BERNINI, Gian Lorenzo
Architetto, scultore, pittore. Nacque a Napoli da Pietro scultore fiorentino e da Angelica Galante napoletana il 7 dicembre 1598, morì a Roma il 28 novembre 1680. Operosissimo, signoreggiò sull'arte di più che un secolo in Europa; diede forma e misura agl'ideali artistici del suo tempo, interprete della magnificenza imperiale del papato, dell'esuberanza seicentesca di virtù creative, della magniloquenza d'un'età sfarzosa e appassionata in cui filosofia e scienza si affermarono come le arti in uno slancio di rinnovamento. Aveva sei anni quando si trasferì col padre da Napoli a Roma; prima dei dieci anni avrebbe scolpito il ricordo funebre del vescovo G. B. Santoni in S. Prassede a Roma, se la data del 1609 assegnata a quell'opera fosse credibile. Il B. fu precocissimo, ma non a tal punto. I primi saggi della sua attività di scultore sono da assegnarsi al periodo fra il 1614 e il 1619, cioè dai quindici ai vent'anni d'età. L'arte dello scolpire gli era stata insegnata dal padre che il mestiere sapeva bene, buon pratico com'era assai più che inventore. Il giovane studiò appassionatamente le statue antiche, ne restaurò qualcuna, come l'Ermafrodito giacente, oggi nel museo del Louvre, e mostrò qualche accento sicuro della propria personalità nascente nel gruppo di Enea, Anchise ed Ascanio che fuggono da Troia (Roma, Galleria Borghese), non ancora emancipato dai diretti influssi paterni (c. 1616). Il cardinale Scipione Borghese aveva compreso quanta potenza creativa fosse nel diciassettenne B. e l'aveva preso a benvolere dandogli commissione di statue, busti e gruppi che sono oggi raccolti nella sua villa Pinciana. È del 1619 la statua di David che scaglia la pietra; del 1620 il piccolo busto di Paolo V; del 1621 il gruppo marmoreo del Ratto di Proserpina, regalato dal committente al card. Ludovisi nel 1622; è del 1623 o 1624 il gruppo dell'Apollo che insegue Dafne. I due busti del cardinale Scipione sono opere alquanto più tarde, eseguite intorno al 1632. Testimoniano tutte queste sculture un rapidissimo progresso dell'artista nel signoreggiare audacemente la materia, nel conquistare l'espressione d'una personalità prepotente per foga e novità, nel rompere decisamente l'assestato formulario cinquecentesco della scultura. Allo stesso periodo appartengono: un Angelo annunciante per la chiesa di S. Bruno in Bordeaux (1620-21) a riscontro d'una Vergine Annunziata scolpita dal padre Pietro B., i busti di Gregorio XV (1621), del cardinale Bellarmino, di Urbano VIII (1625) e del cardinale Francesco Barberini.
Accanto alla personalità dello scultore si veniva maturando nel B. la personalità dell'architetto, il quale doveva imprimere suggello così profondo nell'architettura mondiale che ancora oggi ne durano i segni negli ultimi epigoni. Tutti i biografi del B. tacciono sull'educazione di lui nell'architettura. Il padre suo, pratico soltanto nello scolpire, non poteva insegnargli più di quanto sapeva; il giovane B. dovette quindi farsi architetto da sé con lo studio dei monumenti dell'impero romano e di Michelangiolo, come il suo stile maturo dimostra; la sua arte ha infatti scarsissimi nessi con lo stracco formulario architettonico che mal rappresentava, tra la fine del Cinquecento e il principio del Seicento, la solenne tradizione del Rinascimento. Sue prime opere d'architettura furono il baldacchino di S. Pietro, cominciato nel 1624 e compiuto nel '33, e la facciata della chiesa di S. Bibiana in Roma, tentativi entrambi di rompere con la forza plastica del chiaroscuro la piatta correttezza delle architetture del tardo Cinquecento, venute di moda con D. Fontana. Quando Urbano VIII nel 1629 nominava il B. architetto della fabbrica di San Pietro, era già compiuta la facciata del palazzo di Propaganda Fide, su piazza di Spagna (1627), prima opera in cui l'architetto non ancora trentenne rivela l'originalità del novatore, dando un organismo struttivo e plastico alla fronte di quel palazzo.
Da quel tempo in poi il B. è attratto in modo prevalente dall'architettura: le sue facoltà di scultore gli servono bene nel complemento decorativo delle concezioni architettoniche; lascia spesso ai discepoli l'esecuzione materiale della parte scultoria, si riserva le grandi linee delle creazioni che uscivano di getto dal suo fecondissimo ingegno. Verso i trent'anni s'orienta e sceglie con decisione la propria via. Nel 1630 architetta la facciata del palazzo Barberini; due anni dopo (1632) aggiunge sul pronao del Pantheon due edicole per le campane, vituperate dalla critica accademica col nomignolo di "orecchioni" e demolite nel 1882. Intanto aveva dato un primo e non felice saggio di pittura nel quadro del Martirio di S. Maurizio, ora nello Studio del musaico in Vaticano; aveva scolpito i busti del gen. Carlo Barberini in Campidoglio (1630), del Montoja per S. Giacomo degli Spagnoli (ora in S. Maria di Monserrato), di Costanza Buonarelli, sua amante circa il 1632, ora nel museo fiorentino del Bargello; aveva figurato allegoricamente l'anima dannata e l'anima beata in due busti che sono nel palazzo di Spagna a Roma e modellato la statua in bronzo di Urbano VIII (1632) che fu sulla piazza di Velletri finché venne distrutta, regnante Napoleone I.
Sotto Urbano VIII il B. godé intera la fiducia del papa, poeta latino, uomo di gusto e di spirito. Si narra che, appena salito al soglio, egli dicesse al B.: "È gran fortuna la vostra, o Cavaliere, di veder papa il cardinale Maffeo Barberini, ma assai maggiore è la nostra che il Cavalier Bernini viva nel nostro pontificato". Per Urbano VIII il B. architettò, dipinse, scolpì, incise stampe nell'edizione delle poesie latine del papa (1631), compose scenarî per il teatro dei Barberini nell'epoca in cui la nuova arte del melodramma era in tal voga che perfino monaci e prelati e cardinali componevano libretti e musiche. Nel 1635 compose la tomba della contessa Matilde in S. Pietro al Vaticano ripetendo nella nicchia le prospettive illusorie usate nel palazzo Barberini; fece nel 1637 il modello dei due campanili sulla facciata di S. Pietro, disgraziata impresa e fonte al B. di grandi amarezze, ché l'unico cominciato era a buon punto nel 1641, ma dovette essere interrotto nel '44 e demolito nel '46 per alcune lesioni comparse nella muratura e per la disapprovazione gelosa che aveva incontrato. Nel 1639 il B. aveva sposato Caterina di Paolo Tazio, procuratore della corte papale. L'anno dopo, oltre alla decorazione della tribuna e dell'altar maggiore di S. Lorenzo in Damaso, distrutta nel 1820, modellò un busto di Urbano VIII per la cattedrale di Spoleto; scolpì la statua marmorea di quel papa per il palazzo dei Conservatori in Campidoglio; compose la fontana del Tritone, la prima delle fontane inventate dal B. con l'innesto di motivi scultorei e pittoreschi su schemi architettonici in un gioco di capricciose ma vigilate fantasie. Tre anni dopo, nel 1643, il B., compiuta la fontana delle api sull'angolo di piazza Barberini con via Sistina (ora trasferita sull'angolo di via Vittorio Veneto), inaugurava un genere nuovo di monumenti funebri ponendo attorno al medaglione di Suor Maria Raggi, in S. Maria Sopra Minerva, uno sbandieramento di drappi marmorei agitati da un turbine immaginario.
Nel 1644 il grande protettore del B., Urbano VIII, moriva; le gelosie dei rivali del favoritissimo artista si scatenavano; il nuovo papa Innocenzo X gli preferiva Francesco Borromini, lo allontanava dalla corte insieme con gli altri prediletti dal predecessore, gl'imponeva la demolizione del campanile di S. Pietro. Allora il B. cominciava a scolpire quel gruppo marmoreo della Verità scoperta dal Tempo (ora nella galleria Borghese) che doveva simboleggiare l'ingiustizia delle persecuzioni contro di lui e che rimase incompiuto con la sola figura della nuda Verità, quasi a dimostrare, come avvenne, che il tempo non era necessario per il trionfo della rivelata giustizia. Infatti nel 1647 il B. compiva con la figurazione dell'estasi di S. Teresa quella cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria che segna uno dei più alti punti a cui giungesse l'arte del B. nell'invenzione architettonica, nella preziosità decorativa e scenografica, nella virtuosità scultoria. Innocenzo X riconciliato col B. gli affidava l'esecuzione della fontana dei fiumi in piazza Navona, fra le fontane berniniane la più tipica per esuberanza di fantasia e novità d'invenzione, opera compiuta nel '51 con l'aiuto dei discepoli Fancelli, Raggi, Porissimi e Baratta. Il favore del papa fu solennemente confermato dalla commissione al B. di due grandi opere d'architettura: la decorazione del braccio lungo della basilica di S. Pietro (1647) che il B. compì nel '53 con mirabile senso d'equilibrio architettonico, prospettico e coloristico; il palazzo della curia romana sull'altura di Montecitorio (1650), nella cui facciata, compiuta quarant'anni più tardi da Carlo Fontana, il movimento delle masse, l'unione di due piani in un solo ordine, l'inclusione d'un ammezzato nel fregio, l'attico del coronamento sono invenzioni che tutti gli architetti barocchi imiteranno.
Morto nel 1655 Innocenzo X e succedutogli Alessandro VII, la potenza creativa del B. prende uno slancio nuovo, stampa nell'architettura l'impronta del genio. Nel 1656 fa il progetto del colonnato di S. Pietro, nello stesso anno applica sulla porta del Popolo in Roma una nuova decorazione d'apparato, rendendola più solenne per l'ingresso di Cristina di Svezia. Restaura intanto la cappella dei Chigi in S. Maria del Popolo, decora la navata centrale della stessa chiesa e con fantasiosa invenzione vi crea le mostre degli organi (1658), amplia il palazzo pontificio del Quirinale (1656) aggiungendovi quella che si chiama anche oggi la "manica lunga" e nello stesso anno disegna la trionfale macchina bronzea destinata a racchiudere in una gloria di statue, di voli, di raggi e di nuvole la cattedra di S. Pietro sullo sfondo dell'abside della basilica vaticana. Ormai l'artista sessantenne è lanciato con foga giovanile nelle più varie imprese: crea nel 1658 una delle sue più belle architetture nella chiesa di S. Andrea al Quirinale; lavora nel palazzo papale di Castel Gandolfo (1660) e ne trasforma la chiesa; modella in creta la macchina della cattedra di S. Pietro (1661) e la fa fondere in bronzo; gioca di prospettive sapientissime nella Scala regia del Vaticano che egli trasforma e solennizza (1663-66); architetta la cappella De Silva in S. Isidoro; eleva dalle fondamenta la chiesa dell'Assunta in Ariccia ed amplia l'arsenale marittimo di Civitavecchia. Nel 1665 il colonnato di piazza S. Pietro era compiuto con le 96 statue del coronamento, fatte dagli allievi sotto l'ispirazione del maestro e nello stesso anno il B., restaurata la sala ducale in Vaticano, fatto un progetto di decorazione in stucco per la cupola del Pantheon, ché più non si ferma la sua smania di tutto creare e trasformare, dà nel palazzo Chigi, poi Odescalchi, in piazza Ss. Apostoli il modello compiuto del palazzo romano dell'età barocca.
La fama del B. aveva da tempo varcato i confini d'Italia. Nel 1637 era stato commesso al B. il busto di Carlo I d'Inghilterra ora a Windsor, tratto da un triplice ritratto dipinto dal Van Dyck di faccia e di profilo; nel 1642 il cardinale Richelieu aveva voluto anch'egli il proprio busto dal grande scultore che l'aveva scolpito da tre ritratti di Filippo di Champaigne; nel 1664 Luigi XIV, per suggerimento del Colbert, aveva chiesto al B. un primo progetto per la facciata del palazzo del Louvre, residenza favorita della corte nella stagione invernale. Ma non avendo quel primo disegno interamente sodisfatto, il B. ne fece un secondo (gennaio 1665) che piacque; lo stesso re di Francia scrisse al B. la lettera che l'invitava a Parigi per l'esecuzione, onore insolito, pari all'immensa fama che l'artista s'era conquistato. Il B. vi si recò in un viaggio trionfale (aprile 1665) fra omaggi di monarchi, onori di principi; ma invidie d'artisti francesi, intrighi di corte, scarsa protezione del re fecero sì che il progetto berniniano, veramente mirabile, non ebbe esecuzione. Dopo cinque mesi di soggiorno a Parigi dove lasciò di sua mano un pomposo busto di Luigi XIV (oggi a Versailles) e ideò il baldacchino sull'altare nella chiesa del Val-de-Grâce, in confronto di quello di S. Pietro più libero, mosso, brioso, il B. tornò a Roma. L'arte sua non doveva avere però in Francia che cattiva fortuna; una statua equestre di Luigi XIV modellata nel 1669 a Roma dal B. non incontrò il gusto del gran re; contaminata e trasformata dal Girardon in un Curzio che si getta nella voragine, oggi resta quasi negletta nel parco di Versailles, mentre un bozzetto in terracotta di quella nobile opera è entrato da poco nella galleria Borghese a Roma.
Ormai, dopo il ritorno dalla Francia in patria, l'artista appare stanco, il suo fervore creativo indebolito. Nel 1668 fa i disegni per la cappella Rospigliosi a Pistoia e per quella Fonseca in S. Lorenzo in Lucina a Roma; progetta nel '69 la ricostruzione dell'abside di S. Maria Maggiore, dando la prima idea di quella che sarà poi l'opera di Carlo Rainaldi; compie nel '70 il monumento equestre di Costantino nel portico di S. Pietro; restaura il ponte Sant'Angelo e lo decora di statue, due delle quali di sua mano sono oggi in S. Andrea delle Fratte; fa dal '72 al '78 il monumento funebre di Alessandro VII in S. Pietro e contemporaneamente il ciborio per l'altare del Sacramento, pure nella Basilica vaticana. È del 1674 l'ultima opera scultoria del B., la statua giacente della B. Ludovica Albertoni in S. Francesco a Ripa ed è del '76 il disegno per il mausoleo di Innocenzo XI cui non fu data esecuzione.
Colpito da paralisi nel 1680, perdette l'uso del braccio destro, riconobbe giusto, scherzando sulla propria infermità, che quel braccio e quella mano si riposassero un poco dopo tanto lavoro, ma più non si riebbe e nel novembre di quell'anno morì.
I biografi e i ritratti ce lo descrivono di media altezza, piuttosto magro, di carnato bruno, di capelli neri abbondanti divenuti candidissimi ma sempre folti con l'età; l'occhio vivacissimo nell'occhiaia fonda sotto le sopracciglia vellose e lo sguardo intenso, riflesso d'un temperamento di fuoco, pronto ad esplodere in accenti di facile ira. Parlatore fortemente espressivo, procedeva nel discorrere per imagini visive com'è proprio dei pittori e degli scultori, accentuando la parola con la mimica del volto dai lineamenti marcati e col gesto. L'esuberanza del suo temperamento lampeggiava nello sguardo come nell'azione.
Dipinse, ma si vergognò d'aver dipinto e distrusse di sua mano i quadri, sì che oggi rimangono deboli tracce di quella che fu l'opera sua pittorica. Disegnò molto e si dilettò anche di fare caricature conservate oggi nel Gabinetto nazionale delle stampe a Roma, come rivelazioni d'un temperamento prontissimo a cogliere gli accenti caratteristici dei volti e dei gesti. Fissò in rapidi abbozzi di creta le concezioni scultorie che dettava ai discepoli.
Il B. fu un classico. Quando la critica accademica della fine del sec. XVIII e dei primi del XIX nella sua furia di reazione contro il Barocco degenerato, andò a cercare il segreto d'ogni bellezza nella Grecia di Pericle e trovò canoni e fissò regole che parvero immutabili, l'arte del B., incompresa e incomprensibile da siffatti postulati, divenne sinonimo di impuro, d'enfatico, di pazzesco. Se il classicismo, infatti, fosse soltanto quello dell'arte ellenica fra il sec. V e il IV a. C., inteso come regola infallibile per la creazione del bello assoluto, non v'è dubbio che l'arte berniniana, e non soltanto quella, sarebbe piena di spropositi e d'assurdità. Ma, oggi, una più larga e più verace comprensione della classicità attraverso le sue mutevoli espressioni, non mai cristallizzate in regole fisse anche nelle epoche di maggior coerenza stilistica, permette una diversa valutazione dell'arte del B.
Egli fu prima di tutto architetto. Per quanto iniziasse la sua vita artistica come scultore, l'architettura l'attrasse prepotentemente negli anni maturi. Michelangiolo gli dava l'esempio d'un'architettura concepita plasticamente per masse e vigorosamente chiaroscurata; gli avanzi di Roma imperiale gli insegnavano una concezione architettonica che era la netta antitesi di quella dei Greci in quanto curvava ogni superficie, mura e vòlte e cupole, nell'intento di circuire aree vastissime e di coprire amplissimi spazî mediante strutture vigorose organizzate nel libero gioco delle masse. Il B. ebbe sempre presenti in tutta la sua vita d'architetto gl'insegnamenti di Michelangiolo e degli architetti romani del sec. II e del III d. C.; vi aggiunse di suo le invenzioni d'una incoercibile fantasia, un senso nuovo della prospettiva, della decorazione, del pittoresco, naturale commento all'architettura rinnovata entro gli schemi di una risorta classicità.
Nel baldacchino di S. Pietro, B. è ancora lo scultore e l'apparatore che fissa nel bronzo uno stupendo capriccio; ma nella chiesa di S. Bibiana e nella facciata del palazzo di Propaganda Fide l'architetto già si rivela col suo gusto del muovere masse e superficie in un chiaroscuro accentuato con decisione. Nella facciata del palazzo Barberini riprende la sovrapposizione dei tre ordini del teatro di Marcello e del Colosseo, vi aggiunge l'effetto delle prospettive illusorie nelle finestre della loggia suprema, digrada il rilievo dei piani dal basso all'alto. Quando concepisce i campanili ai lati della facciata di S. Pietro, si preoccupa, da buon architetto, di rompere con l'effetto di due masse ascensionali e traforate la monotona orizzontalità e compattezza di quella fronte; quando organizza la cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria e, subito dopo, la cappella Raimondi in S. Pietro in Montorio, sbriglia la sua vena di scenografo e curva le superficie, spezza i timpani, rileva le masse, commenta col colore dei marmi la forza plastica del chiaroscuro.
Verso i cinquant'anni il B. ha una originalità architettonica matura che ha assimilato gli insegnamenti offerti con larghezza dagli edifici di Roma e ha esperimentato tutti gli effetti nuovi suggeriti dalla fantasia. Egli si farà oramai sempre più severo e castigato, tornerà sempre più volentieri agli schemi classici puri, sebbene interpretati con libertà. Nella decorazione del braccio lungo di S. Pietro, in cui riprende i motivi degli archi ribassati sull'ordine corinzio di S. Maria degli Angeli, connubio di Michelangiolo con gli antichi, gioca magistralmente di prospettiva e di colore; nel palazzo di Montecitorio non solo rompe la monotonia della lunga fronte spartendola in cinque campate, ma sull'alto zoccolo, in cui introduce piloni di false rocce a ricordo pittoresco delle sue fontane, pianta coraggiosamente due piani entro alte pilastrate corinzie e pone il terzo nel fregio, inizia cioè il tipo novissimo del palazzo barocco che condurrà a perfezione quindici anni più tardi nel progetto bellissimo per il Louvre a Parigi e nel palazzo Chigi, oggi Odescalchi, in Piazza Ss. Apostoli a Roma.
Di concezione classica pura è il colonnato di S. Pietro in cui rivive lo spirito dei recinti dei fori imperiali di Roma e dei loro portici curvi con l'aggiunta tutta berniniana delle statue agitate come bandiere al vento e dei nuovi effetti di quella sapienza prospettica che, entro schemi altrettanto classici e romani, il B. sfrutterà con inesauribile vena inventiva a correggere la strettoia obbligata della Scala Regia in Vaticano.
Nelle chiese il B. si tiene costantemente a quella disposizione concentrica che i Romani avevano così largamente usata per amplificare l'impressione dello spazio interiore e adotta la pianta rotonda nell'Assunta dell'Ariccia, ovale in S. Andrea al Quirinale, a croce greca in Castel Gandolfo. Il ricordo del Pantheon dove il B. aveva lavorato al tempo d'Urbano VIII, è sempre presente in queste chiese, nella cupola, nelle archeggiature e nel pronao dell'Ariccia, nella partizione interna e nel presbiterio di S. Andrea, nella cupola di Castel Gandolfo, in tutto lo spirito delle piante e degli alzati, ma arricchito dalla fantasia sempre fresca con l'aggiunta di particolari festosi, con la trasformazione del tondo in ovale, con l'esuberanza decorativa che fiorisce negli stucchi, nei colori, nell'oro come una vegetazione rampicante sugli schemi che rimangono schiettamente classici.
Così il B. ricrea a Roma l'architettura dell'impero romano in un secondo Rinascimento della classicità. La ricrea più ancora nello spirito che nelle forme, risolve anzi il problema che i Romani non avevano risolto appieno. Pur creando la maraviglia delle strutture curvilinee in piena antitesi con quelle rettilinee dei Greci, pur giungendo alla copertura d'immensi spazî interiori, i Romani non avevano saputo fondere in tutto la veste con il corpo delle loro architetture e s'erano spesso limitati a rivestirle con forme prese a prestito dai Greci; mentre il B. col gioco delle masse, con la fusione perfetta di strutture e di membrature, scheletro e polpa dei suoi monumenti, col chiaroscuro ardito commentato dal colore, riesce a compenetrare l'ornamento nella massa muraria, a fonderli in una sola e compiuta armonia.
Né diverso era il suo spirito di scultore. Classico, ma non dell'epoca periclea tutta compresa dall'imperturbabile e statica maestà degli dei e degli eroi, bensì dell'ellenismo commosso, esuberante, naturalistico. Come Michelangiolo adorava il Laocoonte e il torso di Belvedere, così il B. prediligeva gli scultori di Pergamo, di Rodi, d'Alessandria, li amava nei capolavori superstiti, dal Toro Farnese al Centauro Borghese, dal Galata morente al Nilo del Vaticano. Li amava nella loro umanità commossa e dolorante, nell'attimo di movimento sorpreso e fissato, nel traforo del marmo fortemente chiaroscurato, nel modellato carnoso e nell'espressione viva, nelle chiome arruffate e nei muscoli tesi. Allo spirito ellenistico, ansioso sempre d'armonia ideale anche nella dinamica più spinta, aggiungeva il forte gusto realistico romano dei ritratti, lo interpretava col virtuosismo dello scalpello per il quale non esistevano segreti, si compiaceva di lisciare i marmi come se fossero carne in cui le dita s'affondano.
Partito da queste sue preferenze, già chiaramente affermate nelle sculture fatte per Scipione Borghese, assistito da un'eccezionale maestria di mano esercitata fin dall'infanzia, il B. inaugurava una scultura d'azione e di sensazione che sta alla statuaria ellenica del sec. V a. C. come la fotografia istantanea sta a quella a posa; cioè inaugurava la scultura barocca.
Uomo nettamente rappresentativo del tempo suo, il B. non poteva dimenticare il rinato e invadente gusto del teatro, dramma e melodramma, commedia e danza. Fondeva la castigata sapienza dell'architetto, con la sbrigliata fantasia dello scultore e del pittore, si ricordava d'essere sempre, oltre tutto, scenografo. Le sue architetture sono organizzate come scenarî in cui la prospettiva e il punto di vista hanno un'importanza dominante; i suoi personaggi conoscono gli effetti della posa e della recitazione; nelle concezioni berniniane, come sulla scena, la luce ha una parte essenziale, sia come generatrice di chiaroscuro, sia come creatrice di colori. Cura particolare del B. è distribuirla con raffinatezza richiamandola sui risalti, contrastati dall'ombra delle rientranze all'esterno, radunandola nell'interno sui punti degni di maggior rilievo. In tutta la sua opera si manifesta la mirabile unità d'un temperamento che prende ogni arte e la trasforma con l'impronta sua, che si mantiene fedele, italiano perfetto, alla dipendenza d'ogni concezione artistica dall'architettura.
L'influenza del B. sui contemporanei e sui posteri fu enorme. I suoi discepoli e collaboratori diretti, piuttosto comprimarî che attori di fronte alla figura imponente del protagonista, ebbero la funzione di divulgare in Italia e fuori il verbo berniniano, capace di una straordinaria diffusione durata due secoli almeno. Quando il B. morì, dopo sessanta anni di lavoro intenso, accadde quanto era successo nell'impero macedone alla morte d'Alessandro Magno: nessuno degli eredi fu così grande capo da assumere da solo la successione; l'impero fu diviso fra i satrapi minori dell'arte. Una sola grande figura d'architetto aveva contrastato col B., quella di Francesco Borromini: era il temperamento nordico di contro al temperamento meridionale, rappresentava la tendenza gotica delle proporzioni allungate verso l'alto, del frastagliato movimento di masse e dell'ornamento complesso, prezioso e bizzarro; si contrapponeva alla quadratura berniniana, al suo permanente classicismo, alla subordinazione dell'ornamento in favore della ritmica struttiva. Lotta di due tendenze opposte, sentita più che capita anche dai contemporanei che la ridussero inconsapevolmente a un contrasto personale. Ma l'arte italiana fu, dopo la morte del B., tutta berniniana e l'influenza borrominiana, con un fenomeno isolato di lenta diffusione, emigrò, com'era naturale, in Germania e in Francia, terre del goticismo, dove figliò il Settecento nordico in genere e francese in specie, il rococò, la preziosità ornamentale e capricciosa, divenuta in Spagna delirio.
Gli architetti del Seicento, primi fra questi Mattia de' Rossi, Carlo Fontana, Carlo Rainaldi, usciti dal ceppo berniniano, diffusero il gusto del movimento delle masse, del forte chiaroscuro, degli effetti prospettici, che il maestro aveva insegnato a comporre entro i classici schemi; gli scultori del Seicento, G. Finelli e F. Mochi, G. Fancelli e F. Duquesnoy, A. Raggi e lo stesso A. Algardi, attirato nell'orbita berniniana, propagarono il nuovo ellenismo della scultura; i pittori del Seicento, tramite il Baciccio, delle idee pittoriche del B. fedele interprete, si dettero alla grande decorazione di pareti, di vòlte, di cupole, prolungando nei cieli ideali in prospettive illusorie le concezioni architettoniche berniniane e popolandole d'una folla d'uomini, d'angioli, di santi fra sbandieramenti di drappi colorati, fughe di toni, guizzi di luce e segreti d'ombre. L'arte barocca, nata dal genio del B., era partita da Roma alla conquista d'un impero mondiale. (V. tavv. CLXXXVII a CXCVIII).
Bibl.: F. Baldinucci, Vita del Cavaliere Gio. Lorenzo Bernini (Firenze 1682), a cura di A. Riegl, Vienna 1912; D. Bernini, Vita del cav. G. L. Bernini, Roma 1713; S. Fraschetti, il Bernini, Milano 1900; H. Posse, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, III, Lipsia 1909 (con la bibl. precedente); C. Ricci, Il Bernini, Bologna 1910; M. v. Boehn, L. B., seine Zeit, seine Leben, sein Werk, Lipsia 1912, 2ª ed., Lipsia 1927 (con bibl.); A. E. Brinckmann, Barockskulptur, Berlino-Neubabelsberg 1921, II, pp. 227-53; id., Barock-Bozzetti. Italienische Bildhauer, Francoforte s. M. 1923; A. Muñoz, G. L. B., architetto e decoratore, Roma 1925 (con bibl.); E. Benkard, G. L. Bernini, Francoforte sul M. 1926; R. Longhi, Precisioni nelle gallerie italiane, R. Galleria Borghese, Roma 1928, pp. 3-12; v. inoltre, tra i numerosi articoli recenti: A. Bertini-Calosso, Il classicismo di G. L. B. e l'arte francese, in L'Arte, XXIV (1921), pp. 241-56; id., Il monumento equestre di B. a Luigi XIV, in Boll. d'arte, n. s., III (1923-24), pp. 557-66; H. Voss, Ein vergessenes Werk L. Berninis, in Zeitschr. f. bild. Kunst, VIII (1924), pp. 35-38; A. E. Brinckmann, Due bozzetti per fontana di G. L. B., in Boll. d'arte, n. s., III (1923-24), pp. 491-95; id., Ein Bozzetto Berninis, in Zeitschr. f. bild. Kunst, LX (1926-27), pp. 264-70; Tormo y Monzò in Archivio Español, 1925, p. 117 segg.; P. Vitry, Une esquisse de la "Vérité" du Bernin au Musée du Louvre, in Mélanges Bertaux, 1924, pp. 339-45; R. Josephran, Les maquettes du Bernin pour le Louvre, in Gaz. des B.-A., XVII (1928), pp. 77-92; V. Mariani, Ancora un dipinto del B., in L'Arte, XXXII (1929), pp. 22-26; id., Bozzetti berniniani, in Boll. d'arte, IX (1929-30), pp. 59-65.