Giambattista Vico
All’interno di un itinerario fra i più significativi nella tradizione filosofica dell’Italia moderna Vico, recuperando il valore creativo e conoscitivo della fantasia e dell’ingegno e coniugando il «vero» della filosofia con il «certo» della storia, propone le leggi universali dello sviluppo dell’uomo e della società che tracciano le linee di un progresso mai al riparo dalla caduta. Radicata nelle dinamiche politiche e sociali del Regno di Napoli fra Sei e Settecento, la sua concezione della storia e della politica, sospesa tra il fare dell’uomo e il ruolo della provvidenza, ha influenzato lo sviluppo della cultura italiana e alimenta tuttora il dibattito internazionale.
Giambattista Vico nacque a Napoli il 23 giugno 1668 da famiglia assai modesta. Il padre, che aveva una bottega di libri, lo mandò a scuola dai gesuiti dove seguì il filosofo nominalista Antonio Del Balzo. Dopo poco si ritirò e studiò da autodidatta sui testi del gesuita Emmanuel Alvarez, di Pietro Ispano e Paolo Veneto, e dopo una nuova interruzione frequentò le lezioni di Giuseppe Ricci, animatore delle dispute sul probabilismo e teorico dei «punti metafisici». Prese poi a studiare le Disputationes metaphysicae (1597) di Francisco Suárez e partecipò alle lezioni di diritto di Felice Aquadies; spinto dal padre a fare apprendistato presso l’avvocato Francesco Verde, vi resistette appena due mesi. Tra il 1685 e il 1686 approfondì gli studi di diritto civile e canonico.
Nel 1686 il vescovo di Ischia, Geronimo Rocca, lo volle con sé come precettore dei nipoti. Vico descrive i nove anni in cui seguì i loro spostamenti nel feudo di Vatolla e a Portici – nel corso dei quali poté attingere alla ricca biblioteca dei Rocca e postillare classici latini e italiani – come un periodo di isolamento completo dalla vita culturale di Napoli, in fermento per la circolazione delle opere di René Descartes, Pierre Gassendi, John Locke nonché di un eclettico atomismo influenzato sia dalla riscoperta delle dottrine di Epicuro sia dallo sperimentalismo galileiano-baconiano. Forse ritenne conveniente dare di sé quest’immagine in quegli anni pericolosi, ma in realtà i suoi rapporti con la città non si spensero mai: risulta immatricolato presso la facoltà di Giurisprudenza dal 1689 al 1692, anno in cui frequentò l’Accademia degli Uniti. Le accademie napoletane, cresciute in modo imponente a partire dalla fondazione nel 1665 di quella degli Investiganti, erano divenute uno strumento di rivendicazione di una nuova concezione della politica e di un nuovo ruolo da parte del ceto intellettuale in contrapposizione all’aristocrazia feudale. Alla fondazione dell’Accademia Palatina, promossa dal viceré Luis Francisco de la Cerda, duca di Medinaceli, nel marzo 1698, Vico partecipò presentando la memoria Delle cene sontuose de’ Romani.
Nel frattempo, dopo aver conseguito la laurea in utroque iure, alla fine del 1697 vinse il concorso per la cattedra di retorica dell’ateneo napoletano. Nel 1699 inaugurò l’anno accademico con la prima delle sue sette Orazioni inaugurali, culminate nel 1708 con il De nostri temporis studiorum ratione, pubblicato l’anno successivo, in cui, in polemica con Descartes, espose un metodo di studio e di insegnamento che recuperava il valore del verosimile e del probabile rispetto al vero, dell’ingegno rispetto alla logica, di un sapere civile rivolto al mondo umano e incentrato sull’eloquenza. Nel 1710 uscì il De antiquissima italorum sapientia, dedicato all’amico Paolo Mattia Doria. Fra il 1713 e il 1715 Vico fu impegnato nella scrittura della biografia del maresciallo Antonio Carafa (1642-1693), che fu poi edita con il titolo De rebus gestis Antonj Caraphaei. Nel luglio 1720 pubblicò la Sinopsi, prima parte della sua opera giuridica, seguita a breve dal De universi iuris uno principio et fine uno, mentre il De constantia jurisprudentis venne stampato nell’estate del 1721 e l’ultima parte, le Notae, nel 1722. L’anno dopo Vico fu indotto a ritirarsi dal concorso per la cattedra di diritto romano, che avrebbe migliorato la sua condizione economica, notevolmente aggravata dalla numerosa famiglia.
Agli inizi del 1724 terminò la cosiddetta Scienza nuova in forma negativa, andata poi dispersa, dedicata al cardinale Lorenzo Corsini, il futuro papa Clemente XII, che non finanziò la pubblicazione costringendo Vico a riscriverne una versione ridotta, i Principj di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, edita nel 1725 a Napoli presso Felice Mosca. Nel 1728 Carlo Lodoli e Antonio Conti gli proposero di stamparne un’edizione accresciuta e commentata a Venezia, dove, nello stesso anno, venne pubblicata la Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, all’interno della Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici di Antonio Calogerà. Ma fu ancora a Napoli che, nell’estate del 1730, vide la luce la seconda edizione della Scienza nuova: Vico eliminò una Novella letteraria che narrava la vicenda veneziana e inserì un’incisione allegorica (la ‘Dipintura’) con la relativa ‘Spiegazione’, mosso forse da una lettera di Conti che gli suggeriva, di fronte a pagine troppo piene di concetti, di pensare a una prefazione. Nel corso della stampa unì le Correzioni, miglioramenti ed aggiunte, ma, uscita l’opera, venne avvisato da Francesco Spinelli di qualche errore rimasto nel testo: furono stampate nel gennaio del 1731 le Correzioni, miglioramenti ed aggiunte seconde, seguite poi dalle terze.
Nel 1732 Vico inaugurò l’anno accademico con l’orazione De mente heroica. Nel 1735 ottenne da Carlo di Borbone, salito sul trono l’anno precedente, la carica di storiografo regio. Nell’ultima fase della vita si dedicò soprattutto a rivedere le tesi della Scienza nuova. Nel 1743 ne consegnò la terza edizione, dedicata al cardinale Troiano d’Acquaviva che ne sostenne parzialmente le spese. Corresse le bozze alla fine dell’anno e nella notte tra il 22 e il 23 gennaio 1744 morì senza poter vedere la redazione finale, stampata solo nell’estate, di quella che «di tutte le deboli opere del suo affannato ingegno arebbe voluto che sola fusse restata al mondo» (G. Vico, Vita scritta da se medesimo, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, 1990, p. 77).
L’attività storiografica di Vico si concentra in due opere scritte su commissione, la De parthenopea coniuratione (1703) e la già citata biografia di Carafa (1716), entrambe in qualche modo connesse alle vicende che vedono il Regno di Napoli conteso fra Spagna e Austria prima dell’avvento della dinastia borbonica. La De parthenopea coniuratione ricostruisce la congiura organizzata da alcuni aristocratici capeggiati da Gaetano Gambacorta, principe di Macchia, e repressa nel sangue nel settembre 1703, volta a trasformare il Regno da provincia spagnola in Stato autonomo insediando sul trono Carlo d’Asburgo, secondogenito dell’imperatore Leopoldo. Vico, che aveva ricevuto probabilmente l’incarico dal marchese di Villena, ultimo viceré spagnolo di Napoli, si esprime negativamente sul progetto politico dei congiurati, ma nel 1708, passato ormai il Regno sotto l’Austria, redigerà la memoria funebre in onore di due di loro.
L’incarico di comporre la biografia di Carafa, che a servizio dell’Austria aveva combattuto i turchi nella guerra d’Ungheria, fu invece affidato a Vico dal nipote Adriano Antonio Carafa, che gli mise anche a disposizione l’archivio dello zio. L’opera sottende la convinzione dell’utilità del genere storiografico della biografia, pedagogicamente finalizzato a fornire un modello per i giovani, alla formazione dei quali soprattutto deve badare lo Stato. L’affermazione della possibilità di una «guerra giusta» ripropone un tema caro a Vico, mediato anche dalla lettura, compiuta per l’occasione, di Ugo Grozio, che diviene il quarto dei suoi «auttori» dopo Platone, Tacito e Francis Bacon. Insieme alla convinzione che la cultura conservi e accresca la potenza dello Stato anziché indebolirla, Vico ripropone la possibilità di costruire l’ideologia del nuovo partito napoletano in direzione opposta a quella filobaronale che aveva assunto la congiura di Macchia.
Non è però nelle opere storiografiche che vanno cercati gli antecedenti dell’idea della storia che sottende l’intera sistematica vichiana ed emerge dalle redazioni della Scienza nuova, ma piuttosto nell’architettura stessa del De antiquissima. L’opera, che doveva costituire solo il Liber metaphysicus di una silloge più articolata mai proseguita, è concepita circolarmente in otto capitoli che prendono avvio dalla convertibilità umana di «vero» e «fatto». L’ultimo capitolo si apre con un significativo incipit: «Abbiamo fin qui discusso di verum e factum» (De antiquissima, a cura di M. Sanna, 2005, p. 38); Vico evidenzia così un passaggio cruciale che non riprenderà più in quanto tale, ma costituirà l’ossatura della sua nuova scienza. L’obiettivo che egli persegue è di mettere a punto una giusta distanza tra vero fisico e vero metafisico, esplicitando la differenza tra un vero divino che disponit ac gignit e un vero umano che componit et facit. Questo riferimento al facere stabilisce, a partire dal De antiquissima, la massima principale della conquista del vero da parte dell’uomo, sintetizzata nel celebre adagio:
In latino verum e factum sono termini reciproci, cioè, per dirla alla maniera delle scuole, si convertono […]. Da qui si può congetturare che gli antichi sapienti italici fossero d’accordo, circa la questione della verità, su queste massime: che il vero coincide con il fatto, che di conseguenza in Dio è il primo vero perché Dio è il primo facitore (p. 15).
La stessa idea chiara e distinta della mente non può quindi essere criterio né di se stessa né delle altre verità, perché la mente nell’atto di conoscersi non si fa e, ignorando il modo in cui si conosce, finisce per non conoscersi affatto. L’uomo conosce esclusivamente ciò che fa, il suo facere, vale a dire il mondo della storia. La contrapposizione al pensiero dogmatico e a quello scettico passa attraverso la sola via che a Vico sembra percorribile, ovvero che «criterio di verità di una cosa stia nell’averla fatta» (p. 12). Nel criterio di evidenza Vico sembra rifiutare l’aspetto intuitivo, incapace di offrire garanzie epistemologiche e sganciato dall’empiricità che egli ritiene invece una componente essenziale della produzione di conoscenza.
La posizione vichiana rispetto al tema del dubbio e alla risoluzione prescelta da Descartes era stata già espressa chiaramente nella prima delle Orazioni inaugurali, dove la critica al cogito trovava posto in un passo molto potente dal punto di vista espressivo:
Anche se la mente umana è incerta e dubita di tutte le cose, assolutamente non può dubitare di questo: del suo pensiero; difatti lo stesso dubbio è un pensiero. Dunque, […] da questa consapevolezza del pensare deduce per prima cosa di essere una res; difatti, se non fosse una res, come potrebbe pensare? Poi si accorge di avere in sé, innata, la conoscenza di una res infinita; allora ragiona in questo modo: è necessario che vi sia nella causa tanta grandezza quanta ve n’è nell’effetto che deriva da quella causa; da questo deduce ancora che quella conoscenza di una res infinita deriva da una res che è infinita. A questo punto l’uomo si riconosce limitato e imperfetto; ne inferisce pertanto che quella conoscenza gli è derivata da una res infinita, di cui egli è soltanto una piccola parte (Le Orazioni inaugurali. I-VI, a cura di G.G.Visconti, 1982, p. 87).
La dottrina del verum-factum trova autonomia concettuale nel De antiquissima, ma già nel De ratione Vico ne aveva abbozzato l’idea, conferendo al metodo geometrico la capacità intrinseca di produrre il suo stesso oggetto di conoscenza. Questa fabbricazione di verità ci rende padroni del genere o della forma che adoperiamo per fare il vero, mentre il vero metafisico si rivela «non circoscritto da limiti e non discernibile dalla forma, essendo esso principio infinito di tutte le forme» (De antiquissima, cit., p. 12). Il dubbio che ci si possa trovare ancora all’interno di una formulazione neoscolastica del problema viene dissipato non solo dalla teoria del verum-factum, ma dal metodo dell’inveramento e dagli strumenti che a esso vengono messi a disposizione. Nella trattazione delle facoltà umane, infatti, Vico stabilisce un legame forte tra memoria, fantasia e ingegno, ed evoca attivamente la loro presenza nel processo cognitivo umano come parte integrante del suo metodo «metafisico». Solo nella Scienza nuova si chiarirà come le modificazioni della mente umana rendano ragione della conversione tra verum e factum, e come il facere divino rappresenti il presupposto non pregiudizievole del facere umano garantendo la corrispondenza continua tra piano filosofico (verum) e piano filologico (certum).
Se nel De ratione Vico aveva basato le sue teorie pedagogiche sulla precedenza, in senso cronologico, dei sensi e della fantasia rispetto alla ragione nello sviluppo del fanciullo, nella Scienza nuova una simile considerazione viene trasposta sul piano della storia degli uomini, che «prima sentono senz’avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso; finalmente riflettono con mente pura» (La Scienza nuova 1744, a cura di P. Cristofolini, M. Sanna, 2013, p. 72; corsivi e maiuscole corrispondono all’originale vichiano). La ragione, dunque, arriva solo a uno stadio avanzato dell’evoluzione umana e in base a questo assunto Vico critica Grozio e gli altri esponenti del giusnaturalismo (Samuel Pufendorf, John Selden) per aver dato al diritto un fondamento razionale, mentre alle origini gli uomini, incapaci di riconoscere il «vero» dell’equità naturale potevano solo attenersi al «certo» dell’equità civile espresso dalle leggi.
«Le dottrine – scrive Vico – debbono cominciare da quando cominciano le materie, che trattano», ed è la «boria dei dotti» a far credere che «ciò ch’essi sanno […] sia antico quanto che ’l mondo». Alle nostre nature ingentilite, tuttavia, è «affatto impossibile immaginare, e a gran pena […] permesso d’intendere» la natura poetica dei «primi uomini», la cui «Discoverta», che gli «ha costo la Ricerca ostinata di quasi tutta la [sua] Vita Letteraria», è indicata da Vico come «la chiave maestra» della Scienza nuova (p. 31).
Per penetrare nell’oscurità dei tempi Vico ricorre a una massa di materiali di erudizione tratti soprattutto dai poemi omerici e dalla storia del diritto romano, ma anche dall’Antico Testamento e dai resoconti di viaggiatori e missionari, sulla quale compie un intenso lavoro di comparazione a partire dall’analisi dei miti e dalla ricerca, spesso fantasiosa, delle etimologie, giungendo anche a importanti intuizioni come quella, in anticipo sulla definizione della questione omerica, che l’Iliade e l’Odissea non fossero opera di un singolo autore bensì creazione collettiva dei popoli greci.
Alla filologia, scienza del «certo», del verosimile, del libero arbitrio, si affianca la filosofia con il suo sguardo rivolto al «vero». Abbandonate le tesi diffusionistiche sostenute nel De antiquissima e presenti ancora nel 1725, Vico si volge a ricostruire le leggi universali e necessarie dello sviluppo comuni alle società umane definendo le linee di una «Storia Ideal’ Eterna, sopra la quale corron’ in tempo le Storie di tutte le Nazioni» (p. 94). Due concetti portanti gli permettono di formularne l’idea: da un lato il senso comune, un «giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un’ ordine, da tutto un popolo, da tutta una Nazione o da tutto il Gener’ Umano» (p. 63), che giustifica l’esistenza di un comune «diritto natural delle genti» e in generale di idee uniformi presso popoli non comunicanti fra loro; dall’altro la provvidenza che garantisce la convergenza fra gli interessi particolari degli uomini e il disegno complessivo.
Protagoniste di questo cammino, le «nazioni» sono il luogo in cui convergono le peculiarità delle singole vicende storiche e l’universalità della comune natura umana. Il loro sviluppo è scandito dalla successione delle tre età degli dèi, degli eroi e degli uomini, con cui Vico ridefinisce, a partire da una tradizione egizia, la distinzione di Varrone fra tempi oscuri, favolosi e storici. La triade, peraltro, tende spesso a contrarsi per il comune carattere «poetico» e prerazionale delle prime due età e per il prolungarsi nella seconda della religiosità che caratterizza la prima. Alle tre età corrispondono non solo diversi sistemi politici e giuridici, ma anche religioni, costumi, lingue, alfabeti e, in generale, «nature» diverse. La storia del diritto e delle istituzioni politiche è immersa nel contesto più ampio dell’evoluzione congiunta della totalità delle manifestazioni umane e anche a ciò è dovuta la grande varietà di approcci disciplinari che caratterizza oggi il panorama degli studi vichiani. Vico dedica particolare spazio all’evoluzione delle lingue e, insieme, delle scritture: dai segni muti dei corpi e dai geroglifici, ai linguaggi simbolici e alle imprese araldiche dell’età eroica, fino ai «parlari» volgari e alle scritture alfabetiche.
Accantonato il complesso parallelismo fra le vicende dell’umanità prima e dopo il diluvio presente nella Scienza nuova del 1725, a partire dal 1730 la narrazione dell’origine delle nazioni prende le mosse dalla divisione della discendenza di Noè. Le stirpi di Cam e Giafet e, successivamente, una parte dei popoli semiti iniziano a vagare per la «gran selva» che ricopre la Terra per «inseguire le schive, e ritrose donne» e «campar dalle fiere» avendo perduto la religione e i vincoli sociali fondati sul matrimonio (pp. 18-19). Abbandonata dai genitori, la prole – secondo una delle più sorprendenti fra le «invenzioni» vichiane, in cui convergono i miti dei giganti e le descrizioni etnografiche – cresce a dismisura per effetto dei salnitri contenuti nei propri escrementi, fra i quali rimane a rotolarsi. A questa caduta nello stato bestiale è sottratto il popolo ebraico che ha mantenuto la «vera religione» rivelata da Dio e che Vico tiene al di fuori della ricostruzione delle leggi dello sviluppo storico. Si è perso invece, già nell’edizione del 1730, il problematico riferimento a un altro popolo, gli sciti, preservatosi dalla degenerazione senza l’ausilio della rivelazione.
Difendendo la cronologia biblica e la precedenza degli ebrei sugli altri popoli contro la «boria delle Nazioni» che pretendono di aver «fondato l’Umanità dell’antico Mondo» (p. 61), Vico respinge la tesi della derivazione egizia e caldaica del monoteismo biblico; al tempo stesso, sottolineando il loro radicale isolamento, esclude l’influenza in senso opposto ancora ammessa nella Scienza nuova del 1725 e su cui si basava, nel De antiquissima, l’idea dello sviluppo delle civiltà dei popoli gentili a partire da una sapienza riposta. L’evento che segna la fine dell’«erramento ferino» è il primo fulmine: pochi bestioni, più «robusti» e «pii», ne attribuiscono la causa a una divinità, il terrore per la quale li spinge a trovare un rifugio stabile nelle grotte, a contrarre matrimoni «certi» e a dare sepoltura ai defunti. Il passaggio dal nomadismo alla stanzialità e la nascita dell’agricoltura segnano l’inizio dell’età degli dèi, caratterizzata dal dominio, ritenuto di natura divina, dei padri sulle famiglie composte dai figli e dai «famoli», i bestioni rimasti inizialmente nella condizione violenta e precaria di vagabondaggio «eslege», che per fuggirne i rischi hanno cercato asilo presso i padri e ne coltivano i campi come schiavi in cambio della vita. Il loro arrivo – esemplificato nella storia romana dalla fondazione delle clientele da parte di Romolo – è all’origine della distinzione fra nobili e plebei che differenzia lo stato di natura immaginato da Vico dai precedenti di Grozio, Pufendorf e Thomas Hobbes, la cui connotazione egualitaria, secondo il filosofo napoletano, non consentiva di spiegare la nascita delle città e dello Stato. Solo il conflitto sociale e la necessità di resistere alle «moltitudini» dei famoli rivoltatisi contro la loro prepotenza potevano aver spinto i padri a unirsi in «ordini» rinunciando a parte dei propri poteri e producendo – così come il fulmine aveva prodotto lo stato delle famiglie – il passaggio dall’età degli dèi a quella degli eroi. Esempio di «universale fantastico» (ossia di un carattere presente in tutti i popoli e adeguato alla capacità immaginativa dei primi uomini), Ercole che, dopo aver disboscato la selva primigenia, resiste ai mostri simboleggianti la plebe ammutinata rappresenta questo passaggio, mentre la lira d’Orfeo, la testa di Medusa, i fasci romani stanno a indicare la lega formata dai padri per respingere la ribellione.
Delle tre età vichiane, quella eroica occupa la maggior parte della trattazione della Scienza nuova. In essa si sviluppa la sapienza poetica, fondata su una metafisica «non ragionata, ed astratta, qual’è questa or degli Addottrinati, ma sentita, ed immaginata» (p. 103), e assumono forma scritta le leggi. Nel caso paradigmatico della storia romana è l’età che vede i plebei ottenere gradualmente l’equiparazione ai patrizi nei diritti e nel riconoscimento di condividere la medesima natura umana, in un processo al cui termine segue a breve, con la seconda guerra punica, l’inizio della storia «certa» di Roma narrata da Livio, che corrisponde, nella scansione della storia universale eterna, all’età degli uomini. Le tradizioni favolose cedono il posto ai documenti storici, la sapienza poetica alla ragione «tutta spiegata».
Alla successione delle tre età corrispondono altrettante specie di «autorità», tema cui Vico dedica la sua attenzione centrale fin dal De uno. Quella divina è riposta nella volontà degli dèi di cui i padri si riservano di conoscere gli auspici; quella eroica nelle «solenni formole delle Leggi», da rispettare alla lettera; infine quella umana «nel credito di persone sperimentate, di singolar prudenza nell’agibili, e di sublime sapienza nell’intelligibili cose» (La Scienza nuova 1744, cit., p. 284): una definizione, quest’ultima, che rimanda nuovamente alla questione del ruolo politico degli intellettuali.
Viceversa la successione dei governi si discosta parzialmente dalla triade della storia universale eterna. L’età degli dèi, infatti, corrisponde a una fase prepolitica: lo stato delle famiglie dominato dal potere teocratico dei padri. Solo con l’età degli eroi ha inizio la successione delle forme politiche classiche, che Vico sovverte rispetto a quella aristotelica di monarchia, aristocrazia e democrazia. Buona parte della ‘Confutazione’ di Jean Bodin, l’unica analisi sistematica di un pensatore politico contenuta nella Scienza nuova, è dedicata appunto a criticare la tesi che la monarchia sia la forma originaria del potere civile: essendo inverosimile che i padri rinunciassero alla loro autorità per sottomettersi a un re, i regimi cui dettero vita all’inizio dell’età eroica non poterono che essere aristocratici. Tale fu anche la Roma cosiddetta monarchica e tale rimase dopo la cacciata dei Tarquini.
La fine dell’età eroica e l’uguaglianza fra nobili e plebei corrispondono invece alla nascita delle repubbliche popolari, che il conflitto degli interessi privati spinge naturalmente a evolvere in monarchie. Nei tempi «umani», dunque, e in particolare nell’Europa cristiana, le forme di governo si riducono sostanzialmente a due: la repubblica popolare e la monarchia. La classificazione di Vico si avvicina così alla divisione degli Stati in repubbliche e principati esposta in apertura del Principe (I, 1) da Niccolò Machiavelli, la cui influenza su Vico costituisce un tema assai dibattuto che rimanda anche alla questione delle posizioni religiose del filosofo napoletano.
Affermando che le monarchie rappresentano i governi «più conformi all’Umana Natura della più spiegata ragione» (La Scienza nuova 1744, cit., p. 309), Vico sembra porle all’apice dell’evoluzione politica, sebbene non escluda né l’ulteriore alternanza con le democrazie né gli esiti degenerativi in direzione dell’anarchia, della tirannide e del ritorno alla barbarie. La dimensione ciclica della concezione vichiana della storia, sintetizzata nella nozione (che Vico non formulò mai) dei «corsi e ricorsi storici», rappresenta uno degli aspetti più noti e divulgati della sua filosofia, anche grazie alla sottolineatura che ne fecero autori diversi fra loro, da Benedetto Croce a James Joyce. Vico precisa da subito di voler indagare il corso delle nazioni «ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze, e fini» (p. 75), e questo modello «parabolico» (Cristofolini 1995, p. 105), composto di una fase ascendente e di una discendente, ricorre nella definizione dei principi che pongono in relazione la natura dei popoli – che «prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta» (La Scienza nuova 1744, cit., p. 74) – e le forme politiche cui essi danno vita. Di «ricorso» Vico parla quasi sempre al singolare, non come di una legge generale, ma in relazione al raffronto specifico fra la prima età «eroica» e la «barbarie ritornata» dell’Europa medievale, e soprattutto al nesso, già evidenziato nel Diritto universale, fra gli istituti del diritto romano e quelli feudali ancora ben presenti nel Regno di Napoli del Settecento.
A conferma della «sostanziale ‘politicità’» del pensiero di Vico, la riflessione sul regime feudale trae alimento «dall’esperienza del mondo agrario napoletano» (Giarrizzo 1981, pp. 55, 119), ma al tempo stesso è ricondotta a una legge universale nel richiamo ai «principi eterni dei feudi» riscontrabili, poste certe condizioni, in ogni tempo e in ogni luogo, come mostra l’esempio del Giappone. Il ricorso della «barbarie» nell’Occidente dopo la caduta dell’Impero romano, d’altra parte, non rappresenta una mera ripetizione, ma si inserisce in maniera singolare nei disegni della provvidenza poiché corrisponde allo stabilimento del cristianesimo.
Solo nelle pagine finali della Scienza nuova Vico teorizza i meccanismi generali che producono il ricorso «delle cose Umane nel risurgere che fanno le Nazioni» (La Scienza nuova 1744, cit., p. 323), all’interno di una riflessione più ampia sulla crisi degli ordinamenti popolari e sulla loro degenerazione nella «perfetta tirannide» rappresentata dall’anarchia, «sfrenata libertà de’ popoli liberi» (p. 343). A tale crisi per Vico la provvidenza può fornire tre rimedi: l’ascesa di un monarca, la conquista da parte di un popolo straniero o infine, appunto, il ritorno alla barbarie, quando i popoli «con ostinatissime fazioni, e disperate guerre civili vadano a fare selve delle città, e delle selve covili d’uomini» (p. 344). Per descrivere questo caso estremo, prodotto dalle «malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi», Vico introduce il concetto della «barbarie della riflessione», propria di una ragione che ha perduto ogni aggancio al senso comune, che va a costituire il polo dello sviluppo umano opposto e deteriore rispetto alla creativa «barbarie del senso» degli uomini appena usciti dallo stato bestiale.
Termina così un percorso in cui la dimensione politica ha avuto una rilevanza centrale, e non a caso le pagine conclusive del 1744 tornano ad alludere al tema, presente già nelle Orazioni inaugurali, del ruolo civile, progressivo ma anche potenzialmente distruttivo, dell’eloquenza come strumento di influenza degli intellettuali sul popolo. Vico lo aveva riproposto più ampiamente nella ‘Pratica di questa Scienza’ aggiunta all’edizione del 1730 ma non confluita nel testo finale. Lì ai filosofi affidava il compito di contrastare la tendenza alla corruzione educando i giovani ai principi della provvidenza, della moderazione delle passioni, dell’immortalità dell’anima, affinché, in analogia con il dominio che la mente deve esercitare sul corpo, cooperassero «ciascuno co’ doveri del suo ordine propio […] all’armonia, e bellezza delle Repubbliche» (La Scienza nuova 1730, a cura di P. Cristofolini, M. Sanna, 2004, p. 513).
Quello storico-politico è uno dei principali fili conduttori su cui si dipana la fortuna critica di Vico. Lo si ritrova con continuità a partire dalle letture proposte, attraverso il magistero di Antonio Genovesi, da esponenti dell’Illuminismo napoletano come Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri, e soprattutto da Francesco Lomonaco e Vincenzo Cuoco che, con altri esuli della Rivoluzione napoletana del 1799, alimentano, insieme al filone del vichismo veneziano, la conoscenza di Vico nella cultura lombarda, contribuendo alla prima ristampa della Scienza nuova realizzata a Milano nel 1801.
La visione progressiva della storia e l’insistenza sui caratteri nazionali sono enfatizzate nella prima metà dell’Ottocento alla ricerca di fonti autorevoli della risurrezione risorgimentale. La lettura manzoniana, fra le altre, orienterà la tradizione in una direzione di stampo illuministico, rivolta soprattutto agli aspetti civili ed etici della filosofia vichiana. Si collocano in questo ambito sia la traduzione integrale in francese della Scienza nuova curata da Cristina Trivulzio di Belgioioso nel 1844, dopo che la versione parziale di Jules Michelet (1827) ha portato in Francia un Vico centrato sulla forte identità storica e politica dell’uomo faber creatore della propria storia, sia la prima edizione completa delle opere vichiane (1835-1837) curata, sotto gli auspici di Gian Domenico Romagnosi, da Giuseppe Ferrari.
Successive interpretazioni, come quelle di Bertrando Spaventa, Francesco De Sanctis e Pasquale Villari, contribuiscono all’elaborazione di una concezione della filosofia della storia come scienza della ragione concreta della vita, ma la vera svolta negli studi vichiani si verifica nel 1911, quando La filosofia di G. Vico di Croce, seguito nel 1915 dal volume degli Studi vichiani di Giovanni Gentile, individua nel filosofo napoletano il precursore della filosofia storicista. La lettura neoidealista – nel cui ambito la pubblicazione del Commento storico alla seconda Scienza nuova (2 voll., 1949-1950) di Fausto Nicolini contribuisce a rendere inverosimile la persistente ipotesi di un isolamento culturale e politico di Vico nella sua età – avrebbe caratterizzato fortemente gli studi italiani, che solo dopo la metà del Novecento se ne allontaneranno procedendo verso nuove interpretazioni, tra le quali spiccano la teorizzazione della filosofia «senza natura» (P. Piovani, Vico e la filosofia senza natura, 1969, in Piovani 1990, pp. 55-89) e il concetto di una «religione dello storicismo» (Tessitore 2000). Intanto un breve richiamo in Das Kapital di Karl Marx al facere vichiano apriva la strada a un filone internazionale di interesse per Vico nella prospettiva del materialismo storico e, in Georges Sorel, a un interrogativo sulla tecnologia quale attivo fare dell’uomo verso il dato naturale.
Nelle analisi dei maggiori esponenti dello Historismus (Wilhelm Dilthey, Ernst Troeltsch, Friedrich Meinecke) il principio gnoseologico del verum-factum fa di Vico il primo pensatore capace di tracciare un disegno sistematico delle scienze dello spirito e di impostare i problemi relativi al linguaggio, al mito, alla storia, alla poesia. Posizione, questa, con cui entrano in polemica le tesi che propongono una visione dicotomica tra scienza e storia e che mettono in risalto, nella lettura congiunta di Vico e di Johann Gottfried Herder (1744-1803), l’importanza di giuristi e storici francesi del Cinquecento (Berlin 1976).
La diffusione degli studi vichiani nel mondo anglosassone, sviluppatasi enormemente dalla fine degli anni Sessanta, è alla radice di una linea interpretativa secondo cui la radice immaginativa e il concetto di fantasia, da affrontare non più da una prospettiva estetica, ma piuttosto retorica, costituiscono la vera chiave d’accesso alla scienza vichiana. Allo stesso tempo, nell’ambito della filosofia postanalitica americana, prende avvio l’indagine intorno alla presunta antimodernità di Vico, tramite una lettura della sua metafisica teologica come punto di massimo distacco dal pensiero liberale moderno (Lilla 1993). Il piano moderno/antimoderno si muove in parallelo alle categorie illuminista/antilluminista, attribuendo a Vico non solo una potenza reazionaria sul piano politico, ma anche una nuova ed esplosiva carica di energia positiva e immaginifica. E, a esempio della varietà delle possibili interpretazioni del pensiero di Vico, la sua critica alla tradizione del razionalismo occidentale è anche alla base di rielaborazioni in chiave progressista come quella di Edward Said.
La lettura antimoderna si fonda anche sulle posizioni religiose espresse da Vico. Certamente non è possibile sottovalutare le sue ripetute dichiarazioni di fede cattolica, l’insistenza sul necessario fondamento religioso del vivere civile contro l’ipotesi di Pierre Bayle di una società di atei, o la difesa della cronologia biblica dalle critiche di autori come John Marsham, John Spencer e John Toland e dall’antichità dei cinesi sostenuta dai gesuiti. È però anche vero che le idee di Vico – lambito in gioventù dal processo agli «ateisti» che aveva colpito gli ambienti dell’Accademia di Medinaceli – non sempre sono facilmente riconducibili a una piena ortodossia; che pur confutando esplicitamente, fin dal Diritto universale, gli «scettici» (Epicuro, Machiavelli, Baruch Spinoza, Hobbes, Bayle) i suoi debiti nei confronti di alcuni di essi sono numerosi ed evidenti; che la sua idea dello sviluppo delle società incentrata sulle facoltà e sul «fare» dell’uomo si distacca dalla prospettiva escatologica della concezione cristiana e che nessun ruolo significativo vi gioca l’Incarnazione. La stessa provvidenza, cui Vico attribuisce grande rilievo, tanto da definire la Scienza nuova una «Teologia Civile Ragionata della Provvedenza Divina» (La Scienza nuova 1744, cit., p. 14), non rappresenta, come nella tradizione che va da Agostino a Jacques-Bénigne Bossuet, una forza trascendente che impone direttamente i propri disegni, ma piuttosto l’architetto che garantisce la convergenza in un piano generale dei fini particolari degli uomini e soccorre il loro libero arbitrio nel volgere le passioni in virtù.
La questione della religiosità di Vico è stata riaperta recentemente dalla scoperta di un fascicolo dell’Inquisizione romana relativo alla Scienza nuova. Il procedimento, avviato nel 1727 in seguito al progetto di edizione veneziana, non condusse ad alcun provvedimento, ma al suo interno figura una censura molto severa di alcune tesi vichiane, fra cui quella dell’erramento ferino, che anticipa per molti versi la Difesa dell’autorità della S. Scrittura contro G. B. Vico (1764) del domenicano Bonifacio Finetti. Se la vicenda rimane ancora da approfondire, soprattutto per la sua possibile influenza sulle successive redazioni dell’opera vichiana, senz’altro essa avvalora l’ipotesi che Vico abbia voluto dissimulare, anche a costo di contraddizioni, gli aspetti eterodossi del proprio pensiero, e contribuisce a spiegare perché abbia accolto nell’edizione del 1730 gli interventi correttivi del teologo Giulio Nicolò Torno, poi espunti in quella del 1744.
Nel programma dell’edizione critica delle opere di Vico promossa dall’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno del Consiglio nazionale delle ricerche sono apparsi finora i seguenti volumi:
Orazioni inaugurali I-VI, a cura di G.G. Visconti, Bologna 1982.
Institutiones oratoriae, a cura di G. Crifò, Napoli 1989.
La congiura dei principi napoletani. 1701, a cura di C. Pandolfi, Napoli 1992.
Epistole. Con aggiunte le epistole dei suoi corrispondenti, a cura di M. Sanna, Napoli 1993.
Varia. Il “De Mente Heroica” e gli scritti latini minori, a cura di G.G. Visconti, Napoli 1996.
Le gesta di Antonio Carafa, a cura di M. Sanna, Napoli 1997.
De nostri temporis studiorum ratione, a cura di M. Veneziani, Firenze 2000.
Minora. Scritti latini storici e d’occasione, a cura di G.G. Visconti, Napoli 2000.
Le iscrizioni e composizioni latine, a cura di G.G. Visconti, Napoli 2004.
La Scienza nuova 1730, a cura di P. Cristofolini, M. Sanna, Napoli 2004.
La Scienza nuova 1744, a cura di P. Cristofolini, M. Sanna, Roma 2013.
Altre edizioni di riferimento:
Opere, a cura di F. Nicolini, 8 voll., Bari 1914-1941.
Opere, a cura di P. Rossi, Milano 1959.
Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1971.
Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1974.
Opere, a cura di A. Battistini, 2 voll., Milano 1990.
Giambattista Vico, a cura di F. Tessitore, M. Sanna, Roma 2000.
La Scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, a cura di M. Sanna, V. Vitiello, Milano 2012.
B. Croce, La filosofia di G. Vico, Bari 1911.
I. Berlin, Vico and Herder. Two studies in the history of ideas, London 1976 (trad. it. Roma 1978).
P. Rossi, Le sterminate antichità. Studi vichiani, Pisa 1969, 19992.
R. Esposito, La politica e la storia. Machiavelli e Vico, Napoli 1980.
G. Giarrizzo, Vico, la politica e la storia, Napoli 1981.
N. Badaloni, Introduzione a Vico, Bari 1984.
P. Burke, Vico, Oxford 1985.
P. Piovani, La filosofia nuova di Vico, a cura di F. Tessitore, Napoli 1990.
M. Lilla, G.B. Vico. The making of an anti-modern, Cambridge (Mass.)-London 1993.
P. Cristofolini, La “Scienza nuova” di Vico. Introduzione alla lettura, Roma 1995.
F. Tessitore, Senso comune, teologia della storia e storicismo in Giambattista Vico, introduzione a Giambattista Vico, a cura di Id., M. Sanna, Roma 2000, pp. III-XXV; poi in F. Tessitore, Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma 2002, pp. 7-33.
E. Nuzzo, Tra ordine della storia e storicità. Saggi sui saperi della storia in Vico, Roma 2001.
G. Cacciatore, Metaphysik, Poesie und Geschichte. Über die Philosophie von Giambattista Vico, Berlin 2002.
A. Battistini, Vico tra antichi e moderni, Bologna 2004.
R. Caporali, La tenerezza e la barbarie. Studi su Vico, Napoli 2006.
P. Girard, Giambattista Vico. Rationalité et politique. Une lecture de la “Scienza nuova”, Paris 2008.
Per un quadro complessivo e per gli aspetti del pensiero vichiano che esulano dai temi storico-politici, si rinvia a B. Croce, Bibliografia vichiana, accresciuta e rielaborata da F. Nicolini, 2 voll., Napoli 1947-1948, e ai successivi aggiornamenti giunti attualmente al 2010 (A. Scognamiglio, Ottavo contributo alla bibliografia vichiana. 2006-2010, Roma 2012).
Alle opere di Vico e agli studi vichiani sono dedicate le riviste internazionali «Bollettino del Centro di studi vichiani» (1971-), «New Vico studies» (1983-2009), «Quadernos sobre Vico» (1991-) e il portale web http://www.giambattistavico. it/.