alle sole matematica e geometria, edifici mentali costruiti dall’uomo e dunque veri, ma troppo astratti, incapaci, per la loro arbitrarietà, di incidere sulla realtà fisica, inconoscibile per essere opera divina e non umana.
Il De antiquissima ebbe qualche risonanza e ricevette nel 1711 una recensione anonima sul Giornale de’ letterati d’Italia il cui probabile autore, Bernardo Trevisan, muoveva alcune obiezioni alle quali Vico replicò con due interventi editi sullo stesso periodico, dando vita a un dibattito che si sviluppò «con molta buona grazia» (Vita..., cit., p. 42).
L’impianto scientifico e metafisico del De antiquissima e la scarsa consistenza delle prove etimologiche, per giunta di derivazione intellettualistica, non consentivano ancora una reale prospettiva storica. Era però già radicata la predisposizione metodologica a risalire alle origini, ai principi, in modo da conquistare il vero lungo un asse genetico. A orientare Vico verso la ricerca storica fu, secondo il suo stesso resoconto autobiografico, la committenza nel 1713 di una biografia del maresciallo asburgico Antonio Carafa, già da lui commemorato con una canzone funebre nell’anno della sua scomparsa (1693). In verità egli si era già cimentato in questo tipo di lavoro, quando nel 1701 aveva scritto una Principum Neapolitanorum coniurationis anni MDCCI historia, che è la ricostruzione di una fallita congiura ordita per cacciare il governo franco-spagnolo e instaurare un regime filoasburgico. Senz’altro più impegnativo fu il ragguaglio della vita di Carafa che il nipote di questi, Adriano Antonio, affidò a Vico, che gli era stato precettore. La ricerca storiografica si protrasse per quasi tre anni, dal 1713 al 1715, impiegati anche per ordinare «una sformata copia di buone e sincere notizie» (Vita..., cit., p. 43) disseminate nell’archivio consegnatogli dal committente. Ancorché ritardato da forti dolori nevralgici al braccio sinistro, nel 1716 Vico poté infine far uscire, in una stampa «magnifica» (ibid.), il De rebus gestis Antoni Caraphaei. Rinunziando a una veste oratoria ed encomiastica a favore di un’esposizione più oggettiva, la biografia presenta un uomo d’arme che in nome della giustizia e del diritto aveva usato la forza e la violenza per reprimere le insurrezioni ungheresi e ottomane.
Insieme con gli aspetti giuridici Vico dovette anche interrogarsi sul rapporto esistente tra i fatti irrelati in una dimensione cronachistica e il significato profondo e unitario di un’esistenza, ovvero, per ripetere la terminologia che sarebbe stata chiarita nel Diritto universale e nella Scienza nuova, sul nesso tra filologia e filosofia. Fu questo problema che, nella rielaborazione selettiva e mitizzata delle proprie fonti, indusse Vico alla lettura del De iure belli ac pacis dell’olandese Ugo Grozio, subito promosso a suo «quarto autore» tra quelli che, insieme con Platone, Tacito e Bacone «egli ammirava sopra tutt’altri» (Vita..., cit., p. 45). Al testo groziano cominciò addirittura ad apporre un commento, che fu interrotto quando si rese conto dell’inopportunità che un «uom cattolico» postillasse un autore «eretico» (p. 44). Nondimeno qualcuno ha ritenuto di individuare in un’edizione del De iure uscita in corrispondenza con quanto asserito nella Vita, ossia nel 1719, una lettera introduttiva di dedica che potrebbe essere di pugno di Vico, a riprova di quanto l’opera groziana sia stata per lui così decisiva da indurlo a farne un commento, che però fu interrotto e di cui si è persa traccia (Faucci, 1959).
Nonostante l’ammirazione per Grozio, non è che la sua idea di diritto naturale soddisfacesse pienamente Vico, perché gli sembrava che restasse indeterminata nella sua presunzione razionalistica di essere connaturata nell’uomo. L’approfondimento di questi temi di carattere storico-giuridico si protrasse fino al 1722 e si tradusse in una somma di scritti che andarono sotto il titolo complessivo di Diritto universale. Dapprima, per darne una notizia anticipata dei contenuti, Vico fece stampare un manifesto editoriale di quattro fitte facciate edito nel luglio del 1720 che, privo di titolo, è di solito designato come Sinopsi del diritto universale. Qualche mese dopo, a settembre, uscì il primo di tre tomi, il De uno universi iuris principio et fine uno, seguito l’anno seguente dal De constantia iurisprudentis e finalmente nel 1722 da una terza parte costituita da una serie di Notae. Subito Vico provvide a inviare copie dell’opera a «uomini di conto» italiani e stranieri, tra cui Jean Leclerc, un erudito ginevrino trapiantato ad Amsterdam con cui entrò in commercio epistolare e che recensì con favore i due primi tomi del Diritto universale nella rivista da lui diretta Bibliothèque ancienne et moderne (1722, vol. 18, pp. 417-433).
Per Vico il problema non completamente risolto da Grozio riguardava i rapporti tra legge universale e leggi positive. Nel Diritto universale si sosteneva che il diritto naturale dei filosofi non era innato ma costituiva, per l’uomo decaduto con il peccato originale, una riconquista avvenuta attraverso il diritto naturale delle genti, precisatosi storicamente. Dallo studio della giurisprudenza si arrivava a meditare sui rapporti tra il «vero» e il «certo», ossia sulla presenza del razionale nella storia, dell’universale nel particolare. Le idee assolute di giustizia, equità, moralità regolavano provvidenzialmente il mondo degli uomini, ma questi le conquistavano per proprio conto sublimando le passioni, i bisogni, la forza. Per un verso il giusnaturalismo di Grozio si storicizzava e si rendeva più realistico; per un altro verso l’utilitarismo di chi negava la provvidenza era trasceso in un disegno escatologico. Più che nelle leggi l’universalità risiedeva nelle forme del loro divenire, nel succedersi delle fasi con cui si fissarono le norme di una convivenza civile.
Il Diritto universale non può essere considerato un’opera semplicemente propedeutica alla Scienza nuova, trattandosi invece di una ricerca compiuta e sistematica che, analizzando la realtà politica e giuridica di Roma antica, intese garantire scientificità alla storia del diritto. Al tempo stesso la Scienza nuova non può ritenersi una sua variante e tanto meno una sua appendice, pur nella continuità della riflessione. Tra l’altro Vico non poté passare subito a quest’opera, distoltovi sia dall’incarico di stimare il valore della preziosa biblioteca privata di Giuseppe Valletta, dei cui libri aveva egli stesso approfittato, destinata a diventare il primo nucleo della Biblioteca oratoriana dei Girolamini, sia dalla preparazione del concorso alla cattedra mattutina di diritto civile bandito nel gennaio del 1723 dall’Università di Napoli. Questa titolarità, oltre a essere molto prestigiosa, prevedeva uno stipendio annuo di seicento ducati, di gran lunga maggiore di quello dell’insegnamento di retorica già detenuto: naturale che Vico, che aveva già cinque figli da mantenere e lottava contro l’indigenza, vi aspirasse. Reduce dal Diritto universale, nutriva fondate speranze. Si spinse perfino a chiedere una raccomandazione al principe Eugenio di Savoia (Epistole, a cura di M. Sanna, 1993, pp. 103 s.) e preparò con cura la lezione di concorso che per sorteggio doveva vertere «De praescriptis verbis» del Digesto (XIX, 5, 1), ma il suo nome non fu votato da alcuno dei ventinove commissari d’esame.
La delusione fu tanta, ma non si scoraggiò e, entro lo stesso 1723, terminò la propria autobiografia, commissionatagli da Giovanni Artico conte di Porcia, promotore di un progetto che si proponeva di raccogliere le vite dei maggiori intellettuali italiani del tempo. In questa prima stesura Vico non fece in tempo a raccontare le fasi che portarono alla composizione della Scienza nuova, di cui tuttavia poté dare conto quando, nelle more della stampa della Vita scritta da se medesimo, avvenuta solo nel 1728 a Venezia, provvide ad aggiornarla fino a questo anno.
È verosimile pensare che la prima idea della Scienza nuova gli venisse tra la primavera e l’estate del 1723 quando, dopo la sconfitta concorsuale che, per un Vico ormai cinquantacinquenne, poneva fine a ogni ulteriore prospettiva di carriera universitaria, egli decise di dedicarsi interamente alla ricerca o, come avrebbe detto poi con parole nobili e altere, di ritirarsi «al tavolino per meditar e scriver altre opere, le quali chiamava “generose vendette de’ suoi detrattori”» (Vita..., cit. p. 85). A una versione originaria, andata perduta, si suole assegnare il titolo di Scienza nuova in forma negativa perché, forse per l’animo ancora esacerbato dal recente scacco accademico, essa consisteva in una prima pars destruens di denunzia impietosa di tutte le «inverisimiglianze, sconcezze ed impossibilità di tutto ciò che ne avevano gli altri inanzi più immaginato che raggionato» (p. 54). Un secondo tomo avrebbe dovuto costituire la pars construens ove esporre le fasi del sorgere dell’umanità, inculcata dal sentimento religioso, e la successione cronologica delle maggiori divinità della Grecia, corrispondenti ciascuna a un’età della storia umana e delle sue istituzioni civili e sociali.
Giunto alla fine dell’opera però Vico, stando alle sue stesse dichiarazioni, non ne fu soddisfatto, perché una trattazione al negativo ovvero distruttiva appariva poco gradevole e poco comprensibile, ma a decidere a non darla alle stampe fu un’altra ragione, molto più cogente. Il lavoro, prolungatosi anche per quasi tutto il 1724, crebbe smisuratamente, raggiungendo le mille pagine: inutile pensare che Vico, vissuto sempre in ristrettezze, potesse coprire i costi ingenti della pubblicazione. Avanzò quindi la proposta di dedicarla all’allora cardinale Lorenzo Corsini che, accettandola, si dichiarò implicitamente disposto, secondo l’uso del tempo, ad assumersi le spese di stampa. Sennonché, nell’estate del 1725 il porporato si rimangiò la promessa, costringendo l’autore a riscrivere il testo in forma molto più ridotta, in modo da contenere al massimo gli oneri, che a questo punto diventavano a suo carico. Questa volta, reduce da quasi due anni impiegati per la prima versione, Vico fu rapidissimo e in due mesi terminò il rifacimento della Scienza nuova. Sue copie furono distribuite anche fuori di Napoli, a Roma, a Venezia, a Londra (quella destinata a Isaac Newton), ad Amsterdam, presso Leclerc, e alla rivista degli Acta eruditorum Lipsiensia, che due anni dopo ne fece una recensione malevola. Venutone a conoscenza nel 1729, Vico, che già si era adontato per la scarsa accoglienza dell’opera, scrisse di getto una durissima replica che va sotto il nome di Vici vindiciae.
Non interruppe tuttavia la sua produzione celebrativa, fatta soprattutto di orazioni funebri, come quella per Anna von Aspermont, madre del viceré di Napoli, e per Angela Cimmino, marchesa della Perrella, una nobildonna che più volte aveva accolto Vico nel suo salotto culturale. Quest’ultimo compianto si segnala non solo per l’accuratezza di una prosa poetica memore di Francesco Petrarca e di Dante Alighieri, ma anche per la riuscita conciliazione del motivo del dolore, tipico degli elegiaci latini, con il motivo consolatorio di una visione cristiana che confida nella trascendenza dell’anima.
Era però destino che Vico tornasse ancora alla sua opera maggiore. Mentre la stampa dell’autobiografia stava per uscire a Venezia, gli giunse da questa città, che era il centro editoriale più rilevante d’Italia, l’invito di Carlo Lodoli e di Antonio Conti, accolto con entusiasmo, di fare una riedizione della Scienza nuova, lasciando facoltà all’autore di intervenire qualora «avesse alcuna cosa da aggiungere, o da mutare» (Epistole, cit., p. 137). Vico si mise subito al lavoro e tra il marzo del 1728 e l’estate dell’anno successivo si diede a postillare fittamente l’edizione del 1725 con l’intento di ripubblicarla corredata con una serie di Annotazioni integrative, come già aveva fatto con il terzo tomo del Diritto universale. Sennonché, sentendosi libero da limiti di spazio, eccedette nei commenti, raggiungendo le seicento pagine. Gli stampatori veneti non ne furono soddisfatti perché, a parte l’onere finanziario, alla versione originaria si era giustapposto un suo soverchiante approfondimento che rendeva il testo poco leggibile. Vico si risentì alle difficoltà oppostegli e l’impresa non andò in porto. Si rese però conto degli inconvenienti di un testo il cui «filo [...] distratto leggevasi e dissipato» e dal Natale del 1729 alla Pasqua del 1730 riscrisse l’opera in una forma «a tutto cielo diversa», non più analitica ma sintetica (Vita..., cit., p. 78).
La nuova versione uscì a Napoli nel dicembre del 1730. In un primo tempo il libro si apriva con una Novella letteraria in cui presumibilmente Vico rievocava, in tono forse risentito, le sfortunate trattative con i committenti veneziani; poi però, sembrandogli fuori luogo, la sostituì con una «dipintura» allegorica che visivamente riassumeva in forma sinottica i contenuti dell’intera Scienza nuova e con una «spiegazione», ovvero un’«idea dell’opera» che illustrava i significati dei simboli raffigurativi, in modo da offrire un primo ragguaglio della «storia ideale eterna». La struttura dell’opera è poi scandita in cinque parti o «libri», in un continuo alternarsi di contrazioni e dilatazioni della materia. Il primo è dedicato ai principi universali su cui si fonda l’opera, il secondo descrive le origini dell’umanità e la mentalità mitico-poietica dei primitivi, il terzo, a mo’ di corollario, rivela la scoperta che Omero non fu un individuo reale, ma l’«universale fantastico» del popolo greco che nell’Iliade e nell’Odissea raccolse la propria storia, tanto da essere non solo un esempio di inarrivabile poesia sublime, ma anche una fonte di norme, valori, conoscenze di un’intera civiltà. Dopo avere individuato l’origine comune di tutte le nazioni gentili (unica eccezione, quella degli ebrei), nel quarto libro «si dimostra l’ordine del lor corso» (La scienza nuova 1730, a cura di P. Cristofolini - M. Sanna, 2004, p. 320) e da ultimo, nel libro finale, la linea s’incurva su se stessa perché la storia delle nazioni s’inarca sotto la pressione del «ricorso», verificato dalle corrispondenze riscontrabili tra l’età primitiva e il Medioevo. Una «conchiusione», nel ripercorrere l’intero lavoro, culmina in una sintesi che prospetta l’enigma ironico della storia, che si muove tra le miopi intenzioni degli uomini e lo scorrere effettivo della civiltà, il cui sviluppo è governato da una provvidenza che comunque agisce per vie affatto naturali.
Incontentabile come sempre, Vico, mentre ancora la stampa era in corso, preparò una serie di «Correzioni, miglioramenti ed aggiunte» da pubblicare in appendice: furono queste le premesse della terza edizione, cui continuò a dedicarsi fino alla morte. Nel frattempo non mancava di assolvere compiti encomiastici: all’ascesa al soglio di Lorenzo Corsini, che prese il nome di Clemente XII (12 luglio 1730), dedicò una canzone; al nuovo re di Napoli Carlo di Borbone (1734) consacrò un sonetto e alle sue nozze (1738) inserì in una miscellanea in suo onore un’orazione latina, delle iscrizioni, pure latine, e dei sonetti. Per onorare la propria nomina nel 1735 a storiografo regio progettò l’anno successivo una storia della riconquista borbonica del Regno di Napoli, peraltro mai portata a termine.
Di maggiore significato, in questi ultimi anni di vita, sono un’integrazione nel 1731 dell’autobiografia, sollecitatovi dalla sua cooptazione nell’Accademia urbinate degli Assorditi (rimasta allora inedita), e la prolusione inaugurale dell’anno accademico 1732-33 che, unica insieme con il De ratione, vide la stampa, con dedica al viceré di Napoli. L’orazione, intitolata De mente heroica, è un’appassionata esaltazione del lavoro intellettuale e della cultura, ovvero di un sapere definito «eroico» non solo perché comporta fatica, disagi, sacrifici, dedizione assoluta e inesauribile, ma anche perché ha senso e valore solo se conquistato per essere messo al servizio di tutti.
È questa l’ultima fatica di rilievo, a parte l’incessante limatura della Scienza nuova, la cui terza edizione poté essere vista in bozze da Vico e forse anche da lui corretta nel dicembre del 1743. Nel successivo 10 gennaio ne scrisse la dedica al cardinale Troiano Acquaviva, incaricato d’affari del Regno di Napoli presso la S. Sede. La pubblicazione uscì a luglio, postuma, poiché Vico si spense a Napoli nella notte tra il 22 e il 23 gennaio 1744.
Opere. L’edizione più completa di Vico sono le Opere, a cura di F. Nicolini, I-VIII, Bari 1914-1941. Una loro selezione, a cura dello stesso Nicolini, sono le Opere, Milano-Napoli 1953. Altre raccolte: Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1971; Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1974; Opere, a cura di P. Rossi, Milano 1959; Opere, a cura di A. Battistini, Milano 1990. Singole edizioni sono quelle promosse dal Centro di studi vichiani-CNR: Le orazioni inaugurali, a cura di G.G. Visconti, Bologna 1982; La congiura dei principi napoletani, a cura di C. Pandolfi, Napoli 1992; Epistole, a cura di M. Sanna, Napoli 1993; Varia. De mente heroica e gli scritti latini minori, a cura di G.G. Visconti, Napoli 1996; Le gesta di Antonio Carafa, a cura di M. Sanna, Napoli 1997; Minora. Scritti latini storici e d’occasione, a cura di G.G. Visconti, Napoli 2000; Le iscrizioni e le composizioni latine, a cura di G.G. Visconti, Napoli 2004; La scienza nuova 1730, a cura di P. Cristofolini - M. Sanna, Napoli 2004; La scienza nuova 1744, a cura di P. Cristofolini - M. Sanna, Roma 2013.
Fonti e Bibl.: Bibliografia vichiana, a cura di F. Nicolini, I-II, Napoli 1947-1948; M. Donzelli, Contributo alla bibliografia vichiana (1948-1970), Napoli 1973; A. Battistini, Nuovo contributo alla bibliografia vichiana (1971-1980), Napoli 1983; seguono: Terzo contributo alla bibliografia vichiana (1981-1985), a cura di R. Mazzola, Napoli 1987; Quarto... (1986-1990), a cura di A. Stile - D. Rotoli, Napoli 1994; Quinto... (1991-1995), a cura di M. Martirano, Napoli 1997; Sesto... (1996-2000), a cura di M. Martirano, Napoli 2002; Settimo... (2001-2005), a cura di D. Armando - M. Riccio, Roma 2008; Ottavo... (2006-2010), a cura di A. Scognamiglio, Roma 2012, Nono... (2011-2015), a cura di A. Scognamiglio, Roma 2018. Fra i contributi critici si vedano: B. Croce, La filosofia di G. V. (1911), Napoli 1997; F. Nicolini, La giovinezza di G. V., Napoli 1932; E. Paci, Ingens sylva (1949), Milano 1994; D. Faucci, V. editore di Grozio?, in Giornale storico della letteratura italiana, CXXXVI (1959), pp. 97-104; N. Badaloni, Introduzione a G.B. V., Milano 1961; G. V. An international symposium, a cura di G. Tagliacozzo, Baltimore-London 1969; I. Berlin, V. e Herder (1976), Roma 1978; D.Ph. Verene, V. La scienza della fantasia, Roma 1984; A. Battistini, La sapienza retorica di G. V., Milano 1995; G. Costa, V. e l’Europa, Milano 1996; G. Mazzotta, La nuova mappa del mondo. La filosofia poetica di G. V., Torino 1999; P. Rossi, Le sterminate antichità e nuovi saggi vichiani, Firenze 1999; M. Sanna, V., Roma 2016. Riviste di riferimento sono i New Vico Studies (1983-2009) e il Bollettino del Centro di studi vichiani (1971-).