GIAPPONE (A. T., 101-102)
Grande arcipelago e stato dell'Asia estremo-orientale.
Geografia: Nome (p. 1); Delimitazione ed estensione (p. 1); Storia dell'esplorazione (p. 2); Rilievo e cenni geologici (p. 3); Mari e coste (p. 7); Condizioni climatiche (p. 8); Idrografia (p. 10); Flora e vegetazione (p. 10); Fauna (p. 10); Antropologia (p. 11); Etnografia (p. 13); Dati statistici sulla popolazione (p. 16); Distribuzione della popolazione (p. 18); Emigrazione (p. 19); Agricoltura e allevamento (p. 20); Foreste (p. 23); Pesca (p. 23); Risorse minerarie (p. 23); Industrie (p. 25); Comunicazioni (p. 26); Commercio (p. 28); Suddivisioni storiche e amministrative (p. 29). Ordinamento dello stato: Ordinamento costituzionale (p. 30); Amministrazione della giustizia (p. 31); Forze armate (p. 31); Ordinamento scolastico (p. 32); Finanze (p. 33). Storia (p. 33). Religioni (p. 41). Lingua (p. 43). Letteratura (p. 45). Arte (p. 52). Musica (p. 60). Diritto (p.61).
Nome. - In antico il Giappone non ebbe un nome ufficiale. Nelle prime produzioni letterarie del paese (sec. VIII d. C.) si trovano molte espressioni con cui gli scrittori dell'epoca designano la loro terra. Tali sono, ad es., Aki-tsu-shima ("isola della libellula", dalla forma che essi credevano avesse il territorio della loro patria), Mizuho-no-kuni ("il paese ricco di spighe di riso"), Yamato ("la regione delle montagne", nome di una delle provincie centrali dove risiedeva l'imperatore), Ō-ya-shima ("le otto grandi isole"), ecc. L'attuale nome ufficiale, Nippon o Nihon, entrò in uso, sembra, intorno al 670 d. C.; le altre denominazioni, tuttavia, seguitarono per molto tempo a essere usate nella letteratura. Nippon o Nihon non è che la pronuncia giapponese del cinese Jihpên (abbreviazione di Jih-pên-kuo, "il paese dell'origine del sole") nome col quale il Giappone era, ed è tuttora, conosciuto agli abitanti della Cina. Fu precisamente il nome di Jih-pen-kuo che Marco Polo udì in Cina per la prima volta e ch'egli rese noto in Europa nella forma Cipangu. da cui derivarono poi numerose altre varianti, come Zipangu, Zipangri, Chimpagu e persino Inpancho e altre ancora, con le quali, negli atlanti e nei portolani dei secoli XVI e XVII principalmente vengono chiamate le isole dell'arcipelago giapponese. Da queste forme derivano il nome italiano Giappone e i corrispondenti Japan, Japon, ecc., delle lingue colte d'Europa.
Delimitazione ed estensione. - L'Impero giapponese è costituito da una lunga catena d'isole estendentisi a festone, per una lunghezza di 4700 km. circa, di fronte alle coste orientali del continente asiatico e dalla penisola di Corea che dal medesimo si stacca protendendosi verso sud. La catena forma tre archi a lieve curvatura, con la convessità rivolta verso il Pacifico, ciascuno dei quali abbraccia un mare, e cioè il Mare di Ochotsk, il Mar del Giappone e il Mar della Cina. L'arco centrale comprende il Giappone propriamente detto, che è la parte principale dell'Impero ed è costituito dalle 4 isole di Kyūshū, Shikoku, Hondo (o Honshū) e Hokkaidō (conosciuta all'estero col nome antico di Yezo), le più grandi di tutto l'arcipelago. Gli altri due archi sono formati ciascuno da una catena di piccole isole, e precisamente quello a nord dalle isole Kurili (giapp. Chishima, "le mille isole"), quella a sud dalle isole Ryū-kyū, note spesso in Europa col nome cinese corrispondente di Liu-ch'iu (inglese: Loochoo Islands). Appartengono ancora al territorio dell'Impero la parte meridionale dell'isola Sachalin (giapp. Karafuto), e l'isola di Formosa (giapp. Taiwan); inoltre, per il trattato cino-giapponese del 25 maggio 1915, come territorio concesso in affitto fino al 1997, è sotto l'amministrazione giapponese di stato diretta la parte meridionale della penisola di Liaotung, costituente il territorio del Kwan-tung; e dal 1920, in seguito a mandato della Società delle Nazioni, vengono pure amministrati dal Giappone alcuni scogli e isolette facenti già parte dell'impero coloniale tedesco, sparsi nell'Oceano Pacifico a nord dell'Equatore e comprendenti la maggior parte delle isole Caroline, Marshall e Marianne, a eccezione dell'isola Guam, già da prima appartenente agli Stati Uniti d'America.
Lo specchio seguente riassume alcuni dati sul territorio delle varie parti costituenti l'impero giapponese:
Storia dell'esplorazione. - Le prime notizie pervenute in Europa sul Giappone sono costituite dalla ben nota, fantastica descrizione che Marco Polo fa dello Cipangu, ed è conosciuta l'influenza ch'essa ebbe sul finire del Medioevo, sia sulle concezioni geografiche dell'epoca (Colombo, Toscanelli), sia sulle più antiche rappresentazioni cartografiche dell'Estremo Oriente, fra le quali è prima in ordine di tempo la carta del camaldolese Fra Mauro (1459), cui segue, nel 1492, quella del Behaim.
I casi occorsi all'avventuriero portoghese Fernando Mendez Pinto, sbarcato, pare nel 1543, nell'isola di Tanegashima con due compagni, Diego Zeimoto e Christobal Baralho, sono forse da considerarsi il primo contatto diretto fra Europei e Giapponesi, nonostante le critiche e discussioni sorte intorno alla descrizione che il Pinto ce ne ha lasciata nella sua Perigranaåam, uscita a Lisbona nel 1614.
Le nostre conoscenze sull'arcipelago hanno inizio, comunque, con lo sbarco a Kagoshima, nell'isola di Kyūshū, del gesuita Francesco Saverio e dei suoi compagni, il 15 agosto 1549. È nelle lettere e relazioni di questi missionarî che l'Europa riceve le prime notizie riguardanti il Giappone, notizie consistenti per lo più in nomi di città e provincie, indicazioni di distanze, descrizioni di usi, di costumi e del carattere degli indigeni, e come tali prive, dunque, di valore scientifico notevole; né diversamente si può dire di tutta la letteratura gesuitica posteriore riguardante il Giappone; se non mancano neppure opere d'insieme (O. Torsellini, Soliers, Crasset, Charlevoix, ecc.), il loro contenuto riguarda, in generale, la sola geografia politica.
Importanti, almeno per i riflessi ch'essi ebbero sulla cartografia, appaiono, invece, i rilievi e le osservazioni, per quanto imprecisi e limitati ai tratti di costa o ai paraggi frequentati dalle loro navi, che furono eseguiti prima dai commercianti portoghesi, poi dagli spagnoli, avviatisi numerosi subito dopo il Saverio ai porti del Giappone meridionale, con l'intento d'iniziare scambî e annodare relazioni commerciali. Appartiene, anzi, agli Spagnoli il primo contributo importante alla conoscenza dell'arcipelago: la misura, cioè, e il rilievo parziale delle coste giapponesi, eseguiti, nel 1611, da Sebastiano Vizcaino. Non ci sono noti esattamente i risultati del suo viaggio, poiché, se ce ne è pervenuta la relazione, ancora manoscritta, andò perduto invece il derrotero, o libro delle rotte, e gli schizzi eseguiti a bordo; sembra, tuttavia, ch'egli abbia eseguito sondaggi e rilievi da Miyako, sulla costa nord-est di Hondo, a Nagasaki.
Nel 1609, il monopolio commerciale passa agli Olandesi. Fino a questa epoca, quali e quanti progressi nella conoscenza dell'arcipelago fossero venuti realizzandosi per opera dei commercianti portoghesi e spagnoli e dei missionarî può rilevarsi facilmente dall'esame di carte, atlanti e descrizioni di fattura iberica facenti capo principalmente a D. Homem (1558, 1561, 1568), F. Vaz Dourado (1568), A. de Herrera (1601). Sostanzialmente essi si limitano al Giappone meridionale, e più precisamente alla regione di Yamaguchi, alle coste meridionali occidentali e settentrionali di Kyūshū, a Shikoku e a brevi tratti del Mare Interno. Delle altre parti del paese si hanno solo notizie o vaghi accenni, sparsi qua e là nelle suddette lettere e relazioni, quasi sempre riportati e solo raramente frutto di osservazioni dirette.
I contributi portati dagli Olandesi alla conoscenza dell'arcipelago furono, fin dall'inizio del loro monopolio, veramente cospicui. Basti dire che intorno alla metà del sec. XVIII, l'unica descrizione completa del Giappone è quella, di notevole importanza, di F. Caron, la quale, oltre a molti dati geografici, contiene anche un questionario, con risposte, sull'etnografia del paese; e che la geografia scientifica dell'arcipelago, alla stessa epoca, vanta già i nomi di J. H. Linschooten, di B. Varen, e di J. Blaeu.
Nel 1624, intanto, il Giappone viene chiuso per ragioni politiche dagli shōgun, ma gli Olandesi conservano il privilegio loro accordato e la fattoria di Deshima, un isolotto artificiale costruito nel porto di Nagasaki, costituirà per quasi due secoli e mezzo (fino cioè al 1868) l'unico tramite d'informazione reciproca fra l'Europa e il Giappone. L'isolamento di questo, com'è naturale, segna un brusco arresto nelle nostre conoscenze, sia per la difficoltà di eseguire rilievi sulle sue coste, sia per l'impossibilità di far viaggi ed esplorazioni nel suo interno. Tuttavia è proprio in questo periodo che le notizie scientificamente più importanti e interessanti sul paese e i suoi abitanti pervengono in Europa, grazie alle accorte fatiche e alla diligenza di Engelbrecht Kaempfer (1651-1716), di K. Peter Thunberg (1743-1828) e di Philipp Franz von Siebold (1796-1866), tutti in servizio a Deshima come chirurghi. Usando molto tatto, ma soprattutto con l'abilità professionale che procacciò loro larga reputazione fra gl'indigeni, essi riuscirono a vincerne l'abituale riservatezza e gelosia, e poterono così fare numerose osservazioni e raccogliere materiali concernenti la storia, le istituzioni, gli usi, i costumi, la geografia, le scienze naturali, ecc., del Giappone dei loro tempi, e le opere ch'essi lasciarono costituiscono quanto di meglio, date le circostanze, l'Europa potesse ottenere. Particolarmente preziosi appaiono i contributi del Siebold.
Ricco di vicende e di date si presenta il quadro dell'esplorazione esterna durante il periodo d'isolamento del paese. Nel secolo XVII, la leggenda dell'esistenza di isole ricche d'oro e di argento (Goud- en zilverryke Eylanden), site nell'Oceano Pacifico a circa 37°50′ di lat. nord, spinge la Deshima, ad allestire due spedizioni. Se lo scopo non fu raggiunto, perché le isole non vennero trovate, si conseguirono tuttavia risultati geograficamente notevoli; in particolare, la prima spedizione comandata da M. H. Quast scoprì (1639) il gruppo delle Bonin e quello delle Izu (Izu Shichi-tō); la seconda, agli ordini di M. G. Vries, costituisce la prima ricognizione del Giappone settentrionale. Il Vries visitò le coste nord-est di Hondo, quelle nord-est e sud-est di Yezo e la baia di Aniwa, che le fitte nebbie coprenti lo Stretto di Sōya gli fecero ritenere appartenente a Yezo. Il non avere egli esplorato la parte più a sud di quest'isola mantenne per più di un secolo l'errore che essa fosse separata da Hondo da un braccio di mare largo 3 gradi di latitudine. Il viaggio del Vries resta sempre uno dei più importanti compiuti nei mari del Giappone, sia per l'itinerario seguito, sia per l'esattezza con cui vennero determinate le posizioni e l'accuratezza d'esecuzione dei profili costieri.
Nel corso dei secoli, fino al 1779 si hanno solo i due viaggi, di poca importanza, del capitano russo M. Spanberg, che esplorò (1739) le coste orientali di Hondo e le isole maggiori delle Kurili, e quello del conte V. M. Benyowsky, che esplorò (1771) la parte estrema della penisola di Kii, le coste orientali e occidentali di Shikoku e l'isola di Ōshima. Nel 1779, le due navi del capitano Cook, comandate, per l'avvenuta sua morte, da J. Gore e J. King, nel loro viaggio di ritorno in Europa, visitavano le Kurili e la parte settentrionale di Hondo, sulle coste del quale vennero riconosciuti e di nuovo determinati alcuni punti già fissati dal Vries, e, ripreso il mare, scoprivano le Isole dello Zolfo (Iwō-ga-shima).
In sostanza, verso la fine del sec. XVIII, l'idrografia e il tracciato delle coste giapponesi lasciavano ancora molto a desiderare, e rimanevano inoltre inesplorate le coste occidentali di Hondo e di Yezo. Fu il La Pérouse che nell'anno 1767, il terzo del suo disgraziato viaggio, dopo avere visitato le coste sud-ovest di Formosa, rilevate quelle meridionali della Corea e abbozzata l'idrografia dello Stretto di Tsushima, vi determinò per primo un punto, il Capo Noto, a 37° 36′ di lat. N. e 137° 55′ 24″ di long. E., con ciò restando, in certo modo, fissata la posizione delle coste occidentali giapponesi rispetto a quelle coreane e tartare. Ma il risultato più importante della sua crociera in questi mari fu senza dubbio la scoperta deì Canale di Sōya (o di La Pérouse) che, stabilendo la natura insulare di Yezo, tagliava corto a tutte le polemiche sorte sulla stessa. Restava tuttavia da stabilire esattamente il tracciato delle sue coste e da determinare quanto a nord si estendesse Hondo, quesiti questi, la cui soluzione doveva essere riservata più tardi a W. R. Broughton.
Prima di questi, nel 1791, intanto, J. Colnett visitava le Ryū-kyū settentrionali, le coste nord ovest di Kyūshū e l'estremità sud ovest di Hondo, che nessun altro, fino alla restaurazione, doveva più visitare, la cui posizione geografica venne così fissata; nei due anni successivi esplorazioni dei principali porti di Yezo (Nemuro, Akkeshi, Hakodate e Fukuyama) eseguite dall'ufficiale russo A. Laxman, fruttavano, oltre a discrete piante di questi porti, anche il rilievo dello stretto che separa Yezo dall'isola di Kunashiri.
Un lavoro di verifica generale di tutto l'arcipelago fu iniziato dal capitano inglese W. R. Broughton, nel 1796, e continuato in tre riprese durante l'anno seguente. Egli visitò tutti i gruppi delle Ryū-kyū, quello delle Miyako, tutte le coste di Formosa, quelle di Hondo fino allo Stretto di Tsugaru, che fu rilevato, le coste di Yezo, a eccezione di quelle settentrionali, le Kurili fino a Shimushiri, le coste occidentali di Sachalin e, infine, quelle del continente asiatico, dal la foce dell'Amur all'isola di Quelpart.
Otto anni dopo, A. J. von Krusenstern, figura di primo piano nella storia dell'idrografia moderna, dedicava otto mesi a quella del Giappone. Egli rilevò quasi per intiero l'isola di Kyūshū, tracciò la carta dello Stretto di Tsushima, visitò le coste occidentali di Hondo, fin quasi ad Tsugaru, di cui il Broughton non aveva visto che l'entrata orientale, visitò le coste occidentali di Yezo, dove fece interessanti osservazioni sugli Ainu, le isole nordiche delle Kurili, fino a Nadežda, e terminò rilevando completamente le coste nordoccidentali e orientali di Sachalin.
Tutte queste ricognizioni, pur non dando un tracciato continuo, aggiunsero ai vecchi nuovi elementi e diedero modo di correggere i rilievi eseguiti dagli Olandesi. Fino al 1805 rimanevano ancora irrilevate le coste del Mare Interno e quelle nord-ovest di Hondo, da Kizuki al Capo Noto, e da qui ad Akita; e a questo punto doveva rimanere lo stato delle nostre conoscenze fino all'apertura del paese nel 1868. Nei primi anni del sec. XIX, intanto, l'avventura del capitano russo W. M. Golovnin, tenuto prigioniero dai giapponesi nell'isola di Kunashiri per due anni, fruttava ancora, oltre alla determinazione astronomica di molti punti delle Kurili, pregevoli contributi all'etnografia di esse.
Si giunse così alla Restaurazione. L'apertura del paese, tolte le barriere insormontabili opposte agli studiosi dal suo ostinato isolamento, fece entrare le nostre conoscenze in una nuova, fecondissima fase. Inviati diplomatici, missionarî, specialisti europei nei varî campi del sapere, inviati o invitati nel paese a fare ricerche o a istituire cattedre o servizî, dànno inizio agli studî sul Giappone, ai quali viene anche notevole impulso dalla fondazione a Tōkyō, nel 1872, dell'Asiatic Society of Japan, e, l'anno seguente, della Deutsche Gesellschaft für Natur- u. Völkerkunde Ostasiens. Fra i pionieri vanno citati W. G. Aston, K. Chamberlain, B. H. Florenz per la filologia indigena, E. Baeltz per l'antropologia, E. Naumann per la geologia, J. J. Rein per la geografia.
Solo più tardi comincia la collaborazione veramente preziosa degl'indigeni, quando, cioè, dopo un'intensa preparazione diretta ad assimilare i metodi e le teorie scientifiche europee, fu raggiunta la maturità necessaria per portare contributi nei varî campi d'indagine; e oggi negli studî sull'arcipelago l'attività giapponese è predominante.
Rilievo e cenni geologici. - Geologicamente, le isole dell'arcipelago giapponese non rappresentano altro che le porzioni più elevate di un vasto sistema montuoso fronteggiante le coste orientali del continente asiatico, dal quale sono staccate dai mari occupanti le depressioni intermedie.
Nella serie stratigrafica giapponese sono più o meno completamente rappresentati tutti i sistemi conosciuti, a eccezione dell'Archeano. Le più antiche formazioni note a tutt'oggi appartengono al Paleozoico, diffusissime in tutto il paese, rappresentate da scisti di vario genere accompagnati da rocce ignee quali graniti, gabbro, serpentini, ecc. Negli strati superiori prevalgono la pirossenite e la fillite. Il Mesozoico ha estensione limitata. Depositi marini ed estuariali del Triassico sono distribuiti in piccole aree nelle provincie di Kumamoto, Tokushima, Miyagi, Gifu, Hiroshima e Yamaguchi. Il Giurassico è rappresentato da depositi (arenarie, ardesie, conglomerati tufacei, calcari) che affiorano specialmente nelle regioni di Yamaguchi, Fukushima e Miyagi. Il Cretacico, assai ricco di ammoniti, appare di frequente nel Giappone meridionale (provincie di Kii e Shikoku); al nord forma stretti lembi o piccole aree sparse qua e là. Il Cenozoico è abbondante ed esteso e comprende ghiaie, sabbie, crete, arenarie, conglomerati e tufi (questi talvolta in strati di colossale potenza), spesso intercalati da calcari, dolomiti, marne, ligniti e carbone. I maggiori bacini carboniferi giapponesi (Kyūshū e Yezo) appartengono a questa età geologica. Importanti sono i depositi, ricchi di molluschi fossili, del Neogene, assai diffusi, specie al nord. Come rocce ignee compaiono liparite, andesite e basalti. Il Neozoico occupa vaste aree a est di Yezo, nel nord e al centro di Hondo e a ovest e al centro di Kyūshū, formanti pianure elevate e terrazzi costieri e fluviali: comprende sabbie, ghiaie e argille. Calcoli recenti mostrano che il Cenozoico e le rocce eruttive recenti che l'accompagnano occupano, da soli, i ⅔ circa della superficie totale del Giappone. Se i dati della geologia, ad es. la presenza sui monti di depositi marini del Terziario, inducono nella supposizione che le isole dello arcipelago siano sorte dal mare e la loro forma, almeno nei tratti essenziali, si sia fissata in epoche geologicamente recenti, d'altra parte, gli strati di scisti e scisti biotitici, da considerarsi appartenenti all'Arcaico, affioranti qua e là per tutto il paese, lasciano ritenere che la struttura di tutto l'arcipelago si sia formata in epoche assai più antiche. Nel Cenozoico, dunque, l'attività tettonica abbozzò il rilievo, al quale successivamente e fino ai nostri giorni, apportarono modificazioni, più o meno profonde, l'attività vulcanica, specialmente attiva durante tutto il Cenozoico e il Neozoico, i sismi e l'erosione, cui vanno aggiunti i bradisismi, che da secoli producono in molte provincie variazioni sensibili nel profilo costiero.
Il rilievo del paese è quanto mai irregolare e, generalmente, aspro, specie nelle regioni dove l'attività endogena è, o è stata, intensa. Nessun elemento di esso, valle, catena o altipiano, traversa il paese da un mare all'altro o ne forma l'ossatura centrale. Creste ardite, massicci scoscesi, catene di monti, di solito brevi, spesso orlate di coni vulcanici, interrotte qua e là da fratture o depressioni, rivestite sempre da una vegetazione varia e lussureggiante, limitano o separano altipiani o pianure, non di rado tappezzate da erusioni laviche e solcate da ripidi corsi d'acqua, inadatti alla navigazione. Tratto caratteristico nel rilievo giapponese è una vasta zona centrale di depressione tettonica, nella quale a sud è il Fuji, chiamata col Naumann "Fossa Magna", che, dividendo Hondo in senso trasversale, separa naturalmente il Giappone settentrionale da quello meridionale.
Nel Giappone settentrionale (escludendo Yezo, del quale si tratta alla voce relativa) la catena dei M. Ōu, una cordigliera centrale di tufo liparitico e altre rocce del Cenozoico, ricca di coni vulcanici, costituisce la linea spartiacque fra il Pacifico e il Mar del Giappone. A oriente di essa i M. Kitakami e Abukuma, separati dalla baia di Sendai, costituiscono due massicci antichi (graniti e scisti), dalla plastica estremamente irregolare, sia per l'alternarsi di periodi di invecchiamento e di ringiovanimento, sia per l'azione profonda dell'erosione che ha dato origine a un sistema intricatissimo di valli in ogni senso e direzione. Le cime più alte sono lo Hayachine (1940 m.) e il Nakadake (1679). A ovest dei M. Ōu, una serie di groppe vulcaniche, dell'altezza media di 4-500 m., dette Colline di Dewa, corrono da nord a sud separate dalla catena centrale da una successione di valli percorse da fiumi. Verso il sud la loro altezza aumenta ed esse terminano nel massiccio granitico dei M. Sangoku dalle cime elevate, fra cui l'Asahidake (2144 m.), la più alta del Giappone settentrionale.
La regione circostante alla Fossa Magna è la più sconvolta e irregolare, dove convergono gli elementi tettonici più diversi e si ergono le maggiori vette del paese, fra cui la massima, il Fuji (3778 m.). A est, la pianura di Tōkyō, la più vasta di tutte, per la sua posizione privilegiata che, sia dal mare sia attraverso la depressione centrale, la rende facilmente accessibile, era per natura la meglio preparata ad accentrare in una grande metropoli la vita moderna della nazione. Ai limiti occidentali della Fossa, a ovest, cioè, della linea costituita dai fiumi Hime e Fuji e dal lago Suwa, s'estende un paesaggio di carattere alpino, estremamente aspro, formato da rocce basali gneissiche del Paleozoico, sulle quali effusioni granitiche e porfiriche hanno dato origine a cime scoscese, picchi, coni acuti e massicci giganteschi, quasi sempre coperti di neve e ricchi sui fianchi di foreste. È la regione delle cosiddette Alpi giapponesi, costituite dalle tre catene parallele dei Monti Hida, Kiso e Akaishi. La lunga zona di scisti che costituiscono quest'ultima, giunge al sud fino all'estremità della penisola di Atsumi e scompare, degradando nel Mar d'Ise; ricompare, quindi, nell'opposta penisola di Shima, a formare la catena dei Monti Kii, che traversa tutta la penisola omonima culminando con la cima dell'Ōmine (1815 m.). Proseguendo, la zona scende al mare vicino a Wakayama, e risorge sull'opposta isola di Shikoku, di cui forma la dorsale dello stesso nome, quindi, interrotta dalla depressione del Mare Interno, prosegue nel Kyūshū meridionale, dove i suoi punti più elevati superano i 1700 metri.
A S. dei M. Hida, comincia un territorio montuoso ricco di vegetazione, costituito da rocce granitiche su cui è visibile l'intensità dell'erosione, di altezza raramente superiore ai 1000 m.: è la catena dei M. Chūgoku che traversa la penisola omonima e sembra proseguire in Kyūshū nella catena dei M. Tsukushi, più varia nelle formazioni geologiche.
A sud-est di Hondo, sotto la regione alpina, gigantesche faglie hanno dato origine a tre catene di frattura: i M. Suzuka-Ibuki, i M. Kasagi-Hiei e i M. Kongō, parallele e limitanti coi loro fianchi due ampie valli di sprofondamento. La prima di queste contiene il Lago Biwa, il più grande dell'Impero, e finisce al nord nelle coste a rías di Tsuruga e di Wakasa; l'altra costituisce una regione importante dal punto di vista storico, poiché può ben dirsi la culla dell'antica civiltà giapponese. È in essa che si trova Nara, la prima capitale che il Giappone abbia avuto, e Kyōto, che fu capitale fino al 1868, il cui nome è legato a un periodo di meraviglioso rigoglio letterario e artistico. A ovest dei M. Kongō, la pianura di Settsu, per la sua posizione, ha assunto un posto di prim'ordine nella vita moderna della nazione, accentrando, in una grande metropoli come Ōsaka (più di 2 milioni di ab.), l'attività commerciale di essa.
La posizione dell'arcipelago sull'orlo del grande bacino del Pacifico, fa sì ch'esso partecipi con i suoi numerosi vulcani al cosiddetto "cerchio di fuoco" che lo circonda. A 165 ammonta il numero dei vulcani noti in tutto il paese, dei quali 54 (secondo alcuni 59) attivi. Il termine attivo o spento, del resto, è relativo, poiché non è raro il caso che vulcani ritenuti spenti abbiano avuto disastrosi e terribili risvegli della propria attività. Valga per tutti il caso del Bandaisan, a nord del Lago Inawashiro, che, ritenuto sempre un vulcano spento, ebbe il 15 maggio 1888 una spaventosa eruzione che distrusse il suo cratere e ne formò un altro più grande. I vulcani giapponesi sono di solito costituiti da andesite, spesso basaltica, e derivati. Lo studio della loro distribuzione permette di distinguere 10 catene o zone vulcaniche (v. carta a pag. 6), disposte tutte longitudinalmente all'arcipelago, a eccezione di una, la zona del Fuji, la maggiore di tutte, che va dal Mare del Giappone al Pacifico traversando Hondo nella Fossa Magna. Il vulcano Aso, nel centro di Kyūshū, ha uno dei più grandi crateri del mondo (22 km. di diametro); la più alta vetta vulcanica del Giappone è il Fuji (3778 m.).
La storia del paese registra, anteriormente al 1895, ben 18 eruzioni violente, 39 delle quali spettano al solo Aso, cui fanno seguito il Sakurajima e l'Asamayama, con 22 ciascuno. Quest'ultimo, in specie, è tristemente famoso per la violenza dei suoi parossismi e la regione di Tōkyō ha sempre più o meno sofferto per la sua vicinanza. Nella sua eruzione del 1873, ad es., si ebbero parecchie centinaia di vittime e la quantità di ceneri eruttate fu tanta da coprire un'area di 10.000 kmq. devastando i campi e le colture; nell'altra del 1912 vennero proiettati in alto blocchi di 50 mc. e lo spostamento d'aria fu tale da causare serî danni a edifizî siti 15 km. lontano. Nell'ultimo cinquantennio l'attività dei vulcani giapponesi è stata prevalentemente del tipo stromboliano; alcuni, come l'Atosanupuri, il Meakan, l'Asahidake e altri, hanno attività di solfatare. I vulcani sono elementi caratteristici del rilievo e del paesaggio giapponese; i loro coni arditi, più o meno smussati in cima, dal profilo spesso elegante e regolare, sono quanto di più suggestivo si possa immaginare; le loro lave producono spesso degli sbarramenti che dànno origine a quelle cascate multiple che sono una delle bellezze naturali del Giappone.
Un altro dei flagelli del paese sono i sismi. Recenti statistiche dànno in media 4-5 scosse al giorno, con una scossa disastrosa ogni 6-7 anni. Questa condizione di cose ha obbligato da tempo immemorabile all'uso esclusivo del legno nelle costruzioni, limitando a uno o due i piani di queste; naturalmente gl'incendî sono frequentissimi, ma le foreste abbondano e sono ricche. I sismi sono spesso da porsi in relazione con l'attività vulcanica, della cui ripresa sono allora di regola annunciatori in questo caso tuttavia essi hanno intensità ed estensione limitata, e i loro effetti non sono paragonabili a quelli, ben più disastrosi, dei sismi di natura tettonica. Lo studio degli epicentri dei 51 terremoti catatrofici che la storia del paese ricorda dal 1546 a oggi, ha permesso di distinguere 6 zone sismiche principali, alcune delle quali coincidenti all'incirca con zone vulcaniche; la più importante è quella del Fuji, che comprende anche la regione di Tōkyō, una delle più colpite. È ancora fresco il ricordo dell'ultimo catastrofico terremoto del 1923, il quale costò la vita a 150.000 persone, distrusse Yokohama completamente, Tōkyō per metà e provocò vasti incendî dappertutto; l'opera di ricostruzione iniziata subito con grande energia dal governo, richiese sforzi finanziarî così cospicui, da avere profonde ripercussioni sullo sviluppo economico del paese.
A terremoti sottomarini sono da attribuirsi i maremoti (giapp. tsunami), che spazzano frequentemente le pianure litoranee, specie quelle orientali. Uno di essi, nel 1854, distrusse quasi completamente la cittadina costiera di Kamaishi, a nord-est di Hondo, e costò la vita al 70% della popolazione.
Di fronte a tanto disastrose manifestazioni dell'attività endogena stanno, di rivalsa, i benefici di una cospicua ricchezza di sorgenti termali e minerali di cui il paese gode. Sono note, finora, 951 sorgenti calde e 155 fredde; fra tutte, 250 posseggono proprietà radioattive. In generale esse sono di origine vulcanica, ma non ne mancano di natura tettonica. La maggior parte possiede proprietà terapeutiche che hanno fatto, di molte, stazioni termali rinomate e frequentatissime. La loro composizione chimica è quanto mai varia e può dirsi che si trovano largamente rappresentati tutti i tipi di acque minerali noti. La radioattività è in stretto rapporto con la geologia della regione, non con la composizione chimica dell'acqua. Le sorgenti più fortemente radioattive, come ad es. quella termale di Misasa (142.14 unità Mache) e quella fredda di Masutomi (1425 u. M.) si trovano in terreni granitici. Per quanto riguarda la temperatura, alcune poche misurano più di 100°; la maggior parte ha temperature comprese fra 25° e 90°. Fra le stazioni termali più note e accreditate sono quelle di Beppu e di Unzen, nell'isola di Kyūshū; di Atami, di Higashiyama, di Yumoto, di Hakone, di Arima, di Kusatsu, nell'isola di Hondo; di Noboribetsu, nell'isola di Yezo.
Mari e coste. - L'arcipelago è separato dal continente asiatico da mari generalmente poco profondi. Il Mar Cinese Orientale non è che una vasta estensione di acqua poco profonda (200 m. in media; in nessun punto 1000 m.), situata sopra una platea sottomarina, sulla quale, a est, sorge Formosa, che, mantenendosi a poca distanza dalle Ryū-kyū, si estende verso il nord fino a poco oltre lo Stretto di Corea, agli orli cioè della vasta depressione che costituisce il fondo del Mar del Giappone, assai più profondo, in alcuni punti del quale la sonda scende anche oltre i 3500 m. A NE., lungo le coste di Sachalin e di Yezo, il fondo risale a circa 200 m. dalla superficie per discendere di nuovo oltre lo Stretto di Sōya con la fossa del Mare di Ochotsk (200-2000 m.; in qualche punto di più).
Nel Pacifico le profondità sono assai maggiori; le massime, anzi, si trovano proprio negli abissi fiancheggianti le coste orientali del Giappone. Nella grande "Fossa Giapponese" si oltrepassano di regola i 7000 m., e in quella, ben nota, del Tuscarora, furono misurati, non lungi dall'isola di Kunashiri, 8515 m.; un altro punto profondo 8491 m. fu trovato al largo delle coste dei M. Kitakami, e infine recenti scandagli del servizio idrografico della marina giapponese, misurarono 9950 m. a sud della penisola di Bōsō. Si può dire così che le isole dell'arcipelago giapponese poggiano sullo stesso immenso zoccolo su cui sta il continente asiatico, del quale, dunque, esse debbono considerarsi come le ultime propaggini verso oriente; al di là, gigantesche fratture portano abissi del Pacifico.
Caratteristiche proprie, che giustificano il suo nome, ha il Mare Interno (Seto Naikai o Setouchi), vasta zona di depressione, pochissimo profonda (40 m. in media), formatasi forse nel Cenozoico recente, seminata nel suo interno d'isolotti, talvolta scolpiti a terrazzi. Le sue coste, frastagliatissime, spesso a rías, ora basse e acquitrinose, ora costituite dal fianco scosceso di monti e vulcani, sono state da tempi remotissimi sede d'intensa attività. Il Setouchi ha avuto, infatti, nella storia primitiva del Giappone un'importanza di prim'ordine, poiché fu grazie al suo specchio tranquillo e riparato e alla sua posizione se la civilta giapponese, dal Kyūshū, dove s'era dapprima insediata venendo dalla Corea, poté agevolmente diffondersi verso il nord, specialmente sulle pianure di Hondo. La sua funzione fu, dunque, analoga a quella che ebbe il Mediterraneo nello sviluppo della civiltà occidentale; servì, cioè, a mettere in relazione paesi che il rilievo isolava.
La temperatura dei mari che bagnano il Giappone è relativamente alta. Le misure eseguite alla superficie mostrano che il litorale orientale è più tiepido (22°-27° in agosto), almeno nella sua porzione inferiore (15° in febbraio a Yokohama), di quello occidentale, dove, ad es., oltre la Penisola di Noto il termometro scende a 10° in inverno. Su questa condizione di cose influiscono sia i monti del paese, che proteggono il litorale est dai venti freddi del continente, sia la corrente calda del Kuroshio, che tanta influenza ha sul clima dell'arcipelago. Nasce questa corrente da quella nord-equatoriale del Pacifico e scorre dapprima verso ovest fra il 9° e il 20° di lat. nord. Non lungi da Formosa volge a nord-est e amplifica il suo corso così che esso, largo in prossimità di quest'isola circa 185 km., è già 3 volte più largo vicino a Yokohama. Dopo aver lambito le coste delle Ryū-kyū, passa fra Yakushima e Amami-Ōshima, piega verso il Capo Shio-no-misaki e seguendo le coste della Penisola di Bōsō, ritorna nel Pacifico fra 30° e 50° di lat. N. Il Kuroshio, notevole per la sua forte salinità, ha senza dubbio la sua parte importante negli acquazzoni estivi del Giappone meridionale; il suo nome (da kuroi "nero" e shio "acqua di mare") trae origine dal colore scuro che esso ha specialmente sulle coste del Kūyshū. Due suoi rami sono importanti: il primo si stacca a sud di Formosa e, costeggiata l'isola a ovest, si riunisce a nord di essa col ramo principale; l'altro si stacca al sud di Kyūshū e costituisce la cosiddetta Corrente di Tsushima che, seguendo le coste occidentali di Hondo, va a finire nel Canale di Mamiya; essa protegge queste coste dalla corrente fredda del Liman che dallo stesso canale scende rasentando le coste del continente fino a Vladivostok. Un'altra corrente fredda è l'Oyashio, che nasce in prossimità della penisola di Camciatca e, lambendo le coste occidentali delle Kurili e di Hondo, finisce vicino al Capo Inuboe scontrandosi col Kuroshio. Questa corrente abbassa la temperatura delle terre vicine ed è apportatrice di grandi nebbie, ma la pesca le deve molto della sua prosperità. La linea costiera è, in generale, più sviluppata sul Pacifico che sul Mar del Giappone. Sul primo abbondano le coste a rías e l'attività tettonica ha prodotto vaste insenature, come le baie di Tōkyō, di Sagami, di Suruga, di Tosa, di Ise e canali come quello di Kii e di Bungo. Sul Mar del Giappone le baie di Toyama e di Wakasa, la penisola vulcanica di Oga, il pilastro (horst) prominente di Noto sono le sole variazioni che rompono la monotonia delle coste. L'attivid endogena, specialmente i sismi e i bradisismi, apporta infine, dove più dove meno, lente ma continue variazioni nella linea costiera di tutto l'arcipelago.
Condizioni climatiche. - In un paese che attraverso circa 30° di latitudine si estende dal tropico fin quasi alla zona rigida, è naturale che il clima presenti diversità, talvolta notevoli, nelle varie regioni. Il fattore predominante sul clima giapponese è il regime dei monsoni. Durante la stagione fredda, l'area anticiclonica che si forma, per l'abbassarsi della temperatura, nella Cina settentrionale e nella Siberia orientale, dà origine a una corrente d'aria fredda (il cosiddetto monsone invernale, che spira dall'ottobre all'aprile) che investe il Giappone proprio e Formosa da nord-est e le Ryū-kyū dal nord. La sua violenza è tale da rendere talvolta necessaria la sospensione del servizio di ferry-boat nello Stretto di Corea. Nel Giappone occidentale, battuto dal monsone, predomina allora il cielo nuvoloso e le nevicate sono abbondanti, mentre nelle Ryū-kyū e a Formosa, site più a sud, si hanno piogge quasi quotidiane. Nel Giappone orientale, invece, protetto dai monti, prevale il tempo buono, specialmente nel novembre, dicembre e gennaio. Nelle provincie del NE., tuttavia, per il fatto che le catene centrali non sono molto alte, il monsone traversa il paese, fino a raggiungere il Pacifico; ciò fa sì che la regione da Aomori a Sendai e Kōriyama sia anche essa coperta di neve per tutto l'inverno.
Durante la stagione calda la forte insolazione provoca nella Mongolia e nella Cina settentrionale un innalzamento di temperatura; nel contempo l'anticiclone del Pacifico settentrionale va espandendosi fin quasi alle coste giapponesi: ne risulta una corrente di aria calda (ll monsone estivo, che spira da maggio a settembre) la quale investe il Giappone proprio e le Ryū-kyū dal sud e Formosa da SO. La sua influenza sullo stato del tempo nell'arcipelago è minima e nessuna differenza climatica apprezzabile si verifica quindi su ambedue i versanti. Il tempo è generalmente bello, eccezione fatta per il periodo delle piogge estive (giugno-luglio). Queste piogge, dette dagl'indigeni bai-u o tsuyu "piogge delle susine", perché coincidono con la maturazione di questo frutto, sono dovute a una successione di aree cicloniche che dai paraggi di Formosa e della Cina settentrionali si spostano lentamente verso Kyūshū e Hondo. I tifoni, fenomeno frequentissimo dei climi giapponesi, hanno origine nelle vicinanze delle isole Caroline, Marshall e Marianne, donde avanzando verso occidente vanno inclinando sempre più al nord, fino a raggiungere i mari che bagnano le coste giapponesi, causando infiniti danni alle colture, agli abitati e alle navi. Per lo più appaiono nel luglio-settembre, una volta ogni 7 0 10 giorni.
Per la temperatura il principale fattore è, naturalmente, la latitudine. Tuttavia, specialmente al nord, per l'influenza dei monsoni gl'inverni sono più rigidi di quanto la latitudine comporterebbe. Ad Asahigawa, ad es., al centro di Yezo, il 25 gennaio del 1902 il termometro scese a −41°. Nel Hondo in generale fa meno freddo, benché non di rado si raggiunga lo zero e talvolta, specie al centro e al nord, si scenda al disotto. Nelle Ryū-kyū e a Formosa, site nella zona semitropicale, la temperatura media invernale è di 15° al nord delle prime, e di 20° al sud della seconda. D'estate la latitudine ha poca influenza sulla temperatura. Di giorno questa è quasi eguale al nord e nelle Ryū-kyū. Dopo il calar del sole, tuttavia, il calore diminuisce rapidamente in Hondo e a Yezo, mentre dura ancora per parecchie ore della notte nel meridione, specialmente a Formosa. Nelle provincie bagnate dal Mare Interno si hanno, in generale, temperature non molto alte e di sera l'aria è calma, spesso afosa.
Il passaggio dall'inverno all'estate è assai breve al nord e al centro, dove la neve comincia a novembre e dura fino alla metà di aprile; in giugno già si sente il calore estivo, che dura fino alla metà di settembre. L'ottobre è quasi dappertutto il mese più piacevole. Ai primi di novembre sono frequenti le brine. Al sud il passaggio delle stagioni è graduale e l'autunno e la primavera hanno durata relativamente lunga. L'umidità eccessiva è una caratteristica del clima del Giappone e fa sì che questo sia uno dei paesi più ricchi di precipitazioni del mondo. D'estate è causa di giorni afosi, così penosi a sopportarsi per lo straniero e anche, benché in misura minore, per l'indigeno. La seguente tabella reca i dati climatici più importanti:
Idrografia. - Per la limitata estensione delle principali isole dell'Impero e per il rilievo assai pronunciato di esse, i fiumi del Giappone hanno, in generale, corso non lungo e carattere torrentizio, presentando spesso rapide di artistico effetto. Da queste condizioni di cose derivano un vantaggio e uno svantaggio per l'economia del paese: un vantaggio in quanto i fiumi offrono condizioni generalmente favorevoli per lo sfruttamento idro-elettrico (la disponibilità di forza idrica è stata calcolata all'incirca a 8 milioni di HP, dei quali circa 2 milioni, pari al 25%, finora utilizzati); uno svantaggio in quanto la loro navigabilità risultando ostacolata, il paese viene ad avere un traffico fluviale limitato. È ancora interessante notare che i fiumi sboccanti nel Pacifico hanno, in generale, corso più rapido di quelli che sboccano nel Mar del Giappone, i quali possiedono invece maggiore lunghezza di percorso. I dati che seguono riguardano i fiumi principali del Giappone proprio.
Nelle isole di Kyūshū, Sachalin e Formosa, nessun fiume supera i 200 km. di lunghezza.
Per quanto riguarda i laghi, il territorio dell'Impero ne possiede molti e di varia origine, ma tutti, se si eccettua il Lago Biwa, hanno estensione limitatissima. In generale i più profondi sono di natura tettonica o vulcanica. La seguente tabella riunisce i dati su quelli più importanti:
Flora e Vegetazione. - La flora del Giappone ha grandi analogie con quella della zona forestale del bacino atlantico (Europa, America Settentrionale) e con quella del Terziario in Europa. Però, data l'estensione longitudinale (20° di latitudine) delle isole, si osservano bruschi cambiamenti che vanno dalla flora boreale dell'estremo nord e delle alte montagne a quella tropicale dell'estremo sud. Infatti nel Giappone settentrionale vi sono formazioni boscose simili alla taiga siberiana; invece nella regione intorno a Tōkyō la Chamaerops excelsa e la Cycas revoluta dànno un carattere quasi tropicale. Nelle montagne sono confinati i boschi, inferiormente di Latifoglie e superiormente di Conifere, mentre le vallate e le pianure sono coltivate.
Nella vegetazione giapponese si osserva un'elevata percentuale di piante legnose (arbusti e alberi) in confronto delle erbacee e precisamente la proporzione è di 1 a 4. Sono abbondanti le Conifere, fra cui Sciadopytis thujopsis, i generi Cunninghamia, Cryptomeria e Biota, numerosi pini (20 specie) fra cui Pinus firma, P. tsuga, P. leptolepis; delle Gimnosperme è anche caratteristica la Ginkgo biloba, unico avanzo vivente della famiglia Ginkgoacee. Numerose sono le Bambusee (14 specie) e le Lauracee (24 specie): alcuni generi di piante legnose europei e mediterranei come Fagus e Castanea hanno specie caratteristiche del Giappone (Fagus Sieboldi, Castanea japonica). Anche gli aceri sono ricchi di specie (13) che in autunno dànno alla vegetazione quella bellissima e caratteristica colorazione rossa. Fra gli arbusti sempreverdi ricordiamo le camelie (Camellia japonica, in giapponese tsubaki, con varietà a fiori rossi, bianchi e variegati), i rododendri (12 specie), parecchie Rubiacee, Mirsinacee, Stiracacee, Aquifoliacee (il gen. Ilex ha 13 specie), Cornacee (di cui è caratteristica l'Aucuba japonica). Altra pianta da ricordare anche per il gratissimo profumo dei fiori è l'Osmanthus fragrans.
Fra le piante coltivate più caratteristiche: il ciliegio (sakura), il pesco selvatico (momo), la glicine (fuji), le azalee (tsutsuji), le iris (shōbu); nell'estate i laghetti e i corsi d'acqua sono coperti dai Nelumbium (hasu) e in autunno fioriscono i crisantemi. Altri generi di piante molto rappresentati nella flora giapponese sono: Carex (156 specie), Lilium (19 specie), Prunus (12 specie), Rubus (15 specie), Hydrangea (12 specie).
Zuccarini ha trovato 44 generi endemici, quasi tutti monotipici. Le famiglie più numerose sono: Composte 6%, Graminacee 5-6%, Felci 5%, Ciperacee 4-5%, Rosacee 4%, Liliacee 3-4%, Leguminose 3-4%, Conifere quasi 3%, Labiate 2-3%, Ericacee 2-3%, Orchidacee 2-3%. Secondo recenti dati statistici la flora giapponese comprende 17.087 specie di vegetali di cui: 9000 fanerogame, 700 felci, 2000 muschi, 3500 funghi, 700 licheni, 690 alghe marine, 324 alghe d'acqua dolce, 173 mixomiceti.
Il giardinaggio e la florieoltura sono molto sviluppati in Giappone e tenuti in grande onore: celebri sono le piante legnose nane secolari, ottenute dai giardinieri giapponesi con speciali procedimenti.
Fauna. - Il Giappone possiede una fauna ricca e varia: di circa 42 specie di mammiferi, non meno di 27 gli sono particolari e su circa 20 specie di uccelli non meno di 17 hanno il Giappone come patria.
Le scimmie, rappresentate dalla famiglia dei Cercopiteci, raggiungono le isole Hondo e Shikoku: una sorta di macaco, l'Inuus speciosus, vi è caratteristico. Gl'insettivori vi posseggono talpe e toporagni, ma non ricci, benché i ricci siano ampiamente diffusi in tutto il vecchio mondo. I carnivori sono numerosi: i lupi, gli orsi, i tassi, le volpi, i gatti selvatici si trovano ovunque. La tigre invece vive a Sachalin, ma non scende nelle altre isole dell'arcipelago, nonostante le condizioni climatiche più favorevoli. Le lepri e i topi, appartenenti a varie specie, rappresentano nel Giappone la famiglia dei rosicanti; a Shikoku, però, vive anche una sorta di ghiro. Una particolare specie di cinghiale abita Hondo e le isole meridionali; la medesima distribuzione presentano le antilopi, mentre i cervi raggiungono anche l'isola Sachalin; tra i cervi segnaliamo il cervo giapponese (Cervus sika), che si ritrova però anche in Cina e nella Manciuria,
Delle numerose specie di Uccelli gran parte appartengono a gruppi largamente diffusi nelle prossime coste asiatiche. Pertanto non mancano forme di gruppi diffusi altrove e mancanti nella porzione del continente asiatico che sta di fronte all'arcipelago giapponese: tali i treronidi (sorta di colombi). Le foreste albergano tetraonidi e, salvo a Yezo e a Sachalin, anche fagiani. I rettili scarseggiano. Qualche vipera si trova a Sachalin; nelle altre isole le vipere mancano, ma i serpenti velenosi, salvo che a Yezo, sono rappresentati dagli elapidi. Tra gli anfibî va segnalata la famosa salamandra gigantesca del Giappone, che può superare la lunghezza di un metro: essa vive nei fiumi e nei laghi interni dell'isola di Hondo ma è stata ritrovata anche in Cina. I pesci lacustri e fluviali sono abbondanti. Il gruppo degl'insetti è assai ricco di specie e d'individui.
Antropologia. - Si può dire che la conoscenza della somatologia (o antropometria, come studio metrico dei caratteri esterni) dei Giapponesi sia meno progredita di quella della loro anatomia. Questa infatti si può dire di tutte le anatomie raziali possibili la più sviluppata dopo quella europea, o, meglio, dopo l'anatomia del complesso raziale europeo, giacché è ancora da venire un'anatomia delle singole razze europee, che crediamo sarebbe anche assai interessante sotto molti rispetti pratici (costituzione, morbilità speciale, ecc.). Data la più moderna concezione dell'antropologia fisica, come morfologia comparata delle razze umane e non come semplice studio dei caratteri esterni, è necessario in ciò che segue dare anche qualche particolare dell'anatomia giapponese.
I più recenti studî dei paletnologi e paleontologi giapponesi, e, soprattutto, quelli di H. Matsumoto, hanno messo in luce come il quadro raziale del Giappone sia stato, persino in tempi, geologicamente parlando, assai vicini a noi come può essere il Neolitico, molto diverso da quello che è nell'epoca presente. Occorre perciò parlare innanzi tutto dei caratteri dei Giapponesi attuali. Il tipo di fisionomia facciale più frequente è senza dubbio quello che abbiamo detto altrove mongolico (v. fisionomia: XV, pp. 492 e 495), la cui nota più appariscente è la presenza della plica detta mongolica. Ma non sono rari tipi affatto diversi, e già E. Baelz, al cui lavoro possiamo ancora attingere molto, parlava nel 1885 di fisionomie arieggianti il tipo ebraico. Questo tipo, secondo il Baelz, sarebbe più frequente nell'aristocrazia, ove si riscontra il cosiddetto tipo fine, di cui si dirà altrove. Nelle fotografie dei più eminenti uomini di stato e generali del Giappone si riscontrano spesso facce europoidi. Questi caratteri aberranti dal tipo comune mongoloide sono ora spiegabili meglio come persistenze di antichi substrati etnici (v. oltre). Bisogna però ricordare subito come il Weidenreich li spieghi come differenze costituzionalistiche, soprattutto per i caratteri del naso, più lungo, più stretto e più prominente. Questa spiegazione sembra però assai dubbia. La struttura generale corporea è piuttosto robusta e vigorosa, sia per un sensibile valore delle dimensioni trasversali delle spalle, del torace e delle anche, sia per il volume sensibile delle estremità. All'apparenza piuttosto massiccia contribuisce molto, inoltre, il predominio del tronco sulle gambe, in confronto del tipo medio europeo. Lo sviluppo del pannicolo adiposo sottocutaneo è, secondo il Baelz, normale. Il dimorfismo sessuale, cioè la differenziazione dei sessi nell'aspetto esterno, è piuttosto scarso, in confronto degli Europei. Secondo le tabelle pubblicate da J. Deniker, 20.000 Giapponesi, di età comprese tra 15 e 60 anni, fornirebbero una statura media di metri 1,577. Invece 13.859 soldati dell'età di anni 23 e mezzo porgerebbero una media assai più alta, cioè m. 1,637. Questa statura non sarebbe perciò molto al disotto della media generale dell'umanità (1,65). Baelz affermò che nelle classi superiori la statura è più elevata che nelle classi inferiori e che la statura massima è raggiunta circa il 35°-40° anno di età: 173 donne delle classi elevate e medie diedero al Baelz (che era un ostetrico) una media di m. 1,47; 69 donne delle classi lavoratrici m. 1,45; queste donne avevano una età da 18 a 50 anni. Il periodo del più intenso sviluppo somatico si chiuderebbe, secondo il Baelz, più presto nei Giapponesi che negli Europei. Nella donna la maturità sessuale (mestruazione) s'inizia il più delle volte dai 13 ai 15 anni. Il peso medio di 1000 individui delle classi elevate e medie era di kg. 55,6. Contrariamente a quanto avviene in Europa, Baelz trovava che il peso medio delle classi basse è superiore. Ad altezza uguale il peso medio del Giapponese sarebbe più forte di quello dell'Europeo; ciò che conferma il già rilevato aspetto massiccio del Giapponese.
Riguardo alle proporzioni e in primo luogo alla lunghezza del tronco rispetto alla statura, non sono stati accessibili dati che permettano il confronto con quelli consegnati nelle ormai classiche tabelle di V. Giuffrida-Ruggeri, in quanto queste sono fondate sull'altezza del tronco presa nella posizione seduta. I dati del Baelz si riferiscono all'altezza dal suolo del grande trocantere del femore (v. somatologia), cioè prendono di mira la lunghezza dell'arto inferiore. Presso i maschi del tipo fine Baelz constatò una lunghezza di 804 mm., il che fa un rapporto alla statura di 49,6; presso gli studenti le stesse misure sono 781, e 48,5; presso gli operai 812 e 50. Presso gli Europei l'indice varia da 50 a 52 essendo il tipo medio europeo mesatischele. Per le donne il Baelz dà queste cifre: tipo fine 765 e 50; tipo medio 720 e 49; tipo massiccio 710 e 49,2. Presso altri gruppi di donne di tipo medio le medie sarebbero anche più basse. Individualmente in questi altri gruppi trovò persino l'indice di 42. L'indice di altezza di biforcazione delle gambe che il Quetelet dà, per la donna europea, in 46,6, in una donna giapponese del tipo estremo era di 36. È posto perciò fuori d'ogni dubbio il piccolo sviluppo delle gambe rispetto al tronco. Ma anche le braccia sono assai corte. Il rapporto della grande apertura delle braccia alla statura è secondo il Baelz in 53 studenti e scienziati: 102,2; operai: 102; 1000 soldati: 102,6. Le donne presentano valori ancora minori, in guisa che nel sesso femminile la grande apertura è spesso minore della statura. In genere nell'umanità, secondo le tabelle del trattato di F. Martin, le medie non passano 109, ma anche gli Europei presentano valori che si estendono fino a questa cifra. Il valore però presentato dai Giapponesi è tanto più importante, in quanto la larghezza relativa delle spalle è in essi sensibile e prossima ai valori massimi dell'umanità. È quindi fuori di dubbio che i Giapponesi presentano fra i più piccoli valori di lunghezza dell'arto superiore. Il Baelz dice che il tronco presenta una colonna vertebrale con curvature poco pronunciate, specialmente la curvatura lombare; in altri termini il Giapponese presenta scarsa l'insellatura dei lombi che fa così svelte le forme di certe razze europee e di molti Negri.
Il colore della pelle è di un gialliccio, che nelle sue gradazioni va da una parte verso i toni chiari dell'Europeo e dall'altra al giallo scuro o bruno. Eccezionalmente e solo nei ragazzi che vanno nudi e presso i pescatori, nell'estate, il colore arriva a quello del bronzo. L'influsso della situazione geografica è scarso, data soprattutto la direzione quasi dal nord al sud dell'arcipelago giapponese. Il colorito rossiccio del neonato è più forte che in Europa e si mantiene più a lungo. Nelle guance il colorito rosso è scarso o assente. È noto del resto che B. Adachi dice che le razze gialle, anche nei gradi intensi di colorazione della loro pelle, non possono riconoscere un colorito giallo.
I Giapponesi presentano alla nascita delle macchie più o meno estese, di colorito più intenso della pelle circostante, sulla regione sacrale, che sono del resto soltanto più pronunciate e permangono più a lungo in tutti i gruppi etnici mongolici, ma che sono state riscontrate in numerosissimi gruppi etnici. I capelli sono spessi, rigidi, impiantati verticalmente sul cuoio capelluto, di un colore nero spesso bluastro e hanno una sezione circolare: presentano, in breve, i caratteri mongolici (v. capigliatura). La pelosità è assai scarsa: nel maschio, però, la barba, sebbene scarsa, è presente ma formata da peli piuttosto diritti e radi. Il colore degli occhi è generalmente bruno e solo nel 5% nero. L'orecchio è, nella metà dei casi, senza lobulo; le sue pieghe sono raramente ben formate, la sua grandezza è maggiore che nell'Europeo. Il Deniker dà la media di 79,4 per l'indice cefalico orizzontale di 153 cranî giapponesi, mentre per 116 individui sul vivente dà il valore di 78,1. I dati sul vivente che il Baelz porge, proiettati col sistema del Sera (v. cefalici, indici) dànno un predominio assoluto di forme orto- e ipsi-cefaliche. Gl'individui misurati essendo in gran parte studenti di Tōkyō, probabilmente provenivano in parte da provincie differenti del Giappone. Anche i dieci cranî di C. Toldt sono ortocefali per l'altezza. I 50 cranî del Baelz non sono utilizzabili a ragione della distanza presa da questo autore per altezza. Una caratteristica della regione orbitaria dei Giapponesi è la posizione più avanzata del globo oculare, onde il nervo ottico è più lungo. L'indice orbitario è di ipsiconchia (Baelz), l'indice facciale di leptoprosopia (Toldt), l'indice nasale è mesorrino (Baelz). Riguardo allo scheletro si può dire in complesso che le ossa lunghe sono piuttosto brevi e robuste: 23 omeri, di ambo i sessi, diedero al Baelz una media di 290 mm. di lunghezza, 23 ulne 243 mm.; 26 radî 224 mm.: 92 femori, fra maschili e femminili, diedero al Bello y Rodriguez una lunghezza di 410,5 per i maschi e 376,2 per le femmine; 92 tibie diedero rispettivamente 311,2 e 299,7. Sono caratteristiche del femore giapponese il piccolo diametro antero-posteriore della sezione come la bassa torsione. La tibia ha sezione larga (euricnemica) e ha piccola torsione. Le ossa del piede e della mano manifestano sensibili differenze da quelle europee (Adachi).
Ma anche la conoscenza della struttura delle parti molli è ormai parecchio progredita. Citiamo brevemente: nel sistema muscolare è assai importante la frequenza notevole con cui si presenta un muscolo anormale, lo sternale, detto anche presternale, muscolo che è sinora d'interpretazione enigmatica, rispetto alla funzione che poteva avere quando la sua presenza era normale: altra singolarità a esso relativa è che non esiste nessun animale in cui si abbia una formazione chiaramente comparabile a questo muscolo, che è una formazione affatto umana. Così anche è da segnalare: la forte frequenza del muscolo piramidale dell'addome; la forte frequenza dell'aumento del numero dei capi del bicipite omerale, la più rara assenza del piccolo palmare, la forte frequenza della perforazione del piriforme da parte del nervo sciatico; l'assenza più frequente del plantare gracile. Nel fegato la vena cava è libera all'indietro dal tessuto epatico, assai più frequentemente secondo Kudo e Hasebe, che negli Europei. Kudo e Mori riferiscono che nell'apparato uropoietico si presenta una forma a ferro di cavallo nel rene; essa però è rara. Secondo K. Hasebe il rene giapponese avrebbe frequenza più forte di un tipo nel quale il bacinetto è ampio nel senso verticale e i calici sono corti. Il sistema arterioso è stato studiato a fondo dall'Adachi, con una larga comparazione con gli Europei e con le altre razze. Così, ad esempio, la mascellare interna passa all'interno del muscolo pterigoideo esterno assai raramente, mentre è la norma per gli Europei. La stessa arteria passa nei Giapponesi, normalmente, cioè nella maggior parte dei casi, in dentro del nervo boccale. Ricordiamo ancora: la relativa scarsa frequenza dell'arteria comunicante anteriore del cervello, l'arcata palmare profonda che passa più frequentemente avanti il nervo ulnare; la biforcazione dell'aorta addominale che ha luogo assai più spesso sulla quinta lombare; la maggiore frequenza nei Giapponesi di un tronco comune per la circonflessa mediale, laterale e profonda del femore (carattere progressivo).
A conclusione delle sue ricerche, il Baelz distinse nel Giappone due tipi, l'uno fine e l'altro massiccio. Il primo avrebbe una statura un po' più alta, forme slanciate in generale, magrezza, arti più eleganti e fini, faccia, naso, cranio cerebrale più lunghi, torace un po' stretto, mani piccole. Il tipo massiccio avrebbe le caratteristiche opposte. Il primo trapasserebbe in forme semipatologiche e sarebbe frequente nell'aristocrazia, ma anche nelle altre classi elevate. Il secondo si trova nei contadini. Questi due tipi presero il nome di Chōshū e Satsuma rispettivamente. Negli ultimi tempi il Weidenreich trovò nel contrasto di essi un perfetto parallelo a quello che in Europa è dato dai due tipi costituzionali, detti rispettivamente leptosomo ed eurisomo, e spiega con fattori costituzionalistici la loro presenza. A dire il vero il Baelz non si esprime categoricamente per una spiegazione raziale di questi due tipi, anzi egli sembra inclinare al concetto che la loro produzione si debba a una selezione sociale, in quanto il tipo fine, assai più evidente nella donna, sarebbe determinato dalle abitudini di vita delle antiche classi aristocratiche giapponesi, che allontanavano la loro prole, ma soprattutto le donne, da ogni attività fisica all'aperto. Inoltre il Baelz insiste sulle caratteristiche mongoliche comuni a entrambi i tipi.
Il predominante mongolismo attuale del Giappone è dunque evidente. Il Matsumoto, però, ci riferisce che l'Hasebe e il Matsumura sarebbero arrivati a distinguere nel Giappone attuale quattro tipi diversi. Disgraziatamente il Matsumoto ci riferisce assai in breve le loro caratteristiche: 1. Tipo Ishikawa: statura piccola 1,52-1,55; indice cefalico 78; faccia diritta e bassa; mascellari deboli. 2. Tipo Okayama: statura alta più di 1,65; indice cefalico 82 e più; faccia convessa, alta; mascelle forti. 3. Tipo Chikuzen: statura alta più di 1,65; indice cefalico circa 78.4. Tipo Satsuma: statura piccola, circa 1,55; indice cefalico 82. Il Matsumoto non dice se questi tipi differiscono fisionomicamente. Il primo tipo sarebbe abbondante nella parte nord-est e territorî prossimi di Hondo, il tipo Okayama nei distretti costieri, intorno al Mare Interno e nella parte occidentale e centrale di Hondo. Il terzo tipo sarebbe nella parte settentrionale di Kyūshū e il quarto nella parte meridionale di Kyūshū e di Shikoku.
Ma i tipi del Giappone neolitico sono assai più importanti. Il Matsumoto nel primo suo lavoro, del 1921, ne distinse tre: 1. tipo Aoshima; 2. tipo Miyato; 3. tipo alto Tsukumo. Questi tipi si susseguirebbero cronologicamente dal primo all'ultimo neolitico. Le due prime località sono site nella parte nord-orientale, la terza nella parte occidentale di Hondo. Ma il fatto assai interessante è che questi tre tipi manifestano affinità europee e non mongoliche, onde il Matsumoto li chiama Pan-Ainu riferendosi all'opinione abbastanza diffusa che gli Ainu abbiano affinità europee. Il tipo Aoshima avrebbe presso a poco i caratteri del primo tipo che il Koganei riscontra negli Ainu (cosiddetto tipo puro) e che si trova negli Ainu di Sachalin. Il tipo Miyato avrebbe a un dipresso i caratteri del secondo tipo Ainu di Koganei, cioè i caratteri degli Ainu di Yezo. Il tipo Tsukumo avrebbe caratteri che, singolamiente, lo riavvicinerebbero ai preistorici Cro-Magnon di Europa.
In un brevissimo lavoro recente (1930) Matsumoto distingue sette tipi preistorici. Il lavoro però ha carattere preliminare e la diagnosi dei tipi è assai schematica e fondata soltanto sul cranio; inoltre non sono date illustrazioni, di modo che è difficile farsi un'idea concreta dei detti tipi. A ogni modo i primi quattro tipi appartengono al Pleistocene superiore, che però nel Giappone, sotto il rispetto delle industrie umane, è già neolitico. Il 5° e il 6° sarebbero nel Giappone d'apparizione più recente. I sei primi tipi sono intimamente connessi, in guisa che possono provenire da un progenitore comune, l'ultimo tipo parrebbe essere mongoleggiante e analogo perciò al tipo Okayama dei tempi presenti.
Questi risultati ci fanno intravedere la grande importanza delle recenti scoperte giapponesi, ma occorre attendere che i reperti vengano convenientemente descritti e figurati, per poterne trarre conclusioni. Riguardo ai rapporti dei tipi neolitici e degli attuali, fermandoci però ai tre primi tipi stabiliti dal Matsumoto, essi si possono così sintetizzare: il tipo Ishikawa sarebbe stato prodotto da una mongolizzazione del tipo Miyato. I caratteri singolari di esso, perciò, costituirebbero un ravvicinamento al tipo Ainu. Il tipo Chikuzen sarebbe stato prodotto da una mongolizzazione di una varietȧ più brachioide del tipo Miyato. Il tipo Okayama sarebbe appunto il fattore predominante nei tempi recenti e a cui si deve la saturazione di mongolismo che hanno subito i tipi neolitici. Esso tipo sarebbe dal Matsumoto ravvicinato al tipo coreano. Tutti questi tipi preistorici e storici sarebbero passati nell'arcipelago attraverso la Corea: naturalmente i tipi più periferici (Ainu) sarebbero i più antichi.
Etnografia. - L'abitazione. - La casa è quasi interamente costruita in legno; nelle città ha di regola due piani, nelle campagne uno solo. Le sue pareti esterne sono solo in parte (uno o due lati) costruite in muratura, il resto è costituito da verande (protette all'esterno da pareti mobili, dette amado, o aperte) o da ampie finestre, a metà altezza, che dànno luce agli ambienti. Questi sono spesso numerosi e separati l'uno dall'altro da pareti mobili (fusuma), con carte decorate che permettono di variare il numero delle stanze. I pavimenti hanno delle stuoie (tatami), di dimensioni fisse, il cui numero serve, nella pratica, a indicare la grandezza di una stanza. A eccezione del vestibolo, della cucina, del bagno, le varie stanze non sono di regola destinate a un uso particolare. Ciò che più colpisce in esse è l'estrema nudità. Non che manchi mobilia, ma questa è scarsa e appare solo quando serve. All'ora del pasto, si porta a ciascun commensale un cuscino, sul quale egli s'inginocchia (modo di sedere dei Giapponesi), e un piccolo tavolino laccato, alto circa 20 centimetri, su cui egli trova o pone l'occorrente. Finito il pasto, tutto scompare nei todana (ripostigli). Alla sera, da questi si tolgono dei sottili materassi, che servono da letto, e si distendono sul pavimento. Il guanciale degli uomini è lungo e stretto, quello delle donne è di legno e ha, superiormente, un'imbottitura su cui esse poggiano la guancia per non guastare troppo l'acconciatura. Al mattino, tutto scompare di nuovo. D'inverno, la famiglia si suole riunire intorno al hibachi, basso braciere di ferro, dove brucia del carbone. Caratteristico della casa giapponese è il tokonoma, specie di ampia nicchia o alcova, dal piano rialzato, dove si pongono di solito oggetti d'arte, specie vasi con fiori disposti secondo le regole di un'estetica risalente al sec. XVI. Il tokonoma ha sul fondo un kakemono, quadri su seta, pieghevoli a rotolo. Il kakemono viene talvolta cambiato, con altri oggetti, per armonizzare il tutto con la stagione, col tempo, col momento particolare della vita familiare, ecc. Funge anche da sacrario domestico, dove si pongono le tavolette col nome degli antenati, per comunicare loro avvenimenti notevoli della famiglia; dinnanzi a esso si ricevono gli ospiti.
Con la civiltà europea, anche le case e la mobilia occidentali sono apparse in Giappone. Tutte le città hanno oggi interi quartieri costruiti all'occidentale.
Il Giapponese è l'uomo più pulito del mondo. In casa egli sta senza calzature, che lascia all'ingresso, e quasi sempre la sua abitazione ha una stanza da bagno. Il bagno viene preso assai caldo (circa 43°) e per asciugarsi s'adopera un panno umido. Il bagno è parte essenziale della vita dei Giapponesi; anche i più umili ne prendono almeno uno al giorno. Esiste una miriade di bagni pubblici.
Abbigliamento. - È vario e talvolta complesso. Gli uomini vestono a contatto della carne un perizoma di cotone (shita-obi), su cui pongono una camicia (juban) di cotone o di seta, accompagnata, d'inverno, da una sottoveste (dōgi) della stessa stoffa. Sopra è il vestito propriamente detto o kimono, sostituito, d'inverno, da due abiti imbottiti (shita-gi e uwa-gi), tenuti a posto da una cintura (obi). Nelle grandi occasioni si veste un hakama, specie di gonna aperta, e un mantello pesante, il haori, ambedue di seta. Ai piedi calzano i tabi, specie di grosse calze col solo alluce isolato dalle altre dita da un solco in cui passano le cinghie degli zōri o dei waraji, specie di sandali di paglia. Si calzano anche i geta, zoccoli di legno di forma speciale. In casa o d'estate, il kimono viene sostituito dallo yukata di cotone leggiero, il quale è soggetto a variazioni più o meno sostanziali in relazione con le possibilità e con l'occupazione. Le donne pongono ai fianchi due piccoli grembiuli (koshi-maki), sui quali vestono uno o due kimono stretti prima da una striscia di scata, tenuta diritta alle reni da una piega (obi-age) e sostenuta da un cordone (obi-dome). La capigliatura femminile è assai curata; l'acconciatura complicata e ornata da pettini e grosse spille, varia con l'età e la condizione sociale.
Da tempo il costume europeo va soppiantando lentamente, ma sicuramente, quello pittoresco indigeno. Quasi tutti gli uomini e molte donne hanno oggi i capelli tagliati all'europea e nei ricevimenti ufficiali è prescritto il nostro abito da società. Nella borghesia non è raro trovare in materia di abbigliamento l'ibridismo nippo-europeo più capriccioso.
Istituzioni sociali e usi tradizionali nella vita sociale e familiare. L'etica confuciana influenza fortemente ancora oggi la morale familiare. Il padre è il capo assoluto della famiglia, che deve a lui rispetto e sottomissione.
L'età media del matrimonio è di 20-27 anni per l'uomo, di 16-20 anni per la donna. L'uso vuole ch'esso venga organizzato e condotto da un mediatore (nakōdo), di solito persona amica e di fiducia, cui il capo di famiglia commette l'incarico di trovare una sposa conveniente per il proprio figlio. La cerimonia nuziale è semplice e consiste nel passaggio della donna alla casa dello sposo, della cui famiglia ella entra a far parte, e in un banchetto che ivi l'attende. Nessuna funzione religiosa ha luogo, sebbene ora, certo sotto l'influenza delle idee occidentali, vada diffondendosi l'uso di sposarsi nei templi shintoisti. I genitori che hanno un'unica figlia possono adottare il loro genero, il quale, entrando a far parte della famiglia dei suoceri, ne assume il cognome.
L'etica confuciana, imperniata sulla perpetuazione della discendenza familiare affinché venga mantenuto il culto degli antenati ha portato all'uso dell'adozione, che, molto sviluppato come esso è, costituisce un'altra fisionomia caratteristica della società giapponese. Un artista celebre adotta facilmente il suo migliore allievo, perché la sua arte possa perpetuarsi. Una vecchia istituzione, derivata dal buddhismo e tendente a cadere in disuso, è l'inkyo (letteralmente: "stare nell'ombra") per cui, alla soglia della vecchiaia, il padre si ritira con la moglie, cedendo le cure e i diritti di capo di famiglia e tutti o parte dei proprî averi al figlio maggiore, per passare in tranquillità gli ultimi anni.
Alimentazione. - Assai diversa dalla nostra, l'alimentazione tradizionale giapponese non soddisfa il gusto europeo: essa ha per base il riso, sostituito nella mensa dei poveri dall'orzo o da altri cereali di basso prezzo, i legumi, il pesce, le uova. La carne, sotto l'influsso del buddhismo, è poco diffusa. Gli alimenti sono spesso conditi in modo piccante, ad es. con l'immancabile shōyu, specie di salsa preparata con la soia. Si fa largo uso di dolciumi, come focacce, marmellate. Le bevande principali sono il sake, ottenuto per fermentazione dal riso e bevuto caldo prima di mangiare, e il tè verde, preso senza latte e senza zucchero. Si mangia generalmente tre volte al giorno; i tradizionali hashi, corte bacchette tenute e manovrate dalle tre prime dita della mano destra, vanno perdendo sempre più voga.
Utensili, strumenti e occupazioni caratteristiche. - I contadini usano ancora, in gran parte, gli strumenti tradizionali: l'aratro, di poco differente da quello degli Egiziani dell'epoca faraonica, la vanga, la falce e l'erpice. Ma naturalmente anche in questo campo l'occidentalizzazione del paese ha fatto molti progressi.
La pesca annovera metodi e strumenti originali. Nei fiumi si suol fissare dei panieri (ajiro) di bambù sull'orlo delle cascate affinché i pesci che le traversano vi cadano dentro; talvolta la cascata si produce artificialmente, distendendo in mezzo al fiume una stuoia di bambù che rialza il livello dell'acqua. Caratteristica è la pesca col cormorano, uccello acquatico abilissimo pescatore. L'operazione si fa di notte. I pescatori assicurano i cormorani a una funicella, un'estremità della quale essi tengono nelle mani. Attratti alla superficie dalla luce delle torce, i pesci vengono dai cormorani afferrati col becco, dal quale li toglie successivamente il pescatore appena s'è accorto che l'uccello ha la preda. La trota viene presa nelle acque del Kitayama-kawa da pescatori abilissimi che si tuffano armati di una reticella. La pesca con le reti è anche largamente praticata.
I falegnami usano una sega a sciabola manovrata con ambedue le mani e che ha i denti rivolti verso il manico. La pialla è piccola e, avendo la lama rivolta in senso opposto a quella delle nostre, taglia quando chi l'adopera la tira a sé.
Distrazioni e feste. - Fra quelle caratteristiche citeremo la cerimonia del tè (cha-no-yu) che consiste nel preparare e nel sorbire la bevanda seguendo le minuziose modalità di un rituale risalente al sec. XIII; il canto e la danza eseguiti dalle geishe (v.), al suono dello shamisen; il teatro indigeno, comprendente il dramma classico, o nō, e quello popolare, o habuki (v. sotto: Letteratura); i numerosi giuochi, fra i quali il giuoco dei profumi (kikikō), consistente nell'indovinare l'ordine di combustione di alcune specie d'incensi, e varî giuochi di carte (utagaruta, o carte poetiche, hana-garuta, o carte di fiori, ecc.), oltre al go, specie di giuoco della dama con 360 pedine, e agli scacchi (shōgi), alquanto diversi dai nostri; gli spettacoli di lotta; gli yose, sale dove abili declamatori raccontano storie, leggende, avventure, ecc., talvolta con musica. L'opera lirica, il canto, la musica, i giuochi europei, il cinematografo, la radio, ecc., hanno acquistato molto favore e diffusione, ma non fatto perdere il gusto per le distrazioni indigene, che permane vivissimo.
L'anno giapponese conta numerosi giorni di festa distinguibili in: a) feste nazionali ufficiali, che sono: Shihōhai (1° gennaio) festa del nuovo anno; Kigensetsu (11 febbraio), anniversario della fondazione dell'impero per opera di Jimmu Tennō (v. sotto: Storia) e della promulgazione della costituzione; Tenchōsetsu, genetliaco dell'imperatore. Queste feste costituiscono "le tre grandi feste" (Sandaisetsu); b) feste tradizionali: Capodanno (1-3 gennaio); Festa della bambole (3 marzo); Festa di Iris (5 maggio); Festa delle stelle (7 luglio); Festa delle lanterne (13-15 luglio); Festa dei crisantemi (9 settembre); Festa dei 7-5-3 [anni] (15 novembre). Oltre queste altre ve ne sono d'importanza locale. Molte hanno origine religiosa.
Dati statistici sulla popolazione. - Tentativi di una valutazione, necessariamente approssimata, della sua popolazione non mancano nella storia del paese. Uno dei primi, se non il primo, di cui si abbia notizia, è il censimento eseguito nel 610 d. C. regnando l'imperatrice Suiko, che diede per risultato 4.990.000 anime. A questo, fino a tutto il sec. XVI, seguirono alcuni altri censimenti, ma le loro cifre, come quelle del primo, sono tutt'altro che attendibili, se si considerino i mezzi inadeguati e il modo con cui essi furono eseguiti. Maggior credito spetta invece alle cifre ottenute durante l'amministrazione, sotto alcuni punti di vista perfetta, dei Tokugawa (1603-1868). Dalle cifre di 12 censimenti eseguiti durante i due secoli e mezzo del loro governo (anni 1726, 1744, 1750, 1762, 1768, 1780, 1786, 1792, 1804, 1828, 1834 e 1846) risulta una popolazione quasi costante compresa fra i 26 e i 27 milioni di individui. A questi sono da aggiungersi i fuori casta (eta) e gli appartenenti alle classi basse (domestici, ecc.) che non erano censiti; si può così, approssimativamente, portare a 30 milioni la popolazione media del Giappone durante quell'epoca.
Statistiche più esatte cominciano con l'anno 1872, in cui, modellata la società su nuove basi, per l'avvenuta adozione della civiltà europea, si eseguì un primo censimento con metodi nuovi e razionali. Le cifre di questo, e degli altri nove che fino al 1915 a esso seguono, segnano un continuo aumento della popolazione del Giappone, come mostra chiaramente la seguente tabella:
da essa risulta che, nel periodo 1872-1915, la popolazione del Giappone subì un aumento del 70% circa, rimanendo quasi costante la proporzione degli uomini rispetto a quella delle donne.
Tutte le cifre precedenti riguardano il solo Giappone propriamente detto. Per quanto concerne la popolazione totale dell'Impero, censimenti esatti vennero eseguiti negli anni 1910, 1925, 1930 (i° ottobre per tutti gli anni): la tabella seguente riunisce i risultati dei due ultimi (si noti tuttavia che per quello del 1930 le cifre sono provvisorie):
Da queste cifre appare chiaro che nel quinquennio in parola la popolazione dell'Impero subì un aumento di 7.225.342 anime, pari in media a 1.445.068 all'anno. In base a ciò è facile prevedere che fra alcuni anni, restando immutata la sua attuale estensione territoriale, l'Impero giapponese avrà una popolazione molto prossima ai 100 milioni di abitanti.
Distribuzione della popolazione. - Secondo le cifre dell'ultimo censimento, sopra riportate, la densità media della popolazione del Giappone pioprio risulta di circa 168 ab. per kmq. Tuttavia essa è inegualmente distribuita nel paese. Quasi senza eccezioni, nelle pianure, dove l'agricoltura è fiorente, e maggiori quindi le possibilità di lavoro, la popolazione è assai più densa che non sui monti, dove l'attività umana è, per forza di cose, limitata, e i mezzi di sussistenza scarsi. D'altra parte, circa i quattro quinti del paese non sono coltivabili; si comprende dunque, quale enorme addensamento debba presentare il rimanente quinto. La pianura più popolata è quella del Kwantō, dove sorge Tōkyō: ivi, in alcune regioni, p. es., quella di Musashi, si hanno densità superiori ai 600 abitanti per kmq. Subito dopo viene il territorio pianeggiante del Kinai, su cui sorgono Osaka, Kōbe e Kyōto, con più di 300 ab. per kmq. Anche la pianura di Nōbi, su cui sorge Nagoya, presenta forti densità. Nell'isola di Kyūshū i forti addensamenti sono nella pianura di Tsukugo-gawa (280 ab.); in Shikoku, invece, nelle regioni bagnate dal Mare Interno; fra queste, p. es., la provincia di Kagawa conta 380 ab. per kmq.
Dopo la natura del terreno, la posizione geografica ha grande influenza nella distribuzione della popolazione. Nel Hondo le densità forti si trovano sulle coste meridionali, non su quelle occidentali e orientali, volte verso mari e continenti poco attivi. Nelle due grandi isole meridionali, invece, la maggiore densità segue il litorale occidentale, sia perché questo ha di fronte la Cina e la Corea, con le quali è fiorentissimo il commercio, sia perché, fin da tempi remoti, per questo litorale penetrò dalla Corea la civiltà, mentre le coste bagnate dal Pacifico si presentano povere di suolo e di attività.
La densità va in generale diminuendo verso il nord, meno ricco di pianure e con limitate attività. Nella provincia di Iwate, ad es., essa è già di 64 ab. per kmq. Nel Hondo centrale, tuttavia, a causa della sericoltura assai fiorente, si hanno ancora densità intorno ai 100 ab. per kmq.
I centri cittadini hanno pure notevole importanza nella distribuzione della popolazione. Le antiche città passato dei feudi e, per questo, costruite in posizione di facile difesa. Per l'assenza di condizioni favorevoli all'agricoltura nel territorio circostante, molte di esse non poterono subire incremento demografico: tale è il caso, ad es., delle città di Mito, Morioka, Ōtsu, Shuri e di altre, città importanti nel passato e divenute ora piccoli centri. D'altra parte, i profondi rivolgimenti d'indole sociale e politica che condussero all'apertura del paese crearono nuove esigenze in seguito alle quali piccoli villaggi costieri, in grazia della loro posizione privilegiata, specialmente in rapporto alle comunicazioni e al commercio con l'estero, divennero centri di grand'importanza. Tale è il caso di Yokohama, di Sasebo, di Yokosuka, di Kure, ecc.
Lo sviluppo industriale e minerario ha pure causato forti addensamenti. Nella regione circostante a Fukuoka, ad es., sono sorti ben cinque centri industriali importanti e ugual sorte hanno pure subito la regione di Nagoya e i distretti minerarî di Yezo. Anche in prossimità di sorgenti termali sono sorti centri fiorenti, come quello di Beppu, nell'isola di Kyūshū.
Il fenomeno dell'urbanesimo, dopo l'apertura del paese, e specie negli ultimi anni, è andato assumendo proporzioni sempre più rilevanti e i centri urbani aumentano ogni anno a scapito della campagna, dei piccoli centri rurali e dei villaggi. Le cifre della tabella riportata sopra, valevoli per il Giappone proprio, mostrano il fenomeno.
Emigrazione. - L'enorme, continuo sviluppo demografico del Giappone ha dato un forte impulso all'emigrazione, la quale, debole nei primi anni dell'apertura del paese, è andata sempre più intensificandosi col crescere della pressione della popolazione. Prime a ricevere i coloni giapponesi furono le Isole Hawaii (1868); vennero poi gli Stati Uniti, la Nuova Caledonia Francese, la Guadalupa, il Canada, il Messico, il Perù, le Filippine, il Brasile. Al 1° ottobre 1927 la popolazione giapponese residente all'estero era di 674.522 individui, dei quali 279.003 nell'Asia (principalmente in Cina, in Manciuria e nelle Filippine), 165.601 nell'America Settentrionale, 84.689 in quella Meridionale, il resto nelle altre parti del globo. La massima parte degli emigrati sono agricoltori, il rimanente operai, commercianti, pescatori, braccianti e liberi professionisti; alcuni hanno anche acquistato la nazionalità del paese di residenza.
In base alle statistiche degli ultimi anni, il movimento emigratorio giapponese si aggira sui 10.000 individui all'anno, pari a circa 1/17 dell'aumento annuale della popolazione del Giappone proprio; da ciò appare chiaro quanto insignificantemente l'esodo contribuisca alla diminuzione della pressione demografica del paese. A ciò si aggiunga che quei paesi che offrivano condizioni naturali e di vita particolarmente favorevoli al Giapponese, ed erano perciò da lui preferiti, hanno chiuso ora le loro porte o imposto limiti rigorosi al suo ingresso. Tale è il caso del Canada, degli Stati Uniti, delle Hawaii e dell'Australia, mentre il Perù è saturo di operai e agricoltori giapponesi e l'Argentina non ha posto per gente senza mezzi in cerca di lavoro. L'America Centrale, la Siberia e la Cina cercano capitali, non mano d'opera, dal Giappone. Non resta dunque che il Brasile, il quale, tuttavia, offre l'ostacolo di una grande lontananza e di condizioni naturali troppo diverse da quelle della madrepatria. Il problema dell'emigrazione, di così vitale importanza per il Giappone, si è perciò gravemente imposto all'attenzione del governo, il quale da qualche tempo va polarizzando i suoi sforzi verso l'intensificazione dell'emigrazione interna, specialmente nella direzione di Yezo e di Sachalin, mentre fa parte ancora dei suoi obiettivi un piano di futuro sviluppo del movimento emigratorio nella Siberia e nella Cina settentrionale.
L'emigrazione interna verso il nord, del resto, ha origini abbastanza remote. Negli antichi tempi la regione di Ōu, cioè il NE. di Hondo, territorio montuoso e lontano dalla capitale Kyōto, era occupato dagli Ainu e poteva considerarsi come una colonia giapponese. Ciò spiega l'esistenza di numerosi nomi ainu al nord. Durante l'epoca feudale, una forte immigrazione giapponese cacciò gli Ainu nell'isola di Yezo, la quale più tardi fu occupata e colonizzata anch'essa, parzialmente, da Fakeda Nobuhiro al cui discendente, Matsumae Yoshihiro, fu concessa, nel 1604, da Ieyasu, la signoria dell'isola. L'immigrazione in questa, cominciata così all'epoca feudale, è andata sempre più aumentando, specie dopo il Meiji (1868). In Sachalin l'immigrazione è cominciata, si può dire, dall'annessione della metà inferiore dell'isola al Giappone, nel 1905, e da allora è stata con ogni mezzo favorita dal governo. Le miniere, le grandi estensioni boschive e la pesca assorbono quasi interamente l'attività degl'immigrati, poiché il clima dell'isola non è molto favorevole all'agricoltura. Yezo, invece, oltre alle ricchezze del suolo e dei suoi mari, offre larghe possibilità d'impiego di mano d'opera nei campi e l'immigrazione rurale vi è perciò abbastanza notevole. In generale, tuttavia, è solo con estrema riluttanza che il colono giapponese s'induce a stabilirsi al nord.
La Corea e Formosa, fortemente popolate, non offrono sbocchi all'emigrazione interna.
Agricoltura e allevamento. - L'agricoltura è, ed è stata sempre, la maggiore risorsa economica del paese e il riso ne è il prodotto principale. Per il carattere prevalentemente montuoso del territorio dell'Impero, solo il 19% circa della sua superficie è utilizzabile a scopi agricoli. Per il Giappone proprio tale cifra è del 26%, ma quest'area non è stata ancora completamente sottoposta alle colture. In generale al sud lo è più che al nord. Nel Kyūshū, ad es., il terreno agricolo è sfruttato per l'80%, nelle regioni del Kwantō e in quelle intorno a Ōsaka e Nagoya lo è per il 30-43%, mentre nelle regioni montuose del Hondo settentrionale solo per il 9,3%.
Nella formazione del terreno agrario, l'alluvium ha poca importanza, perché le pendenze notevoli del rilievo non permettono l'accumulo nelle pianure di grandi quantità di detriti. Importanza assai maggiore hanno, invece, gli abbondanti e diffusi materiali vulcanici del Cenozoico e del Neozoico, rappresentati spesso da vaste coltri di ceneri, che costituiscono un terreno ottimo per le colture, purché, a causa del loro elevato contenuto in silice, vengano opportunamente corretti con altri materiali e concimati. I terreni granitici, così abbondanti dappertutto, sono i più adatti per la risicoltura, perché le particelle finissime e impermeabili risultanti dalla disgregazione dei feldspato, penetrando nel sottosuolo, trattengono l'acqua alla superficie mantenendovi l'umidità richiesta dalla pianta
La temperatura moderata e l'abbondanza di precipitazioni forniscono pure condizioni eccezionalmente favorevoli all'agricoltura, sia perché rendono possibile una grande varietà di colture, sia perché permettono la coltura intensiva, che, in parte almeno, compensa la scarsezza del suolo agricolo. Il significato di questa per l'economia della nazione apparirà chiaro quando si pensi che, mentre l'area messa a coltura nel Giappone proprio è solo 1/20 di quella corrispondente degli Stati Uniti, essa deve alimentare una popolazione pari alla metà di questi. In generale dopo la raccolta del riso, in settembre e in ottobre, si semina frumento od orzo, che vengono mietuti a maggio; s'inonda, quindi, il terreno e si pianta di nuovo il riso. La popolazione agricola è circa la metà di quella del paese. Nel 1926 era rappresentata da 5.555.157 famiglie delle quali circa
Questo eccessivo spezzettamento del terreno agrario è dovuto in parte alla topografia del paese, ricca di variazioni e in parte alla maggiore capacità della coltivazione su piccola area di alimentare una popolazione densa.
Durante l'epoca feudale i daimyō e i loro vassalli diretti, i samurai, erano i padroni delle terre e i loro contadini ne erano i fittavoli. Con la Restaurazione, questi presero possesso delle terre da loro coltivate e da ciò nacque l'attuale assetto agrario. Oggi chi possiede terre può coltivarle da sé o darle a mezzadria. Nel primo caso il sistema di coltivazione si chiama jisaku, nell'altro kosaku. Nel 1924 il 31% delle famiglie agricole lavorava a jisaku, il 28% a kosaku, il resto metà in un modo, metà nell'altro. Da poco tempo il primo sistema va diffondendosi sempre più, un po' per gl'incidenti che frequentemente sorgono fra padrone e mezzadro, a causa della mancanza di una legislazione che regoli in modo preciso i loro rapporti, un po' anche per l'impulso del governo, che, allo scopo specialmente d'impedire che le popolazioni agricole si riversino nelle città, già così congestionate, sovvenziona pecuniariamente e aiuta con ogni mezzo chi voglia divenire proprietario.
Il principale prodotto dei campi è il riso, coltivato sul 55% della superficie agricola totale; vengono in seguito i cereali col 28%, il gelso col 10%, poi vengono ancora la soia, le patate dolci, l'azuki (Phaseolus radiatus), il tè, il tabacco, gli ortaggi, ecc. Il riso (kome) è l'alimento più diffuso e molto spesso, specialmente fra i contadini, esclusivo del Giapponese. Il riso è produzione esclusiva delle regioni battute dai monsoni, non è quindi coltivabile né a Sachalin né nelle Kurili. Le regioni più produttrici sono le provincie di Niigata, Fukuoka, Hyōgo e Aichi. La produzione giapponese totale, aggirantesi sui 108 milioni di hl. l'anno non è sufficiente al fabbisogno nazionale, il quale, benché con oscillazioni, è anche in continuo aumento; la differenza (da 9 a 18 milioni di hl. l'anno) deve quindi venire importata dall'estero, specialmente dalla Cina. Il valore annuo medio della produzione del riso, nel quinquennio 1923-27, fu di 1.944.048 yen, corrispondenti al 66% circa del valore medio totale annuo della produzione agricola nel medesimo periodo. Il 90% del riso viene consumato direttamente, il rimanente viene impiegato nella fabbricazione del sake, bevanda alcoolica preparata per fermentazione. Il frumento (mugi) è alimento sussidiario usato specialmente per la fabbricazione dei dolciumi, degli udon, i maccheroni giapponesi, ecc.; esso deve pure essere importato dall'estero. La soia (daizu) è, dopo il riso, l'alimento più diffuso. Le fave di soia vengono mangiate tal quali o lavorate per estrarne l'olio, o per farne prodotti, quali il miso, specie di latte, il nattō o formaggio di soia, il tōfu o gelatina di soia; il più importante però è lo shōyu (donde il nome soia), specie di salsa, immancabile nella cucina indigena. Il tè (cha) è originario della Cina donde, in tempi assai remoti, fu introdotto nel Giappone. Oggi viene coltivato specialmente nella parte meridionale di Hondo (prov. di Shizuoka, Wakayama e Nara). I Giapponesi usano esclusivamente il tè verde; quello nero è destinato all'esportazione. Questa ha luogo in gran parte in America, dove, nonostante la concorrenza di temibili rivali, quali il tè di Ceylon, di Giava e dell'India, il tè giapponese è molto apprezzato a causa specialmente della persistenza del suo gradevole aroma. La produzione complessiva di tè si è aggirata nel quadriennio 1927-30, sui 37-39 milioni di kg. Il tabacco fu introdotto in Giappone dagli Europei (sec. XVI). La sua coltivazione è monopolio di stato e perciò sottoposta a sorveglianza governativa; nel quadriennio 1927-30 ha dato oltre 600.000 q. annui. L'indaco (ai), il cotone (wata), la canapa (asa) sono pure coltivati ma in scala assai ridotta. La canna da zucchero è coltivata solo a Formosa, la barbabietola, invece, largamente nelle regioni orientali dell'isola di Yezo. La frutticoltura non ha in Giappone quell'importanza che ha in Italia, e ciò a causa, più che altro, delle condizioni climatiche, specialmente delle precipitazioni atmosferiche, più abbondanti che in Italia. Tra i frutti la cui produzione è notevole stanno in prima linea la susina, la pesca, la pera, il kaki, la mela, l'uva e il mandarino.
Anche l'allevamento degli animali non ha molta importanza nell'attività del contadino giapponese perché, per la scarsezza del territorio agricolo e per la necessità di adibire a colture alimentari tutto il terreno disponibile, il paese difetta di prati e pascoli; d'altra parte l'eccessivo spezzettamento di questo, non fa quasi affatto sentire la mancanza di aiuto animale nei lavori campestri. L'allevamento ha dunque per scopo quasi sempre l'ottenimento di prodotti utili come il latte, le uova, la lana, ecc. Esso è però molto incoraggiato dallo stato, sia con l'importazione di razze buone, sia con l'impianto di stazioni di allevamento razionale.
I bovini (circa un milione e mezzo) vengono allevati specialmente nella parte occidentale di Hondo e nelle isole di Shikoku e di Kyūshū. I cavalli (circa un milione e mezzo) abbondano al nord, ma cominciano a diffondersi al sud nelle provincie di Fukuoka, Kumamoto, Miyazaki. I maiali (circa 700.000) sono diffusi nelle Ryū-kyū, nelle provincie di Kagoshima, di Shizuoka e nel Kwantō. Le capre (215.400) costituiscono circa il 65% del patrimonio zootecnico della provincia di Okinawa; abbondano però anche nell'isola di Kyūshū. Le pecore (20.700) sono pochissimo diffuse e si trovano principalmente nel nord; la massima parte è di proprietà del governo che si sforza di diffonderle. Numeroso è il pollame, che viene allevato un po' dappertutto, ma in modo particolare nelle provincie di Aichi, Chiba e Kagoshima.
Un'attività che va messa fra quelle a carattere agricolo è la sericoltura, che nell'economia rurale occupa un posto pari, per importanza, a quello della risicoltura. Nel 1925 la sericoltura era praticata da 1.948.706 famiglie, specialmente nel Giappone centrale (provincie di Nagano, Gumma, Saitama, Aichi, Yamanashi, Gifu e Fukushima) e il suo sviluppo è stato notevolissimo, come dimostra il fatto che negli ultimi 40 anni la produzione dei bozzoli è diventata otto volte maggiore (kg. 368.689.011 nel quadriennio 1927-30 contro kg. 42.332.557 nel quinquennio 1885-89).
La seguente tabella riguarda le principali produzioni agricole dell'ultimo quinquennio ( i quantitativi sono dati in migliaia di q.):
Foreste. - La notevole estensione del paese e la presenza di alte catene di montagne, con l'influenza ch'esse esercitano sul clima e sul suolo delle varie parti dell'Impero, rendono ragione della grande varietà della flora forestale giapponese, la quale, nelle abbondanti piogge e nel clima, generalmente temperato, trova condizioni assai favorevoli a un rigoglioso sviluppo. Nonostante l'enorme quantità di legno di cui il paese abbisogna, per costruire le abitazioni, come s'è detto, per i lavori comuni e per fare il carbone, il patrimonio forestale giapponese permane ingentissimo, grazie alle misure previdenti del governo, il quale ha cura che le aree diboscate vengano di nuovo piantate, occorrendo a sue spese, in modo da assicurare così le provviste future.
Nel solo Giappone proprio le foreste occupano il 48% della superficie; includendo le altre parti dell'Impero si arriva al 65%, cifra questa abbastanza elevata se si pensa che nella Svezia, uno dei paesi più ricchi di foreste del mondo e il più ricco d'Europa, si ha solo il 59%. Fra le specie botaniche costituenti la flora forestale giapponese, il primo posto, per varietà e quantità, spetta alle conifere, e fra queste al sugi (Cryptomeria japonica), al hinoki (Chamaecyparis obtusa), al sawara (Chamaecyparis pisifera S. et Z.), al hiba (Thujopsis dolabrata S. et Z.), allo tsuga (Tsuga Sieboldi Carr), al momi (Abies firma S. et Z.), senza contare i pini, rappresentati largamente, specie al nord, da infinite varietà. Degli alberi a larga foglia vanno menzionati il keyaki (Obelicea serrata Makino), il buna (Fagus sylvetica, var. Sieb.), il katsura (Cercidiphyllum japonicum), il kiri (Paulownia imperialis), lo shioji (Acanthoponax ricinifolium); pure abbondanti sono le varietà dei generi Ficus e Quercus, fra cui larga diffusione hanno il kashiwa (Quercus dentata) e il nara (Quercus glandulifera). Al sud di Hondo e nelle isole di Kyūshū e Shikoku, appaiono già il genere Cinnamomum, col suo più importante rappresentante, la canfora (kusu-no-ki), e individui proprî della flora subtropicale, quali il kashi (Quercus acuta), il kunugi (Quercus serrata), lo shii (Pasania cuspidata), il konara (Quercus). Nelle Ryū-kyū meridionali, a Formosa e nelle Bonin la flora ha carattere tropicale: ivi abbondano l'akō (Ficus Wightiana), il takonoki (Pandanus odoratissimus L.) ecc. e gli alberi di canfora e i bambù giganti crescendo rigogliosi raggiungono il massimo sviluppo.
Le più importanti foreste del Giappone sono quelle di Yoshino (Nara) e di Tenryū (Shizuoka), celebri per i magnifici esemplari di sugi e di hinoki; di Kiso (Nagano) rinomate per i hiba, i sawara, i nezuko (Thuja japonica Maxim), i kōyamaki (Cidopytis verticillata S. et Z.) e i hinoki. Splendide foreste di sugi si trovano pure nella provincia di Akita.
Fra i prodotti delle foreste, il legno del kiri è particolarmente apprezzato perché, per la sua compattezza, difficilmente lascia penetrare l'acqua, onde si rende prezioso a molti usi speciali. Lo stesso si dica di quello della canfora, il cui odore particolare tiene lontani gl'insetti, così distruttivi e nocivi in Giappone. I bambù giganti sono assai adoperati per la fabbricazione di secchie e mastelli. Un posto a parte occupa la canfora, la cui produzione giapponese basta da sola a sopperire a gran parte del fabbisogno mondiale. Nel 1925, la produzione totale del legname ricavato dalle foreste giapponesi fu di 7.733.567 mc. per un valore di circa 126 milioni di yen, nelle quali cifre le sole conifere compaiono con 6.349.719 mc. e oltre 110 milioni di yen.
Pesca. - Favorita dal notevole sviluppo costiero del paese (29.000 km. senza la Corea e Sachalin), la pesca è stata sempre una delle maggiori attività degli abitanti dell'arcipelago. In massima parte essa viene esercitata sulle estensioni di mare situate intorno alle coste e aventi una profondità generalmente minore dei 200 m.; per il resto, in misura assai inferiore, essa si svolge in alto mare.
Nel 1924, nel solo Giappone proprio, 1.411.504 individui esercitavano la pesca, in gran parte nelle provincie di Nagasaki, di Yamaguchi, di Shizuoka e nell'isola di Yezo, su 361.239 barche, il 3% delle quali a propulsione meccanica. Il valore della produzione, nello stesso anno, fu di circa 255 milioni di yen.
Le correnti marine, calde e fredde, che lambiscono le coste del paese hanno grande influenza sui prodotti della pesca, poiché la diversità di temperatura dell'acqua porta con sé quella della fauna marina. La pesca in acque fredde (Pacifico) dà specialmente: l'aringa (nishin), il salmone (sake), il merluzzo (tara), la balena (kujira), la laminaria (konbu, specie di alga commestibile), le ostriche (kaki). La pesca in acque calde dà invece: il saba (specie di merluzzo), il sawara (Cybium niphonium), il bonito (hatsuwo), il buri (Seriola quinqueradiata), la sardina (iwashi), il tai (Pacrus cardinalis), la sogliola (karei), l'aji (Trachurus trachurus), l'awabi (varietà di Haliotis), la seppia, il tako (varietà di Octopus), il corallo, il nori (specie di alga commestibile), le ostriche, il sanma (Scombresox saira), ecc.
La pesca nei laghi, pure assai attiva, dà specialmente l'anguilla, la trota, la carpa, l'ayu (Plecoglossus altivelis).
Il pesce, accanto al riso, sta alla base dell'alimentazione. Curiosa è la maniera di lavorare o confezionare alcuni pesci, come il bonito che, essiccato, va in commercio col nome di katsuwobushi, condimento apprezzatissimo nella cucina indigena, al pari del konbu, del nori e del surume, prodotto, questo, ottenuto essiccando la seppia fino alla sottigliezza di un foglio di carta. Alcuni pesci, come il maguro, il buri e il karei, vengono mangiati crudi, conditi con lo shōyu. La balena viene anche mangiata, e lavorata per cavarne grasso e olio.
L'esportazione dei prodotti della pesca è notevolissima. In prima linea stanno il granchio e il salmone in scatola; le sardine e l'aringa, di cui il Giapponese è assai ghiotto, vengono raccolte in quantità tanto superiore al consumo e all'esportazione, da venire utilizzate per estrarne l'olio; i residui dell'estrazione si usano poi come concime.
Contributo non trascurabile all'esportazione dànno anche il corallo, inviato specialmente in Italia, e le perle. La pesca di queste era assai attiva un tempo nella baia di Ōmura, presso Nagasaki; oggi, tuttavia, ha preso enorme sviluppo l'industria delle perle di coltura, dette anche, dal nome del principale produttore, perle Mikimoto, prodotte in massima parte nei famosi vivai di Toba (provincia di Mie). Per il sale, centri di produzione sono le coste del Mare Interno, dove è diffuso anche il sistema di raffinazione per riscaldamento artificiale.
Nel Giappone proprio i porti per la pesca sono 535, dei quali 88 nella sola provincia di Nagasaki.
Risorse minerarie. - L'industria mineraria era già abbastanza sviluppata nel sec. VI d. C. Nei secoli successivi, il fabbisogno di metalli, e conseguentemente la loro produzione, andarono continuamente e rapidamente aumentando, e ciò sia per la maggiore richiesta di armi e strumenti bellici, necessarî alle epoche di lunghe e tormentose guerre che la nazione dovette traversare, sia per la fusione di campane, statue buddhiste, decorazioni di templi, ecc. L'estrazione e la lavorazione dei metalli preziosi, del rame e del ferro divenne particolarmente attiva nel sec. XV. è opportuno ricordare che dal 1414 d. C. il Giappone cominciò a esportare annualmente in Cina quantità considerevoli di rame, mentre l'inizio e il consolidarsi delle relazioni commerciali con gli Olandesi ebbe come conseguenza l'esportazione, in quantità notevole, di oro, argento e rame in Europa. L'attuale, cospicuo sviluppo dell'industria mineraria giapponese è, senza dubbio, dovuto all'adozione dei metodi europei di estrazione e lavorazione dei minerali.
Dei metalli nobili, l'oro si trova nelle zone di contatto fra materiali calcarei e granitici, in vene e in sabbie aurifere. Le principali regioni produttrici sono nella parte sud-est di Kyūshū (provincia di Kagoshima), in molte parti del Hondo, nell'isola di Sado, in Formosa e nella Corea. Notevolissime sono le sabbie aurifere di Esashi, nell'isola di Yezo. In questi ultimi tempi, il distretto di Ōita (Kyūshū) è divenuto il centro più importante di produzione. L'argento si trova in vene contenute in rocce terziarie e nei depositi di rame argentifero appartenenti a rocce più antiche. I migliori giacimenti sono quelli di Todoroki e Shikaribetsu, nell'isola di Yezo, e quelli di Innai, Honda e Omodani, nel Hondo.
Il rame è uno dei prodotti più importanti e abbondanti dell'industria mineraria giapponese. I minerali giapponesi di rame si trovano in depositi metamorfici di contatto, in depositi di spostamento (minerale nero) e in filoni. Il minerale di rame caratteristico giapponese è il minerale nero (chiamato dagl'indigeni kuromono), costituito da un agglomerato di pirite, calcopirite, barite, blenda e galena. Oltre a questo si trovano naturalmente anche gli altri minerali di rame comuni alle nazioni produttrici del mondo. Le più importanti miniere sono quelle di Besshi, in Shikoku, di Ashio, nel Kwantō, e di Kosaka, nel Giappone settentrionale; quest'ultima è una delle più ricche e vaste miniere di minerale nero. Il Giappone, infine, è forte esportatore di rame e di suoi minerali.
Per quanto riguarda il ferro, il paese è assai povero; parecchie miniere vengono tuttavia coltivate nel Giappone proprio in molti luoghi, ad es., a Kamaishi (provincia Iwate), dove si hanno depositi metamorfici di contatto costituiti da magnetite ed ematite; depositi di limonite si trovano ad Abuta, nell'isola di Yezo, e altrove. Nelle regioni montagnose del Chūgoku si trovano anche sabbie ferrifere, provenienti dalla disgregazione del granito e di rocce vulcaniche basiche, che vengono lavorate sul luogo con alti forni. Le risorse complessive di ferro si aggirano sui 40 milioni di tonnellate in tutto il paese, e per sopperire al fabbisogno nazionale, il Giappone deve importare grandi quantità di minerale di ferro, specialmente dalla Cina e dalla Corea.
Per il piombo e lo zinco, la miniera di Kamioka (provincia di Ibaraki) è attualmente la maggior produttrice. Lo stagno, invece, viene ricavato da alcune miniere della regione di Satsuma (Akenobe, Mitato e Suzuyama). Minerali di arsenico si trovano come depositi metamorfici di contatto e filoni in miniere come quelle di Naganobori, Kamioka, Sasagatani, ecc. nel Giappone centrale.
Altri metalli, la cui produzione è poco notevole, sono il platino, il mercurio, il molibdeno, il tungsteno, il manganese, l'antimonio, ecc.; famosa è la bellezza dei cristalli di stibina (trisolfuro di antimonio) giapponese, i cui depositi più importanti sono quelli di Ichi-no-kawa (Shikoku), e Kano (Chūgoku). Un minerale di cui si ha notevole produzione è la pirite, che si trova mescolata con minerali di altri metalli, principalmente nei famosi depositi di Hitachi, Besshi, Kosaka, ecc.
I carboni fossili abbondano e costituiscono una delle maggiori ricchezze naturali del paese. Antraciti e semi-antraciti si trovano in terreni del Paleozoico e del Mesozoico, fra i quali sono importanti i giacimenti giurassici di Ōmine (prov. Yamaguchi) e di Tsubuta, e quelli triassici delle provincie di Okayama e di Kyōto; se ne hanno anche giacimenti appartenenti al Cenozoico inferiore nelle provincie di Wakayama e di Ōita, ma la loro produzione è scarsa. La grande massa dei carboni fossili giapponesi appartiene al Cenozoico e comprende litantraci bituminosi, subbituminosi e ligniti nere (Eocene e Miocene) e ligniti (Pliocene). Per i litantraci le miniere di Chikuhō, al nord di Kyūshū, sono le maggiori del paese, alla produzione totale del quale contribuiscono, da sole, per il 70%; subito dopo vengono quelle di Miike, di Karatsu, di Sasebo, di Takashima, anche nell'isola di Kyūshū. Grandi riserve ha pure Yezo nei giacimenti dei distretti di Ishikari (miniere di Bibai, di Horonai, di Yūbari) e di Kushiro. Le miniere di Jōban (provincia di Iwaki), a nord-est di Tōkyō, vengono subito dopo quelle di Kyūshū e di Yezo per produzione, ma la qualità è inferiore. Per le ligniti sono famosi i giacimenti a nord di Owari e di Mino (miniere di Nōbi).
Il petrolio si trova in giacimenti di varia natura, appartenenti al Cenozoico, che dall'isola di Yezo si estendono in lunga zona parallela alle coste del Mar del Giappone, attraverso la provincia di Akita e di Niigata, fino nei pressi della città di Nagano, dove scompaiono per ricomparire al sud, nella provincia di Shizuoka. Nell'isola di Yezo i pozzi più importanti sono quelli di Koitoi, di Toshibetsu e di Atsuta, nella provincia di Akita quelli di Kurokawa e di Toyokawa. I più ricchi e numerosi, tuttavia, sono sempre quelli di Higashiyama, di Nishiyama, di Ojiya e di Niitsu, nella provincia di Niigata. Anche per questo importante prodotto minerario, il Giappone, come per il carbone e il ferro, non dà una produzione bastevole al proprio fabbisogno. La deficienza deve venire coperta con importazioni dal Messico, dalla California, da Giava, da Borneo, ecc.
Per la sua natura vulcanica il paese è, naturalmente, molto ricco tli zolfo, i cui depositi hanno in generale l'aspetto delle nostre solfatare. Vengono però lavorati solo i giacimenti molto ricchi (con almeno il 40% di zolfo). La regione orientale dell'isola di Yezo (Horobetsu), i distretti a NO. del Hondo (Matsuo, Numajiri, Nasu) e la parte settentrionale di Formosa sono le regioni dell'Impero che più ne abbondano.
La seguente tabella dà la produzione dei più importanti minerali e metalli del Giappone proprio negli ultimi anni:
Industrie. - La storia ricorda qualche industria coltivata in tempi antichissimi dai Giapponesi, industria familiare che serviva solo a sopperire alle più immediate necessità della vita. Nel corso dei secoli, le frequenti relazioni con la Cina introdussero, insieme con molti altri elementi culturali, anche le arti e le conoscenze empiriche che di quella millenaria civiltà erano frutto.
Durante il feudalesimo l'industria aveva carattere locale; ogni regione aveva la propria industria, per lo più ereditaria nelle famiglie che la coltivavano, largamente sussidiata e incoraggiata dal daimyō, capo della regione, del quale esse erano suddite e per il quale lavoravano. I prodotti appartenevano a lui ed egli si occupava di scambiarli. I prodotti, eccezion fatta per quelli minerarî e per qualche altro, di rado passavano il mare e giungevano sul continente. Il loro scambio avveniva nell'interno del paese e la produzione era, quindi, limitata al fabbisogno interno.
È con la Restaurazione che sorsero le nuove e s'organizzarono le vecchie industrie sui modelli e secondo i concetti occidentali, dietro l'impulso potente del nuovo regime.
Se per il carbone il Giappone possiede una scorta sufliciente ai suoi bisogni presenti e futuri (circa 8 miliardi di tonn.), e se alcuni metalli, come il rame e il manganese, abbondano, scarseggia, come s'è detto, il ferro, del quale il Giappone è obbligato a fornirsi dai paesi vicini che ne sono ricchi, specie la Cina. Lo stesso si dica per il cotone, che alimenta la più importante industria del paese e per il quale questo è tributario degli Stati Uniti e dell'India.
Le spese d'acquisto vengono compensate soprattutto dalla bassezza dei salarî, sui quali l'industria si regge e trova la sua prosperità. L'operaio percepisce in media 2-2,5 yen al giorno, l'operaia 1 yen; si lavora da 9 a 11 ore al giorno; nelle industrie tessili 11½-12 ore. L'elemento femminile prepondera sul maschile: nel 1926 si avevano 981 mila operaie contro 894 mila operai; le prime in massima parte nelle industrie tessili, e, se si considerano i salarî minimi e la maggiore prestazione, è facile comprendere le ragioni dello sviluppo preso da tali industrie. La mano d'opera abbonda e ciò favorisce l'industriale, mantenendo bassi i salarî. Si tratta per lo più di contadini spinti in città dalla fame o di donne, di solito fanciulle, reclutate con l'inganno nelle campagne da abili emissarî delle fabbriche i quali, col miraggio di grandi guadagni, le gettano per il periodo contrattuale (3-5 anni) a languire di stenti e di fatiche negli stabilimenti. Dal 1926, tuttavia, con disposizioni riguardanti le ore di lavoro, il trattamento delle operaie madri, gli infortunî, ecc., il governo ha cominciato a interessarsi delle masse operaie e del loro trattamento, base effimera su cui poggia la grandezza e la prosperità dell'industria dell'Impero. D'altra parte queste masse cominciano già ad avere coscienza dei proprî diritti e gli scioperi, sempre più frequenti, degli ultimi anni (246 nel 1921, 250 nel 1922, 263 nel 1923, 333 nel 1924) hanno avuto, se non altro, l'effetto di un aumento dei salarî.
La guerra diede enorme impulso alle industrie del paese, il quale, in un momento in cui i suoi concorrenti nei mercati vicini erano occupati sui campi di battaglia europei, poté sostituirsi a essi aumentando le produzioni, ampliando gl'impianti e, soprattutto, ritraendo colossali profitti. Dopo la guerra, tuttavia, la crisi generale e la ripresa delle attività commerciali europee in Asia gettò l'industria giapponese in gravi imbarazzi. Il sisma del 1923 apportò ancora un colpo tanto forte all'economia nazionale da avere riflessi profondi sull'attività industriale e farla entrare in un periodo di depressione dal quale appena ora comincia a riaversi. Alla fine del 1924 esistevano, nel solo Giappone proprio, 48.934 fabbriche con più di 5 operai, il 75% circa delle quali provviste di forza motrice.
Fra le industrie il primo posto spetta a quella tessile (17.283 fabbriche), da porsi fra le attività tradizionali del paese, le cui origini sono antichissime, quando si usavano come materia prima le fibre del gelso da carta e le nervature della wistaria e della canapa. Il baco da seta, stando alla tradizione, fu introdotto nel 214 d. C., il cotone nell'800; l'uso della lana, invece, è recente. La produzione tessile giapponese è più che sufficiente per la richiesta interna, il superfluo perciò viene inviato sui mercati esteri. Centri principali sono le provincie di Ōsaka, Kyōto, Nagoya, Fukui, Tōkyō e Gumma. Per quantità di produzione vengono in prima linea i tessuti e filati di cotone, che, da soli, rappresentano il 25-30% del valore globale delle esportazioni giapponesi. Vengono poi quelli di seta, con numerose e pregiate varietà (habutae, chirimen, tsumugi, ecc.), e, infine, quelli di lana e misti fabbricati specialmente nelle provincie di Aichi, di Mie e di Ōsaka.
La carta fu inventata in Cina circa 100 anni d. C. e introdotta nel Giappone sotto l'imperatrice Suiko (593-628 d. C.). Per la sua fabbricazione si adoperò dapprima il gelso da carta (Broussonetia papyrifera), cui si aggiunsero in seguito altre specie botaniche come il mitsumata (Edgeworthia chrysantha), il kōzo (Broussonetia kashinoki), ecc. Fabbriche di queste antiche carte giapponesi esistono tuttora nelle provincie di Kōchi, di Ehime e altrove. Dalla restaurazione, tuttavia, il Giappone ha appreso a fabbricare e a servirsi dei varî tipi di carta europei che si producono oggi su vasta scala e con materiali provenienti specialmente da Yezo e da Sachalin, nelle regioni di Tōkyō e di Ōsaka, benché la più grande fabbrica resti sempre quella di Tomakomai (Yezo).
Un'altra industria antica è quella della ceramica, i cui prodotti, così ammirati e ricercati dai collezionisti europei, ebbero, fin dal sec. XII, come centro fiorente la regione di Seto, a est di Nagoya, donde il nome setomono (oggetto di Seto) dato dagl'indigeni alla porcellana. Nel 1600, per opera di alcuni coreani stabilitisi nella provincia di Satsuma (Kyūshū), l'arte ceramica subì notevoli progressi e perfezionamenti tecnici e artistici che la fecero entrare nel suo periodo aureo. Ulteriori sviluppi e migliorie si ebbero poi con l'introduzione delle cognizioni scientifico-tecniche europee. Centri di questa industria sono oggi, oltre a Seto che ancora mantiene il primato, le regioni di Kyōto, di Kutani e la provincia di Gifu. Fra le molte pregiate varietà, dovute alle miscele adoperate e a particolarità di fabbricazione, sono specialmente note quelle dette awate-yaki e shimizu-yaki, provenienti dalla regione di Kyōto e kutani-yaki dalla provincia di Ishikawa. In Europa le più conosciute sono quelle di Satsuma. Altro prodotto caratteristico sono le lacche, la cui lavorazione, benché antichissima, non è gran che diffusa. I più importanti centri di produzione sono le provincie di Ōsaka, Ishikawa, Tōkyō e Aichi. Le migliori qualità sono quelle dette tsugaru-nuri provenienti dalla provincia di Aomori, shunkeinuri, da Noshiro (provincia di Akita), wakasa-nuri, dalla provincia di Wakasa, wajima-nuri, dalla provincia di Noto.
L'industria chimica prima della guerra era rappresentata principalmente dalla canfora e dai fiammiferi, dei quali il Giappone è forte produttore, grazie al suo zolfo e alle sue foreste. La guerra costrinse il paese a fare assegnamento su sé stesso per la fabbricazione di quei prodotti di cui la Germania aveva prima il monopolio. Nacque così, ed ebbe impulso, l'industria dei colori organici, dei prodotti chimici e farmaceutici, dei concimi artificiali. Questi ultimi hanno avuto particolare sviluppo negli ultimi anni nelle regioni di Tōkyō e di Ōsaka. Numerose sono tuttavia anche le fabbriche di concimi naturali, i quali, se di origine animale, sono preparati con i residui della lavorazione delle sardine e delle aringhe, o con le ossa, e provengono da Yezo e dalla provincia di Kagoshima; mentre quelli di origine vegetale, costituiti dai residui della fabbricazione dello shōyu o anche, in minor scala, da quelli di altri vegetali, provengono per lo più dalle provincie di Ōsaka e di Gifu.
La ricchezza di energia elettrica ha fatto nascere per tempo le industrie elettrochimiche che, limitate prima della guerra al rame elettrolitico, al carburo, ai concimi azotati, si sono da poco estese ai cementi, alle fonderie, alle polveri da sbianca, ecc.
Delle industrie fermentative hanno importanza quelle del sake e della birra. La prima, importata dalla Cina, è antichissima e ha come centro Nada (prov. di Hyōgo); la birra, introdotta di recente, si fabbrica principalmente a Yezo e nella provincia di Ōsaka. L'industria zuccheriera è diffusa in Formosa dove si trovano vaste piantagioni di canne da zucchero, ma molti zuccherifici esistono pure nelle Ryū-kyū, a Kagoshima, e nella provincia di Kagawa.
Le industrie metallurgiche e meccaniche richiesero sacrifici rilevanti, poiché, a parte la mancanza del ferro, l'operaio non era abituato ai grandi sforzi muscolari né preparato, come il tessitore, da esperienza precedente. Lo sviluppo ne fu, quindi, lento; la guerra diede loro uno slancio improvviso, aprendo sbocchi insperati. Le regioni di Yawata (Kyūshū) e di Kamaishi ne sono i principali centri. Importanti sono anche le officine governative di Kure, Sasebo e Yokosuka e i dock della compagnia Kawasaki di Kōbe e della compagnia Mitsubishi di Nagasaki.
Le industrie elettriche ebbero inizio con l'impianto della prima centrale termica, a Tōkyō nel 1887. Il progressivo aumento del prezzo del carbone, specialmente per effetto della maggior richiesta di questo da parte delle ferrovie, da poco introdotte e in pieno sviluppo, indusse allo sfruttamento delle ricchezze idriche del paese; nel 1891 sorse così la prima impresa idroelettrica, seguita subito da altre numerose. Nel 1926 erano in funzione 5521 imprese elettriche con una produzione complessiva di 3.202.614 kw. di energia, il 61% dei quali di origine idrica. Nell'energia distribuita fu di 486 mila HP, nel 1925 di 1.823.000 HP, ripartiti specialmente fra le industrie tessili, meccaniche e chimiche. I maggiori centri di produzione sono le provincie di Tōkyō, Fukuoka, Hyōgo, Aichi, Kyōto, Ōsaka.
I più importanti centri cittadini hanno fabbriche di gas illuminante. Nel 1925 se ne contavano 79 raggruppate specialmente nelle provincie di Tōkyō, Ōsaka, Aichi, Hyōgo e Kyōto.
Comunicazioni. - Il rilievo assai complicato e il clima umido e piovoso del paese resero in ogni tempo assai difficile l'apertura di strade, la loro manutenzione e viabilità. Tuttavia, assai per tempo nella storia, viene ricordata la costruzione di vie di comunicazione. Nel 549 a. C., sotto l'imperatore Suisei, la tradizione registra la costruzione di alcune strade nel Chūgoku; più tardi, nel 158 d. C., regnando l'imperatore Kinmei, fu aperta la grande arteria del Tōkaidō, una delle più grandi vie di comunicazioni che il Giappone abbia avuto e celebre anche per le illustrazioni che, al tempo dei Tokugawa, ne fece il famoso Hokusai.
Il sistema delle comunicazioni stradali cominciò sotto l'imperatrice Suiko, nel 607 d. C.; in quest'epoca fu resa migliore la viabilità con la riparazione delle vecchie e la costruzione di nuove strade e s'istituirono alberghi e posti di cambio per i cavalli, per rendere più spedito il traffico. Mancavano però i ponti sui fiumi maggiori e ciò fu sempre di grande ostacolo alla celerità delle comunicazioni fra le varie provincie dell'Impero, nonostante che alla loro mancanza si supplisse con l'istituzione di traghetti a mezzo di barche o a spalla d'uomo.
Secondo l'ultima legge sulle strade (1919), queste sono divise in 5 categorie: strade nazionali (kokudō), con larghezza superiore ai 7 m. (6 m. se in montagna), che comprendono le strade militari e quelle che uniscono Tōkyō al gran tempio di Ise, alle basi navali, ai porti aperti, alle sedi di comandi di divisione; strade prefetturali (fukendō), con larghezza superiore ai 5 m. e mezzo (4½ se in montagna), che uniscono i capoluoghi di prefettura con altri punti importanti della stessa; strade distrettuali (gundō) e strade urbane (shidō) della stessa larghezza delle precedenti; e, infine, strade di villaggio (chōsondō), con larghezza non inferiore a 3 metri e mezzo. Nel 1924 nel Giappone proprio esistevano 8181 km. di strade nazionali, 91.730 km. di strade provinciali e distrettuali, 824.218 km. di strade urbane e di villaggio. I ponti, calcolando solo quelli con più di m. 1,82 di lunghezza, erano 420.694, di cui 1132 in ferro, 92.643 in pietra, 160.121 in legno e 156.113 in muratura
Come mezzi di trasporto per uomini e merci si adoperarono in antico carri trainati da buoi, cavalli, o uomini; sistemi, questi, importati dalla Cina. Oggi, dopo l'introduzione della civiltà europea, questi mezzi, specialmente i trasporti a mezzo d'uomo, vengono gradatamente sostituiti da quelli meccanici che la civiltà ha messo a disposizione dei popoli. Nel 1928 si avevano 2738 carrozze a cavallo per il trasporto di persone, 306.473 carri a cavallo per merci, 87.358 carri trainati da buoi, 2.142.590 carrette (comprese quelle a mano), 31.826 automobili, 14.467 camions e carri automobili per merci, 55.530 jinrikisha (vetture per il trasporto di viaggiatori trainate da uomini: v.), 11.705 motociclette e 4.751.678 biciclette. Il numero delle automobili va aumentando nonostante che il paese sia povero di olî minerali. La prima linea ferroviaria fu aperta al traffico nel maggio 1872, fra Tōkyō e Yokohama (km. 27.5). Da allora la rete ferroviaria è andata sviluppandosi rapidamente. La seguente tabella riguarda la rete delle ferrovie imperiali e private del solo Giappone proprio.
La consistenza del personale era, nel 1928, di 206.431 impiegati.
La principale linea è quella che unisce Tōkyō a Ōsaka e Kōbe, passando per Nagoya; la linea continua poi fino a Shimonoseki, dove viene interrotta dallo Stretto di Tsushima per proseguire fino a Söul (Corea). Un'altra linea, pure molto importante, va da Tōkyō per Sendai e Morioka fino ad Aomori, viene quivi interrotta dallo Stretto di Tsugaru (traversata in ferry-boat) e prosegue poi fino a Sapporo, una delle città principali dell'isola di Yezo. Da Sapporo v'è un prolungamento che giunge a Toyohara, capoluogo dell'isola di Sachalin (traversata dallo Stretto di Sōya in ferry-boat). I ferry-boat piu importanti sono: Shimonoseki-Moji (15 minuti con 30 partenze al giorno), Shimonoseki-Fusan (9 ore, 2 partenze al giorno in ambedue i sensi), Aomori-Hakodate (4 ore e ½, 4 partenze al giorno in ambedue i sensi), Wakkanai-Ōdomari (8 ore). Lo scartamento in uso presso le ferrovie imperiali è di mm. 1067. Per le comunicazioni urbane esistono nelle grandi città numerose linee tramviarie sufficienti ai bisogni del traffico cittadino.
Le attitudini marinaresche, tradizionalmente eccellenti, come è del resto naturale in un popolo, quale il giapponese, che abita un arcipelago e ha avuto fin da tempi remotissimi continui rapporti con le popolazioni del continente, ebbero buon giuoco quando, subito dopo la Restaurazione, in dipendenza del programma di occidentalizzazione del governo, si trattò di creare quasi le comunicazioni marittime che gli shōgun, abolendo la navigazione di lungo corso, avevano ridotto ai servizî interni.
La prima compagnia giapponese, la Mitsubishi Kwaisha, sorse nel 1873 con una flotta vendutale dal governo, e già dopo tre anni aveva 42 piroscafi, 11 dei quali superiori a 1000 tonn. Però ancora nel 1880 la marina giapponese era principalmente costituita da giunche, oltre che da un nucleo di 89.309 tonn. di navi di tipo europeo. Nel 1882 sorse, in concorrenza con la Mitsubishi, la Kyōto Un-yū Kwnisha: le due compagnie si fusero nel 1885 dando vita alla Nippon Yūsen Kwaisha, che è tuttora la più grande società giapponese di navigazione.
La guerra con la Cina, prima, quella contro la Russia, poi, diedero fortissimo impulso allo sviluppo della marina mercantile del Giappone. Nel 1914 la flotta era composta di 827 navi a propulsione meccanica per tonn. 1.642.000. I premî di costruzione, le agevolazioni daziarie, ecc., contribuirono a riparare le perdite (non eccessive: 119.000 tonn.) subite durante la guerra, cosicché nel 1919 la flotta aveva superato la consistenza prebellica (1418 navi per tonn. 2.325.266). Essa aumentò continuamente negli anni successivi. Il massimo si ebbe sinora nel 1930 (tonn. 4.316.804). Al 30 giugno 1931 si nota una lieve diminuzione: 1969 navi per tonn. 4.276.341, tra le quali 1672 piroscafi per tonn. 3.763.925 e 297 motonavi per tonn. 512.416. Per tonnellaggio complessivo il Giappone occupa il 30 posto fra le marine mondiali, l'80 posto per le motonavi.
La marina a vela, che sino al 1921 - in contrasto con la tendenza di tutte le marine mondiali - aveva segnato un aumento, è ora in regresso, e il tonnellaggio complessivo ascende a circa 300.000 tonn.
La maggior parte della flotta (circa 2.500.000 tonn.) è ripartita fra 22 compagnie di navigazione, fra le quali le più importanti sono la Nippon Yūsen Kwaisha e la Ōsaka Shōsen Kwaisha; seguono la Kokusai Kisen Kwaisha, la Kinkai Yūsen Kwahha, ecc. La prima ha stipulato con la seconda, nel 1931, un accordo di esercizio che ha già consentito notevoli economie. Un'altra concentrazione era stata effettuata tra 5 compagnie di tramps, che avevano costituito la Kai-un Kyōwa-kwai, la quale avrebbe dovuto controllare il 60% dei tramps giapponesi, ma non ha funzionato.
Lo sviluppo della nazione giapponese è in gran parte dovuto all'aiuto dello stato, ma la principale misura di aiuto in favore dell'armamento è attualmente (1932) costituita dalle sovvenzioni - rinnovabili ogni 5 anni - per l'esercizio delle grandi linee imperiali e da accordi con altre compagnie per l'esercizio di servizî regolari nei mari del Giappone e della Cina; con una spesa, per l'erario, di circa 7.000.000 di yen per esercizio finanziario. Si aggiungano, a queste, le sovvenzioni postali per un complesso di 1 milione di yen.
L'odierna crisi generale si è ripercossa sulla marina giapponese, che nel 1931 ha dovuto anche soffrire per sue vicissitudini speciali in dipendenza del conflitto con la Cina (boicottaggio antigiapponese) e dell'abbandono del gold-standard britannico. Nel 1930 sono stati stabiliti aiuti per incoraggiare la costruzione di navi di 5000 tonn. e 14 miglia di velocità media; le banche sono state autorizzate a concedere mutui sino a ⅔ del valore delle navi a interesse non superiore al 6%; il governo dà un contributo di interessi nella misura di ½-2%.
Le principali linee gestite dalla Nippon Yūsen Kwaisha sono: la Yokohama-Londra (quindicinale), toccando Hong-kong, Ceylon, Porto Said, Napoli, Marsiglia, ecc.; la Hong-kong-Valparaiso (quindicinale), toccando Kōbe, San Francisco, Los Angeles, ecc.; la Yokohama-Melbourne; la Hong-kong-Takoma (S. U.), toccando Kōbe, San Francisco e Los Angeles. La Ōsaka Shōsen Kwaisha gestisce tra l'altro le linee Yokohama-Brema, Kōbe-Pugetsound (S. U.) e Kōbe-Buenos Aires. Delle società di navigazione italiane il solo Lloyd Triestino ha scalo con le proprie linee in porti giapponesi.
Per il commercio interno esistono nel Giappone proprio 759 porti. Per quello con l'estero i porti aperti in tutto l'impero sono 65 così ripartiti: nell'isola di Sachalin: Maoka e Ōdomari; nell'isola di Yezo: Hakodate, Kushiro, Muroran, Nemuro e Otaru; nell'isola di Hondo: Aomori, Fushiki, Hamada, Itozaki, Kōbe, Miyazu, Nanao, Niigata, Ōsaka, Sakai, Shimizu, Shimonoseki, Taketoyo, Tokuyama, Tsuruga, Yokkaichi e Yokohama; nell'isola di Kyūshū: Hakata (Fukuoka), Kagoshima, Karatsu, Kuchinotsu, Miike, Misumi, Moji, Nagasaki, Suminoye e Wakamatsu; nell'isola di Shikoku: Imabari; nell'isola di Sado: Ebisu; nell'isola di Tsushima: Izuhara, Sasuna e Shishimi; nelle Ryū-kyū: Nawa; in Corea: Chinkai, Chinnampho, Fusan, Gensan, Gunsan, Jinsen, Jōshin, Masanpho, Mokpho, Ryūganpho, Seishin, Shingishū e Yūki; nelle isole di Formosa e Pescadores: Anping (porto di Tainan), Gorō, Kiirun (Keelung), Kōkōkō; Kōrō, Kyūkō, Makō, Rokkō, Takao, Tansui, Tōkō e Tōseki.
L'aviazione civile dipende dal Ministero delle comunicazioni. Il traffico aereo è affidato alle seguenti compagnie: Compagnie de transports aériens: ha un capitale di 10 milioni di yen, possiede 44 apparecch) del tipo Fokker, Bréguet, Nakajima; ha in servizio 40 piloti; Istituto giapponese di trasporti aerei: possiede 7 apparecchi del tipo Hansa e Junkers; ha in servizio 10 piloti; Associazione di navigazione aerea periodica del giornale "Asahi": possiede 9 apparecchi del tipo Dornier-Komet, Dornier-Merkur, Salmson; ha in servizio 10 piloti. La prima gestisce le linee Tōkyō-Ōsaka, km. 425, servizio bigiornaliero; Ōsaka-Fukuoka, chilometri 500, id.; Fukuoka-Urusan, km. 240, servizio trisettimanale; Urusan-Kejiō, chilometri 310, id.; Kejiō-Dairen, km. 600, id. Il secondo le linee: Ōsaka-Takamatsu, km. 140, servizio giornaliero; Takamatsu-Matsuyama, chilometri 150, id. La terza la linea Tōkyō-Niigata, km. 380, servizio trisettimanale. Le basi aeree più importanti sono: Dairen, Matsuyama, Niigata, Ōsaka, Takamatsu, Taikyū, Tōkyō e Tokushima (aeroporti civili); Eiyō, Fukuoka, Söul e Tokoroxavra (aeroporti militari); Hommura, Kasumigaura, Obama e Sasebo (idroscali).
I moderni servizî postali giapponesi, elaborati e condotti su modello occidentale, s'iniziarono nel 1870, sostituendosi al vecchio, difettoso sistema indigeno, e da allora si andarono sempre più perfezionando e sviluppando. Nel giugno del 1877 il Giappone entrò a far parte dell'Unione postale internazionale e nel 1879-80 furono tolti gli uffici postali che alcuni governi europei mantenevano in qualche città giapponese; il Giappone ebbe con ciò completa autonomia. Frattanto avevano inizio anche i servizî telegrafici che subito si svilupparono enormemente. Il telefono fece la sua prima apparizione nel 1890 con l'apertura del servizio urbano in Tōkyō e Yokohama, e interurbano fra le due città. Il servizio a distanza fu iniziato nel 1897 fra Tōkyō e Ōsaka (circa 563 km.). Ambedue i servizî, urbano e a distanza, si diffusero subito grandemente. Dall'aprile 1920 sono apparsi gli apparecchi automatici, il cui numero è in continuo aumento. La seguente tabella, valevole per il Giappone proprio, riassume alcuni dati per l'anno 1928.
I telefoni, nello stesso anno, avevano 609.146 abbonati, collegati con 2450 centrali telefoniche.
L'attività di tutti questi servizî è enorme. Nel 1927, nel solo Giappone proprio, si ebbe un movimento di oltre 4 miliardi e mezzo di corrispondenze (71 per ab.) e oltre 70 milioni di telegrammi. Con l'estero si ebbero 35.092.000 corrispondenze e 1.189.000 telegrammi in entrata, contro 22.584.000 corrispondenze e 1.133.000 telegrammi in uscita dal paese.
Lo sviluppo meraviglioso delle radiocomunicazioni non ha lasciato il Giappone indifferente. Fin dal 1908 questo entrò a far parte dell'Unione radiotelegrafica internazionale. La prima stazione trasmittente fu impiantata nel 1916 dalla marina imperiale a Funabashi e attrezzata per le comunicazioni regolari con le isole Hawai e le Americhe. Questo servizio passò nel 1921 alla stazione trasmittente di Hara-no-machi (400 kW., antenna di 183 m. e raggio di trasmissione di oltre 6000 km.) e ricevente di Tomiokamachi (350 kW.), attualmente le più potenti dell'Impero, ambedue nella prov. di Fukushima. Per le comunicazioni con l'Europa fu impiantata nel 1923 una stazione a Ōsaka. Attualmente in tutto l'Impero funzionano 3 stazioni private e 22 governative, senza contare altre 7 stazioni nelle isole Marianne, Caroline e Marshall. Le più importanti, oltre quelle già dette, sono: nell'isola di Yezo: la stazione di Ochiishi (trasmittente da 30 kW. e ricevente da 7 kW., distintivo JOC). Nei dintorni di Nagasaki: la stazione di Ōsezaki (25 kW. e 7 kW., distintivo JOS). Nell'isola di Formosa: la stazione di Kiirun (25 kW., distintivo JFK). Nel Kwan-tung: la stazione di Dairen (35 kW., distintivo JDA). Nelle Ryū-kyū: la stazione di Nawa (15 kW. e 7 kW. distintivo JCX). Per ultimo sia detto che, con decreto imperiale del marzo 1925, a tutte le navi giapponesi con tonnellaggio superiore alle 2000 tonn., o aventi a bordo più di 50 uomini, è fatto obbligo di essere provviste di un apparecchio radiotelegrafico, sotto pena d'inibizione alla navigazione oceanica e costiera. La radioaudizione circolare ebbe inizio nel 1925 con l'impianto delle stazioni trasmittenti di Tōkyō, Ōsaka e Nagoya per iniziativa di privati. L'anno seguente le tre società si unirono formando l'Associazione giapponese per le radioaudizioni circolari. Nel 1927 entrò in funzione la stazione di Söul (Corea). È incredibile la diffusione enorme raggiunta da questi servizi. Basterà, a darne un'idea, la seguente tabella che mostra l'aumento del numero di auditori nel solo primo anno d'esercizio:
Commercio. - Per la rappresentanza e la tutela degl'interessi commerciali e industriali delle varie provincie esistono ora 77 camere di commercio, mentre 42 borse facilitano e regolano il movimento e l'attività del commercio interno ed esterno dell'Impero.
L'istituzione di banche, nel senso moderno, risale al 1873, anno in cui fu creata la Daiichi Kokuritsu Ginkō (Prima banca nazionale), organizzata su modello americano. In breve tempo sorsero altre banche autorizzate tutte a emettere banconote. Nel 1882, con la creazione della Nippon Ginkō (Banca del Giappone), l'emissione fu concentrata in questo istituto e tolta gradualmente agli altri. La Banca del Giappone (capitale versato 37.5 milioni di yen) è autorizzata a emettere biglietti di stato fino all'ammontare di 120 milioni di yen, se coperti da titoli di stato o da altri di fiducia, illimitatamente, se garantiti da riserve metalliche. Le sole altre banche d'emissione esistenti oggi nell'Impero sono la Chōsen Ginkō (Banca di Corea) e la Taiwan Ginkō (Banca di Formosa). La prima (capitale versato 25 milioni di yen), fondata nel 1909, emette biglietti aventi corso legale in tutta la Corea, nel Kwan-tung e nel territorio percorso dalla ferrovia Mancese meridionale; quelli emessi dalla Banca di Formosa, creata nel 1899 con un capitale di 15 milioni di yen, hanno corso, invece, nella sola giurisdizione del governatorato dell'isola. L'emissione è, per ambedue, illimitata, se coperta da riserve metalliche, limitata se garantita da titoli di stato o di fiducia.
Nel 1926, in tutto l'Impero, esistevano 1578 banche, con un capitale complessivo versato di 1.961.290.000 yen e 976.158.000 yen di fondi di riserva. Di esse le più importanti sono la Nippon Kwangyō Ginkō (Banca giapponese delle ipoteche), fondata nel 1895 per l'incoraggiamento di imprese agricole e industriali, la Nōkō Ginkō (Banca dell'agricoltura), la Hokkaidō Takushoku Ginkō (Banca coloniale di Hokkaidō), fondata nel 1900, per promuovere con l'emissione di crediti la colonizzazione di Yezo e di Sachalin, la Nippon Kōgyō Ginkō (Banca industriale giapponese), fondata nel 1902, importante per l'emissione di obbligazioni industriali. Delle banche facenti capo a sindacati industriali sono importanti la Mitsui Ginkō (cap. vers. 60 milioni di yen), la Mitsubishi Ginkō (Banca Mitsubishi), la Sumitomo Ginkō (Banca Sumitomo), la Daiichi Ginkō (Prima banca), la Jūgo Ginkō (Quindicesima banca), la Kawasaki Ginkō (Banca Kawasaki).
Nel 1924, nel solo Giappone proprio esistevano 33.567 compagnie o società così suddivise fra le varie imprese.
Il centro commerciale più importante dell'Impero è Ōsaka; vengono poi Tōkyō, Nagoya, Sendai, Niigata, Hiroshima, Shimonoseki, Kumamoto.
La bilancia del commercio giapponese con l'estero ha segnato, dagli inizî ai nostri giorni, una eccedenza più o meno grande, ma costante. delle importazioni sulle esportazioni; fa eccezione il quadriennio 1916-20 in cui, restato, a causa della guerra, senza concorrenti nell'Estremo Oriente, il Giappone poté far subire alle esportazioni un'ascesa vertiginosa.
Dal punto di vista generale, nelle importazioni dominano le materie prime, nelle esportazioni i prodotti lavorati e semilavorati. Il primo posto fra le importazioni spetta al cotone che alimenta la maggiore industria del paese; vengono poi la lana, e i tessuti di lana, con la iuta e la canapa. L'industria metallurgica riceve prodotti grezzi semilavorati e macchine dalla Germania, dall'Inghilterra e dal Belgio, in quantità minore dall'America, la quale, invece, è la maggiore fornitrice di legname, richiesto in gran copia dai lavori di ricostruzione di Tōkyō e di Yokohama, dopo l'ultimo terremoto del 1923; attualmente si ha tendenza alla diminuzione. I generi commestibili entrano per il 14% fra le merci importate. L'aumento della popolazione e il tenore di vita più elevato di questa richiede quantità sempre maggiori di riso che s'importa dalla Birmania, dal Siam e dall'Indocina, di frumento, importato dall'America, di zucchero, importato da Giava, da Manila e da Cuba.
Nelle esportazioni il primo posto spetta alla seta, che da sola basta a sopperire al 58% del consumo mondiale (il 22% spetta alla Cina, il 16% all'Italia); il maggiore cliente sono gli Stati Uniti, dove la seta giapponese è assai ricercata per i suoi pregi di lucentezza particolare e resistenza all'uso, e soddisfa al 90% del fabbisogno locale. Subito dopo vengono i tessuti di cotone, che sono venduti specialmente in Cina, benché da qualche tempo questa ne importi di meno perché incomincia a fabbricarli da sé, le cappellerie e i fiammiferi, venduti in tutta l'America, la carta, e infine il carbone, che rifornisce i grandi depositi del Pacifico e della Cina. La bilancia del commercio estero giapponese si chiuse nel 1927 con le cifre che diamo nella seguente tabella.
Con l'Italia gli scambî sono assai poco attivi. Nel 1920 l'Italia inviò in Giappone per L. 54.078.255 di merci, fra cui il primo posto spetta alle automobili e accessorî e ai filati di lana; ne importò per L. 100.031.313, principalmente seta grezza, cascami di seta, trecce per cappelli, tessuti di seta e corallo.
Suddivisioni storiche e amministrative. - Anticamente tutto il paese era diviso in kuni. Quando e per opera di chi questa divisione ebbe luogo la prima volta non è ben chiaro. Le storie, tuttavia, parlano di frequenti modificazioni nel numero e nei confini dei kuni, apportate già in epoche anteriori alla grande riforma dell'era Taikwa (645-650). La frontiera nord dell'Impero era allora costituita da una linea o trincea fortificata che da Akita, dove era un forte, sul Mar del Giappone, traversava Hondo in direzione sud-est, fino a raggiungere le coste del Pacifico all'incirca a 38° 40′ di lat. N. Al disopra di essa si estendeva il territorio abitato dagli Ainu, bellicosi in quel tempo, detto Yezo (il paese selvaggio). Fu solo dopo la sua conquista da parte giapponese che, nel sec. VIII, il nord di Hondo poté essere annesso all'Impero.
I kuni erano divisi in gun o distretti, e raggruppati in dō o divisioni, istituite, queste, secondo la tradizione, dall'imperatrice Jingō Kōgō nel 203 d. C., al suo ritorno dalla Corea, a imitazione del sistema d'amministrazione esistente in quella penisola. I dō furono dapprima cinque, poi sette, infine, quando nel 1869 l'isola di Yezo venne annessa all'Impero e se ne fece un dō (Hokkaidō), il loro numero giunse a otto. Una divisione a parte, detta Gokinai, formava un gruppo di cinque kuni (Yamashiro, Yamato, Kawachi, Izumi e Settsu) costituenti il dominio imperiale, in cui era sita la capitale. Nel 1870 le divisioni dell'impero erano così costituite: Gokinai con 5 kuni, Tōkaidō con 15, Tōsandō con 12, Hokurikudō con 7, San-indō con 8, San-yōdō con 8, Nankaidō con 6, Saikaidō con 13, e Hokkaidō con 11: in totale 85 kuni.
Il kuni corrispondeva quasi sempre a una provincia fisiograficamente a sé; la sua civiltà ebbe, quindi, spesso uno sviluppo indipendente, con dialetto, costumi e caratteristiche proprie.
Nel 1871, con l'abolizione del sistema feudale, la vecchia unità venne abolita e tutto il paese fu diviso in 72 ken o provincie, corrispondenti a uno o più kuni; tuttavia, qualche volta, un kuni è diviso in due ken. Tre di essi, che comprendevano le città di Tōkyō, Kyōto e Ōsaka, vennero detti fu, la quale distinzione è rimasta fino ai nostri giorni. Dal 1889 i ken sono stati ridotti a 43. Yezo, essendo considerata come colonia, ha un'organizzazione speciale (v. yezo). I 3 fu e i 43 ken comprendono complessivamente 10.292 mura o villaggi e 1468 machi o città piccole, oltre a 103 shi o città grandi, aventi una popolazione superiore alle 30.000 anime.
A capo di un ken o di un fu è un chiji (governatore) nominato dal Ministero dell'interno, il quale presiede l'assemblea provinciale (kenkwai o fusankwai). In ogni città grande (shi) vi è a capo un sindaco (shichō), come pure vi è un sindaco (chōchō) a capo di ogni città piccola e uno (sonchō) a capo di ogni villaggio. La seguente tabella riunisce alcuni dati principali per ciascuna provincia (ken):
Bibl.: Quanto è stato scritto in lingue europee sul Giappone, o su argomenti che lo riguardano, si trova consegnato nelle tre opere bibliografiche generali: H. Cordier, Bibliotheca japonica, Parigi 1912; F. von Wenckstern, Bibliography of the Japanese Empire, voll. 2, Tōkyō e Leida 1895-1907; O. Nachod, Bibliography of the Japanese Empire, voll. 3, Londra e Lipsia 1928-31. La prima comprende tutta la letteratura venuta alla luce fino al 1870, la seconda quella apparsa dal 1894 alla metà del 1906. La terza prosegue questa fino al 1926. Qui appresso si citano solo alcuni dei lavori più importanti.
Lavori di carattere generale: P. Bigelow, Japan and her Colonies, Londra 1923; A. J. Browne, Japan in the World of to-day, Londra 1930; G. W. Browne, Japan, the Place and the People, Boston 1904; F. Challaye, Le Japon illustré, Parigi 1915; B. H. Chamberlain, Things Japanese, 5ª ed., Londra 1905; id., e W. B. Mason, A Handbook for Travellers in Japan, Londra 1913 (fa parte delle guide Murray); J. H. Cousins, The New Japan, Madras 1923; W. E. Griffis, The Japanese Nation. Steps in the Progress of a Great People, New York 1907; The Mikado's Empire, 2ª ed., New York 1906; J. H. Gubbins, The Making of Modern Japan, Londra 1922; Imperial Japanese Government Railways, Official Guide to Eastern Asia, II e III, Tōkyō 1914; F. W. P. Lehmann, Japan, Breslavia 1925; K. Haushofer, Dai Nihon, Berlino 1913; id., Das japanische Reich in seiner geographischen Entwicklung, Vienna 1921; id., Japan u. Japaner, Lipsia 1926; L. Naudeau, Le Japon moderne, Parigi 1909; H. H. Powers, Japan, New York 1923; J. J. Rein, Japan nach Reise u. Studien, Lipsia 1906; Y. Takenobu, The Japan Year-book, Tōkyō (pubblicazione annuale); W. Weston, Japan, Londra 1926; M. G. Weulersse, Le Japon aujourd'hui, Parigi 1905; C. E. Wilson, A Handbook of Modern Japan, Chicago 1913. - Sulla storia dell'esplorazione: J. Murdoch, History of Japan, voll. 3, New York 1926; Ph. F. von Siebold, Geschichte d. Entdeckungen im Seegebiete v. Japan, Leida 1852; id., Nippon. Archiv z. Beschreibung v. Japan, Würzburg e Lipsia 1897, nuova ed., 1930-31; P. Teleki, Atlas z. Geschichte d. Kartographie d. japanischen Inseln, Budapest 1909; L. Vivien de Saint-Martin, Nouveau Dictionnaire de Géogr. Universelle, voll. 7, Parigi 1871-94, voce: Japon.
Descrizioni, geografia fisica e geologia: J. Bird, Unbeaten Tracks in Japan, voll. 2, Londra 1881; I. L. Bishop, Unbeaten Tracks in Japan, New York 1880; S. W. Cushing, Coastal Plains and Block Mountains in Japan, in Ann. of American Geographers, III (1913), p. 43 segg.; T. Harada, Die japanischen Inseln. Eine topographisch-geologische Übersicht, Berlino 1890; S. Honda, Description des zones forestières au Japon, Parigi 1900; F. Kobayashi, Dai Nihon Teikoku Chiri Seigi (Lineamenti di geografia dell'impero giapponese), voll. 3, Tōkyō 1926; Imperial Geological Survey of Japan, The Geology and Mineral Resources of the Japanese Empire, Tōkyō 1906; Imperial Japanese Navy, The Hydrographic Department, On the Form of the Japanese Trench, Records of ocenographic Works in Japan, Tōkyō, I (1928), p. 25 seg.; Japanese Journal of Geography and Geology (pubbl. mensile); Tōkyō; M. Révon, La végétation au Japon, in Ann. de Géographie, XIV (1905), p. 52 seg.; J. Sion, Asie des Moussons, Chine et Japon, Parigi 1928; A. Tanaka, L'Archipel du Nippon, in Bull. de la Soc. Roy. Belge de Géogr., 1894, pp. 502-525; 1895, pp. 24-34; N. Yamazaki, Morphologische Betrachtung d. japanischen Binnenmeers Setouchi, in Petermanns Mitt., XLVIII (1902), p. 245 seg.; W. Weston, A Wayfarer in unfamiliar Japan, Londra 1925; id., Mountaneering and Exploration in the Japanese Alps, in Geogr. Journal, VII (1896), pp. 125-149; XXVII (1906), pp. 18-35; XLVI (1915), pp. 188-200.
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Ordinamento dello stato.
Ordinamento costituzionale. - Leggi costituzionali. - La costituzione dell'Impero del Giappone (Dai-Nihon Teikoku Kenpō) venne promulgata l'11 febbraio 1889, e consiste in una dichiarazione imperiale, in un rescritto imperiale per la promulgazione e nel testo della costituzione, suddiviso in 7 capitoli e 76 articoli. Il cap. 1 (art.1-17) tratta dell'imperatore. Il potere legislativo dell'imperatore risulta, a differenza di quello esecutivo, che si può dire quasi assoluto, notevolmente limitato dalla costituzione. Il cap. 2 (art. 18-32) regola i diritti e i doveri dei sudditi. L'imperatore garantisce ai suoi sudditi il godimento delle libertà di culto, di parola, di scritto, di riunione e di associazione, il rispetto delle proprietà, l'inviolabilità del domicilio e la libera scelta di esso, il diritto di non essere arrestati e giudicati che conformemente alle leggi, il segreto epistolare. Il cap. 3 (art. 33-54) stabilisce che l'assemblea deliberante dell'Impero si compone della Camera dei pari e della Camera dei rappresentanti. Il cap. 4 (art. 55-56) tratta delle attribuzioni dei ministri di stato e dei consiglieri privati. Il cap. 5 (art. 57-61) tratta dell'autorità giudiziaria, fissa la separazione del potere giudiziario dall'esecutivo, la pubblicità dei dibattimenti, l'inamovibilità dei magistrati. Il cap. 6 (art. 62-72) stabilisce la competenza delle due camere in materia finanziaria. Il cap. 7 (art. 73-76) determina la procedura per la modificazione della stessa costituzione. L'iniziativa appartiene all'imperatore; il parlamento delibera con la presenza dei due terzi dei suoi membri e con una maggioranza dei due terzi almeno dei membri presenti. Alla costituzione sono connessi: lo statuto della casa imperiale, promulgato l'11 febbaio 1889; le varie leggi sul parlamento, fra le quali è da notare quella fondamentale dell'11 febbraio 1889, in 18 capitoli e 99 articoli, successivamente più volte modificata; la legge del 10 febbraio 1890, sull'ordinamento giudiziario (v. appresso).
L'imperatore. - L'imperatore ha ufficialmente il titolo di Tennō, talvolta viene anche chiamato Tenshi (figlio del cielo), Kōtei (imperatore), ecc. Il termine Mikado, così noto in Europa, fu usato solo nell'antichità; oggi non è conosciuto che dai Giapponesi colti e sconosciuto, invece, al popolo. Benché lo stato legale dell'imperatore non sia, alla luce della costituzione, gran fatto diverso da quello dei sovrani europei, il suo ascendente sulla massa della popolazione è senza confronto maggiore. Ciò è dovuto in parte alla peculiare psicologia di questa, in parte al peso e all'ascendente di tutto un complesso di tradizioni riguardanti una dinastia più che due volte millenaria, in parte, infine, alla religione nazionale, secondo la quale l'imperatore è sacro perché di discendenza divina.
Consiglio privato. - Immediatamente vicino all'imperatore è il Consiglio privato (Sūmitsu-in) il quale occupa nel sistema costituzionale della nazione una posizione diversa da istituzioni simili di altre nazioni. Le sue funzioni sono di natura prevalentemente consultiva ed è convocato dall'imperatore. Esso non ha alcun potere, ma esercita un'enorme, indiscutibile influenza nella politica giapponese. È composto di 26 membri.
Gabinetto dei ministri. - Il Gabinetto dei ministri (Naikaku) è una istituzione simile a quella delle nazioni europee, dalle quali si differenzia, in quanto non vi è solidarietà ministeriale. Il Gabinetto dei ministri è il primo organo esecutivo dello stato ed esercita in nome dell'imperatore tutti i poteri legislativi, esecutivi e giudiziarî contemplati nella costituzione.
Dieta imperiale. - La Dieta imperiale (Teikoku Gikwai) è l'organo che viene subito dopo il Gabinetto. È composto della Camera dei pari (Kizoku-in) e della Camera dei rappresentanti o Parlamento (Shūgi-in). La camera dei pari, il 24 dicembre 1925, in occasione della 51ª sessione della Dieta, era costituita da 405 membri così ripartiti: 20 principi della casa imperiale, 195 nobili, 120 persone illustri nel campo degli studî o segnalatesi per particolari meriti o servigi, nominate dall'imperatore, 4 membri dell'Accademia delle scienze, 66 rappresentanti scelti per elezione in ogni provincia, fra coloro che pagano più tasse.
La Camera dei rappresentanti, secondo l'ultima legge, è composta di membri eletti da tutti i cittadini giapponesi di sesso maschile, di età non inferiore ai 25 anni e dichiarati idonei al diritto d'elezione. L'intero paese, a eccezione delle colonie, è diviso in 119 distretti elettorali, ciascuno dei quali elegge da 3 a 5 deputati; il numero totale dei quali è stato fissato a 466. Le elezioni generali hanno luogo ogni 4 anni.
Legislativamente nessuna delle due camere è superiore all'altra, ma insieme costituiscono, come si è detto, due organismi coordinati ai quali la costituzione conferisce e garantisce gli stessi poteri e diritti. L'unica differenza esistente è che la Camera dei rappresentanti, al contrario di quella dei pari, è dissolvibile. Nonostante ciò, essa in pratica è la più potente. La Camera dei pari sta sempre dalla parte del governo. I partiti politici, che non hanno mai un programma ben definito, non hanno alcuna influenza sulla politica del governo. Attualmente la Camera dei rappresentanti è costituita in massima parte dai due partiti Seiyūkai e Minseitō; il primo rappresenta la tendenza burocratica, l'altro quella liberale. I partiti proletarî consistono in un partito social-democratico e diversi partiti rappresentanti gl'interessi agrarî.
Consiglio degli anziani. - Un organismo a parte, da mettersi al di sopra del Consiglio privato, è il Consiglio degli anziani (Genrō), che non ha alcun posto nella costituzione, ma che ha avuto un'influenza grandissima nella storia moderna della nazione. Il compito del Genrō è soprattutto di consigliare l'imperatore in questioni importanti, ad es., nella scelta del nuovo primo ministro, dopo la caduta di un Gabinetto.
Amministrazione dello stato. - L'amministrazione dello stato comprende varî organismi, cinque dei quali sono sotto il diretto controllo dell'imperatore; gli altri costituiscono il sistema amministrativo centrale. I primi sono: il Consiglio privato; la Cancelleria privata (Naidaijin-fu) che ha l'amministrazione di quanto concerne personalmente l'imperatore; il Ministero della casa imperiale (Kunai-shō), che ha l'amministrazione di quanto concerne la famiglia dell'imperatore; il Consiglio dei marescialli (Gensui-fu), che consigliano l'imperatore in questioni di grande importanza relative all'esercito; il Supremo Consiglio di guerra (Gunji Sangi-in), creato nel 1887 col compito di consigliare l'imperatore in ogni questione relativa all'esercito e alla marina.
Amministrazione centrale. - L'amministrazione centrale è costituita dai varî ministeri, cioè: Interno (Naimu-shō); Esteri (Gwaimu-shō); Guerra (Rikugun-shō); Marina (Kaigun-shō); Finanze (Ōkura-shō); Ferrovie (Tetsudō-shō); Giustizia (Shihō-shō); Istruzione (Mombu-shō); Comunicazioni (Teishin-shō); Agricoltura (Nōrin-shō); Industria e commercio (Shōkō-shō); Colonie (Takumu-shō).
Al di fuori dei suddetti dicasteri, i seguenti altri organismi sono pure inseriti nel sistema amministrativo: lo Stato maggiore dell'esercito (Rikugun Sanbō Honbu); lo Stato maggiore della marina (Kaigun Gunreibu); l'Ispettorato generale per l'educazione militare (Rikugun Kyōiku Sōkanbu); il Comando della difesa di Tōkyō (Tōkyō Keibi Shireibu); la Corte dei conti (Kwaikei Kensa-in).
Promulgazione e applicazione delle leggi e ordinanze. - Sono disciplinate, per ciò che riguarda il territorio metropolitano, dalla legge del 21 giugno 1898, sull'applicazione delle leggi in generale, e dall'ordinanza imperiale del i° febbraio 1917, che porta le formalità per la promulgazione delle disposizioni ufficiali. Queste sono così distinte: a) Shōsho "proclama imperiale"; b) Chokusho "messaggio imperiale"; c) Jōyu "rescritto imperiale"; è questa la formula con la quale l'imperatore sanziona e promulga le leggi (hō oppure hōritsu), i bilanci (yosan), le ordinanze imperiali (chokurei), i trattati (jōyaku), le modificazioni dello statuto della casa imperiale e della costituzione dell'impero; d) Kakurei "ordinanze di gabinetto", che vengono datate e firmate dal primo ministro; e) Shōreí "decreti ministeriali", che vengono datati e firmati dal ministro del ramo.
I testi ufficiali delle disposizioni di cui sopra sono inseriti nella Gazzetta ufficiale dell'Impero (Kwanpō). La loro entrata in vigore, se non è diversamente stabilito, avviene venti giorni dopo la pubblicazione, ma di solito in ogni disposizione vi è un articolo complementare che fissa la data dell'applicazione.
Amministrazione della giustizia. - I tribunali ordinarî giapponesi si distinguono in tribunali distrettuali (Ku-saibansho) corrispondenti alle nostre preture; tribunali provinciali (Chihōsaibansho), corti d'appello (Kōso-in) e Corte di cassazione (Daishinin). Questi tribunali conoscono di tutte le cause sia civili sia commerciali e penali. Alla fine del 1926 si avevano, nel solo Giappone proprio, 7 corti d'appello, 51 tribunali provinciali e 281 distrettuali. Le contestazioni in materia amministrativa furono riservate, dalla costituzione, a un tribunale speciale, creato con la legge del 30 giugno 1890 sul contenzioso amministrativo. I conflitti di giurisdizione vengono decisi dal consiglio privato (Sūmitsu-in), in attesa dell'istituzione prevista del Tribunale dei conflitti di competenza (Kengen-saibansho). In stretta connessione con il regime del contenzioso amministrativo sono da ricordare la legge del 10 ottobre 1890, sui ricorsi, e l'ordinanza imperiale del 5 aprile 1917, sulle petizioni. I conflitti interterritoriali, sia in materia civile sia in materia penale, sono regolati in base a una legge del 16 aprile 1918, modificata nel 1923. Questa detta norme particolareggiate di diritto comune ai varî territorî che compongono l'Impero, i quali sono precisamente distinti in: 1. un territorio metropolitano (naichi), comprendente il Giappone propriamente detto con la parte giapponese (Karafuto) dell'isola di Sachalin; 2. la Corea (Chōsen); 3. Formosa (Taiwan); il territorio in affitto del Kwantung (Kwantō-shū) e la Micronesia giapponese (Nan-yo guntō).
Tutte le procedure legali fatte nei tribunali sono orali e la lingua da adoperarsi è, normalmente, la giapponese. Tutti i cittadini giapponesi di sesso maschile, che sappiano leggere e scrivere, che paghino imposte dirette per non meno di tre yen e che abbiano superato il 30° anno di età, possono essere giurati in tribunale. La giuria, composta di 12 giurati, è ammessa solo nel caso di reati punibili con la pena di morte, oppure con la prigione o i lavori forzati a vita.
Forze armate. - Esercito. - Sino al 1868, il Giappone non ebbe un esercito vero e proprio, ma solo truppe feudali composte di samurai al servizio dei grandi feudatarî. Soltanto in seguito alle radicali riforme politiche del 1868, il Giappone organizzò l'esercito con sistemi analoghi a quelli europei. L'evoluzione fu graduale: dal 1868 al 1875 l'esercito risultò ancora composto di samurai provenienti dalle disciolte milizie feudali e venne addestrato col concorso d'istruttori francesi. Nel 1875 fu introdotto l'obbligo al servizio militare, attenuato da esenzioni e temperamenti, successivamente ridotti dalle leggi del 1879, 1883, 1889. In base alla legge del 1889 l'esercito fu suddiviso in attivo, 1ª riserva, 2ª riserva, territoriale; durata dell'obbligo di servizio 23 anni; forza di pace, dell'esercito attivo, 60.000 uomini (di cui circa 3000 ufficiali), della riserva 100.000 uomini, dell'esercito territoriale 45.000 uomini; prevalenti i sistemi tedeschi, per opera del generale tedesco von Mohl, nominato consigliere militare dell'esercito. La guerra del 1894 contro la Cina sanzionò la bontà degli ordinamenti militari giapponesi e fornì preziose esperienze. Alla vigilia della guerra con la Russia (1904-05) l'organizzazione dell'esercito era sostanzialmente immutata; questo comprendeva 200.000 uomini dell'esercito di campagna (13 divisioni, 2 brigate di cavalleria, z brigate di artiglieria da campagna), 12.000 uomini d'artiglieria da fortezza (6 reggimenti, più 3 battaglioni), 80.000 uomini della riserva (12 brigate miste), 130.000 uomini dell'esercito territoriale (12 divisioni territoríali), 58.000 uomini tra complementi e milizia, in totale 480.000 uomini (oltre 200.000 circa, non istruiti, delle riserve).
Il bilancio della guerra ammonta (1932) a circa 202.000.000 di yen, pari a circa 1931 milioni di lire italiane e al 13,12% del bilancio generale. La forza bilanciata comprende 230.000 uomini, di cui 16.000 ufficiali.
L'esercito è stato riordinato e rimodernato tra il 1925 e il 1927. Ne è comandante supremo l'imperatore, il quale esercita la sua autorità per mezzo del Ministero della guerra, dello Stato Maggiore dell'esercito, dell'ispettorato dell'istruzione militare, ed è assistito da un organo consultivo, il "consiglio dei marescialli".
Il territorio è suddiviso in 16 circoscrizioni divisionali (delle quali due in Corea): nucleo organico di ogni circoscrizione 1 divisione; in totale 16 divisioni, più 1 divisione della guardia imperiale e 1 brigata mista dell'isola di Formosa. La divisione comprende, in massima, 2 brigate di fanteria su due reggimenti, 1 reggimento di artiglieria da campagna o montagna, 1 brigata genio zappatori, 1 reparto telefonisti di fanteria, 1 brigata treno del genio.
L'esercito si compone di: truppe (fanteria, cavalleria, artiglieria, genio, carri armati, gendarmeria, aeronautica terrestre), in parte indivisionate, in parte non indivisionate: servizî (artiglieria, genio, sanità, intendenza, ippico, veterinario automobilistico, trasporti, chimico, giustizia militare, ecc.); scuole militari.
La fanteria comprende 34 brigate (2 della guardia, 32 di linea, ognuno su 2 reggimenti), più 6 battaglioni autonomi. Il reggimento si compone di 3 battaglioni, 1 reparto cannoncini (2 cannoni da 37 e 2 mortai da 54), 1 sezione collegamenti; il battaglione di 3 compagnie fucilieri (ognuna con 6 mitragliatrici leggiere) e 1 compagnia mitragliatrici pesanti (di 4 mitragliatrici). Forza organica del battaglione: 600 uomini. La cavalleria comprende 25 reggimenti, di cui 8 riuniti in brigate di 2 reggimenti ognuna. Ogni reggimento ha da 2 a 3 squadroni (con 4 mitragliatrici leggiere ciascuno) e 1 squadrone mitragliatrici pesanti (di 4 mitragliatrici). Forza organica dello squadrone: 100 uomini. L'artiglieria comprende le specialità: da campagna (15 reggimenti, su 3 brigate, ognuna di 2 batterie di 4 pezzi da 75 ippotrainati); da montagna (4 reggimenti, costituiti come quelli da campagna, ma con materiale someggiato); a cavallo (i gruppo, di 2 batterie su 4 pezzi da 75 ognuna); pesante campale (8 reggimenti, riuniti in 4 brigate: ogni reggimento ha da 2 a 3 gruppi, su due batterie di 4 obici da 150, o 4 cannoni da 105 ognuna); pesante (3 reggimenti, su 2 battaglioni; 1 battaglione autonomo: ogni battaglione ha un numero vario di batterie di vario calibro); contraerei (i reggimento di 2 gruppi). Il genio comprende le specialità: zappatori (17 battaglioni, su 3 compagnie); ferrovieri (2 reggimenti, su 2 battaglioni, ognuno di 2 compagnie); telegrafisti (2 reggimenti, su 2 battaglioni, ognuno di 3 compagnie). I carri armati comprendono 1 reparto di 2 battaglioni (ognuno di 2 compagnie di 10 carri) e 1 reparto d'istruzione (20 carri). La gendarmeria, incaricata esclusivamente della polizia militare, comprende 26 legioni (i legione per ogni divisione, le rimanenti non indivisionate); forza organica 275 ufficiali, 4410 ispettori e sottoispettori, 54.100 agenti. I servizî constano di organi direttivi, centrali e locali, e di organi esecutivi (stabilimenti, magazzini, ecc.). Gli organi esecutivi sono unici per i servizî di artiglieria e del genio. Il genio automobilistico è limitato a 1 solo battaglione di 2 compagnie, centro più che altro d'istruzione e di mobilitazione (i rimanenti mezzi automobilistici sono decentrati ai corpi).
Le scuole militari sono: 1 preparatoria (dei cadetti); 1 di reclutamento ufficiali (che riceve i licenziati dalle scuole dei cadetti e, direttamente, altri candidati); 3 di reclutamento sottufficiali; varie di perfezionamento e d'applicazione (i di fanteria, 1 di cavalleria, 1 d'artiglieria e genio, i di perfezionamento del genio, 2 di tiro d'artiglieria, 1 d'educazione fisica, 1 d'amministrazione, 1 di sanità, 1 di veterinaria, 1 dei collegamenti, 1 d'automobilismo, 1 di gendarmeria, 2 d'aeronautica); 1 superiore (collegio dello stato maggiore, che perfeziona gli ufficiali più distinti e forma ufficiali di Stato Maggiore).
Tutti i cittadini maschi fisicamente idonei sono personalmente obbligati al servizio militare dal 20° al 40° anno. Sono esenti gli indegni; esistono temperamenti, limitati, a favore della famiglia, e, più, degli studî. L'arruolamento avviene mediante estrazione a sorte (il gettito delle classi è assai superiore al contingente incorporato). Il contingente incorporato, chiamato normalmente nel 20° anno, compie la ferma di 18 mesi nell'esercito attivo; quello non incorporato è assegnato, per il 25%, alla riserva speciale di reclutamento (destinata, in pace, a tenere a numero gli organici dell'esercito attivo), per il rimanente all'esercito territoriale.
L'obbligo di servizio è così ripartito: 18 mesi (dal 20° anno) nell'esercito attivo; 5 anni e sei mesi nella "1ª riserva" (riserva dell'esercito attivo, destinata a portare le unità di pace sul piede di guerra: sono previsti durante la permanenza in essa due richiami, uno di 30 e l'altro di 15 giorni); 10 anni nella "2ª riserva" (destinata a costituire le unità di nuova formazione); rimanenti anni, dal 17° al 20° e dopo il 37° sino al 40°, nell'esercito "territoriale" (a cui vengono anche assegnati i non istruiti). Il sistema di raccolta del personale è prevalentemente regionale, per tutte le armi.
I sottufficiali (maresciallo speciale, maresciallo, 1° sergente, 2° sergente), sono tratti, attraverso le scuole di reclutamento sottufficiali, dai militari di truppa classificati soldati distinti. Gli ufficiali (sottotenente, tenente, capitano, comandante, ten. colonnello, colonnello, maggiore generale, ten. generale, generale, maresciallo) delle armi combattenti sono tratti dalla scuola di reclutamento di Tōkiō, unica per tutte le armi. Gli allievi vi compiono un primo corso di due anni; prestano servizio, per un anno, come sottufficiali, in un reggimento dell'arma alla quale aspirano; ritornano alla scuola per compiervi un ultimo corso di 1 anno e 10 mesi; vengono inviati al corpo col grado di aspirante: sono infine promossi sottotenenti, dopo 6 mesi di servizio da aspirante presso il corpo.
Marina militare. - La marina militare giapponese cominciò a essere organizzata su modello inglese verso il 1880, ed ebbe tosto modo di mostrare le sue qualità durante le guerre con la Cina e con la Russia. Nella seconda soprattutto, la marina giapponese, al comando dell'ammiraglio Tōgō (v.), riportò una serie di brillanti vittorie. La battaglia di Tsushima (v.), terminata con la sconfitta e l'annientamento pressoché totale della flotta russa, rimase fino alla guerra mondiale il modello classico della grande battaglia navale da cui tutte le marine trassero insegnamento e norma; giova ricordare che a tutte le azioni presero parte i due incrociatori Nisshin e Kasuga (tipo Garibaldi) costruiti in Italia. Durante la guerra mondiale le forze navali giapponesi concorsero alla scorta dei convogli nei mari di Oriente e nel Mare Mediterraneo, collaborando con quelle degli Alleati. Dopo la guerra, la rivalità nippo-americana aveva provocato in Giappone un aumento notevole delle forze navali: aumento che fu limitato in parte dalla Conferenza di Washington. Per effetto degli accordi di Washington (febbraio 1922) e di quelli di Londra (aprile 1930) la marina giapponese occupa il terzo posto tra le marine da guerra del mondo. Il tonnellaggio assegnatole è il seguente: 175.000 tonn. di navi da battaglia (dislocamento massimo unitario 35.000 tonn.; armamento massimo cannoni da 406); 60.000 tonn. di porta aerei (dislocamento massimo unitario 27.000 tonn., armamento massimo cannoni da 203); 110.134 tonn. d'incrociatori di tonnellaggio superiore a 8000 tonn., armati con calibro superiore ai 155 mm. (praticamente 12 unità); 102.057 tonn. d'incrociatori di tonnellaggio superiore alle 6000 tonn., armati con calibro inferiore ai 155 mm.; 107.188 tonn. di cacciatorpediniere di tonnellaggio non superiore alle 1880 tonn., armati con calibro non superiore ai 130 mm.; 53.542 tonn. di sommergibili di tonnellaggio non superiore alle 2845 tonn., armati con cannoni di calibro non superiore ai 155 mm.
Il Giappone possiede oggi: 6 navi da battaglia: 2 (Mutsu, Nagato) da 32.720 tonnellate e 23 nodi. varate nel 1920, armate con 8/406 e 20/140; 2 (Hyūga, Ise) da 29.900 t. e 23 nodi, varate nel 1916-17, armate con 12/356 e 20/140; 2 (Fusō, Yamashiro) da 29.330 t. e 22,5 nodi, varate nel 1914-17, armate con 12/356 e 16/152; 4 incrociatori da battaglia (Kongō, Hiyei, Haruna, Kirishima) da 29.330 t. e 27,4 nodi, varati nel 1912-13 e armati con 8/356 e 16/152; di essi, simili al tipo Lion inglese, il Kongō fu costruito in Inghilterra e gli altri tre in Giappone, l'Hiyei è stato disarmato in seguito agli accordi di Londra; 4 incrociatori di 1ª classe (tipo Atago) da 10.600 t. e 33 nodi, varati nel 1930-31, armati con 10/203, 6/120 a. a. e 12 tubi di lancio da 533; 4 (tipo Myōkō) da 10.600 t. e 33,5 nodi, varati nel 1927-28, armati con 10/203, 6/120, e 4 tubi di lancio tripli sopracquei da 533; 4 (tipo Furutaka) da 7200 t. e 33 nodi, varati nel 1925-26, armati con 6/203, 4/120 e 6 tubi di lancio binati da 533; incrociatori di 2ª classe: 14 (tipo Kuma e Sendai) da 5500 t. e 33 nodi, varati 1919-25, armati con 7/140 e 4 tubi di lancio binati da 533; 1 (Yūbari) da 3150 t. e 33 nodi, varato 1923, armato con 6/140 e 2 tubi di lancio binati da 533; 2 (tipo Tatsuta) da 3500 t. e 31 nodi, varati nel 1918, armati con 4/140 e due tubi di lancio binati da 533; 6 incrociatori antiquati; navi portaerei: Ryūjō da 7600 t. e 25 nodi, varata nel 1931, armata con 12/127 a. a.; Akagi, ex-incrociatore da battaglia trasformato in seguito agli accordi di Washington, da 28.100 t. e 28 nodi, varata nel 1925, armata con 10/203 e 12/120 antiaerei; Kaga, ex-nave da battaglia trasformata, da 28.600 t. e 25 nodi, varata nel 1921, armata con 10/203 e 16/120, di cui 12 antiaerei; Hōshō da 9458 t. e 25 nodi, varata nel 1921, armata con 4/140 e 2/80 antiaerei; Notoro da 15.500 t. e 12 nodi, varata nel 1923, armata con 2/140 e 2/80 antiaerei (ex-trasporto nafta trasformato); cacciatorpediniere: 24 (tipo Fubuki) - di cui 8 ancora in costruzione - da 1700 t. e 34 nodi, varati nel 1927-30, armati con 6/120 e 3 tubi di lancio trinati da 533. Parte di essi sono costruiti impiegando il sistema della saldatura elettrica; 12 (tipo Mutsuki) da 1315 t. e 34 nodi, varati nel 1926-27, armati con 4/120 e 2 tubi di lancio trinati da 533; 24 (tipo Kamikaze e Minekaze) da 1270 t. e 34 nodi, varati 1919-24, armati con 4/120 e due tubi di lancio trinati da 533; 8 di tipo antiquato, da 1160-1300 t.; 7 (tipo Amatsukaze) da 900 t. e 31 nodi, varati 1922-23, armati con 3/120 e 2 tubi di lancio binati da 533; 36 (tipo Momo-Momi-Wakatake) da 850 t. e 31 nodi, varati 1919-20, armati come i precedenti; 23 di tipo antiquato da 600-830 t.; sommergibili di 1ª classe (oltre le 1000 t.): 4 in costruzione da 1650-2000 t., armati con 6 tubi da 533; 5 in costruzione da 1680-2200 t. e 19/9 nodi, armati con 6/8 tubi da 533 e 2/120; 2 varati 1924-29, da 1725-2150 t. e 19/9 nodi, armati con 8 tubi da 533,1/120 e 1/76 antiaereo; 4 posamine, varati 1924-28, da 1170-1700 t. e 19/9,5 nodi, armati con 4 tubi da 533 e 1/120; 5 varati 1923-29, da 2000-2500 t. e 17,5/9 nodi: 6 tubi da 533 e 2/120; 2 varati 1921-25, da 1400-2000 t. e 19/9 nodi, 8 tubi da 533, 1 da 120 e 1/76; sommergibili di 2ª classe (da 500 a 1000 t.): 45 varati tra il 1919 e il 1927, da 665-1000, 950-1082 t. e 17/10 nodi, armati con 4-6 tubi da 450 o 533 e 1 cannone da 76 o 102. Oltre a queste unità il Giappone ha un certo numero di posamine (16), tra cui i nuovissimi Itsukushima e Yaeyama, da 1970 t. e 17 nodi, armati con 3/155 2/76 a. a., e capaci di portare 250 armi grandi o 500 piccole; di dragamine (14), cannoniere (13) e di navi speciali come navi-scuola (in genere corazzate e incrociatori antiquati), navi appoggio sommergibili e cacciatorpediniere, trasporti nafta e petrolio, drifters ecc.
Gli effettivi della marina sono di circa 85.000 ufficiali, sottufficiali e comuni, ottimamente allenati e organizzati. Le basi navali principali sono: Yokosuka, Kure, Sasebo, Maizuru. L'Accademia ha sede a Etajima (Kure).
Aeronautica militare. - La creazione di una sezione d'aviazione presso il Ministero della guerra nel 1919 e l'apertura nel 1920 della prima scuola aviatoria a Tokorozawa, vicino a Tōkyō, e di altre due, nel 1922, l'una a Shimoshizu (prov. di Chiba) e l'altra ad Akeno (prov. di Mie), furono le prime tappe nello sviluppo dell'aviazione militare giapponese. L'aviazione giapponese dipende oggi da quattro ministeri: Guerra, Marina, Comunicazioni e Industria. La creazione di un unico Ministero dell'aria è da anni prevista, ma è tuttavia ancora (1932) allo stato di progetto. La direzione dell'aeronautica dell'esercito comprende un dipartimento degli affari generali, un dipartimento tecnico e un dipartimento amministrativo. Le forze aeree si possono calcolare: per quelle terrestri a 8 reggimenti d'aviazione con un totale di 26 squadriglie; per la marina a 4 reggimenti con 13 squadriglie. Il totale degli apparecchi ammonta a circa 500. Il materiale impiegato nei reparti della aviazione giapponese è in massima parte francese e inglese. È però vivamente sentita la necessità di raggiungere una completa indipendenza dall'estero per i rifornimenti del materiale e già 3 fabbriche di apparecchi hanno cominciato a costruire per l'esercito e per la marina. Sono in esperimento alcuni apparecchi da caccia, bombardamento e ricognizione, di costruzione nazionale; tali apparecchi però non sono stati ancora costruiti in serie.
Ordinamento scolastico. - All'antico ordinamento scolastico, rimasto per secoli sotto l'influsso della cultura cinese, si è venuta sostituendo, col rinnovamento del 1868 onde furono aperte le porte alla cultura occidentale, un'organizzazione che segue nella massima parte quella europea pur cercando di adattarne lo spirito a quello nazionale. Punto di partenza di questo nuovo ordinamento è stato l'editto emanato dall'imperatore nel 1872.
Al primo grado dell'insegnamento sono destinate le scuole elementari, mantenute nella quasi totalità (25.582 scuole nel 1923, con 195.197 maestri e 9.020.619 scolari) dalle amministrazioni locali, per quanto la loro direzione, come del resto quella di tutte le scuole pubbliche, sia riservata allo stato. L'insegnamento elementare è obbligatorio, e l'obbligo è osservato così severamente che già nel 1923 la frequenza superava il 99%: l'instaurazione del suffragio universale, poi, avvenuto nel 1925, ha intensificato anche più la cura dell'istruzione primaria. Salvo eccezioni, l'insegnamento è gratuito: i testi sono di stato (61 milioni di copie nel 1923). La scuola dura sei anni; ma quasi la metà degl'istituti ha corsi ulteriori, di due o tre anni, di perfezionamento e d'avviamento al lavoro. Vi sono inoltre molte scuole professionali (nel 1925, 815, con 270.000 scolari) e molte scuole per anormali. Ma la difficoltà di questa grandiosa organizzazione, in rapido sviluppo, è nel reclutamento dei maestri, preparati da circa un centinaio d'istituti magistrali (1923): il loro numero è ancora assai inferiore al fabbisogno, e le loro condizioni di carriera poco brillanti.
Il secondo grado dell'insegnamento è costituito dalla scuola media, con un corso inferiore di 4 0 5 anni e uno superiore di 3. Vi si accede con la licenza elementare e dopo un severo esame che lascia passare in media solo il 60% dei licenziati. Il corso degli studî non è molto dissimile da quello di un nostro liceo scientifico: caratteristici gl'insegnamenti dell'etica (confuciana, ma anche europea: insegnamento che sostituisce quello della religione, esclusa rigorosamente dalla scuola) e quelli delle lingue straniere moderne, mezzi per l'assimilazione della cultura occidentale (assenti, naturalmente, restando invece il greco e latino): tra inglese, tedesco e francese, gli scolari scelgono due lingue, e in genere tralasciano il francese. Parallele a queste scuole sono le scuole medie femminili, in grande sviluppo: con esse si chiude, per lo più, il corso di studî delle ragazze. Complessivamente, questi istituti medî erano nel 1925 oltre 1300 e contavano oltre seicentomila iscritti.
Il gettito delle contribuzioni indirette supera quello delle imposte dirette; la tassa sui liquori, i dazî doganali e l'accisa sullo zucchero, tra le prime, l'imposta generale sul reddito e la fondiaria, tra le seconde, dànno i principali cespiti di entrata. Notevole importanza hanno anche le entrate demaniali, i monopolî del tabacco, del sale e della canfora e i profitti delle imprese pubbliche. Il servizio del debito pubblico, la difesa nazionale, le comunicazioni e l'educazione costituiscono i principali capitoli di spesa.
Oltre al bilancio generale il Giappone ha 34 bilanci speciali, anche essi generalmente in avanzo, tra cui particolarmente importanti sono il bilancio per le ferrovie (istituito nel 1909) e quello dei territorî d'oltremare (Corea, Formosa, Liao-tung, Sachalin, Mandati del Pacifico settentrionale). Le entrate e spese di questi bilanci non possono tuttavia semplicemente aggiungersi a quelle del bilancio generale per ottenere la situazione complessiva del Giappone, date le complicate relazioni che tra essi intercorrono e le frequenti duplicazioni di capitoli.
Il debito pubblico del Giappone, in maggior parte contratto per costruzioni ferroviarie e lavori pubblici, per far fronte alle spese di guerra e per operazioni finanziarie, al 31 dicembre 1931 ammontava a 6002 milioni di yen. Il rapido aumento delle cifre del debito pubblico, negli anni che seguirono la guerra mondiale, è dovuto quasi esclusivamente al debito interno, salito da 1820 milioni nel 1920-21 a 4525 alla fine del 1931 (aumento cui ha contribuito soprattutto il debito fluttuante) mentre quello estero è rimasto quasi stazionario: 1424 e 1477 rispettivamente.
Il sistema bancario del Giappone, colpito da grave crisi nel 1920-21, dopo il terremoto del 1923 e nella primavera del 1927 (crisi quest'ultima che può considerarsi come la fase di liquidazione delle misure provvisorie adottate nelle due prime) è attualmente regolato dalla legge 29 marzo 1927 (entrata in vigore il 1° gennaio 1928), che ha sostituito in gran parte la prima legge del 1872, divenuta ormai inadeguata allo sviluppo finanziario del paese. Il privilegio dell'emissione, dapprima concesso alle varie banche nazionali, è dal 1883 monopolio esclusivo della banca del Giappone (Nippon Ginkō), istituita nel 1882 come società per azioni. I biglietti devono essere interamente coperti dalla riserva metallica, tranne quelli emessi su garanzia di titoli di stato e di altri titoli sicuri entro il limite massimo di 120 mil;ni di yen; solo in caso di necessità la banca può essere autorizzata a superare questo limite, corrispondendo però allo stato una tassa di almeno il 5%. Alla fine del 1931 i biglietti emessi dalla banca del Giappone ammontavano a 1312 milioni e al 30 settembre dello stesso anno la riserva era di 818 milioni.
L'unità monetaria del Giappone è lo yen d'oro (diviso in 100 yen), la cui parità con la sterlina fu fissata dalla legge del 1897 in 2 scellini e 1/2 penny. Lo yen non è tuttavia coniato e le monete d'oro in circolazione sono da 20, 10 e 5 yen. Il sistema monetario e bancario del Giappone fu legalmente introdotto in Formosa nel 1911 e nella Corea nel 1918. Il limite entro il quale è concesso alla Banca di Formosa istituita nel 1899, e alla Banca di Corea, istituita nel 1909, di emettere in esenzione da tassa biglietti convertibili garantiti da riserva metallica o da titoli è rispettivamente di 20 e di 50 milioni.
Bibl.: K. Rathgen, Die Japaner in der Weltwirtschaft, Lipsia 1911; I. Dantremer, The Japanese empire and its economic conditions, Londra 1915; G. C. Allen, Japan's banking system, Koōbe 1923; F. R. Eldridge, Japan after the earthquake, Washington 1923; T. Kushida, War and armament taxes of Japan, New York 1923; A. Andréadès, Les finances de l'empire japonais et leur évolution, Parigi 1932; cfr. inoltre Japan Year books, Tōkyō; Financial and economic annuals of Japan, Tōkyō; Camera dei deputati, Bollettino parlamentare, Roma 1930, II, p. 229; 1931, III, p. 103.
Storia.
Il Giappone antico (dalle origini al 1868). - La critica pone gli albori della storia giapponese al principio del sec. VI d. C., quando cioè, a imitazione della Cina, fu introdotto nel paese l'uso degli archivî. Numerosi fatti dimostrano, tuttavia, che anche gli avvenimenti in quelli registrati sotto il sec. VI debbono venire accolti con prudente diffidenza.
Periodo mitico e leggendario. - Il racconto ortodosso degli eventi svoltisi precedentemente a tale epoca, racconto pervenutoci attraverso i due più antichi monumenti letterarî del paese, il Kojiki (v.) e il Nihongi (v.), comincia con l'esposizione della cosmogonia e della teogonia tradizionali e abbraccia la cosiddetta "età divina" (jindai) nella quale l'universo è abitato solo da divinità che si alternano in numerose generazioni. L'ultima di queste, costituita dal dio Izanagi e dalla sua sposa Izanami è particolarmente importante perché ad essa è dovuta la creazione dell'arcipelago e di numerose deità, fra cui Amaterasu (la dea del sole), uscita dall'occhio sinistro di Izanagi, Tsuki-yomi-no-kami, il dio della luna, uscito dal destro, e Susano-o-no-nmikoto, uscito dal suo naso. È fra queste tre deità che Izanagi divide l'universo, assegnando alla prima il sole, alla seconda la luna, alla terza gli oceani. Seguono una serie d'incidenti provocati da Susano-o e si giunge, infine, a Niniginomikoto, nipote di Amaterasu, al quale questa dà la sovranità del Giappone. Il pronipote di Ninigi è il principe Kamu-yamato-iwarehiko, noto nella storia indigena col nome di Jimmu Tennō (v.), capostipite dell'attuale dinastia imperiale. Con lui termina l'età divina e comincia quella degl'imperatori umani (ninnō-dai).
Il principale avvenimento nella vita di Jimmu è la spedizione verso l'est, ond'egli, partito dal Monte Takachiho (nell'isola di Kyüshū), dopo sette anni di lotte accanite contro popolazioni ostili, lotte che i testi arricchiscono di particolari portentosi destinati a formare un'aureola di gloria divina attorno alla figura del primo sovrano, l'11 febbraio del 660 a. C. saliva al trono a Kashiwabara, nella regione di Yamato, che da ora in poi diviene il centro del racconto. Jimmu regnò 75 anni, durante i quali consolidò il potere e morì, secondo il Kojiki, a 137 anni.
Dei primi otto successori i testi dànno un arido elenco di nomi accompagnati da genealogie e da date di ascesa al trono e di morte. Di questi sovrani, dal regno povero di avvenimenti, è notevole la longevità (tutti oltrepassano i cento anni), longevità che si nota fino al 16° imperatore, Nintoku, e termina col successore di questo, Richū, morto alla possibile età di 69 anni, e col quale, come vedremo, si entra su terreno più solido. Col 10° imperatore Sūiin, i testi tornano a dar particolari. Il suo regno fu occupato a organizzare la nazione, a restaurare il culto, a costruire opere di pubblica utilità, a difendere i confini dell'Impero dalle incursioni degli Ebisu (gli attuali Ainu), che turbavano la vita pacifica delle popolazioni agricole di frontiera. Sotto il suo successore, Suinin, che una congiura per poco non toglie di mezzo, si verifica un fatto importante. Essendo morto il fratello del sovrano, i servi del defunto furono sepolti vivi con lui, come d'uso, intorno al tumulo, con la sola testa allo scoperto. Notte e giorno risuonavano le grida di costoro, lasciati morire di fame. L'imperatore ne fu scosso e cedette alla proposta del suo consigliere, Nomi-no-sukune, di sostituire, da allora in poi, le vittime umane con immagini di terracotta (haniwa), rappresentanti uomini, donne, cavalli e quant'altro si usava seppellire col defunto. Come ricompensa, il consigliere fu eletto capo (omi) della corporazione dei vasai (hanibe), cui era commesso l'incarico di fabbricare le haniwa, esemplari delle quali vengono ancora oggi, di quando in quando, alla luce e costituiscono un prezioso materiale di studio per l'etnologia dell'antico Giappone. Sotto il 12° imperatore Keikō, continua la guerra contro i barbari, ma stavolta si tratta dei Kumaso nel Kyūshū. Una serie di leggende pittoresche si raggruppa intorno alla persona di suo figlio, il principe Yamato-take, di cui sono restate famose le gesta contro gli Ebisu e la vittoria sui Kumaso, grazie a una spada miracolosa ottenuta da una sacerdotessa del tempio di Ise. La tradizione lo fa morire a trent'anni (111 d. C.) avvelenato da una nube, mentre affrontava un serpente. Egli non poté quindi salire al trono, che spettò a un suo fratello, l'imperatore Seimu, nel cui regno non vi è nulla di notevole. A lui succede un nipote, l'imperatore Chūai, che trasporta la capitale nell'isola di Kyūshū. Sua moglie, l'imperatrice Jingō Kōgō, di carattere virile ed energico, è un'autentica eroina, le cui gesta, principalmente la spedizione in Corea, hanno ispirato artisti e scrittori di ogni epoca. Dopo una spedizione infruttuosa di Chūai contro i Kumaso, quattro dei le apparvero, rivelandole che l'annientamento di quei barbari era connesso con quello del regno di Shinra (Silla) in Corea, alla cui istigazione erano dovute le loro rivolte. È la prima volta che, secondo la tradizione, la Corea è resa nota ai Giapponesi. L'imperatore si mostra scettico verso il messaggio divino e tentenna di fronte alle difficoltà. La sua incredulità è punita con la morte. L'imperatrice consultatasi, allora, con gli dei e coi ministri, decide di tener celata la morte del sovrano e d'intraprendere da sola la spedizione.
Dopo numerose cerimonie religiose, la flotta parte sotto il suo comando e con l'intervento divino la spedizione giunge a Shinra, la conquista e, sottomesso il sovrano che promette l'invio annuo di tributi in Giappone, ritorna in patria lasciando il ministro Yada-no-sukune alla sorveglianza delle terre conquistate. Siamo, secondo la cronologia ufficiale, al 200 d. C. L'imperatrice, appena giunta, dà alla luce un figlio, quello stesso che recava in seno alla partenza e che è oggi venerato come dio della guerra, col nome di Hachiman. Nella linea imperiale egli è il 15° imperatore Ōj in, sotto il cui regno la tradizione registra l'introduzione della scrittura e dei testi cinesi per opera di Achiki (284 d. C.) e di Wani (285 d. C.), letterati coreani inviati con le ambascerie annuali recanti i tributi. Il regno del suo successore, l'imperatore Nintoku, è caratterizzato da atti filantropici, come l'abolizione temporanea delle tasse, la concessione al popolo di terre, le opere di canalizzazione, ecc., e finalmente col suo figlio e successore, Richū, cessa, nella storia indigena, l'elemento soprannaturale, il che è anche dovuto al fatto che sotto di lui vennero nominati in ogni provincia degli archivisti (fubito) incaricati di registrare gli avvenimenti.
Cenni sulla preistoria. - Nessuno oggi dubita più che primi ad abitare l'arcipelago siano stati gli Ainu, i quali, ridotti oggi a poche migliaia di individui concentrati a Yezo, a Sachalin e nelle Kurili, dovettero avere in antico assai più vasta distribuzione, come la stessa toponomastica dell'arcipelago e della Siberia orientale dimostra. Infatti, se il nome Fuji del più celebre monte del Giappone rivela chiara l'origine ainu (fuchi o fuji, il fuoco considerato come divinità, opposto ad abe, il fuoco nel senso comune), altrettanto può dirsi, ad es. di Mauka, in Sachalin (da mau, le baie e ka, estremità), e di Parato, in Siberia (para, vasto e to, lago). Non è certo se accanto agli Ainu esistessero altre popolazioni; pare, invece, sicuro che, ultimi a giungere, siano stati gli antenati degli odierni Giapponesi, i quali trovarono gli Ainu all'età della pietra. A che razza appartenevano i nuovi venuti? In che epoca vennero? A queste domande è dato rispondere solo imperfettamente. I caratteri di razza mista sono evidenti nei Giapponesi e gli antropologi vi distinguono due tipi: il mongoloide, diffuso specialmente al centro e sulle coste del Mar del Giappone, e il malese, prevalente al sud. E poiché alcuni tratti somatici del tipo malese rammentano il negrito, alcuni ne ammettono la formazione locale da incroci di Mongoli e di Negrito. Comunque, sembra accertata l'esistenza di due flussi migratorî, uno dal continente asiatico, l'altro dal sud; il primo, più importante, di mongoloidi, l'altro di Negrito o protomalesi. Alcuni credono di poter mettere quest'ultimo flusso prima, in ordine di tempo, del precedente, il quale presenterebbe due principali fasi d'intensità: all'inizio, intorno al 1000 a. C., e verso l'era volgare, dopo la quale continuò per parecchi secoli, fino ai tempi storici. Secondo F. Brinkley, il primo flusso fu all'età del bronzo, il secondo a quella del ferro.
L'esame della posizione geografica e la considerazione che le leggende più antiche del Giappone possono raggrupparsi in tre cicli principali: ciclo di Izumo, ciclo di Tsukushi (oggi Kyūshū) e ciclo di Yamato, portano a concludere che sulle coste di Izumo (parte settentrionale della prov. di Shimane), e su quelle dell'isola di Kyūshū dovettero formarsi i primi insediamenti dei nuovi venuti. In epoca imprecisabile, ma certo dopo molto tempo, dal Kyūshū, gl'invasori, attraverso il Mare Interno, passarono nell'isola di Hondo, stabilendosi nella regione di Yamato; e proprio questo passaggio, che certo dovette effettuarsi in modo non pacifico per l'ostilità degli aborigeni, si vuole vedere nella spedizione di Jimmu Tennō, partita dal M. Takachiho, e terminata colla fondazione di Kashiwabara, nello Yamato. Rimane peraltro oscuro il modo col quale le tribù così pervenute nello Yamato abbiano potuto estendere l'autorità del loro capo a tutto l'arcipelago, ma va pur rilevato che la presenza in questo di una grande isola fu il fattore geografico che facilitò non poco l'opera di unificazione nazionale, la quale sarebbe, inoltre, stata difficile se il Mare Interno non avesse unito naturalmente paesi che il rilievo isolava.
La storia indigena mostra, come s'è visto, fin dagl'inizî, il paese riunito e organizzato sotto l'autorità imperiale. Diversa è, invece, la lezione che può trarsi dalle cronache cinesi, di ben maggior valore per lo storico. È un fatto che la cronaca della dinastia posteriore dei Han (25-220 d. C.) lo Hou Han Shu, terminato nel 424, parlando dei Wo (così sono detti i Giapponesi) ignora l'esistenza di un sovrano regnante nel Giappone centrale, poiché dice che il loro paese è diviso in un gran numero di comunità e tribù governate da capi ereditarî, mentre, d'altra parte, sembra alludere chiaramente all'imperatrice Jingō Kōgō quando riferisce che dal 147 al 190, dopo feroci lotte intestine, le diverse tribù belligeranti stabilirono di riconoscere l'autorità di una donna, la regina Himiko, che era in comunicazione con gli dei e sapeva invocarli con ogni sorta di esorcismi. Comunque, anche volendo ammettere, come qualcuno ammette, la reale esistenza di Jimmu Tennō, il suo lavoro di unificazione va spostato parecchi secoli dopo la tradizione. E, infatti, era impossibile ai redattori del Kojiki e del Nihongi, da poco in possesso del calendario e della scrittura cinesi di conoscere la data esatta della fondazione dell'Impero. Messi di fronte a una tradizione la quale affermava l'origine divina della dinastia, essi dovettero porre l'esistenza di Jimmu in epoca confinante con quella degli dei, cui la credenza popolare attribuiva la creazione dell'arcipelago, ponendo la loro esistenza prima di quella degli uomini; d'altra parte, essendo già nota e stabilita la linea imperiale, occorreva attribuire ai primi sovrani età inverosimilmente lunghe, che così, secondo J. Martin (Le Shintoīsme, Hong-Kong 1924-27, I, p. 88), troverebbero una spiegazione logica.
Lotte religiose e cultura cinese. - Dall'imperatore Richū (400-405) all'imperatore Senkwa (536-539), le cronache registrano una serie di lotte fratricide per la successione al trono alla morte dei varî sovrani. I quali, tuttavia, sembrano aver regnato con clemenza e con coscienza dei bisogni del popolo. Due soli sono additati all'esecrazione dei posteri: Yūryaku (457-479), salito al trono attraverso due delitti, e Muretsu (499-506), noto per le sue stranezze e crudeltà, ch'egli scontò con la vita dopo breve regno.
Sotto il 29° imperatore Kinmyō (540-571), con l'introduzione del buddhismo, la civiltà giapponese entra in una nuova, fecondissima fase. Nel 552, il re di Kudara, uno degli stati coreani tributarî del Giappone, manda in dono all'imperatore una statua di Buddha, forse del buddha Amida, con alcune sūtra. Il ministro Soga Iname si dimostrò subito favorevole all'accettazione della nuova dottrina mentre i Mononobe, guardiani di palazzo, l'ostacolarono, sostenendo ch'essa avrebbe eccitato lo sdegno delle deità indigene. Un'epidemia, scoppiata poco dopo, sembra dar loro ragione; la statua viene fatta sparire e la nuova fede subisce uno scacco; ma solo per poco tempo, ché la lotta, apparentemente religiosa, ma in effetti di supremazia, impegnatasi subito fra i Soga e i Mononobe e terminata nel 587 con la sconfitta di questi ultimi sul Monte Shigi, assicurava alla nuova dottrina protezione e diffusione. Nel 588 la Corea invia religiosi, eruditi, medici, astrologi, e con costoro tutto un flusso di cultura pervade il paese. I templi cominciano a essere costruiti sul finire del sec. VI; un censimento del 623 ne dà esistenti 46, con 816 preti e 529 religiose, in tutto l'Impero. In questo rapido sviluppo ebbe parte principale l'imperatrice Suiko (593-628), posta sul trono da suo zio Soga Umako, divenuto onnipotente dopo la vittoria sui Mononobe, e, soprattutto, suo nipote, il principe Shōtoku-taishi (572-621), fervente religioso e letterato.
Alla morte di Suiko (628), Soga Umako, fiancheggiato dal figlio Iruka, impedì che Yamashiro, figlio di Shōtoku-taishi, salisse al potere, al quale destinò il nipote della defunta, Jomei (629-641); e, morto questo, la sua vedova Kōgyoku (642-645). Sotto il regno di costei, Iruka, volendo darle per successore un suo consanguineo decise di sbarazzarsi di Yamashiro, unico ostacolo, e lo fece assassinare (643). Stanchi della tirannia dei Soga, i cortigiani tramarono una congiura che portò all'uccisione di Iruka (645) e all'abdicazione di Kōgyoku in favore di suo fratello Kōtoku (645-654).
Il regno di questo sovrano segna una svolta nella storia della civiltà indigena, poiché il Giappone entra in un'epoca di riforme sociali importantissime che gli daranno un'amministrazione modellata su quella cinese contemporanea dei T'ang (620-907). Vennero definiti i limiti delle provincie e dei distretti, a capo dei quali si nominarono funzionarî, si eseguì un censimento, stabilendo di ripeterlo ogni sei anni, si ripartirono le terre fra i contadini, s'istituì l'uso delle ere (nengō) nel computo del tempo, ecc. Il principale artefice di queste riforme, continuate sotto i successori di Kōtoku, fu Nakatomi-no-Kamatari, uno dei capi della congiura contro i Soga, il quale, creato primo ministro dall'imperatore Tenchi (662-671), ebbe, poco prima di morire (670), il permesso di assumere il nome di Fujiwara (v.), che una schiera di letterati, artisti, uomini di stato, generali, renderà presto illustre. L'adozione del complicato sistema burocratico cinese rendeva difficili i cambiamenti di capitale che si verificavano sempre alla morte di ogni sovrano, cambiamenti che traevano origine dalla credenza che la morte rendesse impuri, e occorresse, perciò, abbandonare la casa e il luogo del decesso e trasportare altrove i proprî penati. Fu sotto l'imperatrice Genmyō (708-714) che venne fondata una nuova città, Nara, e si stabilì ch'essa sarebbe rimasta per sempre capitale dell'Impero. Nel 794, tuttavia, l'imperatore Kwanmu (782-808), la trasportò a Kyōto, che rimarrà definitivamente residenza della corte fino al 1868.
I Fujiwara. - Kwanmu è una bella figura d'organizzatore. Egli curò l'educazione, i servizî e le opere di pubblica utilità, l'agricoltura, abolì le sinecure e istituì per gl'imperatori il nome postumo, diverso da quello ch'essi ebbero in vita, col quale sono conosciuti nella storia. Sotto i suoi successori il progresso, specialmente culturale, aumenta e la prosperità introduce il lusso che raffina i gusti ed effemina gli animi; la corte diviene un luogo di delizie dove gl'imperatori, fra gli svaghi e le mollezze, dimenticano le cure del governo. Di ciò approfittano i Fujiwara la cui influenza era andata gradualmente aumentando. Già l'imperatore Montoku (851-858) sposato a una Fujiwara, aveva concesso privilegi ai membri di questa famiglia, che dall'epoca di Kamatari ricoprivano, per consuetudine, la carica di primo ministro. Dall'880 anche quella di kwampaku o maestro di palazzo divenne loro monopolio. Con molto tatto e abilità, doti che i Fujiwara ebbero in sommo grado, essi crearono la consuetudine di far scegliere all'imperatore la sua sposa fra le donne della propria famiglia; in tal modo, col tempo, madri e mogli dei principi imperiali furono delle Fujiwara. La loro potenza crebbe così a dismisura, e le più importanti cariche caddero nelle loro mani. Ma non contenti di ciò essi introdussero un altro uso che doveva mettere il trono alla loro mercé. Alla nascita di un principe imperiale, i Fujiwara lo prendevano con loro per educarlo e alla sua ascesa al trono, in tenera età, il nonno materno, pure un Fujiwara, diveniva reggente (sesshō, ufficio creato sullo scorcio del sec. IX) in nome dell'imperatore. Il fanciullo sovrano veniva allevato in un'atmosfera snervante e in mezzo a distrazioni di ogni sorta, poi, giunto alla maggiore età, o anche prima, al più lieve segno di aspirazione all'indipendenza, veniva costretto ad abdicare, e spesso consigliato a prendere l'abito religioso. Tanta sottigliezza d'intrigo assicurò ai Fujiwara per circa quattro secoli una supremazia assoluta che ebbe il suo periodo aureo sotto il famoso ministro Michinaga (966-1027), genero di tre imperatori. Contro ogni tentativo di opposizione essi agirono con prontezza ed energia: esempio il caso del ministro Sugawara Michizane (845-903), il quale, per aver cercato di aprire gli occhi all'imperatore Daigo (898-930), fu esiliato.
Dopo Michinaga, la potenza dei Fujiwara s'avvia al tramonto; da un lato gli agi e le mollezze di cui si erano serviti per annientare l'autorità imperiale, dall'altro il sorgere delle grandi famiglie militari, che, consce della loro forza, ambivano al potere, la portarono presto al decadimento.
I Taira e i Minamoto. - Già dal sec. IX e X le due famiglie dei Taira (v.) e dei Minamoto (v.) erano sorte in grande preminenza e i loro membri si erano distinti in numerose operazioni belliche. Il destino doveva metterle una contro l'altra. Nel 1087 l'imperatore Shirakawa (1073-87), stanco dell'arroganza dei Fujiwara, si ritirava in un convento buddhista continuando di lì a dirigere la cosa pubblica; altrettanto facevano, poco dopo, suo figlio, l'imperatore Horikawa (1087-1107), e suo nipote, l'imperatore Toba (1108-1123), avendo abdicato l'uno a favore dell'altro: tutti e tre erano stati coadiuvati da Taira Tadamori (1096-1153), loro favorito. Vicino alla corte ufficiale, si venne così formando una corte dell'imperatore abdicatario (In-no-chō), il quale dirigeva nell'ombra la politica del sovrano titolare, suo figlio. Nel 1123, Toba abdicava a favore del figlio cinquenne, l'imperatore Sutoku (1124-41), ma nel 1142 l'obbligava a cedere il trono a un altro suo figlio (l'imperatore Konoe), natogli da Fujiwara Toku-ko, sua sposa preferita; Konoe, incoronato a due anni, morì a diciassette. Toba volle allora elevare al trono un terzo suo figlio, l'imperatore Go Shirakawa (1156-58), ma Sutoku tentò di riprendere il potere. Si formarono, allora, due partiti: quello di Sutoku, sostenuto dai Minamoto, e quello di Go Shirakawa, sostenuto dai Taira e da Minamoto Yoshitomo. La guerra civile dell'era Hōgen (1156), che ne seguì, segnava la vittoria di questi ultimi, col risultato di affermare l'autorità di Taira Kiyomori (1118-81), figlio adottivo di Tadamori. Ma Minamoto Yoshitomo malcontento della ricompensa avuta per i suoi servigi, assai minore di quella toccata a Kiyomori, della cui potenza era invidioso, complottò con Fujiwara Nobuyori (1133-1159) la rovina di quello. La nuova guerra civile dell'era Heiji (1159), che ne seguì, segnava la sua morte. Kiyomori volle, tuttavia, distruggere la discendenza di Yoshitomo, e avendo cercato invano la concubina di questi, Tokiwa Gozen, da cui Yoshitomo aveva avuto tre figli, ne fece imprigionare la madre. Saputo ciò, Tokiwa, mossa dall'amor filiale, si consegnò a Kiyomori che, colpito dalla sua bellezza e dal suo atto, la fece propria concubina, costrinse i figli a farsi bonzi e scarcerò la madre. Libero da nemici, la potenza del vincitore tocca l'apogeo: i suoi parenti coprono le cariche più alte e governano le migliori provincie; gl'imperatori, messi sul trono in tenera età e deposti poco dopo, sono in sua balia ed egli tiranneggia assoluto, fra il lusso e i piaceri. Ma la sua arroganza, la crudeltà dimostrata verso i nemici, ch'egli uccide o disperde, gli attirano odî e provocano congiure. I suoi peggiori nemici sono i Minamoto. Una cospirazione con a capo Minamoto Yorimasa gli viene palesata ed egli manda contro i congiurati un esercito comandato dal figlio Tomomori, che, sulle rive del fiume Uji, li affronta e li vince uccidendo Nakatsuna, figlio di Yorimasa, il quale, rifugiatosi nel tempio Byōdō-In, si uccide (1189). Ma altri Minamoto tramano nell'ombra, attendendo il momento propizio. I più accaniti sono i due figli di Yoshitomo: Yoritomo, che Kiyomori aveva affidato tredicenne, dopo la vittoria sul padre, in custodia a due suoi fidi, Itō Sukechika e Hōjō Tokimasa, del quale ultimo egli sposerà, in seguito, la figlia Masako; e Yoshitsune, uno degli eroi più popolari del Giappone. Le trame di costoro amareggiarono gli ultimi anni di Kiyomori, che moriva nel 1181 raccomandando ai suoi congiunti di portare la testa di Yoritomo sulla sua tomba. La sua morte non fece che affrettare il trionfo dei due fratelli e tre anni dopo le battaglie di Ichino-tani, di Yashima e di Dan-no-ura segnavano la disfatta dei Taira. Dopo la vittoria, Yoritomo, geloso del fratello, lo fece uccidere e nel 1191 riceveva dall'imperatore il titolo di seii tai-shōgun (generalissimo inviato contro i barbari) o, più brevemente, shōgun (v.), la più alta carica militare. Da questo momento comincia per il Giappone un'era nuova in cui lo shōgun sarà il sovrano de facto, l'imperatore il sovrano de iure del paese, e questo sistema dualistico durerà fino al 1868, quando il potere effettivo e quello legale torneranno a riunirsi nella persona dell'imperatore. Crudele coi nemici, parricida e due volte fratricida, Yoritomo fu, tuttavia, amministratore e organizzatore eccellente. Invece di dominare la corte, come i Fujiwara e i Taira, egli preferì farsene una propria a Kamakura, istituendo un nuovo governo militare (bakufu, "il governo della tenda"), con un consiglio, un tesoro, un'amministrazione della giustizia proprî. Egli fece anche nominare in ogni provincia, vicino ai funzionarî civili (jitō), incaricati di esigere le imposte e di ammmistrare la giustizia, dei funzionarî militarî (shugo), a capo di truppe, cui era devoluto il mantenimento dell'ordine, ambedue essendo responsabili, non verso l'imperatore, ma verso lo shōgun. Molte altre e importanti riforme egli apportò all'amministrazione curando ogni volta di assicurarsi l'assenso imperiale, e, a differenza di Kiyomori, si conciliò il clero buddhista, ma proibì ad esso di portare armi e di ospitare gente armata.
I Hōjō. - Alla sua morte (1199) un consiglio di famiglia nominava Hōlō Tokimasa, suo suocero, tutore (shikken) del suo figliolo Yoriie. Il potere cadeva, così, nelle mani di Tokimasa e di sua figlia Masako, vedova di Yoritomo. Poco tempo dopo, Tokimasa faceva entrare in religione Yoriie e, nel 1204 lo faceva uccidere; minor fortuna ebbe un suo complotto per sbarazzarsi anche di Sanetomo (1192-1219), fratello di Yoriie, poiché, scoperto, egli fu relegato in esilio (1205) e Sanetomo fu salvato dalla madre Masako, la quale continuò a governare vicino al fratello Yoshitoki. Nel 1219, Sanetomo veniva assassinato dal nipote Kugyō, figlio di Yoriie e con lui si spegneva la discendenza diretta di Yoritomo e rimaneva libero il campo ai Hōiō. Per oltre un secolo costoro si succedono (v. hōtō) al potere effettivo, ma non osano arrogarsi il titolo e la carica di shōgun, alla quale innalzano membri, quasi sempre fanciulli, della famiglia Fujiwara e della casa imperiale, che vengono deposti spesso ancora in tenera età. Gli eventi avevano, così, maturato questa peculiare condizione di cose: al governo della cosa pubblica era un tutore che governava in luogo dello shōgun, che era vassallo e, in teoria, mandatario dell'imperatore, il quale, a sua volta, non era, generalmente, che un fanciullo in balia di una corte effeminata e corrotta.
È durante questo disgraziato periodo che ha luogo l'unico tentativo d'invasione del territorio nazionale che la storia politica del Giappone ricordi. Qūbilāy Khān, conquistata la Cina nel 1280, aveva udito della ricchezza delle isole dell'arcipelago giapponese e stimato facil cosa la loro conquista. Rimaste senza risposta una lettera (1268) e un'ingiunzione di vassallaggio (1271), egli inviava una spedizione che nel 1274 s'impadronì dell'isola di Tsushima. Fiducioso, quindi, negli effetti intimidatorî di questa prima azione bellica, egli spediva un'ambasceria in Giappone i cui componenti vennero decapitati. Una seconda spedizione, di oltre 3000 navi e 165.000 uomini, venne allora allestita e riuscì effettivamente a sbarcare nell'isola di Kyūshū, ma la resistenza strenuamente opposta da Hōlō Tokimume e un tifone provvidenziale segnavano il fallimento dell'impresa e la distruzione della flotta mongola.
Nel 1316 assumeva la carica di shikken Hōjō Takatoki (1303-1333). Dissoluto, corto d'ingegno, tutto preso da passatempi e da piaceri, egli lasciava che il suo ministro Nagasaki Takasuke governasse a suo talento. Pessimo amministratore, costui non tardò a suscitare il malcontento generale. Di ciò credette di approfittare l'imperatore Go Daigo (1319-1338) per tentare di restaurare l'autorità imperiale. Dopo un primo complotto, fallito per il tradimento di alcuni congiurati, un altro ne venne tramato con la compartecipazione della potente setta buddhista Tendai. La corte di Kamakura, informata a tempo, corse ai ripari. Un esercito inviato contro la capitale costringeva Go Daigo alla fuga e lo inseguiva nel suo rifugio. L'imperatore, arrestato, venne esiliato all'isola di Chiburi (1332), ma l'anno seguente riusciva a fuggire e a trovar protezione presso devoti alla dinastia. Fra questi emergono le figure di Kusunoki Masashige e di Nawa Nagatoshi i quali, raccolte delle truppe, si prepararono alla riscossa. Un esercito dello shikken s'infranse contro le difese del castello di Funa-no-ue, dove Nagatoshi aveva accolto il sovrano. Un altro, comandato da Ashikaga Takauji e inviato contro Kyōto, appena giunto, passava subito fra le file imperiali, mentre Nitta Yoshisada, alla testa di 20.000 uomini, marciava su Kamakura. Takatoki, i suoi parenti e servitori, vista perduta ogni speranza, si uccidevano (1333), e con loro terminava la famiglia e la potenza dei Hōjō.
Ma era destino che la tanto contesa restaurazione dovesse ancora tardare cinque secoli, ché il ritorno di Go Daigo al trono non fu che il punto di partenza di nuove lotte. La distribuzione di feudi a coloro che lo avevano aiutato, aveva lasciato insoddisfatto Ashikaga Takauji. Il suo malcontento si rivelò quand'egli, inviato contro Hōjō Tokiyuki (ultimo superstite della sua famiglia il quale, sfuggito alla distruzione di essa per l'aiuto di un servo fedele, aveva tentato un colpo di mano su Kamakura), marciò contro costui, e, sconfittolo, prese possesso della città, proclamandosi shōgun (1335). L'imperatore lo dichiarava ribelle e gl'inviava contro Nitta Yoshisada, ma Takauii, vintolo a Hakone, marciava subito sulla capitale. Kusunoki Masashige e Nawa Nagatoshi tentarono di sbarrargli il passo, ma vennero respinti. Go Daigo si rifugiò sul monte Yoshino, ma, intanto, un esercito, al comando di Kitabatake Akiie, giungeva dal nord in suo soccorso e riusciva a sconfiggere Takauji a Miidera; l'imperatore poté così rientrare a Kyōto. Ma il ribelle s'era già preparato alla riscossa e dall'isola di Kyūshū, dove s'era recato per raccogliere truppe, riapparve in campo. A Hyōgo (oggi Kōbe) si scontrava con Nitta Yoshisada e Kusunoki Masashige, speditigli contro, e li vinceva (1336) in una battaglia rimasta memoranda per gli sforzi eroici compiuti dai fautori della dinastia. Go Daigo fuggiva di nuovo da Kyōto, dove giunto Takauji elevava al trono (1336) l'imperatore Kōmyō. S'inizia, così, nella storia del paese, uno scisma dinastico che durerà 56 anni, durante i quali nella capitale risiederanno i sovrani della nuova dinastia del nord (hokuchō), protetti dagli shōgun; al sud di essa, quelli della dinastia del sud (nan-chō), considerati legittimi dagli storici indigeni, vivranno in continua lotta coi primi. Ambedue i sovrani, quello sul trono e l'altro in esilio, hanno il titolo: il potere effettivo è degli Ashikaga.
Gli Ashikaga. - Accingendosi a raccogliere l'eredità dei Minamoto con l'insediarsi nella carica di shōgun, che doveva restare per 235 anni ai membri della sua famiglia, Takauji s'era dapprima installato a Kamakura, ma lo stato delle cose, diverso da quello dell'epoca di Yoritomo, lo persuase presto a eleggere Kyōto come residenza. Tuttavia la lontananza della capitale dalle provincie dell'est, note col nome generico di Kwantō, in continua agitazione, e la conseguente difficoltà di sorvegliarle, gli fecero sentire il bisogno di avere in Kamakura un occhio vigile e fedele. Istituita, quindi, la carica di governatore del Kwantō (Kwantō-kwanryō, 1349), la conferì a Motouji, suo quarto figlio, ai discendenti del quale doveva restare per quasi un secolo. Gli ultimi anni della vita Takauji passò in continua lotta col fratello Tadayoshi e col figlio Tadafuyu e morì nel 1358, lasciando il potere al figlio Yoshiakira. Dei suoi 14 successori (v. ashikaga), Yoshimitsu (1368-1394) è la figura maggiore. Uomo di rara abilità, costui procurò un periodo, per quanto breve, di pace al paese, sia debellando Yamana Ujikiyo, che aveva osato marciare su Kyōto, dopo che la sua famiglia s'era impossessata di 11 provincie; sia ponendo fine allo scisma dinastico, con l'indurre Go Kameyama, della dinastia del sud, a cedere le insegne del potere legittimo a Go Komatsu, allora regnante in quella del nord; sia domando i pirati che infestavano i mari e rendevano malsicura la navigazione; sia, infine, riassestando l'amministrazione. Nel 1394 egli abdicava a favore del figlio Yoshimochi e, vestito l'abito religioso, si ritirava nel superbo palazzo del Kinkakuji (Padiglione d'oro), da lui fatto costruire e lasciato, poi, per testamento alla setta Zen. Altra figura notevole, sebbene di minore statura, fu anche l'8° shōgun Yoshimasa (1443-1474). Spirito fine, esteta, amante delle lettere e delle arti egli diede a queste impulso e protezione avviandole al rinnovamento. Nel Ginkakuji (Padiglione d'argento), fatto da lui costruire, egli passò gli ultimi anni di sua vita, circondato da poeti e da artisti, ma in mezzo a prodigalità senza fine, che ebbero effetto disastroso sul bilancio.
È con Yoshimasa che la potenza degli Ashikaga volge al tramonto. L'ardore bellico sviluppatosi naturalmente nella casta militare attraverso i lunghi secoli di lotte aveva potuto essere contenuto e limitato dall'oculata energia dei primi shōgun, tutti uomini d'azione; i loro successori, più deboli, persero tosto ogni prestigio. D'altra parte, il ramo cadetto degli Ashikaga, i Kwantō-kwanryō di Kamakura, diventava sempre più ardito e cercava d'impadronirsi del potere. Un tentativo fallito del kwanryō Mochiuji (1398-1439) portava al passaggio della carica alla famiglia Uesugi e a numerose complicazioni, da cui sorsero grosse rivalità. Sotto Yoshimasa una questione di successione alla carica di shōgun divide ancora gli Ashikaga, mentre questioni analoghe in altre famiglie portano a coalizioni che mettono di fronte due grandi figure di guerrieri: Yamana Mochitoyo e Hosokawa Katsumoto. La lotta cruentissima, che ne seguì, nota col nome di "torbidi dell'era Ōnin", si prolungò, con esito incerto, per 11 anni (1467-77) e cessò per esaurimento dei contendenti. Da questo momento, durante tutto un secolo, il disordine dilaga e la miseria più spaventosa affligge il paese, in preda all'anarchia completa e a lotte intestine sanguinose. L'imperatore non conta nulla, lo shōgun è un automa in balia dei grandi signori feudali che lo insediano in carica per farsi eleggere kwanryō, e lo dimettono per sostituirvi un loro protetto. Della confusione generale profittano i daimyō per allargare i loro dominî a spese dei vicini. È il periodo più oscuro che la storia del paese ricordi.
In questo groviglio di eventi vede la luce una delle maggiori figure che il Giappone abbia prodotte: Ōda Nobunaga (1534-82). Suo padre, Nobuhide, piccolo daimyō discendente dei Taira e vassallo degli Shiba, profittando della rovina di questi, s'era impadronito di metà della provincia di Owari (oggi parte della prov. di Aichi), loro feudo, e alla sua morte (1549), Nobunaga, ancora fanciullo, si trovava signore di vasti dominî. Una serie di operazioni fortunate, in cui il suo carattere energico e l'attitudine al comando si affermarono brillantemente, gli fruttavano, con una larga reputazione, l'acquisto di alcune altre provincie. L'imperatore Ōgimachi (1558-86) vide in lui l'uomo capace di porre fine alle lotte che da anni dilaniavano il paese e gl'inviò segretamente un messo (1562). Nobunaga accettò l'incarico e, accintosi all'opera, entrava due anni dopo nella prov. di Mino (oggi parte della prov. di Gifu); quindi, assicuratosi l'aiuto di valenti generali, fra cui Tokugawa Ieyasu, invadeva la prov. di Ōmi (oggi prov. di Shiga) ed entrava a Kyōto ponendo in carica il legittimo erede dello shōgunato, Ashikaga Yoshiaki (1568). Cinque anni dopo, tuttavia, avendo costui cospirato contro il suo benefattore, veniva da questo spodestato (1573) e con lui finiva, ingloriosamente, lo shōgunato degli Ashikaga. Nobunaga, intanto, veniva proseguendo l'opera di pacificazione del paese. In breve volger d'anni le più potenti famiglie (Asakura, Miyoshi, Asai, Sasaki e altre) venivano domate e alcune scomparivano dalla storia, mentre i loro feudi passavano nelle mani di Nobunaga. I bellicosi bonzi del Monte Hiei, sempre ostili, vennero passati a fil di spada e i loro templi incendiati (1571).
Fra i generali di Nobunaga troviamo un'altra delle maggiori figure della storia giapponese: Toyotomi Hideyoshi (1536-98). Di umili natali, costui era entrato giovanissimo al suo servizio e s'era fatto subito apprezzare per la viva intelligenza e il valore. Nel 1577 Nobunaga affidava a lui la campagna contro Mōri Terumoto, il quale, in pochi anni, s'era impadronito di tutta la penisola di Chūgoku. Le operazioni procedettero lentamente per la strenua resistenza opposta da Terumoto; in cinque anni, tuttavia, le truppe di Hideyoshi riuscivano a impadronirsi di alcune provincie, ma il proseguimento delle ostilità richiedendo dei rinforzi, Nobunaga spediva a lui Akechi Mitsuhide alla testa di 30.000 uomini. Già da tempo costui nutriva segreto e profondo odio per il suo signore a cui doveva la morte della propria madre; assunto, dunque, il comando, pensò giunto il momento della vendetta, onde, invece di volare al soccorso di Hideyoshi, piombava a Kyōto e assaliva Nobunaga, costringendolo a uccidersi nel tempio di Honnōji, dove s'era rifugiato ferito (22 giugno 1582). Ciò fatto, si proclamava shōgun. Ma la sua carica doveva essere effimera, ché Hideyoshi, informato dell'accaduto, concludeva in fretta la pace con Terumoto e volava contro il traditore, che, sconfitto, veniva ucciso a Yamazaki. Poco dopo, un consiglio della famiglia e dei vassalli degli Ōda, presieduto da Hideyoshi, designava erede del defunto Sambōshi, suo nipote, affidandone la tutela, fino a maggiore età, agli zii Nobuo e Nobutaka. Ma l'onnipotenza di Hideyoshi, che gli dava un posto preponderante negli affari del paese e lo faceva considerare un usurpatore della potenza così penosamente conquistata da Nobunaga, e la sua bassa origine, che l'aveva fatto riguardare come un intruso nella questione della successione, gli dovevano in breve creare dei rivali. Prima, Nobutaka si ribellava a Hideyoshi, il quale gl'inviava contro il fratello, che, sconfittolo, lo costringeva a uccidersi. Poi, anche fra Hideyoshi e Nobuo sorsero dissapori, onde costui, chiesto aiuto a Tokugawa Ieyasu, marciava contro Hideyoshi. L'incontro avvenne a Komakiyama, ma i due eserciti non vennero alle mani perché i loro capi reputarono miglior cosa di venire a trattative, e un matrimonio fra Asahi-no-kata, figlia di Hideyoshi, e Ieyasu suggellava la pace (1584). Hideyoshi si dava, quindi, alla costruzione del castello di Ōsaka, e Ieyasu di quello che sarà la residenza futura degli shōgun della sua casa, a Yedo. L'opera di pacificazione del paese proseguiva e altri signori feudali ribelli vennero domati, mentre la potenza di Hideyoshi andava sempre più affermandosi.
Da molto tempo l'ambizione egemonica di Hideyoshi s'era volta alla Corea e alla Cina, ma gli eventi l'avevano costretto a rimandare a tempi migliori la realizzazione del suo sogno. Consolidata, ora, la sua posizione all'interno, egli reputò giunto il momento di accingersi all'impresa. Il pretesto venne offerto dal fatto che da molti anni la Corea non inviava più le solite ambascerie annuali. Alle rimostranze del dittatore, il governo coreano inviava nel 1590 un'ambasceria che venne fatta attendere molti mesi prima di essere ricevuta. All'atto del suo ritorno in patria, dopo averla assoggettata a un trattamento insultante, Hideyoshi affidava ad essa una lettera in cui, dichiarando esplicitamente la sua intenzione d'invadere la Cina, chiedeva ai Coreani di aiutarlo. Il re di Corea rifiutò, proclamandosi vassallo dell'imperatore della Cina. Le operazioni allora ebbero inizio. Una prima spedizione conquistava la penisola, obbligando il re a fuggire in Cina in cerca d'aiuto (1592). L'intervento dei Cinesi, l'estendersi del fronte delle operazioni, i rigori dell'inverno sopraggiunto, le difficoltà delle comunicazioni e dei rifornimenti costringevano poco dopo i Giapponesi, dopo una faticosa vittoria riportata sui Sino-coreani a Pa-chung, a intavolare trattative di pace con la Cina, ma i negoziati, per le condizioni da questa imposte, fallirono, portando alla ripresa delle ostilità. Una seconda spedizione di 100.000 uomini non poté che mantenersi sulla difensiva. Frattanto (15 settembre 1598) Hideyoshi moriva, lasciando erede il figlio cinquenne Hideyori, e affidando il govemo, durante la sua minorità, a un consiglio composto dei cinque maggiori daimyō del paese, fra cui Tokugawa Ieyasu. La sua morte segna il fallimento del tentativo egemonico giapponese in Cina.
Scomparso Hideyoshi, l'orizzonte si annuvola di nuovo. Presto Ieyasu venne accusato di voler soppiantare il suo pupillo, che egli aveva giurato al padre morente di proteggere, e una coalizione di grandi daimyō si formò contro di lui. Le ostilità, iniziate nell'agosto del 1600, ebbero fine nell'ottobre a Seki-ga-hara, dove egli riportò una vittoria strepitosa che doveva dargli per sempre la supremazia. Sgomberato così il campo dai nemici, Ieyasu si ritirava a Fushimi, dove, assistito da Fujiwara Seikwa e da Hayashi Dōshun, si diede all'elaborazione di quel sistema di riforme che doveva assicurare per due secoli e mezzo il potere alla sua posterità. Nel 1603 l'imperatore Go Yōzei (1587-1611) gli conferiva il titolo di shōgun e, due anni dopo, egli abdicava a favore del figlio Hidetada, allo scopo precipuo di rendere e far riconoscere ereditaria la carica. Da Sumpu, nella provincia di Shizuoka, suo ritiro, egli proseguì a dirigere il governo, pur rivolgendo l'attività agli studî, dei quali favorì la diffusione e il progresso. Quanto a Hideyori, l'iscrizione su una campana da lui fatta fondere e interpretata da Ieyasu come intenzionalmente irriverente verso la propria persona, fornirono a questo un pretesto, auspicato in fondo, per sbarazzarsene. Nel giugno 1615, Hideyori e i suoi partigiani perivano fra le fiamme del castello di Ōsaka, assediato dalle truppe di Ieyasu. Un'altra versione, non ufficiale, lo fa invece fuggire, col consenso di Ieyasu, nel Kyūshū meridionale, dov'egli avrebbe adottato il nome di Tanimura.
I Tokugawa (1603-1868). - Nel 1616, Ieyasu moriva lasciando il figlio Hidetada erede della carica di shōgun e il paese inquadrato nel più rigido sistema amministrativo e feudale. Secondo questo sistema, lo shōgun era il capo di tutti i daimyō o signori feudali e, nominalmente, mandatario dell'imperatore, ma, praticamente, signore assoluto. I suoi feudi costituivano un terzo, circa, del territorio dell'Impero, il resto essendo diviso fra 260 daimyō, la cui influenza variava in relazione con l'estensione del feudo, nel quale, tuttavia, ognuno godeva di larga libertà legislativa ed esecutiva, solo soggetta ad alcune restrizioni. Tutti mantenevano milizie ereditarie (samurai; v.), devotissime, e dovevano obbedienza allo shōgun, dal quale ricevevano l'investitura, in caso di successione, e l'approvazione, in caso di matrimonio o di adozione, ma al quale dovevano offrire le proprie milizie e la propria opera, ove ne fossero richiesti in caso di necessità. A parte la nobiltà, formata oltre che da quella militare (daimyō) anche da quella di corte (kuge), i doveri di ambedue essendo fissati rigidamente da distinti codici, il resto della popolazione era diviso in quattro classi: samurai, contadini, artigiani e commercianti, oltre i fuoricasta o eta, i paria dell'antica società giapponese. I samurai costituivano la parte eletta del popolo e la loro educazione era curata nei minimi particolari. Allevati in un'atmosfera mentale impregnata dei principî di un codice d'onore tutto fatto di cieca devozione al proprio signore e di esaltazione delle virtù belliche, del coraggio, della giustizia, del dovere della vendetta, essi consideravano sacra la loro parola e avevano come simbolo carissimo le due sciabole, caratteristiche del loro abbigliamento, che portavano ai fianchi. Le altre classi vivevano praticamente nella schiavitù, non ostante questa non esistesse come istituzione riconosciuta. Esse erano escluse da ogni partecipazione alla cosa pubblica e la libertà, gli averi, la vita medesima di chi vi apparteneva erano alla mercé del signore. Le loro occupazioni, l'abbigliamento, la dimora erano rigidamente prescritti, e su di essi cadeva intero l'onere delle tasse, loro preciso dovere essendo di lavorare per procurare agiatezza e benessere alle classi elevate.
Questa, a larghi tratti, la struttura sociale del paese durante i Tokugawa, e Ieyasu ne assicurò la stabilità con un'abile disposizione di cose, atta a eliminare ogni ambizione egemonica dei bellicosi daimyō. Egli, infatti, ne smembrò i feudi, dividendoli l'uno dall'altro con vaste estensioni di territorio appartenenti allo shōgun o a suoi prossimi parenti. Più tardi (1634), inoltre, per avere maggior controllo su di essi, venne introdotto il sistema del Sankin-kōtai, secondo cui ogni daimyō era obbligato a soggiornare per un periodo di tempo (sei mesi o un anno) a Yedo, residenza dello shōgun, e per un ugual periodo, alternativamente, nel proprio feudo, lasciando in ostaggio, a Yedo, la moglie e i figlioli. Con ciò si otteneva anche l'effetto di gravare sui loro bilanci con le spese dei viaggi e del mantenimento del seguito e così di sottrarre loro i mezzi per qualsiasi iniziativa ostile. Sotto Hidetada (1624), a impedire ogni attentato straniero all'integrità politica e territoriale dell'Impero, attentato che si era sospettato nella condotta poco prudente di alcuni missionarî cristiani, il cui zelo incauto aveva creato disordini, il Giappone venne chiuso a tutte le relazioni con l'estero, unico tramite di contatti col mondo restando la concessione olandese di Deshima, un isolotto nel porto di Nagasaki. Così, chiuso in sé stesso e difeso dai pericoli interni ed esterni da rigorose misure, il Giappone inizia un periodo di due secoli e mezzo di pace profonda e indisturbata, durante i quali 15 imperatori e altrettanti shōgun si succedono al trono e alla carica, e il loro governo è praticamente vuoto di eventi notevoli.
Nella prosperità generale, gli studî, le lettere e le arti fioriscono ed è principalmente nell'attività del pensiero che occorre rintracciare i germi del male che doveva minare alle basi e far crollare l'edificio così solidamente eretto da Ieyasu; e, ironia della sorte, proprio dalla sua famiglia uscirono gl'inconsapevoli artefici che prepararono il disastro finale. Erede della sua passione per gli studî era stato il nipote, Tokugawa Mitsukuni (1628-1700), signore di Mito, il quale, circondatosi di eruditi, nel 1675 trasmetteva al nipote Tsunaeda il governo del feudo, per darsi tutto ai lavori scientifici e letterarî. Sotto i suoi auspici si formò presto una scuola di studiosi che presero a far ricerche sulla storia nazionale. Ciò doveva, necessariamente, portare a opporre la letteratura indigena a quella cinese, la religione indigena, lo shintoismo, al buddhismo, e, per una inevitabile estensione, l'imperatore allo shōgun, usurpatore del suo divino potere. Sostenuto dall'autorità e dall'opera di abili scrittori, come Hirata, Motoori, Mabuchi e altri, il movimento aveva conquistato a poco a poco largo, sebbene raramente manifesto, consenso, e già preparato gli animi a profondi rivolgimenti, quando, quasi inaspettata, giungeva dall'esterno la spinta che doveva condurre al crollo dello shōgunato e alla restaurazione dell'autorità imperiale.
L'apertura del paese. - L'8 luglio 1853 una squadra di 4 navi americane al comando del commodoro M. Calbraith Perry gettava l'ancora al largo di Uraga, piccolo porto all'entrata della baia di Tōkyō. Vincendo, con la sua fermezza, gli ostacoli oppostigli dall'astuzia indigena, Perry consegnava ai rappresentanti dello shōgun un messaggio del presidente M. Fillimore chiedente l'apertura del paese, concedendo al governo imperiale un anno di tempo per decidere. Molte ragioni avevano indotto gli Stati Uniti a quel passo: prima, fra tutte, il commercio crescente fra la Cina, aperta alle relazioni con l'estero dopo la guerra dell'oppio (1840-42), e la California, divenuta regione di floridi traffici dopo la scoperta dell'oro (1848), traffici che esigevano un posto di rifornimento a metà rotta.
Turbato dalla responsabilità così improvvisamente impostagli e mancandogli la guida di una conoscenza sicura delle condizioni delle altre nazioni, lo shōgun (Tokugawa Iesada, 1853-58) interpellò i varî daimyō, alcuni dei quali si dichiararono per la resistenza, altri per l'accettazione della proposta straniera. La seconda visita della squadra americana (12 febbraio 1854) li trovava ancora indecisi, ma l'apparato di forza che il Perry spiegò dinnanzi agli sguardi attoniti di un popolo arretrato di due secoli sulla via del progresso, fece il suo effetto, e dopo laboriosi negoziati, il 31 marzo fu firmato il primo trattato con l'estero, in base al quale venivano aperti i porti di Shimoda e di Hakodate, con permesso di residenza a Shimoda di un ministro plenipotenziario. Subito dopo, l'Inghilterra, la Russia e l'Olanda ottenevano, per trattato, uguali concessioni.
La tempesta, intanto, s'addensava sui Tokugawa. I trattati avevano eccitato lo sdegno in tutto l'Impero. Si accusava lo shōgun di essersi, firmando i trattati, arrogato un diritto spettante al sovrano, del quale egli era solo il braccio esecutivo: i trattati dovevano, dunque, considerarsi illegali. Si formarono subito due partiti: quello del Jō-i (espulsione dei barbari), composto dai nemici dello shōgun, fautori dell'imperatore, e quello del Kaikoku (apertura del paese), formato da elementi fedeli ai Tokugawa. Intanto, T. Harris, ministro americano in Giappone, esercitava pressioni per ottenere ulteriori concessioni. Nonostante la viva opposizione della corte, il primo ministro dello shōgun, Ii Kamon-no-kami, uomo di grande energia e intuito, firmava (29 luglio 1858) un nuovo trattato con gli Stati Uniti e poco dopo con la Francia e l'Inghilterra. L'eccitazione sollevata nel paese dal suo atto lo costringeva a severe misure repressive, specialmente nell'ambiente xenofobo di Yedo e di Kyōto, ch'egli scontò con la vita (24 marzo 1860). La sua perdita privava lo shōgunato di un uomo d'eccezione. Nel 1863, lo shōgun Iemochi (1858-66) viene chiamato a Kyōto per un esame della situazione e rivece dall'imperatore Kāmei (1847-67) l'ordine di espellere gli stranieri, ordine che non verrà mai eseguito, anche perché, nella crisi generale, l'iniziativa privata complica le cose e atti ostili contro le legazioni e i sudditi stranieri provocano l'intervento energico delle potenze offese. L'anno stesso l'ammiraglio A. L. Kuper bombardava Kagoshima per vendicare l'uccisione del suddito britannico Richardson e l'anno dopo i cannoni americani, olandesi e francesi punivano a Shimonoseki l'affronto fatto dal daimyō di Chōshū, Mōri Motonori, che aveva aperto il fuoco sulle navi delle potenze. L'energia spiegata dagli stranieri sortì il suo effetto: si rimandò la guerra contro di essi (un decreto imperiale ratificò, il 23 ottobre 1863, tutti i trattati con l'estero conclusi dallo shōgun) e Iemochi ebbe subito l'ordine di punire Motonori. La campagna punitiva terminava con la sconfitta delle truppe shōgunali. Fu il colpo di grazia. Iemochi moriva poco dopo e Keiki, suo successore, il 14 ottobre del 1867 rimetteva carica e potere nelle mani dell'imperatore Mutsuhito (1868-1912), successo quindicenne a Kōmei. Il 4 gennaio del 1868 veniva promulgata l'abolizione dello shōgunato, mentre gli ultimi suoi fautori erano sconfitti dalle truppe imperiali a Fushimi (17 gennaio 1868), a Ueno, nella città di Yedo (4 luglio), nella prov. di Aizu (6 novembre), e, infine, a Hakodate (27 giugno 1869).
Nell'ottobre del 1868 il sovrano vittorioso entrava in Yedo, che venne fatta capitale col nuovo nome di Tōkyō; in essa fu trasferita la corte, mentre si proclamava iniziata, col i° gennaio 1868, la nuova era del Meiji, l'alba della "Restaurazione imperiale" (Go Isshin).
Storia moderna. - Il Meiji (1868-1912). - I contatti con gli Europei avevano mostrato al paese la sua inferiorità materiale e il pericolo, restando isolato, di perdere la propria indipendenza. D'altra parte, molti di quelli prima contrarî all'apertura di esso, avevano cambiato idea, dopo viaggi o studî affrettati all'estero e propugnavano ora la necessità di assimilare la civiltà occidentale per potere, all'occorrenza, combattere lo straniero con armi uguali. La nazione si mise all'opera, guidata da uomini di sicuro intuito, che in mezzo secolo di lavoro seppero innalzare il Giappone dall'oscurità dell'isolamento alla dignità di grande potenza, facendo del Meiji l'era più luminosa della storia del progresso nazionale.
I primi passi segnano un grande fervore di riforme sociali e politiche per le quali il paese richiese anche la collaborazione di specialisti europei e americani. La ricostruzione nazionale ha inizio da un memoriale, in data 5 marzo 1869, con cui una cinquantina dei più potenti daimyō offrono all'imperatore i proprî feudi, rendite e uomini. Il loro esempio venne subito seguito da altri e il 7 agosto 1869 un decreto imperiale aboliva i feudi e costituiva coi daimyō e i kuge la nuova nobiltà (kwazoku). Ma l'opera di centralizzazione del potere e di unificazione del territorio nazionale era appena compiuta, che una serie di avvenimenti interni ed esterni richiamarono l'attenzione del governo. Dopo la restaurazione il Giappone aveva inviato lettere al re di Corea informandolo dei mutamenti avvenuti; la risposta che venne fu piena d'insulti che provocarono grande risentimento in tutto il paese, suscitandovi il desiderio di lavare l'onta subita. Mentre la questione di una spedizione punitiva veniva discussa, una missione con a capo Iwakura Tomomi, partiva (1871) per l'Europa e gli Stati Uniti con l'intento di ottenere la revisione dei trattati. Al suo ritorno in patria (1873), dopo aver solo ricevuto il consiglio di procedere a radicali riforme interne prima di ogni proposta di revisione, la missione trovò il Consiglio di stato diviso in due campi nei riguardi del contegno da tenersi verso la Corea. L'atteggiamento energico di Iwakura valse a sventare un intervento giapponese e, insieme, le inevitabili complicazioni internazionali, mentre i ministri interventisti (Saigō, Soejima, Itagaki e altri) rassegnavano le dimissioni. La nazione, tuttavia, lungi dal dimenticare l'insulto coreano, attendeva solo il momento propizio per saldare il conto, e l'occasione si presentò nel 1875, quando un forte coreano sparò su una cannoniera giapponese, sollevando intensa indignazione nel paese. Pochi anni, d'altra parte, erano bastati a mostrare al Giappone il pericolo derivante alla propria sicurezza da una Corea isolata dal mondo e, per il lungo malgoverno, disorganizzata e impotente a difendersi, tanto più che gli eccellenti porti delle sue coste meridionali non potevano non costituire un'esca irresistibile, specie per la Russia. Il Giappone risolse, dunque, di assumersi il compito, lo stesso che si erano assunto gli Stati Uniti nei suoi riguardi, di trarre la Corea dal suo isolamento e curarne l'occidentalizzazione. Una spedizione dimostrativa, sul modello di quella di Perry, venne allestita e il comando affidato al generale Kuroda. Le operazioni ebbero rapido e felice esito: la Corea dovette cedere e il trattato d'amicizia firmato il 26 febbraio 1876 segnava l'apertura al mondo di un'altra nazione asiatica.
Intanto gravi eventi maturavano all'interno, la cui origine va ricercata nella disillusione provata da alcuni elementi che avevano sostenuto l'imperatore contro lo shōgun, nella convinzione di un ritorno del Giappone ai tempi prefeudali. Il maggior esponente di questi era Saigō Takamori (1827-1877), ex-samurai della provincia di Satsuma, uno dei ministri dimissionarî nella scissione del 1873, il quale, visto che scopo del governo era la completa occidentalizzazione del paese e l'abbandono degli usi e costumi tradizionali, si ritirò a Kagoshima, dove aprì una scuola d'armi a cui la gioventù accorse numerosa. Il governo, conscio del pericolo, tentò, invano, di attirare a sé Saigō. Il conflitto inevitabile fra il vecchio e il nuovo ordine di cose scoppiò quando, col 10 gennaio 1877, venne interdetto l'uso delle due sciabole, il simbolo più caro dei samurai. I 30.000 insorti comandati da Saigō vennero sconfitti, dopo ben 7 mesi di lotta, dai 76.000 soldati imperiali e Saigō stesso vi perì. Altre rivolte minori vennero pure sedate. La vittoria servì anche a mostrare al paese che il tanto disprezzato contadino, se opportunamente addestrato, poteva riuscire soldato buono quanto il samurai.
Per oltre un decennio dopo questi avvenimenti, tutte le energie del governo vennero spese a promuovere lo sviluppo industriale e la prosperità della nazione. Questo periodo è caratterizzato da un'intensa partecipazione del popolo ai problemi politici dell'ora, problemi che, grazie alla diffusione della stampa, si erano imposti largamente all'attenzione del pubblico. L'avvenimento più importante è l'istituzione del regime costituzionale. Già una vasta agitazione in favore di tale regime era in atto prima della rivolta di Saigō, e il governo, conscio dell'impreparazione della popolazione, da poco liberata dai ceppi del feudalismo, all'esercizio di quei diritti che per essa venivano reclamati, tentò con ogni mezzo, non esclusa la violenza, di opporsi. La rivolta di Saigō aveva segnato una tregua, dopo la quale il movimento riprese con maggiore violenza ed estensione, guidato, questa volta, da un uomo di rara abilità, Ōkuma Shigenobu. Il governo alla fine dovette cedere e nel 1881 un editto imperiale prometteva la graduale adozione del regime costituzionale dentro dieci anni e fissava la prima seduta del parlamento al 1890. Scomparso, così, ogni motivo di agitazione, l'opera di ricostruzione poté continuare indisturbata. Vennero restaurate le finanze, fu creato un gabinetto dei ministri, in sostituzione del Consiglio di stato, e si sistemò l'antica nobiltà feudale in cinque ordini nobiliari che l'imperatore stabilì nel 1884. Intanto, Itō Hirobumi, l'uomo di stato più abile dell'epoca, veniva inviato in Europa con l'incarico di studiarvi le costituzioni dei varî stati. Al suo ritorno (1884), come riconoscimento dei suoi servigi, veniva creato conte, nominato presidente del Consiglio dei ministri, e messo a capo di una commissione incaricata dell'elaborazione del nuovo regime da darsi al paese. La commissione assolse il suo compito in cinque anni e nel 1889, in mezzo al giubilo nazionale, la costituzione veniva ufficialmente proclamata e l'anno dopo, il 25 novembre, si apriva per la prima volta la Dieta imperiale. I primi anni di attività parlamentare furono turbati dall'intransigenza dei partiti politici, sorti da poco e tutti uniti nell'opposizione al governo, il quale, lungi dal cedere, oppose al loro ostruzionismo sistematico un atteggiamento fermo ed energico, valendosi di tutti i mezzi offertigli dalla costituzione. In meno di quattro anni la Dieta fu disciolta tre volte e più volte sospesa. Per un decennio la situazione rimase immutata; un cambiamento si ebbe solo quando Itō, nel 1900, fondò il partito degli "Amici della costituzione" (Rikken Seiyūkwai) che, per il prestigio della sua persona, conquistò subito un vantaggio numerico nella Dieta.
Problema insoluto restava sempre la revisione dei trattati, le cui clausole concernenti l'extraterritorialità e le restrizioni doganali erano motivo di grande umiliazione per l'orgoglio nazionale. Il notevole progresso sociale conseguito dava ora al paese la coscienza che fosse giunto il momento della loro revisione. Fu solo nel 1894 che le aspirazioni e gli sforzi di lunghi anni furono coronati dal successo con la stipulazione, a Londra, del primo trattato concepito su basi di eguaglianza; l'esempio inglese fu poco dopo seguito anche dalle altre nazioni, ma per l'autonomia doganale il Giappone dovette attendere fino al 1911.
Col 1894 il Giappone entra in una nuova fase caratterizzata dall'espansione nazionale che, facendolo uscire dall'oscurità, lo porterà rapidamente al rango di grande potenza. Dopo il trattato con la Corea, in cui questa, almeno in teoria, veniva riconosciuta stato indipendente, il Giappone aveva tentato tutti i mezzi per convincere il governo coreano a entrare sulla via del progresso con riforme radicali, ma i suoi sforzi venivano frustrati dalla corruzione vigente fra le autorità indigene e, più di tutto, dall'onnipotenza e incompetenza di Yüan Shih-k'ai (più tardi primo presidente della repubblica cinese), allora rappresentante del governo imperiale cinese in Corea. D'altra parte i legami fra i due stati erano così stretti e antichi da non potersi annullare di colpo in forza di un trattato, tanto più che né la Cina era disposta a rinunciare alla sua secolare pupilla né questa a privarsi del suo abituale sostegno. Ma intanto il popolo era ridotto alla miseria e gemeva sotto la tirannia ufficiale: nel 1894, al colmo delle sofferenze, esso si ribellò. Il governo, impotente a sedare la rivolta, chiese aiuto alla Cina che sbarcò 3000 uomini sulle coste coreane. Cina e Giappone, con trattato precedente, si erano impegnati a non inviare truppe in Corea senza preavviso reciproco. La rottura aperta di questo impegno, provocò il rapido intervento del Giappone con l'invio di 8000 uomini, i quali occuparono subito la capitale Söul. Seguirono laboriosi negoziati diplomatici, ma durante questi, un incidente, l'affondamento di un trasporto cinese per opera dell'incrociatore giapponese Naniwa (25 luglio 1894), precipitava gli eventi portando alla dichiarazione di guerra (10 agosto). Il Giappone ebbe facilmente ragione del suo avversario: in Manciuria il suo esercito si aprì presto la via di Pechino, mentre altri contingenti, in cooperazione con la flotta, conquistavano Wei-hai-wei e, quando (17 febbraio 1895) la flotta cinese dovette arrendersi all'ammiraglio giapponese Itō, la Cina chiese la pace. Risultato fu il trattato di Shimonoseki (17 aprile 1895) per cui essa rinunciava ad ogni influenza in Corea, si obbligava a pagare al vincitore 200 milioni di tael, quale indennizzo, e gli cedeva la penisola di Liao-tung, Formosa e le Pescadores. Poco dopo, tuttavia, l'azione unita della Germania, della Russia e della Francia obbligava il Giappone a rinunciare a Liao-tung e a contentarsi, in sua vece, di un indennizzo supplementare di 30 milioni di tael.
Il trattato lasciava al Giappone campo libero in Corea, dove, già da tempo, il suo rappresentante, visconte Inoue, aveva dovuto far fronte a enormi difficoltà, prima fra tutte lo spirito sinofilo e misoneista delle classi dirigenti, specialmente della regina, donna di tempra energica e virile. Ciò non ostante, Inoue riuscì a riorganizzare in modo soddisfacente l'amministrazione locale e l'esercito. Alla sua partenza, dopo un anno, lo sostituiva il visconte Miura, uomo privo di tatto e di qualità organizzative, che in poco tempo annullò, praticamente, quanto il suo predecessore aveva fatto. Vedendo nella regina l'unico ostacolo alla politica giapponese, egli entrava, con elementi indigeni a lei contrarî, in una congiura che la tolse di mezzo il 7 ottobre del 1895. Miura venne richiamato, ma il Giappone perdette di colpo in Corea tutto il prestigio conquistato con la guerra e che solo un'altra guerra doveva ridargli.
Il caso Miura faceva il giuoco della Russia, il cui rappresentante a Söul, abilissimo diplomatico, aveva cercato in ogni modo d'inceppare il lavoro dei Giapponesi nella penisola, lo stato caotico della quale favoriva il raggiungimento delle mire del suo paese. Assassinata la regina, il re di Corea e il principe ereditario si rifugiarono nella legazione russa e l'astuto diplomatico si trovò, così, ad essere sovrano di fatto del paese, come lo erano già stati Yüan Shih-k'ai e Inoue. Il successore di Miura, barone Komura, ad onta della sua abilità, si trovò, questa volta, di fronte a un avversario temibilissimo, e le difficoltà enormi da lui incontrate dovevano inevitabilmente porre la sua nazione di fronte alla Russia, la cui attività nella penisola veniva seguita attentamente dal Giappone. Dopo la rinuncia giapponese alla penisola di Liao-tung, la Russia aveva ottenuto (1898) in affitto dalla Cina Port Arthur e Ta-lien-wan e, poco prima, il permesso di far passare per la Manciuria una diramazione della Transiberiana, oltre alla libertà di transito e di commercio in Cina, all'esenzione doganale in Mongolia e al libero transito delle carovane fra Kiakhta e T'ien-tsin, col quale porto si era aperto un cospicuo sbocco commerciale. Con due basi navali formidabilmente fortificate come Vladivostok e Port Arthur e tutta la Manciuria nelle sue mani, l'occupazione russa della Corea era virtualmente preannunziata.
Numerosi sforzi erano stati fatti dalla diplomazia giapponese per venire a una intesa con la nazione rivale, ma questa, pur mostrandosi disposta a firmare convenzioni, rivelava, poi, coi fatti, di non volerle rispettare. Il suo contegno provocante aveva già da tempo convinto il Giappone dell'inevitabilità di una nuova guerra ed esso veniva preparandovisi con cura meticolosa, ma la Francia, alleata della Russia, e la Germania, disposta ad aiutarla, costituivano due impedimenti alla soluzione della situazione. Ogni difficoltà, tuttavia, scomparve nel 1902, quando il trattato di alleanza fra Inghilterra e Giappone venne a dare a questo la sicurezza di un aiuto. Due anni di lavorio diplomatico seguirono, senza cambiamenti nei metodi della Russia, la quale andò sempre più sviluppando la sua influenza in Manciuria e in Corea. Finalmente, l'occupazione del porto di Masanpho, proprio di fronte all'isola di Tsushima venne a precipitare gli eventi. Il 6 febbraio del 1904 si dichiarò la guerra, nella quale la Russia entrò col più cieco disprezzo per le qualità belliche del suo avversario. Benché meglio equipaggiato del nemico e saldamente trincerato, l'esercito russo perdette una dopo l'altra le sue posizioni e fu definitivamente sconfitto a Mukden (1-10 marzo 1905), mentre poco prima, dopo sei mesi d'assedio era capitolato a Port Arthur, e quando, infine, la flotta del Baltico, giunta dopo un lungo viaggio, veniva annientata nello Stretto di Tsushima dalla flotta dell'ammiraglio Tōgō (27-28 maggio), la Russia decideva di rinunciare alla guerra, e il 5 settembre, mediatore il presidente degli Stati Uniti T. Roosevelt, si firmava a Portsmouth, dai due contendenti, un trattato con cui la Russia rinunciava a ogni ingerenza in Corea, cedeva al Giappone la parte meridionale dell'isola di Sachalin e la ferrovia della Manciuria meridionale, con le miniere e gli altri diritti a essa inerenti, ma rifiutava di pagare qualsiasi indennizzo.
La guerra russo-giapponese sbalordì l'Europa. La vittoria dava al Giappone, entrato fin dal 1902 nel novero delle grandi potenze, ancora maggiori vantaggi politici: essa infatti, segnava il fallimento della politica russa di predominio nell'Estremo Oriente e metteva la Corea nelle sue mani. Fin dagl'inizî delle ostilità un trattato fra Corea e Giappone impegnava la prima ad accettare i consigli dell'altro in materia di riforme interne; il Giappone s'impegnava a garantire la pace interna, l'indipendenza e l'integrità territoriale della penisola. Nel 1905, un trattato suppletivo dava al Giappone il controllo delle relazioni estere coreane e, due anni dopo, una convenzione investiva praticamente il residente giapponese in Corea, Itō Hirobumi, da poco creato principe, della suprema autorità legislativa ed esecutiva. Ma, nonostante le riforme apportate da questo, non era facile estirpare i mali del secolare malgoverno e la pace era lungi dall'essere assicurata, poiché insurrezioni e brigantaggio infestavano le provincie. Nel 1909 Itō veniva assassinato a Harbin da mano coreana. Gli eventi mostravano che se il Giappone voleva che gli sforzi e i sacrifici fatti in favore della Corea non andassero perduti, era necessario venire all'annessione della penisola all'Impero. Questa idea, che già da tempo s'era fatta strada nella mente dei dirigenti della politica giapponese, fu portata ad effetto nell'agosto del 1910. Da allora, la storia dei due paesi è una sola.
Dalla guerra con la Russia fino agl'inizî di quella europea, le sole controversie esterne del Giappone sono con gli Stati Uniti, e hanno le radici nell'immigrazione giapponese in California, la quale aveva assunto proporzioni allarmanti, a tal punto da provocare leggi restrittive, talvolta inique, come quella che proibiva ai figli di Giapponesi già residenti di frequentare le scuole di stato. Tali misure, se servirono a far cessare praticamente l'immigrazione, provocarono violenta indignazione in Giappone e furono causa di difficoltà internazionali. È specialmente in questa epoca (1908-0) che il Giappone, come risultato di tale condizione di cose, comincia a pensare alla Manciuria come a uno sbocco per la sua popolazione, sempre in continuo aumento. La penetrazione giapponese in Manciuria, d'altra parte, non mancò di destare l'attenzione degli Stati Uniti, i cui floridi commerci trovavano forti interessi in Cina. Un tentativo (1910) del segretario di stato Knox di neutralizzare le ferrovie mancesi, ebbe come risultato la conclusione di una convenzione fra Giappone e Russia, da poco ravvicinatisi per la difesa dei loro mutui interessi e il mantenimento dello statu quo. Il 30 luglio del 1912, intanto, l'imperatore Mutsuhito moriva e a lui succedeva al trono il principe Yoshihito Haruno-miya, col quale s'inaugura l'era Taishō (grande rettitudine).
L'era Taishō (1912-26). - In mezzo a tante difficoltà che minacciavano di porre Giappone e Stati Uniti l'un contro l'altro, la guerra europea venne a segnare una pausa da cui il primo doveva trarre immensi vantaggi: commerciali, anzitutto, perché i suoi prodotti prenderanno il posto di quelli dei contendenti europei sui mercati dell'Estremo Oriente; territoriali, poi, perché la sua partecipazione al conflitto gli procurerà, con lievissimi sacrifici, nuove annessioni. Il 24 agosto 1914, dopo aver impedito alla Cina di prender posto accanto agli alleati, e quindi d'impadronirsi di Kiao-chow, ceduto in affitto alla Germania per 99 anni fin dal 1898, e dopo un ultimatum che ne imponeva a questa la cessione, il Giappone iniziava direttamente le operazioni, che si svolsero su territorio cinese, mentre la Cina era ancora neutrale. Nel novembre tutto era terminato. Le proteste della Cina per ottenere il ritiro delle truppe giapponesi ebbero come risposta la presentazione (8 gennaio 1915) delle famose "ventun domande" (più esattamente 14 domande e 7 desiderata) che sollevarono vive proteste nel paese. Con esse il Giappone chiedeva, fra l'altro, l'assenso incondizionato da parte della Cina a qualunque accordo il primo fosse per concludere con la Germania nei riguardi del territorio occupato, oltre ad avanzare pretese tendenti a consolidare la sua posizione in Mongolia e in Manciuria. Nel maggio dello stesso anno, un ultimatum giapponese obbligava la Cina a un trattato di vera resa a discrezione. Alla conferenza per la pace, questa, entrata fin dal 1917 nel conflitto, chiedeva la revisione di tale trattato iniquamente estortole, ma la conferenza accordava al Giappone diritti, privilegi e titoli concernenti lo Shan-tung, dietro sua promessa di restituirli alla Cina in epoca indeterminata, solo mantenendo per sé i privilegi economici già accordati alla Germania. Con ciò la ferrovia dello Shan-tung, una delle più attive della rete cinese, costruita dai Tedeschi in 5 anni, cadeva in mano del Giappone, al quale, inoltre, con mandato di tipo C della Società delle Nazioni, veniva, nel 1920, affidata l'amministrazione delle isole Caroline, Marshall e Marianne, ad eccezione dell'isola Guam appartenente agli Stati Uniti, isole che facevano parte del distrutto impero coloniale tedesco.
Nella primavera del 1921 il principe ereditario Hirohito faceva un viaggio in Europa accolto ovunque con molta cordialità e cortesia. Per la prima volta nella storia del paese, un principe imperiale si recava all'estero, e al suo ritorno, nel novembre, egli veniva nominato reggente in vece del padre, affetto da male cronico e inabile, quindi, al governo. Nello stesso anno, il governo americano invitava il Giappone a partecipare, con le altre nazioni, alla conferenza di Washington per la limitazione degli armamenti, facendo intendere che sarebbero state sistemate anche altre questioni, come quelle del Pacifico e dell'Estremo Oriente, che, nella sua opinione, erano strettamente connesse con gli armamenti. La conferenza, apertasi l'11 novembre, terminò nel febbraio del 1922, e le sue conclusioni furono d'importanza capitale per le relazioni fra il Giappone e le altre nazioni, particolarmente la Cina. Le potenze convenute, infatti, s'impegnavano a rispettare la sovranità e l'integrità amministrativa e territoriale di questa, senza esercitare alcuna influenza tendente a ottenere una posizione di privilegio per lo sviluppo dei proprî commerci e industrie nel paese. Grazie ai buoni uffici dei delegati americani e inglesi, si riuscì anche a risolvere la questione dello Shan-tung, eliminando, così, una causa di malumore fra Cina e Giappone. Con accordo firmato fra i governi di questi due stati il 4 febbraio 1922, il Giappone s'impegnava a restituire alla Cina il territorio preso alla Germania, con le ferrovie e i cantieri e depositi annessi, ritirando le truppe scaglionate lungo le linee. In compenso la Cina s'impegnava a pagare al Giappone 40 milioni di yen, costo di stima dell'ex-territorio d'affitto tedesco.
Mentre i suoi delegati a Washington gettavano le basi del futuro modus vivendi in Asia, le relazioni del Giappone con la Russia entravano in una nuova fase. Fin dal 1918 il Giappone, in collaborazione con gli alleati, aveva preso parte alla spedizione in Siberia, destinata a portare aiuto alle truppe cecoslovacche. Ritiratisi gli alleati (ultimi gli Stati Uniti, nel 1920), le truppe giapponesi rimasero sole a guardia della Transiberiana, finché, sgomberate le regioni dell'Amur e della Transbaicalia, si ritirarono, restando per più di due anni nella Manciuria e nella Siberia orientale, dove, specialmente in seguito al massacro di 700 Giapponesi a Nicolaevsk (1920), massacro che aveva costretto il Giappone all'occupazione dell'isola di Sachalin, la tutela degl'interessi dei connazionali richiedeva la loro presenza. Dopo l'instaurazione del regime sovietico in Russia, numerose conferenze ebbero luogo allo scopo di appianare le divergenze sorte fra i due paesi e di allacciare relazioni diplomatiche. Fu solo nel 1925 che i negoziati ebbero esito felice e le truppe giapponesi sgombrarono Sachalin. Il trattato stipulato in quest'anno conteneva il riconoscimento sovietico di quello di Portsmouth (1905), concedeva al Giappone lo sfruttamento di alcune miniere e foreste e gettava le basi dei futuri rapporti politici fra i due paesi. Il 26 dicembre del 1926 l'imperatore Yoshihito moriva e succedeva al trono suo figlio, Hirohito, col quale s'inizia la nuova era Shōwa (Pace luminosa).
L'era Shōwa (1926 segg.). - I primi anni di quest'era sono trascorsi per il Giappone in una pace vigile e operosa. Allo stato attuale delle cose, i suoi interessi hanno per base la Cina e la Manciuria. La Cina è, sostanzialmente, un vasto mercato dove i prodotti delle sue industrie trovano consumo quasi illimitato. Nell'assenza di pericoli esterni per l'integrità territoriale e l'indipendenza di quella repubblica, come conseguenza degl'impegni di Washington, il Giappone ha dato una nuova orientazione alla propria politica verso la Cina, lasciando che la situazione caotica di questa si risolva da sé, intervenendo energicamente nei luoghi e nei momenti in cui la tutela e la sicurezza dei proprî sudditi l'hanno richiesto. Di diversa natura e ben più vitali sono, invece, gl'interessi che il Giappone ha nella Manciuria: economici, anzitutto, perché lo sfruttamento delle materie prime di cui quel territorio abbonda (specialmente il carbone e il ferro, che alimentano le sempre crescenti industrie dell'impero) hanno coinvolto investimenti di capitali giapponesi ingentissimi; strategici, poi, perché, per la sua posizione, la Manciuria costituisce un eccellente osservatorio per la sorveglianza di tutta la politica cinese, oltre a poter funzionare da valido baluardo contro qualunque popolo asiatico. È in vista di questa importanza che il Giappone ha favorito in Manciuria la nascita di una corrente nazionalista e lo sviluppo di una tendenza autonomistica mirante alla separazione dalla Cina. Dicendo Manciuria, tuttavia, s'intende la parte meridionale di essa, costituita da una pianura centrale, intensamente popolata, dove l'organizzazione giapponese ha creato una florida agricoltura, i cui prodotti principali (frumento, riso, soia, lino, barbabietola e tabacco), con quelli della frutticoltura, tanto prospera da meritare alla regione il nome di California cinese, vengono abbondantemente esportati. La Manciuria settentrionale, posta nel bacino dell'Amur, a clima freddo e perciò sfuggita dal colono giapponese, è, geograficamente, una continuazione della Siberia, che vede sempre più accrescersi l'influenza della Russia, mirante ad annetterla.
In un paese produttore e di così vasta estensione, come la Manciuria, le ferrovie hanno, naturalmente, un'importanza enorme che diviene ancora maggiore se ai fini commerciali si aggiungano quelli strategici. Il sistema ferroviario mancese è composto essenzialmente dalla linea Manchuli-Vladivostok e dalla diramazione Harbin-Port Arthur, il cui tratto inferiore, Chang Ch'un-Port Arthur e diramazioni, costituisce la ferrovia Mancese Meridionale, ceduta per il trattato di Portsmouth dalla Russia al Giappone in mano a capitali prevalentemente giapponesi, che sfruttano miniere e alti forni e mantengono scuole e ospedali. Quest'ultima, come si comprende, è la chiave di vòlta dell'economia della regione e il suo possesso ha potentemente contribuito ad assicurare ivi al Giappone una posizione di assoluta supremazia. È nella politica di penetrazione giapponese in Manciuria che occorre ricercare, principalmente, le origini del movimento antinipponico cinese, potentemente alimentato dalle correnti nazionalistiche sorte in Cina da poco, movimento che è la causa dell'azione giapponese in Manciuria e a Shanghai (1931-32). Il governo indipendente di Mukden aveva iniziato, d'accordo con quello cinese di Nanchino, una politica diretta a limitare il più possibile l'ingerenza straniera, particolarmente giapponese, in Manciuria. La parte essenziale di questa politica doveva comprendere il boicottaggio delle linee gestite da Giapponesi, con un programma di nuove costruzioni ferroviarie capaci di entrare in concorrenza con quelle e di svalorizzarle. È così che, nel 1931, il Giappone, cogliendo il pretesto di alcuni atti ostili compiuti da mano cinese in Manciuria, occupava con le armi una terra da lui radicalmente trasformata in venti anni di sforzi tenaci e alla quale lo legano tanti interessi. La sua azione sollevava grande risentimento in tutta la Cina, dove, come rappresaglia, veniva posto in atto il boicottaggio delle merci giapponesi. A Shanghai, alcuni incidenti fra residenti giapponesi ed elementi delle organizzazioni antinipponiche locali portavano, sul principio del 1932, a un'azione bellica in grande stile del Giappone contro la città, i cui quartieri indigeni e sobborghi, fra accaniti combattimenti, venivano bombardati e rasi al suolo, mentre il delegato cinese a Ginevra denunciava alla Società delle Nazioni l'aggressione patita.
Fra le lungaggini di procedura e i tentennamenti dell'assemblea ginevrina, gli eventi andarono precipitando. Il 19 febbraio 1932, fallito un tentativo di accordo, i Giapponesi riprendevano più violentemente l'offensiva. La resistenza dei Cinesi fu eroica e mirabile, ma nella notte dal 1° al 2 marzo, dopo un'azione accanita, essi abbandonavano le proprie linee ritirandosi per oltre 20 km., come volevano i Giapponesi. Il 5 maggio, i due contendenti, dopo molto discutere, firmavano un accordo che terminava il conflitto. In Manciuria, intanto, il 18 febbraio veniva proclamata l'indipendenza e il 9 marzo, a Chang-Ch'un, capitale del nuovo stato, Pu-Yi, il detronizzato imperatore della Cina, veniva insediato nella carica di "amministratore" dello Stato Mancese (Man-chu Kuo): ultimo risultato, anche questo, della vigile politica del Giappone in Manciuria, conseguito nello sforzo di sottrarla alle non disinteressate bramosie d'ingerenza da parte di altre nazioni. E mentre la commissione inviata dalla Società delle Nazioni presentava a Ginevra la sua relazione (rapporto Lytton) sugli ultimi eventi, il Giappone riconosceva l'indipendenza del Man-chou Kuo, garantendosi nel nuovo stato particolari privilegi, il 15 settembre 1932 (v. manciuria).
Bibl.: Opere generali: F. Brinkley e D. Kikuchi, A history of the Japanese People from the earliest Times to the end of Meiji Era, New York 1912; E. W. clement, A Short History of Japan, Chicago 1915; W. E. Griffis, The Japanese People in Evolution. Steps in the Progress of a Great People, New York 1907; R. Grousset, Histoire de l'Asie, III: Le Monde Mongol et le Japon, Parigi 1922; id., Histoire de l'Extrême Orient, Parigi 1925; K. Hara, Histoire du Japon, des origines à nos jours, Parigi 1926; J. H. Longford, The Evolution of new Japan, Cambridge 1913; A. R. De la Mazelière, Le Japon, Histoire et Civilisation, voll. 8, Parigi 1907-1923; D. Murray, The Story of Japan, Londra 1894; J. Murdoch, A History of Japan, voll. 3, Tōkyō e Londra 1903-1926; O. Nachod, Geschichte von Japan, Gotha 1906 e Lipsia 1930 (finora usciti voll. 2, che abbracciano il periodo che va dalle origini all'850 d. C.); P. S. Rivetta, Storia del Giappone, Roma 1920; Il conflitto cino-giapponese, in Boll. d. Uff. stor. d. Com. di Stato Maggiore, VII (1932). Per lavori di carattere particolare, vedi la bibliografia del Nachod già citata.
Religioni.
La costituzione garantisce libertà di fede a tutti i cittadini, finché questa non rechi pregiudizio al mantenimento della quiete e dell'ordine pubblico o impedisca ai fedeli l'osservanza delle leggi. Oltre all'antica religione nazionale, lo shintoismo, esistono, in Giappone, il buddhismo, il confucianesimo e il cristianesimo.
Lo shintoismo (v.) (da shin, dio e tō, via, dottrina) è, sostanzialmente, un culto misto della natura e degli antenati. Possiede divinità del vento, dell'oceano, delle selve, dei monti e dei fiumi, di monti e di fiumi particolari, ecc. Fra tutte la principale è Amaterasu-ō-mikami, la dea del sole, antenata dell'attuale casa imperiale, nata dall'occhio sinistro di Izanagi, il creatore delle isole dell'arcipelago. Lo shintoismo insegna che queste isole e il popolo che le abita, il giapponese, sono di origine divina e che l'imperatore è di divina prosapia perché discendente diretto della dea del sole.
Il confucianesimo fu la prima dottrina religiosa, se così può chiamarsi, penetrata, nel sec. V d. C., in Giappone dalla Corea, ma fu solo sotto l'imperatore Tenchi (662-671) che ne venne istituito il primo insegnamento ufficiale. Più tardi i buddhisti inclusero i capisaldi della sua morale, la pietà filiale e la teoria della famiglia, nella loro propaganda e Sugawara Michizane (845-903), esaltando la lealtà, una delle cinque virtù confuciane, intesa come lealismo verso l'imperatore, eliminò l'opposizione shintoista, togliendo così ogni ostacolo alla sua diffusione nel paese. Tuttavia nessuna delle varie elaborazioni che la dottrina di Confucio subì in Cina attraverso i tempi, per opera dei filosofi, sembra aver acquistato in Giappone prevalenza sulle altre. Solo all'epoca dei Tokugawa (1603-1868) il confucianesimo, nell'assetto razionalistico-formalista datogli da Chu Hsi (130-1200; v.),. ebbe il suo periodo aureo, perché godette del favore degli shōgun, i quali, vedendo in esso un potente strumento di governo, l'imposero come morale ufficiale. Oggi, se non il credo, l'atteggiamento spirituale preferito da molti delle classi intellettuali è particolarmente il confucianesimo nella sistemazione soggettivo-intuitiva di Wang Shou-ien (giapp. Ō Yō-mei dalla pronunzia del soprannome Wang Yang-ming; 1472-1528).
Il buddhismo, nella sua forma cinese, venne in Giappone attraverso la Corea nel sec. VI, ma cominciò ad affermarsi solo nel secolo VII, grazie allo zelo spiegato in suo favore dal principe Shōtokutaishi (572-621), il Costantino del buddhismo giapponese. Per quasi 70 anni l'insegnamento fu limitato ai principî generali; poi alcuni bonzi appartenenti a scuole filosofiche diverse fondarono le prime sette. Fra la metà del sec. VII e la fine dell'epoca di Nara, ne apparvero sei, quasi tutte di derivazione hīnayānica.
In ordine di tempo esse furono: 1. La Sanron-shū (shū, setta), portata dal bonzo Ekwan, nel 625; oggi estinta. Essa negava tutte le verità del mondo fenomenico e noumenico, e coincide con la scuola Mādhyamika di Nāgarluna. 2. La Jōjitsu-shū (Satya-siddhisastra), anch'essa estinta e predicata contemporaneamente alla precedente, s'ispirava a un forte idealismo soggettivo. 3. La Hossō-shū (Dharma-lakshana, cioè la scuola Yoga), portata nel 654 da Dōshō (morto nel 700), fu predicata soprattutto da Chitsū e Chiyū (657), poi da Chihō e Chinran (703). 4. La Kusha-shū (Abhidharma-kosa-sastra) predicata, verso il 660, da Chitsū e Chitatsu. Oggi estinta, questa setta non era che una derivazione della precedente; pur negando la realtà dell'io, essa cercava, attraverso un'elaborata analisi psicologica, di giungere a un'interpretazione dell'insieme del mondo fenomenico. 5. La Kegon-shū (Avatamsaka-sittra), la prima setta mahāyanica, introdotta da Dōsen, nel 735. 6. La Ris-shū (Vinaya-pitaka), portata nel 754 da Kanshin, nonostante i precetti morali del Vinaya-pitaka fossero stati, come sembra, i primi a entrare nel paese. Fu anzi la loro praticità, più che l'astrusa speculazione metafisica delle varie scuole, che conquistò rapidamente gli animi al buddhismo.
Le sette principali vennero introdotte durante il periodo Heian (794-1186) e Kamakura (1186-1332). Nell'806, Saichō, detto Dengyō Daishi (767-822) trasporta in Giappone, dalla Cina, il buddhismo sincretico di Chi'-kai (morto nel 597), che tenta di armonizzare le divergenze delle teorie hīnayāniche e mahāyaniche, e fonda la Tendai-shū, la cui morale pratica s'impernia sui tre punti: fuggire il male, praticare il bene, amare tutti gli esseri viventi. Col tempo essa si suddivise nelle tre sottosette: Sammon (805), Jimon (858) e Shinjō (1486). Un'altra setta, oggi importantissima, la Shingon-shū, fu introdotta da Kūkai, detto Kōbō Daishi, nell'806. Essa afferma la possibilità di raggiungere, in questa vita, 'la perfezione attraverso la saggezza (kongō) e la ragione (taizō), che sole possono dirigere l'uomo e fargli trovare la via della virtù. All'epoca di Kükai, il buddhismo trovava molti ostacoli alla sua diffusione nello shintoismo, il quale, imponendo gli dei nazionali (Kami), impediva la libera adesione alla dottrina straniera. Con un abile espediente, Kūkai spianò la via già indicata nella pratica da Gyōki. Egli ammise che i Kami non fossero altro che personificazioni (gongen) di deità buddhiste indiane: con ciò le due religioni risultavano due aspetti diversi di una medesima cosa. Sorse così poco dopo il Ryōbu-shintō, o "duplice Shintō", il quale introdusse, naturalmente, nel buddhismo elementi estranei ad esso, ma, eliminando il pregiudizio nazionale lo rese popolare fino alla rinascita del puro Shintō operata dai wagakushti (v. sotto: Letteratura) alla fine del sec. XVIII.
L'amidismo non era finora rappresentato ufficialmente nel paese, benché le sue dottrine fossero state più o meno conosciute, e anche trattate, da alcuni di questi riformatori nella loro propaganda. Sembra, anzi, che la statua inviata dal re di Kudara in Giappone nel 552, anno che segna l'introduzione del buddhismo nel paese, fosse appunto un'immagine di Amida. La prima setta amidista apparve circa il 1000, quando Ryōnin (1072-1132), seminarista in un convento della setta Tendai, fondò la Yuzū Nembutsu-shū e cominciò a girare le varie provincie, recitando persino 60.000 volte al giorno il nenbutsu (la preghiera degli amidisti: Namu Amida Butsu, salve o buddha Amida, corruzione del sanscrito: Namo'mithābhāya buddhāya) e affermando la possibilità di salvarsi, cioè di rinascere nel paradiso di Amida, coi meriti ottenuti recitando sinceramente e quante più volte possibile quella preghiera. Questo procedimento, meccanico e superficiale, non poteva soddisfare il sentimento religioso delle masse. Un passo avanti fu fatto da Hōnen Shōnin (1133-1212), il quale, nel 1174, fondò la Jōdo-shū o setta della Terra Pura, com'è chiamato il paradiso di Amida. Egli introduceva la fede nella misericordia di Amida come elemento necessario alla salvezza, mentre con l'indurre il fedele all'osservanza di certe norme di condotta, atte a creargli dei meriti, dava alle azioni importanza come collaboratrici alla salvezza stessa. La sua dottrina trovò facile e rapida accoglienza. Nel sec. XIII da essa sorsero 5 sottosette: Chinzei, Seizan, Chōraku-Ji, Kuhon-ji e Ichinengi. Nel 1224, Shinran Shōnin (1174-1268) fondava la Jōdo Shin-shū o Monto-shū (setta della vera Terra Pura) che perfezionava, se così può dirsi, l'amidismo. Essa fa, infatti, Amida arbitro assoluto dei destini ultraterreni degli uomini, i quali, sprovvisti completamente della possibilità di salvar sé stessi con le loro opere, non possono fare altro che avere fiducia in lui e riposare in tutta pace del cuore, poiché né le opere, né la preghiera hanno virtù di trarli a salvamento, ma solo la misericordia di Amida. Con le sue dieci suddivisioni (Hongwan-ji, 1224; Otani, 1602; Takada, 1226; Kibe e Senshōji, sec. XIII; Bukkōji, Kōshō-ji, Chōsei-ji, Jōshō-ji e Gōshōji, sec. XIV) essa è oggi la più diffusa, essendo povera di comandamenti e di riti, non imponendo né il celibato al clero, né sacrifici, rinunce, o proibizioni di sorta ai fedeli, ed essendo, inoltre, priva di struttura metafisica. L'ultima setta amidista, la Ji-shō, fondata nel 1275 da Ippen Shōnin (1239-1289), è di poca importanza, nonostante le sue 13 suddivisioni (Honzan, Yūkō, Ikkō, Okudani, Taima, Shijo, Rokujō, Kaii, Reizan, Kokua, Ichiya, Tendō, Mikagedō).
Una setta a carattere contemplativo è la Zen-shō, con le 3 suddivisioni: Rinzai (1168), Sōdō (1223) e Obaku (1650). Fu predicata dal 1192 dal bonzo Eisai (1141-1215) al ritorno da un viaggio in Cina, dove aveva studiato presso le sette che esercitavano la contemplazione (dhyāna). Nella sua forma originale essa predicava che la verità è nel cuore, il quale deve rivelarla a sé stesso con opportune pratiche di astrazione e contemplazione meditativa, senza tramite di libri o di parole, poiché essa è tanto profonda da non potersi esprimere con vocaboli. Le suddivisioni si differenziano per ammettere lo studio. Questa setta è diffusa fra gl'intellettuali e i suoi preti si distinguono per erudizione e indifferenza alle cose del mondo.
L'ultima, importante setta, fondata sul Saddharma-pundarīkasūtra, che racchiude gli ultimi insegnamenti del Buddha, fu predicata da Nichiren (1222-1282) ed è detta perciò Nichiren-shū o Hokke-shō. Divisa in nove sottosette (Itchi, sec. XIII; Shōretsu, sec. XIV; Hokke, 1320; Kempon-hokke, 1381; Hommon-hokke, 1420; Hommyō-hokke, 1585; Fuju-fuze, 1595; Fuju-fuze-kōmon, sec. XVI; Hommon, 1280), essa ammette l'esistenza di un solo Buddha, eterno, del quale gli altri buddha, transeunti, non sono che riflessi, come ad es. può dirsi della luna e della sua figura nell'acqua. Questa setta è la più turbolenta e fanatica, e, contrariamente allo spirito buddhista, intollerante.
Durante il suo rigoglioso sviluppo, il buddhismo ebbe momenti di grande prosperità e potenza, non solo spirituale, ma anche materiale, il che portò il suo clero a manifestazioni spesso in antitesi con lo spirito tollerante ed estraneo alle ambizioni terrene delle sue dottrine. È nota, ad es., l'oltracotanza dei bonzi del Monte Hiei, gremito di templi, i quali mantenevano milizie mercenarie (sōhei), le cui incursioni e saccheggi nella vicina Kyōto turbarono spesso la pace della capitale, e ciò quando esse non erano occupate contro i templi rivali di Nara. Né la moralità sembra essere stata sempre rispettata dai monaci. Durante i Tokugawa, la protezione che gli shōgun accordarono al confucianesimo e il sorgere del movimento dei wagakusha portarono il buddhismo alla decadenza. La Restaurazione lo trovò arretrato nello sviluppo e gli mise innanzi due formidabili rivali: il cristianesimo e la scienza; la reazione non poteva mancare, e s'iniziò, infatti, dopo qualche decennio di torpore. La propaganda buddhista si serve ora di mezzi imitati dal cristianesimo, come convitti, orfanotrofî, scuole domenicali, ecc. Esiste anche un'Associazione della gioventù buddhista, copia della Young Men's Christian Association; alcuni inni e sermoni buddhisti hanno persino il loro corrispondente cristiano; la differenza sta solo nel nome di Buddha sostituito a quello di Cristo. Neppure i mezzi più moderni, come il cinematografo, sono esclusi dalla propaganda e qualche setta più importante invia anche missionarî all'estero.
Il numero approssimativo dei fedeli delle varie religioni, alla fine del 1928, era di 17.225.000 shintoisti (con 112.190 templi e 14.804 preti) e 41.148.000 buddhisti (71.329 templi e 54.650 preti). Il numero dei confucianisti è assai minore; essi non hanno organizzazione.
Cristianesimo. - S. Francesco Saverio introdusse il cristianesimo nel Giappone (15 agosto 1549-20 novembre 1551). I gesuiti, suoi confratelli, che lo seguirono, vi fecero numerose conversioni, tanto che nel 1582 vi si contavano già 200.000 cristiani con un seminario per numerosi giovani giapponesi avviati al sacerdozio. Ai gesuiti s'aggiunsero, alla fine del sec. XVI, i francescani, i domenicani, gli agostiniani per la cui opera i neofiti notevolmente si accrebbero. Ma presto scoppiò una violenta reazione con lo scopo preciso di estirpare dalle radici il nuovo culto. Al primo editto di persecuzione (1587) molti altri ne seguirono, l'uno più violento dell'altro; i missionarî stranieri vennero esiliati o condannati ai più barbari generi di morte; ai cristiani indigeni fu imposto di scegliere il rinnegare o il morire. Finalmente, nel 1640, venne severissimamente interdetto non solo ai missionarî, ma ad ogni straniero, di mettere piede nelle isole dell'impero. Trascorsi quasi due secoli e mezzo, nel 1889 la libertà religiosa fu concessa in Giappone, ma gl'interventi delle potenze straniere dopo la guerra con la Cina (1894) e con la Russia (1904) contribuirono a creare uno spirito di diffidenza riguardo al cristianesimo, da cui rimasero paralizzati tutti gli sforzi dei missionarî per parecchi anni. Ciò spiega in gran parte il relativo insuccesso delle missioni cristiane in questo stato, che è il più potente dei non cristiani. La popolazione cristiana del Giappone non ha ancora raggiunto i 300.000; dei quali 53.611 cattolici, 74.206 ortodossi, 150.000 protestanti. Ciò nonostante le diffidenze cadono a mano a mano davanti al disinteresse e alla carità dei missionarî, e l'apostolato diviene più fruttuoso. A questo risultato ha contribuito molto il recente arrivo al Giappone di parecchie congregazioni di nazionalità differenti, le quali si sono dedicate al lavoro con perfetto accordo con le antiche congregazioni e col clero giapponese, inoltre la concessione a questo clero della più numerosa diocesi locale, quella di Nagasaki, che da sola contiene più della metà dei cattolici giapponesi.
Fino al 1904 la Società delle missioni estere di Parigi aveva fornito, da sola, tutti i sacerdoti dei quattro vicariati apostolici del Giappone (Tōkyō, Nagasaki, Ōsaka e Hakodate). Oggi tutto il Giappone è diviso in 12 prefetture, vicariati o diocesi, confidati a 9 gruppi differenti di missionarî.
Oltre le suddette congregazioni in Giappone vi sono i marianisti, che hanno fiorenti scuole secondarie a Tōkyō, Ōsaka e Nagasaki, e i gesuiti, che, arrivati nel 1908, hanno aperto a Tōkyō l'università cattolica la quale conta più di 900 allievi, cioè 143 iscritti ai corsi universitarî, 796 in quelli preparatorî. Le congregazioni religiose femminili sono rappresentate da 12 istituti differenti, e si occupano soprattutto di opere di carità e di educazione. Il personale delle missioni in Giappone consta di 222 sacerdoti stranieri e 62 giapponesi, 59 fratelli laici stranieri e 71 giapponesi, 314 suore straniere e 208 giapponesi. Vi sono inoltre 683 catechisti e 501 maestri o maestre di scuola.
Sia queste congregazioni sia il clero secolare reclutano ogni giorno più nell'elemento indigeno. Si possono contare 8 seminarî e 12 noviziati in Giappone; altri giovani giapponesi compiono studî ecclesiastici all'estero (al collegio di Propaganda Fide a Roma nel 1932 ve n'era una decina).
L'attività didattica è ancora poco sviluppata; vi sono soltanto 12 secondarie e superiori sono di data recente. La severa proibizione d'impartire l'insegnamento religioso nelle scuole ha sconcertato i missionarî: essi non hanno voluto sacrificare il loro tempo e i loro mezzi per impartire un insegnamento semplicemente profano.
I protestanti fecero la loro comparsa al Giappone dopo il trattato del 1859 con gli Stati Uniti. Vi vennero in gran numero, specialmente dall'America, concentrando il loro sforzo sulle scuole.
Nella sola Tōkyō essi hanno presentemente otto scuole d'insegnamento superiore; il numero dei loro allievi in tutto il Giappone è ora di 158.787. Oltre le scuole i protestanti hanno sviluppato le opere di assistenza sanitaria, che attirano loro molte simpatie. Così il grande ospedale di San Luca a Tōkyō è tra i migliori del genere. Se si considera, inoltre, che essi nel 1930 avevano 1490 chiese o cappelle, 1759 propagandisti e 154.521 fedeli, risulta evidente che hanno superato i cattolici in molti campi di apostolato. Per le diffidenze riguardo alle missioni cristiane in genere, i protestanti si diedero presto a nazionalizzare le loro chiese, ed è notevole il fatto che, specie dal 1907, essi hanno eletto dei giapponesi a capi delle loro chiese, pur lasciando i missionari come cooperatori o ausiliarî.
Quanto agli ortodossi, che già formavano in Giappone una chiesa fiorente, hanno ricevuto un colpo fatale dalla guerra russo-giapponese. Rimasta fuori di ogni relazione col suo paese d'origine, d'allora in poi questa chiesa non fa che vegetare. Tuttavia i suoi aderenti si aggirano ancora sui 75.000.
Bibl.: V. anzittutto shintoismo. Per il confucianesimo: R. C. Armstrong, Light from the East. Studies in Japanese Confucianism, Toronto 1914. - Per il buddhismo: v. buddhismo, VIII, pp. 42-43, e inoltre: E. Steinilber-Oberlin, Les sectes bouddhiques japonaises, Parigi 1930; A. Lloyd, Formative Elements of Japanese Buddhism, in Transactions of the Asiatic Society of Japan, XXXV (1908), pp. 191-244; K. Reischauer, Studies in Japanese Buddhism, New York 1917. Oltre a questi lavori di carattere generale, altri, riguardanti singole sette, riformatori o filosofi, il lettore troverà nelle bibliografie di F. v. Wenckstern, Tōkyō e Leida 1895-1907 e di O. Nachod, Londra e Lipsia 1928. - L. Grammatica, Atlante delle missioni cattoliche, Bergamo 1927; Testo-Atlante illustrato delle missioni, Novara 1932; Planchet, Les Missions de Chine et du Japon, Pechino 1929; Missiones catholicae, Roma 1930; The Japan Year Book, Tōkyō 1930.
Lingua.
Scrittura. - I Giapponesi adoperano tuttora i caratteri cinesi, introdotti nel paese, attraverso la Corea, nel sec. V. Il numero dei caratteri di uso comune è di 3-4000, ma moltissimi altri se ne trovano in opere di carattere particolare. Il valore che un carattere può avere è: 1. ideografico, se è usato per esprimere l'idea da esso rappresentata; 2. fonetico, se si prescinde dall'idea e si usa solo per rappresentare il suono (come nella trascrizione di una parola straniera). Fin qui l'uso giapponese coincide con quello cinese. Differenze profonde troviamo, invece, nella lettura. In cinese, ciascun carattere ha una sola lettura, raramente due o più. In giapponese, esso può avere tre categorie di letture:
1. il kun, che è la parola o le parole giapponesi che traduce o traducono l'idea o le idee rappresentate dal carattere;
2. l'on, che è la pronuncia cinese di esso, modificata più o meno in bocca nipponica. I Giapponesi, infatti, accettarono globalmente dalla Cina i caratteri con le relative letture; ora, queste letture furono varie in Cina a seconda delle regioni e in una medesima regione a seconda delle epoche. D'altra parte, dal sec. VI in poi, studenti e religiosi giapponesi si recarono in Cina e ne riportarono testi ch'essi leggevano secondo la pronuncia in voga nell'epoca e nel luogo dei loro studî. Le varie letture dei caratteri così introdotte, possono ridursi a tre: a) il Go-on, la più antica, in uso nel reame di Go (cinese: Wu) che, nel sec. III d. C., comprendeva press'a poco la regione di Shanghai. b) il Kan-on, ora la più usata, introdotta da religiosi ed eruditi cmesi, fra il sec. VII e il IX, che rappresenta il dialetto parlato nella Cina settentrionale (Honan, Shen-si) e che conquistò, in Giappone, il sopravvento sulle altre; c) il Tō-in, usato raramente e per lo più nei testi buddhisti, introdotto dalla setta Ōbaku (v. sopra p. 42) nel 1655, che rappresenta il dialetto in voga in Cina dalla fine del sec. X a quela del XVII;
3. letture convenzionali, affatto arbitrarie.
Es.: (1) (cinese: shêng) ha il senso fondamentale di vita, donde i derivati: dar vita (generare, partorire), ricever vita (nascere), crescere, grezzo (cioè come è nato), ecc. Di qui i varì kun: inochi (vita), naru (dar frutto), umu (partorire), umareru (nascere), haeru o ou (crescere), nama (grezzo), ecc. Il Go-on è shō, il Kan-on è sei; il Tō-in manca. Tutte queste letture sono usuali. Così: (2) è sei-to, allievo, ma (3), se letto iki-ryō, è lo spirito di un vivo, se, invece, sei-rei, è il popolo. Si ha, poi: (4) namauwo, pesce fresco, (5) ki-ito, filo grezzo, (6) iki-iki o anche sei-sei, vivacemente, vivamente, e finalmente le letture convenzionali (7) sugiwai, esistenza e (8) ainiku o ayaniku, disgraziatamente.
L'applicazione dei caratteri cinesi alla scrittura del giapponese urtò, fin dal principio, contro grandi ostacoli. Dopo varî tentativi, dai caratteri cinesi stessi vennero tratti gli elementi per la composizione di due sillabarî, l'uno detto katakana (da kata "lato" e kana, contratto per kari-na, "nome preso in prestito"), l'altro hiragana (hira "piano", cioè "semplice, facile", perché è quello diffuso fra il popolo), il primo ottenuto prendendo frammenti di caratteri cinesi, il secondo prendendone le forme corsive, spesso abbreviate. Ambedue entrarono in uso nel sec. IX. La tradizione ci ha tramandato le 47 sillabe che li compongono nella seguente poesia, attribuita a Kūkai (v.), in cui ciascuna di esse compare una sola volta e che, dal nome delle prime tre, viene detta "poesia dell'iroha" (iroha uta):
I katakana si usano quando si richiede la maggiore esattezza (codici, bollettini ufficiali, libri scientifici, ecc.); i hiragama, invece, sotto i caratteri cinesi per indicare le particelle e i suffissi grammaticali, oppure di fianco ad essi per indicarne la pronuncia (furi-gana). Il giapponese, come il cinese, si scrive in righe verticali da destra verso sinistra.
Lingua. - L'articolo non esiste, il nome non ha genere grammaticale, e, in senso stretto, neppure numero. Il verbo non conosce persona o numero, ma solo tempi: p. es. okonau, vuol dire tanto io agisco, come tu agisci, voi agite, ecc. Questa imprecisione, che rende assai indeciso il pensiero degli scrittori, specialmente di quelli antichi, è spesso di grande imbarazzo all'Europeo.
Tutti i nomi, senza eccezioni, si declinano posponendovi poche particelle, le stesse per i due numeri. Così: nom. hana, "il fiore"; gen. hana no; dat. hana ni; acc. hana wo; abl. hana o yori. Ai pronomi delle lingue occidentali corrispondono dei sostantivi, i quali, fino a un certo punto, definiscono la persona del verbo. Se l'azione, infatti, è eseguita da chi parla, il verbo e i nomi sono semplici, se da chi ascolta o da altri, verbo e nomi assumono onorifici di vario grado in relazione con la posizione sociale. Qui è visibile l'influenza dell'etichetta cinese che impone, nel parlare, il disprezzo di sé stesso e delle proprie cose e azioni, e la nobilitazione e l'elevamento di quelle altrui. L'aggettivo accompagnato dalla copula, si coniuga come il verbo. Aggiungendo date particelle, si esprime la negazione, la passività, la potenzialità, la causalità. Verbo e aggettivo possiedono cinque forme fondamentali, che si modificano sempre per via di agglutinazione. Di esse, tre sono le più importanti: 1. la conclusiva (shūshi), riservata al verbo della proposizione principale; 2. l'attributiva (rentai) che, usata nelle proposizioni relative, serve a tradurre il pronome relativo, di cui la lingua manca; se, invece, è usata come nome, traduce il nostro infinito sostantivato; 3. l'avverbiale (renyō), che per gli aggettivi costituisce il corrispondente avverbio, per i verbi, invece, rappresenta una forma sospensiva, il cui uso è limitato ai verbi delle proposizioni secondarie e sta in luogo della conclusiva, usata nella principale.
Per esempio: mangiare fa: tabu (concl.), taburu (attr.), tabe (avv.). Quindi: hito tabu "l'uomo mangia" ma taburu hito "l'uomo che mangia"; e al perfetto: hito tabetari "l'uomo mangiava" ma tabetaru hito "l'uomo che mangiava". Analogamente "alto" è takashi (concl.), takaki (attr.) e tahaku (avv.); e perciò: yama takashi "il monte è alto"; takaki yama "l'alto monte", ma yama wa takaku miyu "il monte sembra alto".
La sintassi è dominata dalla regola fondamentale: tutto ciò che qualifica deve precedere il qualificato. In conseguenza l'aggettivo va innanzi al nome, l'avverbio precede il verbo, il genitivo il sostantivo, le preposizioni dipendenti precedono la principale. Il verbo chiude, così, la frase.
L'influenza dello studio del cinese produsse una differenza, approfonditasi col tempo, fra la lingua parlata e la scritta, differenza divenuta oggi tanto grande che le due lingue richiedono uno studio separato e particolare. Essa concerne principalmente la grammatica e, in misura minore, il vocabolario. Uno stile a parte è quello usato nelle lettere, caratterizzato dall'uso del verbo ausiliare (sōrō contratto per saburau o samurau, "essere al servizio di...") e di un certo numero di espressioni peculiari. La lingua parlata è non di rado più semplice nella grammatica: la distinzione fra forma attributiva e conclusiva, ad es., scompare, talché tabu e taburu divengono taberu, takashi e takaki, takai..
Fino all'epoca del Meiji, ciascuna di queste forme ebbe il suo dominio esclusivo: la lingua scritta nella letteratura; la parlata nella conversazione e nei libri per fanciulli; lo stile epistolare nella corrispondenza. Più tardi, dietro l'influenza dei grandi scrittori che l'adoperarono con successo nei migliori lavori, la lingua parlata invase sempre più il campo della scritta, ma ne risentì fatalmente, benché in non grande misura, l'influsso, sì da portare alla lingua letteraria attuale, che è una singolare fusione delle due, con predominio di quella parlata. La lingua scritta si adopera generalmente nelle opere scientifiche o, comunque, di qualche pretesa, e nella burocrazia. Lo stile epistolare va scomparendo, ma ancora domina nella corrispondenza commerciale.
Trascrizione. - La trascrizione usata per le parole giapponesi in questa Enciclopedia è quella ufficiale, originariamente escogitata dalla Società per l'adozione dei caratteri latini (Rōma-ji Kwaisha): essa si può riassumere con qualche approssimazione in queste due formule: vocali come in italiano, consonanti come in inglese. Cioè: ch e j sono rispettivamente una t e una d palatilizzate, che corrispondono approssimativamente a c di cena e g di giro; sh è quasi la sc di scena, k e g sono sempre velari (come in cane e in gara); h è sempre aspirata; f è bilabiale. Il segno della lunghezza (-), posto sopra una vocale, la raddoppia.
A questo sistema, fonetico, di trascrizione, è stato opposto, recentemente, da un gruppo di studiosi giapponesi con a capo M. Tanakadate, un sistema di translitterazione (cioè "transillabazione") che ha un certo seguito in Giappone, ma non ha incontrato molto favore presso gli studiosi europei.
Posizione linguistica. - La posizione linguistica del giapponese non è ancora scientificamente sicura. Parecchi studiosi hanno cercato d'includere il giapponese nel ramo altaico della grande famiglia uraloaltaica; fra i più strenui sostenitori di questa tesi ricorderemo A. Boller, H. Winkler, J. Grunzel e W. Pröhle; quest'ultimo ha anzi tentato una serie di raffronti fonetici, morfologici e lessicali (p. es. giapp. -na suff. avverbiale, cfr. col suff. del locativo finnico, -na, nä, ungh. -n, ecc.; giapp. hito (ant. giapp. pito) "uomo, gente", cfr. con l'ungh. fi, fiú, sirieno-votiaco pi, ecc.). Occorre però dir subito che gli studiosi che in questi ultimi anni hanno tentato di gettare su serie basi scientifiche la grammatica comparata delle lingue altaiche (Gombocz, Ramstedt, Németh, Sauvageot) non ammettono l'appartenenza del giapponese a questo gruppo. Recentemente un giovane studioso giapponese, Nobuhiro Matsumoto, ha messo in luce un centinaio di corrispondenze lessicali fra il giapponese e le lingue che il padre W. Schmidt chiama "austroasiatiche" (cfr. V, p. 530) senza per altro giungere alla conclusione di una parentela genealogica.
Bibl.: Per la lingua parlata: W. G. Aston, Grammar of the Japanese Spoken Language, Tōkyō 1888; C. Balet, Grammaire japonaise de la langue parlée, 4ª ed., Parigi 1925; B. H. Chamberlain, A Handbook of colloquial Japanese, Tōkyō 1895; R. Lange, Lehrbuch d. japanischen Umgangssprache, 3ª ed., Berlino 1922; H. Plaut, Grammaire japonaise de la langue parlée, Heidelberg 1907. P. S. Rivetta e T. Terasaki, Grammatica teorico-pratica della lingua giapponese parlata, Venezia 1911. - Per la lingua scritta e lo stile epistolare: W. G. Aston, Grammar of the Japanese Written Language, 3ª ed., Londra 1904; B. H. Camberlain, Simplified Grammar of the Japanese Language (Modern written Style), Londra 1924; G. B. Sansom, An Historical Grammar of Japanese, Oxford 1928; K. Meissner, Lehrbuch d. Grammatik d. japanischen Schriftsprache, Tōkyō 1927; Per lo studio dei caratteri: G. Bourgois, Langue japonaise. Charactères ideographiques, dictionnaire et methode d'étude, Tōkyō 1908; B. H. Chamberlain, A Practical Introduction to the Study of the Japanese Writing, 2ª ed., Tōkyō 1905; R. Lange, Einführung in die japanische Schrit, 2ª ed., Berlino 1922; id., Übungs- u. Lesebuch z. Studium d. japanischen Schrift, 2ª ed., Berlino 1909; A. Hyde Lay, Chinese Characters for the use of Students of Japanese, 3ª ed., Yokohama 1909; J. L. Piersom, 10.000 Chinese-Japanese Characters, Leida 1926. - Dizionarî: F. Brinkley, F. Nanjō e Y. Iwasaki, An Unabridged Japanese-English Dictionary, Tōkyō 1896; J. C. Hepburn, A Japanese-english Dictionary, 5ª ed., Tōkyō 1894; J. Inoue, Comprehensive Japanese-English Dictionary, Tōkyō (molte ediz.); J. M. Lemarechal, Dictionnaire japonais-francais, Tōkyō 1904. - Opere accessorie: A. Koop e H. Inada, Japanese Names and how to read them, Londra 1923; E. Papinot, Dictionnaire d'histoire et de geographie du Japon, Tōkyō 1906. - Per la trascrizione: M. Tanakadate, Recommandation des caractères romains pour l'écriture nationale du Japon, Parigi 1921.
Per la posizione linguistica: A. Boller, Nachweis, dass das Japanische zum ural-altaischen Stamme gehört, in Sitz. Akad. Wien, XXIII, p. 393 segg.; H. Winkler, Uralaltaische Völker und Sprachen, Berlino 1884; Die ural-altaischen Sprachen, in Keleti Szemle, I (1900), p. 132 segg.; Der uralaltaische Sprachstamm, das Finnische und das Japanische, Berlino 1909; J. Grunzel, Entwurf einer vergleichenden Grammatik der uralaltaische Sprachen, Lipsia 1895; W. Pröhle, Studien zur Vergleichung des Japanischen mit den ural. und altaischen Sprachen, in Keleti Szemle, XVII (1917), p. 147 segg. Per il parere opposto cfr. A. Sauvageot, Recherches sur le vocabulaire des langues uralo-altaiques, Budapest 1929, VI; N. Matsumoto, Le japonais et les langues austro-asiatiques, Étude de vocabulaire comparé, Parigi 1928.
Letteratura.
Nei suoi tratti essenziali, la letteratura giapponese rivela un gusto tutto particolare per la forma, cui dà colore l'innato senso estetico che è nelle prerogative della razza. Nella letteratura, espressione palpitante del carattere del popolo, come nell'arte, è visibile ovunque, eccezion fatta per la poesia, il modello straniero, ma sempre originalmente elaborato, singolarmente interpretato, e intonato e adeguato al gusto, alle esigenze, alla vita, al genio della nazione. È appunto questa facoltà assimilatrice, ma profondamente modificatrice ed elaboratrice, che costituisce il tratto saliente ed eminentemente originale nella civiltà spirituale e materiale del popolo giapponese, e al quale esso deve, in sostanza, la sua rapida ascesa nel mondo.
Nel determinare la storia letteraria giapponese bisogna anzitutto tenere conto di due grandi avvenimenti: l'introduzione della civiltà cinese, attiva soprattutto nel sec. V d. C., e, più tardi, nel sec. XIX, quella della civiltà occidentale. Ma all'infuori delle influenze esterne, i legami che avvincono le vicende politiche interne di un paese allo sviluppo del pensiero di esso, sono tanti, e per il Giappone così stretti, da doversi soprattutto ricorrere alla sua storia politica se si vuol cogliere le grandi fasi evolutive di quella letteraria. Ne risultano, così, cinque grandi suddivisioni: 1. le origini (...-710) e l'epoca di Nara (710-794); 2. l'età classica o epoca di Heian (794-1186); 3. la decadenza (1186-1603), durante le guerre civili; 4. la rinascenza sotto i Tokugawa (1603-1868); 5. la letteratura sotto l'influenza del pensiero occidentale.
Le origini e l'epoca di Nara. - Il primo atto dell'evoluzione letteraria giapponese è l'introduzione della scrittura cinese attraverso la Corea. W. G. Aston ha dimostrato (Early Japanese History, in Trans. of the Asiatic Society of Japan, XVI) che questo avvenimento, posto dalla tradizione nel 284 d. C., va spostato al 404. Sembra ormai definitivamente abbandonata l'ipotesi, sostenuta prima da alcuni, dell'esistenza di una scrittura fonetica indigena, rappresentata dai cosiddetti jindai-moji (caratteri dell'epoca degli dei), di cui si hanno varie forme. L'introduzione della scrittura, accompagnata e seguita subito da quella dei classici, non fu, naturalmente, avvenimento isolato, ma va messa in quel flusso di cultura cinese che le relazioni, ora pacifiche, ora ostili, fra la Corea e il Giappone determinarono in questo. Alla fine del sec. V si hanno già i primi scribi ufficiali nelle provincie, con l'incarico di prender nota degli avvenimenti, mentre va iniziandosi l'organizzazione dello stato sul modello cinese. Sotto l'imperatore Kinmyō (540-571) vennero fondate le prime scuole, dove eruditi coreani insegnarono la medicina, la cronologia, i classici, la divinazione, ecc. Nel 552, sempre per la Corea, viene introdotto, col buddhismo, un potente strumento di cultura, che eserciterà un'influenza profonda in tutti i campi dell'attività sociale ed intellettuale e sarà, per dirla con B. H. Chamberlain, il Mentore sotto cui la nazione s'istruisce. È sotto l'imperatrice Suiko (543-629) che, per opera di suo figlio, il principe Shōtoku, apostolo fervente della nuova religione e cultore delle lettere cinesi, quella e queste si diffondono e cominciano ad acquistare importanza; sul principio del sec. XII, vengono inviati giovani in Cina a scopo di studio, mentre a frotte seguitano ad affluire nel paese eruditi coreani e cinesi per diffondervi le arti, le scienze, la tecnica, le dottrine, la filosofia dell'Impero del Mezzo. I profondi rivolgimenti operati da tutti questi apporti culminano, infine, nella riforma dell'era Taikwa (645-649) con cui si dava al Giappone un'istituzione modellata su quella cinese dei T'ang (620-907).
Di questo periodo di intensa preparazione, i soli documenti pervenutici, da considerarsi i più antichi saggi linguistici, sono alcune poesie di tipo arcaico, composte fra il sec. V e il VII, di un'ispirazione rozza, semplici nell'espressione e superficiali nel sentimento, prive, quindi, di forza e di profondità, incorporate nel testo del Kojiki (111 poesie) e del Nihongi (132 poesie), e 137 norito o rituali shintoistici contenuti in una grande opera sul cerimoniale (l'Engishiki o Disposizioni dell'era Engi). I norito sono discorsi che venivano pronunciati, durante i riti e le feste ufficiali tenute alla corte, da sacerdoti delle due famiglie dei Nakatomi e Imibe, che avevano il monopolio delle cose del culto. Il loro contenuto è vario: ora mitologico, ora narrativo, ora laudativo; la lingua è quella dei componimenti del genere: dignitosa, altisonante ed enfatica; i periodi sono interminabili e pieni di metafore, di ripetizioni, di parallelismi di vario genere.
Una conseguenza dell'adozione del complicato sistema burocratico cinese fu la fissazione della capitale a Nara (710). Ciò creò, di conseguenza, condizioni particolarmente favorevoli al progresso delle arti e delle lettere, condizioni che i continui spostamenti di capitale, fino allora verificatisi, non potevano consentire. Nelle linee essenziali, l'epoca di Nara segna una maggior penetrazione d'influssi cinesi e buddhistici nella vita della nazione. L'estetica buddhista nell'architettura e nelle arti, lo studio delle scritture buddhiste cinesi agiscono anche sulle lettere, ma asserviscono talmente lo spirito nazionale da rendere necessarî molti secoli prima ch'esso, assurgendo alla coscienza di sé medesimo, possa passare dalla primitiva fase imitativa a quella creativa. Intanto, sotto l'influenza del buddhismo, la nazione comincia a pensare al proprio passato. Il destarsi della curiosità storica, porta, così, alla compilazione di due opere fondamentali per lo studio delle tradizioni indigene: il Kojiki, nel 712, e il Nihongi, nel 720, il primo in giapponese, il secondo in cinese. A parte queste due cronache, la scarsa prosa di quest'epoca è principalmente burocratica: leggi, proclami, ordinanze, ecc., scritte in cinese; fanno eccezione alcuni pochi documenti, pure di carattere ufficiale, i quali soli rappresentano la prosa dell'epoca: i semmyō o mikotonori, ordinanze imperiali dirette al popolo o a privati, 52 in tutto, scritti in uno stile simile a quello dei norito; i fūdoki (descrizioni di terre e costumi), monografie sulle singole provincie, scritte solo in parte in giapponese, le quali dànno notizie sulla geografia e sulle tradizioni locali, seguendo un unico schema e senza passare al vaglio della critica i materiali utilizzati (di essi ci resta per intero quello della provincia di Izumo, Izumo fūdoki, e brani di altri); gli ujibumi (uji, famiglia; fumi, scritto), genealogie di famiglie in cui si dà notizia delle tradizioni e delle gesta degli antenati di esse.
Ma l'epoca di Nara è soprattutto notevole per la poesia. Poverissima di generi, senza rima, la poesia giapponese differisce profondamente dall'occidentale. Ciò che la distingue dalla prosa è l'alternarsi di versi di 5 e 7 sillabe, quantità che sembra essersi fissata assai presto, e a cui i poeti di tutte le epoche si sono rigidamente attenuti. Il numero dei versi così fatti, componenti una medesima poesia, fu vario; comunque, in ultimo, si trova sempre un verso addizionale di 7 sillabe. Lo schema risultante: 5-7, 5-7... 5-7-7 costituisce il naga-uta o poesia lunga, che era sin dalle origini seguita dalla tanka o poesia breve (schema 5-7, 5-7-7). Quest'ultima finì poi col restare padrona assoluta della letteratura metrica fino a oggi, benché un genere ancor più breve, il haikai (schema 5-7-5), sia salito in voga nel sec. XVIII. Oltre a queste caratteristiche formali, alcuni artifici retorici distinguono la poesia, quali le makura kotoba (parole-guanciale), corrispondenti agli epiteti omerici, i ken-yō-gen (parole a doppio uso), le jō (prefazioni), la cui trattazione non può qui trovar luogo. Questa, a larghi tratti, la fisionomia della poesia indigena, negli angusti limiti della quale, come ben dice l'Aston, è incredibile quanta felicità di frase, melodia di verso e vero afflato i Giapponesi sono riusciti a comprimere, con l'effetto mirabile di pochi, abili tratti di pennello. La seguente poesia è una tanka:
Un unico monumento ci ha conservato la poesia dell'epoca di Nara, il Manyōshū (Raccolta delle 10 mila foglie; v.), antologia privata di autore incerto, nelle 4496 poesie della quale giganteggiano le figure di Kakinomoto-no-Hitomaro, Yamabe-no-Akahito, Yamanoe-no-Okura, Ōtomo-no-Tabibito e Otomo-no-Yakamochi, poeti vissuti tutti nel sec. IX, ma della cui vita poco si conosce.
Scritto con soli caratteri cinesi, di lettura difficilissima, il Manyoshū è una vera gemma letteraria, il cui splendore è rimasto inoffuscato attraverso i secoli. Un'ispirazione fresca e delicata, un lirismo potente, una spontaneità affascinante dànno a questa raccolta un posto importante nella produzione poetica indigena.
L'epoca di Heian. - I primi 4 secoli successivi al trasferimento della capitale a Kyōto, detta Heian-kyō (Città della pace) segnano il vero periodo aureo delle lettere. La poesia, in complesso, è qualitativamente inferiore a quella dell'epoca di Nara, ma la prosa, per copia ed eccellenza, sta molto al disopra; per la prima volta, anzi, essa raggiunge vera espressione e forma d'arte. In corrispondenza dell'evoluzione spirituale della nazione, si nota un progressivo sviluppo della lingua nazionale, che si arricchisce notevolmente nel vocabolario e, grazie all'introduzione dei sillabarî che risolsero prodigiosamente le difficoltà di adattamento di una scrittura fatta per una lingua monosillabica ad una lingua a flessione, diventa, nelle mani di abili scrittori, strumento pieghevole atto all'espressione delle più delicate sfumature di pensiero.
La letteratura erudita, comprendente opere storiche, teologiche, scientifiche, legali, ecc., seguita ad essere scritta in cinese, lo studio del quale assorbe completamente l'attività degli uomini. Ciò spiega il fatto, per altro sorprendente e senza parallelo, dell'importanza che ha la donna nella produzione di quest'epoca, i due maggiori capolavori della quale (il Genji Monogatari e il Makura-no-Sōshi) sono opera di due dame di corte. Non va dimenticato, tuttavia, che a ciò contribuì potentemente anche la posizione di eccezionale indipendenza che la civiltà dell'epoca conferiva ad essa, indipendenza che, più tardi, col prevalere delle idee buddhiste e confucianiste, si tramuterà in soggezione. L'importanza che ha la donna nella letteratura dell'epoca Heian rende anche ragione del carattere delicato e garbato di questa; ché, se è vero che dalle descrizioni sentimentali e di amori cortigiani, di cui essa abbonda, balza evidente l'immoralità dei costumi, non è men vero che questa immoralità è sempre abilmente nascosta e compensata dalla decenza irreprensibile del linguaggio.
Nei tratti essenziali, la letteratura dell'era Heian ha tutta la fisionomia di produzione di classe, poiché essa esce, in massima parte, dall'ambiente di corte. "La corte imperiale di quest'epoca, dice il Revon (Anthologie de la littérature japonaise, p. 11), è un luogo di delizie, dove i costumi sono piuttosto liberi, ma dove il lusso ispira le arti e una dolce indolenza permette i lievi sogni della poesia. Tutti i cortigiani e le dame d'onore sono esteti e letterati che, quando non sono occupati negl'intrighi ordinarî di una corte passano il tempo ammirando i fiori, visitando mostre di pittura, scambiandosi versi spirituali o disputandosi il premio di qualche concorso poetico (uta-awase)". Il popolo è fuori dell'agone letterario e non partecipa all'evoluzione spirituale della nazione perché la cultura non giunge fino a lui. Solo più tardi, sotto i Tokugawa, in conseguenza della diffusione dell'istruzione nelle classi inferiori, merito precipuo dei bonzi, esso prenderà parte attiva alla vita letteraria, e allora, a mo' di rivalsa, farà quello che i nobili avevano fatto per la propria classe: si creerà una letteratura per sé, adatta ai proprî gusti e tendenze, che si svilupperà parallelamente alla produzione, più elevata, delle classi superiori.
I primi cento anni di questa era sono caratterizzati da una completa dedizione agli studî cinesi a scapito della produzione nazionale, ma la cultura, intanto, s'organizza e si diffonde. Sorgono numerose scuole private destinate ad uso comune o all'educazione dei giovani appartenenti ad uno stesso ceppo. Molti di costoro vengono inviati in Cina a scopo di studio (fenomeno che si ripeterà con l'Europa e l'America dopo l'apertura del paese nel 1868) e per loro mezzo il Giappone si mantiene in continuo contatto con la sua nutrice spirituale. Alcuni di essi, tornati in patria, operarono riforme o contribuirono altrimenti al progresso sociale e spirituale del loro paese. Uno di questi è Kūkai, cui la tradizione attribuisce l'invenzione del sillabario hiragana, mentre a Kibi-no-Mabi (693-775) attribuisce il katakana, nelle quali tradizioni, tuttavia, come acutamente osserva il Lange (Einführung in die japanische Schrift, p. 3), è d'uopo vedere la tendenza, così frequente nella storia della lingua e della scrittura, ad attribuire a una determinata personalità i risultati di una lunga evoluzione naturale.
Sul finire del sec. IX, l'anarchia e il disordine morale che preludono alla fine dei T'ang, in Cina, impressionarono siffattamente il ministro Sugawara Michizane, inviatovi nell'895, ch'egli, al suo ritorno, sostenne la cessazione dell'invio di connazionali in quell'impero. Gli è che la coscienza nazionale cominciava a destarsi, dando i primi segni di una reazione che doveva avere vasta portata nella letteratura, iniziando la decadenza delle lettere cinesi in Giappone. Prima conseguenza fu la rinascita della poesia indigena, fino allora trascurata per i versi cinesi. Nel 925, in analogia con quanto s'era fatto per questi fin dall'imperatore Saga (810-823), si pensò a raccogliere il fiore della produzione poetica nazionale, e l'imperatore Daigo (898-930) ne diede l'incarico a Ki-no-Tsurayuki (884-946) e ad altri. Risultato fu il Kokin-waka-shū o Kokin-shū (Collezione di poesie giapponesi antiche e moderne), terminato nel 922, la prima delle 21 antologie poetiche ufficiali, cioè ordinate dal sovrano, pervenuteci. Contiene 1100 poesie, quasi tutte tanka, di un'ispirazione meno spontanea e genuina di quelle del Manyōsh. I soggetti sono varî: la natura e le idee buddhiste vi entrano in gran parte, ma prevalgono i sentimenti mondani, specie l'amore; caratteristico è l'uso frequente della personificazione, così estranea al pensiero dell'Estremo Oriente. La forma rivela maggior studio e l'arte è più raffinata, ma in complesso il Kokin-shū supera di gran lunga le altre raccolte posteriori, delle quali le 6 seguenti appartengono a questa stessa epoca: Gosen-shū (Raccolta scelta dopo; nel 951; 1426 poesie), Shūi-shū (Antologia di resti raccolti; verso il 995; 1351 poesie), Go-Shūi-shū (Antologia posteriore di resti raccolti; nel 1086; 1220 poesie), Kin-yō-shū (Antologie di foglie d'acero autunnali; nel 1127; 716 poesie), Shikwa-shū (Antologia di foglie di parole; circa il 1151, 411 poesie), Senzai-shū (Antologia di 1000 anni; nel 1187; 1285 poesie). Queste, con lo Shin-Kokin-shū (Il Nuovo Kokin-shū, terminato nel 1205) e il già citato Kokin-shū, costituiscono un insieme detto Hachidai-shū (Raccolta degli otto regni).
Della vita di Ki-no-Tsurayuki, una delle più eminenti figure dell'epoca, si hanno solo poche e malsicure notizie. La sua fama oltre che alla compilazione, in parte, del Kokin-shū e alle sue poesie contenutevi, è legata alla celebre prefazione che egli vi scrisse e al suo Tosa Nikki (Diario di Tosa). La prima è una specie di monografia critica sulla poesia indigena, scritta in una lingua pura ed elegante, ch'ebbe molti imitatori; il diario, scritto nel 935, ci narra, in uno stile semplice e garbato, il viaggio dell'autore alla capitale, dove egli tornava dopo essere stato cinque anni prefetto della provincia di Tosa; esso è il capostipite della letteratura assai copiosa dei diarî, di cui si hanno, in ogni tempo, rappresentanti di vario pregio.
Nei primi anni del sec. X è da porsi l'origine di un'altra voluminosissima categoria di scritti che, sotto il titolo comune di monogatari (racconto, storia), comprendono il genere più vario: romanzo, storia, folklore, ecc., molti dei quali, specialmente quelli di quest'epoca, hanno interesse per lo studio dei costumi contemporanei. Il più antico è il Taketori Monogatari (Storia del tagliabambù), di anonimo autore, che in uno stile semplice e pieno di delicata fantasia, e in una lingua purissima, narra i casi occorsi in questa terra ad una fata inviata a scontarvi una mancanza. All'incirca contemporaneo è l'Ise Monogatari (Racconti d'Ise) che, in 125 capitoletti staccati, narra episodî, quasi tutti galanti, della vita di Ariwara-no-Narihira (825-880), cortigiano e poeta famoso. Sua imitazione è l'Yamato Monogatari (Racconti di Yamato), scritto circa il 950 da ignoto autore, i cui capitoli riguardano, però, individui diversi. Alla seconda metà del sec. X appartiene l'Ochikubo Monogatari (Storia del sotterraneo), pure d'ignoto autore, che narra le sevizie cui è sottoposta una fanciulla di nobile lignaggio da parte della matrigna, che la tiene chiusa in una cantina; è importante per i costumi dell'epoca. Un'altra storia di una matrigna malvagia, che termina con la sua esemplare punizione, è anche il Sumiyoshi Monogatari, che alcuni pongono nell'epoca di Kamakura (1186-1332), insieme col Torikaebaya Monogatari, che racconta, invece, le difficoltà incontrate da un padre nell'educazione dei suoi due figli, un maschio, con carattere e tendenze femminili, e una femmina, che è l'opposto, ond'egli esclama continuamente: torikaeba ya! (Oh, potessi scambiarli!), donde il titolo. Alla fine del sec. X, appartiene, certamente, l'Utsubo Monogatari (Storia della cavità), serie di racconti in cui l'immaginazione si mescola liberamente a descrizioni reali della vita di corte del tempo, ma in un modo che ricorda il Genji Monogatari, onde alcuni critici suppongono una relazione d'interdipendenza fra i due, nel senso che l'Utsubo abbia fornito il modello al Genji.
È intorno al 1000, sotto l'imperatore Ichijō (987-1011), che la civiltà letteraria di quest'epoca raggiunge l'apogeo, e sono due dame di corte, Murasaki Shikibu e Sei Shōnagon, che dànno al paese i due maggiori capolavori: il Genji Monogatari e il Makiura-no-Sōshi. Col primo compare nei monogatari un vero e proprio romanzo sociale, che, per i pregi di lingua, di stile e di concezione, va considerato come il più notevole rappresentante della categoria. Scopo dell'autrice fu di dare un quadro fedele dell'ambiente di corte e della società del tempo, di cui, con pennello d'artista, essa dipinge tutte le debolezze. Di pari eccellenza, ma di diversti carattere, è il Makura-no-Sōshi (Appunti del guanciale), il quale inaugura e porta di colpo a perfezione un nuovo genere letterario detto zuihitsu (lett. seguendo il pennello; i Giapponesi ed i Cinesi scrivevano col pennello) o miscellanea, divenuto poi assai popolare. Questi "Appunti del guanciale" hanno un fascino e una grazia che ancora oggi ci è dato gustare, e in essi la figura di Sei emerge in piena luce, presentando all'occhio del critico tutti i lati della sua complessa personalità. Scritti senza gravità o ricercatezza di stile, i suoi dodici libri, comprendenti 301 capitoli ci mostrano uno spirito originale, un'anima gaia che si commuove di fronte ai mutevoli aspetti della natura che suscita in lei un'infinità di impressioni delicate, che si diverte immensamente a tutto ciò che vede rilevandone, con spirito e buon gusto, il lato curioso o manchevole, che ora narra con compiacenza una storiella in cui qualcuno ha fatto una figura ridicola; ora si ricorda di una frecciata pungente ch'ella ha scagliato, con arte maliziosa; ora si diverte a far elenchi di luoghi, di feste, di stagioni, di monti, di fiumi, di città, preferiti, per avere un nome poetico o essere connessi con qualche tradizione o storia, o di cose che a lei sembrano desolanti, detestabili, inconciliabili con altre, che allietano l'animo: tutto detto con la sincerità di un'anima che si mette a nudo davanti a sé stessa.
Con la morte del famoso ministro Michinaga (1027) la potenza dei Fujiwara (v.), ch'egli a forza d'intrighi aveva portato all'apogeo, comincia a declinare, mentre le famiglie militari acquistano sempre più il sopravvento sulla nobiltà effeminata di corte. Contemporaneamente, anche le lettere s'avviano alla decadenza. I rivolgimenti politici, le lotte intestine, onde il clangore delle armi risuona per il paese durante tutto il sec. XII, distolgono gli animi dalle cose frivole e mondane, volgendoli alla considerazione dei destini umani, e polarizzano l'attenzione degli scrittori verso gli avvenimenti del giorno, i fatti d'armi, la storia. D'altra parte, da circa due secoli, nessuna storia era più apparsa e il bisogno se ne faceva sentire urgente; e poiché la lingua nazionale aveva ormai raggiunto grande perfezione, era naturale ch'essa, e non il cinese, cominciasse a venire adoperata nella storia. Ma, intanto, i capolavori letterarî precedenti avevano creato, col gusto delle belle lettere, una continua richiesta di letture romantiche. È così che, da questa duplice esigenza, sorge, sul finire dell'epoca, il nuovo genere dei zasshi o miscellanee storiche, che sta fra il romanzo storico e la storia vera, e il cui stile s'ispira a quello dei monogatari. Letterariamente i zasshi stanno al disopra delle aride cronache primitive e dànno sempre un quadro palpitante del soggetto trattato. Il primo di essi, l'Eigwa Monogatari (Storia di splendori), di autore incerto, quantunque una tradizione lo attribuisca alla dama di corte Akazome Emon (sec. X-XI), abbraccia, in 40 libri, il periodo di due secoli che va dal regno dell'imperatore Uda (889-897) al 1092, il che può farla riferire alla fine del sec. IX. È, più che una storia, una descrizione degli splendori (perciò il titolo) dei tempi in cui Michinaga dominava assoluto a corte. Di tono più virile e carattere più storico è l'Ō-Kagami o il Grande Specchio (la storia, sia in Cina sia in Giappone, viene paragonata volentieri a uno specchio), scritto da ignoto, nella prima metà del sec. XII, il quale abbraccia, in 8 volumi, il periodo 850-1025, e comprende numerose biografie di uomini di stato e anche una dissertazione sull'origine delle feste religiose. Col Mizu-Kagami (Specchio d'acqua), che tratta la storia nazionale dalle origini all'imperatore Nimmyō (834-850) e l'Ima-Kagami (Specchio del Presente), che continua l'Ō-Kagami fino al 1180, usciti ambedue sul finire dell'epoca, e col Masu-Kagami (Specchio chiarissimo), uscito più tardi, che abbraccia il periodo 1184-1333, forma un complesso noto col nome di Shi-kagami (I quattro specchi). Fra le opere uscite nello scorcio dell'epoca, va citato ancora il Konjaku Monogatari (Ramonti di c'era una volta) di Minamoto Takakuni (1004-1077), collezione di aneddoti di vario genere, indiani, cinesi e giapponesi, in 31 libri, scritti nella lingua parlata del tempo, in uno stile semplice, disadorno, spesso goffo. Per il contenuto e la maniera va considerato un precursore degli otogi-banashi, fiabe e racconti per la gioventù, di assai più tarda produzione.
La decadenza. - Con le lotte intestine fra i Taira e i Minamoto, che finirono per portare Yoritomo al potere (1186), s'inaugura per il paese un'epoca travagliata che fa di esso una lizza, dove il potere è la posta e le armi s'incrociano, con rari intervalli di tregua, fin quasi alla fine del sec. XVI. Il disordine sociale risultante ebbe, necessariamente, conseguenze immediate sulla sorte delle lettere. La classe militare dominante, coi suoi ideali di forza e di coraggio, con le sue cure volte alla guerra e al modo di prepararvisi e con la sua attività intesa, infine, tutta all'esercizio delle armi, non poteva che rimanere estranea alla cultura, la cui decadenza, peraltro, venne affrettata dalle frequenti interruzioni di rapporti con la Cina e la Corea, causate dalle incursioni di pirati giapponesi sulle loro coste, frutto, anche questo, dello spirito aggressivo dei tempi. Unici focolari del pensiero, fenomeno che trova riscontro anche da noi nel Medioevo, rimasero i conventi buddhisti. Il buddhismo, d'altro canto, trova, nelle condizioni sociali dell'epoca, condizioni favorevoli a un rigoglioso sviluppo. Le miserie, gli orrori, i continui spettacoli di sangue, i rovesci improvvisi di fortuna e di potenza, i grandi mutamenti di cose, insomma, fecero presto sorgere negli animi un senso di amarezza e di disgusto per il mondo che orientò i pensieri verso le dottrine rinunciaiarie del Buddha, onde queste finirono per acquistare il sopravvento.
La produzione letteraria riflette, naturalmente, le condizioni della società. Le donne spariscono quasi completamente dalla letteratura, spariscono l'amore e i sentimenti mondani come elementi centrali, lasciando il posto a racconti, scritti in gran parte da religiosi, ispirati ai grandi fatti d'arme e alle teorie buddhiste sulla brevità delle cose e dei destini dell'uomo.
Il sec. XIV ce ne ha tramandati quattro: l'Hōgen Monogatari, lo Heiji Monogatari, lo Heike Monogatari e il Gempei Seisuiki, tutti di autori sconosciuti e di data incerta. I primi due narrano le guerre delle ere Hōgen (1156-1158) e Heiji (1159), combattute a Kyōto per la successione al trono. Gli altri due, assai più importanti, narrano, invece, con spirito romantico e partigiano, le epiche vicende combattute fra i Taira e i Minamoto. Il Gempei Seisuiki (Storia della prosperità e della decadenza dei Taira e dei Minamoto), in 48 voll., è, senza dubbio, il più notevole di tutti per lo stile, ornato e limpido, e la lingua, assai vicina alla moderna. L'autore ama spesso adornare di poesie i varî episodî e introdurre nei discorsi fatti dai generali, prima di ogni battaglia, le proprie sentenze.
Assai più ricco d'ornamenti poetici e di sfoggio retorico, non disgiunto da solida erudizione teologica e letteraria, è il Taiheiki (Storia della gran pace), scritto, in 41 voll., dal bonzo Kojima (morto circa il 1375), che ci offre, a dispetto del titolo, tutta una storia di violenze, di cospirazioni, d'intrighi, di condanne aventi come punto centrale il fallito tentativo dell'imperatore Go Daigo (1319-1339) di restaurare l'autorità imperiale.
Due fresche oasi, nel deserto di questa produzione monotona di interminabili racconti di guerre, costituiscono il Hōiōki e lo Tsurezuregusa, opere di zuihitsu, scritte da due figure assai interessanti di religiosi buddhisti: Kamo-no-Chōmei (1154-1216) e Kenkō Hōshi (1283-1350). Il Hōjōki (Ricordi [della mia cella d'eremita di] 10 piedi quadrati), è una composizione assai breve, ma un vero gioiello letterario che per lo stile, semplice e garbato, e il suo contenuto filosofico, ha formato la delizia dei lettori giapponesi di tutte le epoche. L'autore, dopo aver descritto una serie di calamità naturali, di cui fu testimone oculare e che lo convinsero della caducità delle cose del mondo, passa a narrarci i piaceri di chi vive in solitudine avendo a compagni i proprî pensieri e i ricordi del passato. Nelle sue riflessioni, ispirate a un profondo misticismo, traspare un'anima delicata e piena della poesia della natura, che si rivela attraverso una serenità di descrizione che ha spesso dell'idilliaco. Più complessa è la personalità di Kenkō Hōshi, quale s'agita e vive nel suo Tsurezuregusa (Pensieri dei momenti di tedio), scritto intorno al 1335 e comprendente 243 capitoli. Buon poeta, spirito inquieto, sul quale le passioni umane sembrano ancora esercitare un certo fascino, talvolta cinico e astuto, tal'altra fervente e devoto, Kenkō scrive in uno stile semplice, usando una lingua assai più pura di quella dei contemporanei.
La letteratura dei diarî ha un notevole rappresentante nell'Izayoi Nikki (Diario della notte del 16° giorno), della religiosa Abutsu-ni, vedova del poeta Fujiwara Teika (1162-1241), composto, nel 1277, durante un viaggio a Kamakura. Cosparso di poesie e scritto con molto sentimento, questo diario manifesta l'influenza del Tosa Nikki, e per lo stile e l'assenza di parole cinesi, ricorda la bella letteratura dell'epoca Heian.
Un'opera a parte, il più celebre degli zasshi, è il Jinnō Shōtōki (Storia della legittima successione dei divini imperatori) scritta, in 6 voll., da Kitabatake Chikafusa (1293-1354), intomo al 1342, per dimostrare la legittimità dei diritti al potere della dinastia del sud. Uomo di stato, più che storico, l'autore rifà la storia del paese dalle origini ai suoi tempi, ma il suo libro è tanto pieno di dissertazioni sulla politica e sull'arte del governo, da doversi considerare come il primo tentativo di applicazione di principî filosofici alla storia. Il suo atteggiamento patriottico, ispirato a una profonda lealtà verso il sovrano e contrario alla sacrilega usurpazione dei poteri imperiali da parte dello shōgun, esercitò una grande influenza nella storia del paese. Avverso al principio confuciano che pone come condizione al diritto di sovranità l'abilità nel governo, egli sostiene la necessità della soppressione di ogni favoritismo e abuso nell'amministrazione, insistendo sul conferimento delle cariche pubbliche dietro la sola imparziale valutazione dei meriti e delle attitudini personali.
La poesia di quest'epoca, conservataci da una serie di antologie ufficiali, rivela anch'essa un profondo decadimento. L'ispirazione, fiacca, cede all'ornamento, la genuinità del sentimento all'artificio. Tuttavia, anche qui, vi è qualche notevole e gradita eccezione; soprattutto nelle raccolte private, fra le quali meritano menzione quella personale del bonzo Saigyō Hōshi (1118-1190), intitolata Yama-ga-shū (Raccolta di poesie fatta nella capanna di montagna), contenente poesie di un'ispirazione schietta e piene di sentimento della natura, e la famosa raccolta Hyaku-nin Isshu (Cento poesie di cento poeti) del non meno famoso poeta Fujiwara Teika, anche oggi molto nota e diffusa, grazie ad un giuoco (uta-garuta "carte di poesie"), preferito nelle ricreazioni familiari.
Ma il prodotto più importante dell'epoca della decadenza è sopra tutto il dramma classico o nō (letteralmente: arte).
Alle origini del nō troviamo l'elemento religioso in una danza pantomimica (kagura) eseguita nelle feste sacre shintoiste (matsuri), e che la mitologia indigena ricollega a una danza eseguita dalla dea Uzume. D'altra parte si ha anche notizia di altre danze, dette ta-mai "danze delle risaie", eseguite dai contadini all'epoca delle messi per ringraziare gli dei del raccolto, mentre sul principio del sec. IX troviamo in grande favore i dengaku (den, risaia; gaku, musica), derivati dalle precedenti per aggiunta della musica, ed eseguiti, in origine, nei campi per allietare il lavoro dei contadini, poi, nelle città e nei villaggi. Nel sec. XIII vediamo i dengaku eseguiti da professionisti, detti, per avere il capo raso come i bonzi, biwa-hōshi (bonzi dal biwa, uno strumento musicale: v. sotto); costoro applicano la loro arte alla rappresentazione di soggetti storici e la perfezionano a tal punto che, verso il sec. XIV, si parla già di un dengaku-no-nō o dengaku artistico. D'altra parte, si ha pure notizia di una specie di pantomima umoristica, eseguita, almeno dal sec. IX, alla fine dei matsuri, come diversivo, detta sarugaku (corruzione di sangaku "musica disordinata"), la quale, per il suo carattere, sale subito in tanto favore, da riuscire a soppiantare il dengaku. È dal sarugaku che deriva il nō, cui si giunge solo quando, prendendo a trattare i grandi soggetti mitologici e storici e introducendo il dialogo, all'uso cinese, il sarugaku si trasforma in una rappresentazione seria col nome di sarugaku-no-nō o semplicemente di nō. Questa evoluzione, per altro, come pure i varî momenti di sviluppo e le influenze reciproche di tutte queste forme di danze mimiche, sono restati oscuri in più di un punto. Tuttavia va rilevato che al definitivo assetto del nō non è estranea l'influenza del teatro cinese, che ebbe il massimo splendore durante la dinastia Yüan (1279-1368), la cui tecnica, insieme coi testi, vennero portati in Giappone dai bonzi, soli interessati alla cultura in quest'epoca, nei loro frequenti viaggi in quell'impero. Il merito di aver perfezionato il nō, fino a farne un genere drammatico di grande valore artistico, spetta principalmente a Kwanami Kiyotsugu (1354-1406) e a suo figlio Seami Motokiyo (forse 1372-1455), che seppero unire all'eccellenza di artista, l'abilità di poeta, di musicista, di scrittore e ad essi si deve se la loro arte attrasse l'attenzione degli shōgun e fu da essi protetta fino a fare del nō una cerimonia di stato.
Scritti quasi tutti seguendo un unico schema, brevi nell'estensione, semplici nell'azione, senza contrasti, i nō non possono dirsi drammi nel senso nostro, ma essi possiedono un indiscutibile fascino nella bellezza della poesia, nell'elevatezza del canto, nell'eleganza dignitosa della mimica. Gli argomenti trattati sono quasi sempre religiosi e tolti da leggende buddhiste o shintoiste, ma l'amore per la natura, il sentimento patriottico, l'ardore bellico vi entrano pure in non piccola parte. Poesia e prosa si alternano nel testo e non di rado la prosa è in uno stile semi-poetico, fatto di frasi di 5 e 7 sillabe, succedentisi irregolarmente; caratteristico è l'abuso di ornamenti proprî alla poesia, specie dei makurakotoba; la lingua è impura per vocabili cinesi. Il testo si compone di parti cantate altemate a dialoghi. Le prime sono considerate parte essenziale, l'elemento letterario del nō, il cui libretto viene, perciò, anche detto utai o yōkyoku (canto). Quasi tutti i 264 nō classici pervenutici appartengano al periodo di 200 anni che va dalla fine del sec. XIV a quella del secolo XVI. I loro autori sono in grani parte sconosciuti, ma se ne attribuisce la composizione a bonzi, il che, del resto, non ha valore poiché, come giustamente osserva l'Aston, le loro caratteristiche sono piuttosto quelle di una scuola che di singoli individui.
La rappresentazione di un nō ha breve durata: circa un'ora, e si usava porne in scena parecchi in uno stesso giomo. Per sollevare lo spirito dalla loro intollerabile monotonia, venne presto l'uso d'intercalare, fra l'uno e l'altro, una composizione ancora più breve, di carattere comico, il kyōgen (lett.: parole folli) o, come si direbbe da noi, una farsa. Il kyōgen è il derivato più diretto e genuino del sarugaku e si differenzia dal nō per la mancanza del coro e per la lingua, che è il dialetto parlato dell'epoca, per lo studio del quale essi hanno quindi, grande valore. Gli argomenti sono tratti dalla vita e le debolezze umane vi fanno le spese della satira, spesso pungentissima. L'azione è assai semplice, i caratteri rilevati ed esagerati, talvolta, fino alla caricatura; gli attori sono poco numerosi (di regola due o tre) e, al contrario di quelli dei nō, non mascherati. Una collezione famosa, il Kyōgen-ki, con i suoi tre supplementi, ci ha tramandato i testi, quasi tutti anonimi, di 200 di queste farse, ma si hanno ancora moltissimi altri kyōgen prodotti dalle varie scuole di artisti.
La rinascenza sotto 1 Tokugawa. - La pace e la prosperità instaurata nel paese dai Tokugawa crearono condizioni favorevoli allo sviluppo del pensiero e degli studî. Primo, Ieyasu diede ad essi l'impulso. Dopo il suo ritiro (1605), egli fece raccogliere e stampare molte opere, fondò biblioteche e una università, e si circondò di studiosi che più tardi ebbero cariche ufficiali.
Caratteristica essenziale dell'epoca è che le lettere si democratizzano. La diffusione dell'istruzione, operata principalmente dai bonzi, e della stampa coi caratteri mobili, sorta di recente, insieme con le migliorate condizioni economiche, fece nascere nelle masse prima il gusto, poi il desiderio e la necessità di una letteratura. È così che il popolo comincia a scrivere per sé stesso e la produzione aumenta rapidamente, sì da sorpassare, in volume, quella di tutte le altre epoche messe insieme.
Il nuovo indirizzo porta con sé una conseguenza inevitabile: perdita di qualità e di forma e acquisto del volgare per servire i gusti d'una cerchia di lettori reclamanti un cibo atto alla propria bassa levatura morale e spirituale. Il severo giudizio dell'Aston (History of Japanese Litarature, pp. 221-22) è stato sottoscritto da tutti i critici: "Stravaganze, falso sentimento, offesa alla possibilità fisica e morale, pedanteria, pornografia, bisticci e altri ornamenti fittizî dello stile, scipitezze intollerabili, avventure impossibili, sfoggio affaticante d'inutili particolari s'incontrano dappertutto. Non che l'abilità faccia difetto. Alcume genuino e arguzia si trovano in copia da chi sa dove cercarli; vero pathos s'incontra in opere, per altri rispetti, scabrose..., ma l'assenza dello scrittore totus teres atque rotundus balza agli occhi. Sano pensare, uso del bello scrivere, disciplina d'immaginazione e un certo senso dell'ordine, delle proporzioni, di consistenza di metodo è difficile trovarli nella colluvie di scritti e di stampe che quest'epoca ci ha lasciato". Ma non tutta la produzione di essa è tale, ché, parallelamente alla letteratura destinata alle masse, un'altra ebbe sviluppo, più soda, più elevata, destinata alle classi colte in cui era tradizionale la dignità delle lettere e non per loro diletto, ma per loro utilità o per soddisfare le loro esigenze culturali.
Questa letteratura cominciò con un risveglio degli studî filosofici cinesi. Il movimento fu inaugurato da Fujiwara Seikwa (1561-1619), il quale, dimesso l'abito monastico buddhista, e datosi alla ricerca d'un sistema che appagasse il suo spirito, lo trovò, un giorno, in un'opera del filosofo cinese Chu-hsi (1130-1200), ond'egli, leggendola, esclamò: "Ecco ciò che da tanto tempo cercavo!". Da questo incidente, nacque la scuola dei Kangakusha ("sinologi"), e la fortuna che le dottrine di Chu-hsi incontrarono nel paese data dal momento in cui un allievo di Seikwa, Hayashi Razan (1583-1657), fu accolto da Ieyasu come consigliere ed ebbe gran parte nelle riforme che il dittatore s'apprestava a dare al paese. In un sistema che sopra ogni altra virtù poneva il lealismo (chū), inteso come cieca obbedienza e fedeltà alle autorità e al proprio signore, Ieyasu, con occhio lungimirante, intravide subito uno strumento efficacissimo di governo; le teorie di Chu-hsi divennero così la morale ufficiale degli shōgun, i quali ebbero cura di avere sempre a fianco, come consiglieri, uomini di fede chu-hsista. Non entra nel quadro della storia letteraria giapponese la trattazione della produzione, peraltro cospicua, della numerosa schiera dei Kangakusha, sia perché essi scrissero in gran parte in cinese, sia perché le loro opere appartengono alla filosofia. Alcuni di essi, tuttavia, meritano menzione per aver lasciato anche nel campo letterario un'orma profonda. Kaibara Ekken, fu principalmente un educatore e i suoi trattati pedagogici, come l'Onna-daigaku (Il grande insegnamento per la donna), rimasero per molto tempo alla base dell'educazione della Piacere), il Kadō-kun (Morale familiare), lo Yōjō-kun (Igiene), ecc., si leggono ancora oggi con piacere, per il loro stile piano e vivace. Arai Hakuseki, consigliere dello shōgun Ienobu (1709-1713) fu il più grande e celebre dei Kangakusha. Uomo di stato, più che moralista, enciclopedico e scrittore elegante e vigoroso, egli ha lasciato una quantità di opere che portano il suggello di uno spirito schietto e il contributo d'una vasta cultura storica, archeologica e filologica. Muro Kyūsō (1658-1734), suo amico, ma scrittore meno fecondo, ha affidato il suo nome a una raccolta di saggi critici, in forma di conversazioni coi discepoli, che racchiudono il suo pensiero di fervente seguace del razionalismo di Chu-hsi, raccolta intitolata Shundai Zatsuwa, o "Miscellanea di Surugadai" (dal nome della collina in Yedo dove egli abitava).
I Kannakusha, nella loro esagerata ammirazione per le cose cinesi, si spinsero troppo oltre. Alcuni giunsero persino a darsi un nome cinese, vergognandosi di averne uno giapponese. La reazione non poteva mancare e fu alimentata da uomini che per fecondità di scritti e attività di pensiero nulla ebbero da invidiare ai loro avversarî. Il movimento s'inizia con una serie di ricerche sull'antica letteratura e prosegue poi assumendo carattere violentemente polemico. Fondatore è Kitamura Kigin (1618-1705) i cui commenti al Genji Monogatari, al Makura-nō-Soshi ed altri classici sono ancora fondamentali. I primi bagliori di lotta appaiono, però, solo con Kada no Azumamaro (1668-1736), prete shintoista, per raggiungere la massima intensità con Kamo Mabuchi (1697-1769), le cui opere ci fruttarono la prima eonoscenza veramente critica dell'antichità giapponese; con Motoori Norinaga, il più grande dei wagakusha o yamatologi, come costoro si chiamarono, le opere del quale sono eccellenti per la semplicità e la bellezza dello stile e mirabili per la pienezza del sapere e la chiarezza del giudizio, mentre esse lo additano a fondatore e propugnatore della rinascita di quegl'ideali religiosi nazionali che tanta parte ebbero nel preparare il paese alla rivoluzione del 1868; e, infine, col suo allievo Hirata Atsutane grande erudito, ma bigotto, scrittore fecondo e figura centrale nel movimento di rinascita del puro shintō iniziato da Norinaga. Ciò che fa più stupire nell'attività di questi wagakusha è l'odio cieco, il disprezzo esagerato che essi mostrarono per tutto quanto sapesse di cinese, il che, per avere impedito l'apprezzamento obiettivo di cose e di fatti, toglie spesso ogni valore scientifico alla loro opera. Ma la loro attività ha lasciato monumenti insigni nel campo filologico, che ancora oggi restano fondamentali per lo studio dell'antica lingua e letteratura del paese. Tutti, naturalmente, scrissero in puro giapponese e il loro stile esercitò un'influenza benefica.
Gl'inizî della letteratura popolare corrispondono alla comparsa, nella prima metà del sec. XVII, d'una categoria di scritti di varia natura, che, per essere composti in hiragana (v. sopra: Lingua), affinché fossero leggibili dalle masse, vennero detti kana-zōshi (libri sillabici). Il loro contenuto, prevalentemente didattico, perdette, tuttavia, ogni interesse per il pubblico, quando apparve un genere nuovo, l'ukiyo-zōshi "romanzo realista o di costumi", inaugurato da un uomo d'indiscusso valore letterario: Ihara Saikaku (1642-1693). Con lui s'inizia in Ōsaka la letteratura pornografica; il suo Kōshoku Ichi-dai Otoko (Un uomo libertino, 1682) fu il primo di una serie di romanzi osceni che, letti avidamente dalle folle, fecero fare affari d'oro agli editori. Suo capolavoro è considerato il Kōshoku Ichidai Onna (Una donna voluttuosa, 1684), in cui una vecchia solitaria fa la storia della sua depravazione. Bisogna riconoscere che Saikaku, di fronte a tutta la produzione precedente, rappresenta veramente qualcosa di nuovo. Minuzioso osservatore, vero fino alla brutalità, egli descrive a periodi brevi, concisi, taglienti, oscuri talvolta, ma con una forza, una vivacità, un brio inimitabili; tali notevoli effetti egli seppe trarre servendosi di un'abile fusione dell'antico stile col parlare contemporaneo del popolo, fusione che lo rivela conoscitore di tutte le risorse della lingua.
Dopo la sua morte, principale erede dell'indirizzo da lui fondato è, sui primi anni del sec. XVIII, in Kyōto, la libreria Hachimonjiya, il cui proprietario, Andō Jishō, specialmente attraverso la penna di Ejima Kiseki (1667-1736), dà in pasto alle masse una quantità di opere, più oscene ancora, di contenuto, di quelle di Saikaku, senza, tuttavia, possederne i pregi stilistici, che vanno ad ingrossare la falange degli ukiyo-zōshi. Dalla prima di esse, Keisei Iro-zamisen (Chitarra d'amore delle prostitute), al Yarō Naishō Kagami (Specchio dei segreti dei pederasti), al Seken Musume Katagi (Tipi di caratteri femminili), fino alle ultime, è tutta un'ondata di fango che invade la letteratura. Fallita la Hachimonjiya, nel 1750, si spegne l'ukiyo-zōshi in Kyōto e in Ōsaka, ma riprende a Yedo col nome di share-bon (libri piacevoli), che il governo proibisce nel 1791. La censura governativa costringe a introdurre un nuovo elemento: il sentimento. Lo share-bon si trasforma, così, in ninjō-bon (libri di sentimenti umani), in cui l'amore è la parte essenziale. Ma la nuova veste tradisce l'origine. Non è infatti l'amore puro che solleva l'uomo alle vette d'ideal) sublimi, o la passione che esalta e nobilita, ma solo un sentimento radicato nella sensualità, senza calore d'ideali e nobiltà d'intento. Il principale scrittore di ninjō-bon fu Tamenaga Shunsui (1789-1842), romanziere verista (cfr. Umegoyomi "Calendario del prugno", Haru-tsuge-dori "L'uccello annunziatore di primavera"). Shunsui scrisse anche un famoso romanzo storico, noha Bunko (Biblioteca dell'iroha), ricostruzione in parte immaginaria della famosa vendetta dei 47 rōnin di Akō.
A parte la censura, il romanzo di costumi non aveva potuto affermarsi a Yedo, sia perché qui prevaleva l'elemento intellettuale, fra cui era viva la tradizione delle buone lettere e mancava, quindi, il gusto per l'osceno, sia anche perché esso si trovò a competere con altri generi che finirono col prendere il sopravvento. Primi, fra questi, i jitsurokumono "relazioni autentiche", specie di parafrasi storiche, in cui l'elemento storico viene trattato in modo da lasciare libero il campo alla fantasia. Avventure guerresche, discordie di famiglie nobili, vendette sanguinose, vite di uomini illustri ne sono i soggetti più comuni, e lo stile, di solito semplice e disadorno, diede loro ampia popolarità. Il più noto di essi è restato l'Ōoka Meiyo Seidan (I gloriosi giudizî di Ōoka) raccolta di 43 cause celebri istruite dal famoso Ōoka Tadasuke (1677-1751), giudice e governatore di Yedo noto per la saggezza salomonica dei suoi giudizî. I jitsuroku-mono vennero proibiti nel 1804, come ingiuriosi alla fama di Ieyasu, ma seguitarono a circolare di nascosto in manoscritto.
Un genere i cui precursori s'intravedono già in alcuni kana-zōshi, era andato intanto individualizzandosi e s'era affermato dall'era Genroku (1688-1703) in poi coi cosiddetti kusa-zōshi (miscellanee), racconti destinati al popolo, dapprima brevi (5 pagine), poi più lunghi, sino a divenire assai voluminosi e detti, a seconda del colore che la moda, di pari passo con l'estendersi del racconto, fece assumere alla loro copertina, aka-hon (libri rossi), i più corti, poi kuro-hon (l. neri), ao-hon (l. verdi), ki-byōshi (l. gialli) e infine gōkan-mono (l. riuniti). Loro caratteristica sono le illustrazioni, fatte da uomini spesso celebri nell'arte, come Hokusai e Utamaro. Cominciati con una serie di fiabe per fanciulli, lette anche oggi avidamente dal mondo piccolo, i kusa-zōshi andarono assumendo gradatamente la fisionomia e l'estensione del romanzo fino a comprendere storie d'amore, vendette, rivalità e simili. Il migliore scrittore di essi è considerato Ryūtei Tanehiko (1783-1842), uomo erudito e d'ingegno multiforme, il cui capolavoro, Nise Murasaki Inaka Genji (Una pseudo Murasaki e un Genji rustico, 1829-42), è un'imitazione del Genji Monogatari in cui l'azione è trasportata alla corte dello shōgun. Di lui vanno ancora ricordati alcuni racconti che, essendo in gran parte dialogati a guisa di drammi, vennero detti shōhonjitate (da shōhon "copione" e shitate "composizione").
Un momento importante nell'evoluzione dei kusa-zoshi è rappresentato dalla diminuzione delle illustrazioni a vantaggio della lunghezza del testo, il quale acquista, così, maggiore importanza. I Giapponesi dànno il nome di yomi-hon (libri di lettura) a questa categoria di scritti. Si tratta, per altro, sempre di romanzi, che rivelano però una tendenza alla moralità e costituiscono, quindi, un genere più nobile, spesso con carattere educativo che finirà con assumere tratti epici. Fra i primi yomi-hon vanno annoverati il Kokin Kiden Hanabuser-zōshi (Florilegio di storie curiose e moderne, 1749) di Kinro Gyōja, il Nishiyama Monogatari 1768), di Takebe Ayatari (1718-1774), scritto in una lingua pura, ma antica in cui si manifesta, col filologo, l'influenza dello stile arcaizzante di Mabuchi e l'Ugetsu Monogatari (Racconti per le piogge e le notti di luna, 1708) di Ueda Akinari (1732-1809), anch'egli filologo e ammiratore di Mabuchi. Ma dii:maiores degli yomi-hon vanno considerati Santōan Kyōden (1761-1816) e Bakin.
Santōan Kyōden esordì con alcuni share-bon, ma, buscatasi la prigione all'epoca dell'istituzione della censura, si diede più tardi a scrivere romanzi sensazionali e pieni di situazioni emozionanti e terribili che apparvero come yomi-hon. Suo capolavoro è considerato il Mukashigatari Inazuma Byōshi (Copertina-lampo di vecchie storie, 1805) che ebbe un'accoglienza delirante da parte delle folle e fu drammatizzato in Ōsaka. Lo stile di Kyōden è piano, immaginoso e attraente, e lasciò un'orma permanente nella letteratura posteriore.
Suo allievo, il fecondissimo Kyokutei Bakin è eonsiderato dai connazionali il maggior romanziere. Dei suoi 290 romanzi, dei quali solo pochi in un volume, i Giapponesi ritengono suo capolavoro il Hakkenden o "Storia degli otto cani", interminabile racconto in 106 volumi al quale egli lavorò ventotto anni e che destò un vero entusiasmo, onde salì in tanta richesta, che le numerose sue edizioni si vuole finissero per far rincarare il prezzo della carta. Si tratta, in realtà, d'una trama intricatissima d'avventure fantastiche, impossibili, stravaganti di otto cavalieri personificanti le otto virtù confuciane. I critici europei definiscono il Hakkenden "soporifero", e ritengono, invece, miglior lavoro il Chinsetsu Yumihari-zuki (Storia meravigliosa della luna crescente, 1810) che narra le avventure del famoso arciere Minamoto no Tametomo (1139-1170). L'unico pregio di Bakin è il suo stile scorrevole, espressivo, armonioso; le sue opere sono pure immuni da oscenità o da volgarità e il sentimento è sempre elevato, ma il lato psicologico e artistico manca o è scarso. I caratteri mal delineati, le scene abbozzate e prive di vita, il sentimento artificioso, la prevalenza del fantastico e del portentoso, la mancanza di spirito d'osservazione e di senso della realtà della vita sono i principali difetti. Bakin lavora con la mente, non col cuore; sviluppa l'azione, non i caratteri; la sua concezione confucianista del mondo gli fa creare tipi rigidi e convenzionali, figure ideali dal punto di vista della morale confucianista, ma fredde, astratte e persino grottesche se le consideriamo dal punto di vista dell'umanità comune.
I primi anni del sec. XIX vedono affermarsi un nuovo genere, il romanzo comico (kokkei-bon), grazie a due spiriti bizzarri che ad esso hanno legato il proprio nome: Jippensha Ikku (1765-1831) e Shikitei Samba (1775-1822). Dei 311 scritti del primo, importantissimo il Hizakuri-ge (A cavallo alle gambe, 1822), in 56 volumi, che narra le avventure comiche di un viaggio sul Tōkaidō, e ha importanza anche in quanto conserva preziosi ricordi folkloristici e come raccolta di antiche "farse". Più realista di Ikku, Samba nelle sue due opere Ukiyo-buro (Bagno mondano, 1809-13) e Ukiyo-doko (Barbiere mondano, 1811) ci ha lasciato una serie di scene vivissime in cui parlano, s'agitano, discutono, fanno pettegolezzi individui tipici d'ogni sfera sociale, dall'erudito all'ignorante, dal nobile al contadino, dalla geisha alla massaia. Il suo spirito è anche più fine di quello d'Ikku e, benché dia talvolta nel volgare, raramente è osceno.
Poesia. - Mentre la tanka classica continua a essere coltivata, un nuovo metro, più breve ancora (5-7-5), il haikai o epigramma, nasce in quest'epoca. Sua genitrice è la renga o poesia a catena, in voga soprattutto nel sec. XIV, lunga poesia, talvolta di più di mille versi, composta dai due emistichi che formano una tanka (cioè: hokku, i primi tre versi, shimono-ku, gli ultimi due), messi insieme alternativamente da più persone che l'improvvisavano. Da ciò, a considerare un hokku come un tutto a sé, il passo era breve, e poiché queste poesie minuscole avevano carattere giocoso, vennero dette haiku (versi comici) o haikai (poesie comiche). Questa nuova arte, iniziata nel sec. XVI da Yamazaki Sōkan (1465-1553) e proseguita da Arakida Moritake (1473-1549), da Matsunaga Teitoku (1571-1653) e da altri, fu portata a perfezione da Matsuo Bashō (1643-1694), e dai suoi allievi, specialmente da Enomoto Kikaku (1661-1707) e da Hattori Ransetsu (1654-1707). Al haikai si collega il haibun (scritto comico), il quale è per la prosa ciò che il primo è per i versi, e che fu illustrato specialmente da Yokoi Yayū (1702-1783). Di carattere più nettamente burlesco e anche volgare è la hyōka (poesia folle) che è una tanka comica e il kyōku che è uno hokku comico, la prima sorta nel sec. XII, l'altra, dal hokku, in quest'epoca, ma ambedue in voga soprattutto nella metà del sec. XVIII. La kyōka fu portata a perfezione da Shokusaniin (1749-1823) e da Ishikawa Gabō (1753-1830) e Katsube Magao (1753-1829). Il kyōbun (scritto folle), corrispondente al haibun, venne coltivato da autori di kokkei-bon. Menzione particolare meritano ancora il senryū, dal nome di Karai Sennyū (1717-1790) che lo inaugurò, il vero epigramma arguto che, in tono bonario e nella veste di un nokku, mette in ridicolo il lato assurdo e volgare della vita umana, e il rakushu (lett. "poesia lasciata cadere"), la satira vera e propria, sarcastica, mordace e personale, spesso politica e scritta nel metro della kyōka.
Dramma. - Il popolo che s'era creata una prosa per i suoi gusti, si creò anche il dramma (kabuki) per i suoi spettacoli. Il kabuki ebbe origine dalle danze che O-kuni, sacerdotessa (miko) del tempio di Izumo fuggita a Kyōto, iniziò ivi nel 1603. La sua arte, limitata dapprima alle danze sacre a lei familiari, divenne mondana quand'ella, invaghitasi d'un tale Nagoya Sanzaburō, ex-samurai, si unì a lui e formò una compagnia che prese a recitare le canzoni e ad eseguire le danze di moda. Successivamente, Nagoya trasse ispirazione dai nō e dai kyōgen, a lui noti da quando era samurai. La nuova arte trovò accoglienza entusiastica e dovunque sorsero compagnie, cui parteciparono molte prostitute. Gli abusi che ne risultarono, portarono il governo ad interdire (1629) alle donne il palcoscenico; la loro parte venne allora recitata da uomini in costume da donna, ma, nonostante un intervento più energico delle autorità (1645), la morale dovè subire oltraggi anche peggiori. Col tempo, tuttavia, le cose migliorarono e la passione per gli spettacoli andò sempre più diffondendosi.
Nell'insieme, questo antico kabuki manca dei caratteri d'una vera arte. Si tratta di composizioni dapprima brevi, poi lunghissime, ma povere di situazioni e fatte non da scrittori di vocazione, ma dagli artisti stessi, i quali ebbero di mira più le esigenze tecniche del palcoscenico che quelle artistiche atte a elevare il dramma a forma d'arte.
Un fatto nuovo venne a cambiarne l'indirizzo. Da tempo era nota la famosa storia di Jōruri, amata dall'eroe Yoshitsune (Jōruri jū-ni-dan nōshi, "Storia di J.", in 12 cap., sec. XVI), recitata, con altre storie, in pubblico, dapprima senza musica e con una specie di cadenza segnata da un ventaglio (ōgi-byōshi, "battute di ventaglio"), poi con accompagnamento di liuto, infine, di shamisen. Verso il 1600, Menukiya Chōzaburō, cantore di queste storie, ebbe l'idea di unire la propria arte a quella di Hikita marionettista in voga; risultato fu l'ayatsuri-jōruri "jōruri di marionette" (da ayatsuru, "manovrare le marionette"), che divenne di colpo popolare. A Ōsaka, Takemoto Gidayū, proprietario del teatro Takemoto-za, salì in tanta fama che gidayū e oruri finirono per divenire sinonimi. Ma il suo nome e il successo del jōruri furono opera principalmente di Chikamatsu Monzaemon, il più grande drammaturgo giapponese. È con lui che il jōruri acquista vera espressione d'arte. Egli trovò il dramma rudimentale, irreale, adrammatico. La sua penna lo avvicinò alla vita imprimendogli lo spirito dell'epoca, lo riempì di situazioni drammatiche conferì importanza al dialogo e unità all'azione, collegando fra loro le varie scene e armonizzandone lo sviluppo fino alla catastrofe finale. Con lui il dramma si divide in idai-mono (drammi storici), scialbe e fantastiche rievocazioni dell'antico, e sewa-mono (drammi sociali), attinti a fatti di cronaca del tempo, in cui ebbero modo di manifestarsi le sue doti di acuto osservatore e insuperabile delineatore di caratteri. La sua lingua è sempre estremamente fiorita ed espressiva ed egli la maneggia da uomo espertissimo che ne conosce tutte le risorse; il suo stile, tuttavia, anche per le esigenze stesse del teatro di marionette, riesce tronfio e ampolloso, a scapito, spesso, di quella incisività d'effetto della quale si può dire che è quasi sempre figlia della brevità.
Dei suoi successori, nessuno, neppure Takeda Izumo (1646-1726), il famoso autore del Chūshingura (Magazzino dei fedeli vassalli), drammatizzazione della famosa vendetta dei 47 rōnin, ebbe le sue doti, onde il jōruri perse il favore del pubblico, nonostante gli sforzi, tendenti a riabilitarlo, di Chikamatsu Hanji (1725-1783) e di altri. Con la sua dedecadenza coincide, sul finire del 1700, la rinascita del kabuki, che utilizza a proprio vantaggio le caratteristiche migliori del rivale decaduto. Il nuovo kabuki, ricco di risorse sceniche, nasce con la sostituzione dell'uomo alle marionette, il che spiega come i movimenti degli attori rassomiglino troppo spesso, per la loro meccanicità, ai movimenti di quelle. Alimentato da scrittori di valore, come Tsuruya Namboku (1755-1829), Furukawa Mokuami (1816-1893) e altri, esso mantenne il favore popolare fino alla Restaurazione, dopo la quale dovette subire l'influenza modificatrice delle nuove correnti di pensiero.
La letteratura sotto l'influenza dell'Occidente. - I primi venti anni dell'era del Meiji (1868-1912) costituiscono un'epoca di assimilazione delle nuove idee importate dall'occidente, e ogni energia viene assorbita dalle esigenze sorte improvvisamente nel seno d'una società che si rinnova. Di fronte ai vasti orizzonti aperti da una civiltà ricca di gloriose conquiste come quella europea, si sente la necessità d'impadronirsene, di compenetrarla. Ciò spiega l'enorme successo, ad es., del Seiyō Jijō (Condizioni dell'Occidente, 1866) di Fukuzawa Yukichi (1835-1901). L'interesse maggiore è destato dapprima dai nostri sistemi filosofici. Nakae Tokusuke (m. 1901) traduce il Contratto sociale di Rousseau, Katō Hiroyuki diffonde il materialismo tedesco, Fukuzawa l'utilitarismo americano (Fuku-ō Hyakuwa "Cento dialoghi del vecchio Fukuzawa", 1897), mentre, parallelamente, sorge tutta una produzione di adattamenti, più, che traduzioni, di scrittori europei. Smiles, Spencer, Carlyle, Scott, Bacone, Dickens, Lytton, Disraeli, Maltravers e altri assorbono, così l'attività degli scrittori nel periodo 1879-85.
Il processo di modernizzazione, troppo rapido, suscitò presto una reazione, il cui inizio va posto nel 1885 con la comparsa d'un opuscolo famoso: Shōsetsu Shinzui (Lo spirito del romanzo) di Tsubouchi Shōyō (nato nel 1859), il quale, avverso al metodo convenzionale di Bakin e imitatori, sostiene che il romanzo, quale interpretazione della vita, deve dipingere questa com'è, non come dovrebbe essere. I suoi romanzi (Shosei Katagi "Tipi di studenti", 1886; Saikun "La moglie", 1888; Imose Kagami "I coniugi", 1885-86 ecc.), apparsi subito dopo, illustrarono il suo concetto. Suo alleato, Hasegawa Futabatei Shimei (1862-1909), ammiratore e traduttore di scrittori russi, adopera, per primo, la lingua parlata, che con lui si arricchisce ed acquista potenza ed espressione. Sotto l'ascendente dei due, l'uno influenzato dagl'Inglesi, l'altro dai Russi, sorge tutta una produzione in cui si delineano presto due correnti: una estetico-realista, con a capo Ozaki Kōyō (1867-1903), scrittore elegante e psicologo, fondatore del circolo letterario Ken-yū-sha (Gli amici del calamaio), la cui fama riposa specialmente sul romanzo Konijki Yasha (Il demone dorato, 1897); l'altra, estetico-idealista, rappresentata da Kōda Roban (nato nel 1867), esteta e filosofo, riesumatore dello stile di Saikwaku (Fūryū-outsu "La bella statua di Buddha", Go-jū no Tō "La pagoda dei cinque piani", ecc.).
Un difetto di questi realisti era la mancanza di esperienza della vita, donde l'impossibilità di comprendere i problemi dell'epoca. L'interesse del pubblico non tardò, perciò, a venire loro meno, anche perché la sua attenzione cominciava ad essere attratta da tutta una serie di romanzi e di traduzioni che segnano un periodo di transizione fino al sorgere del naturalismo. Fra gli scrittori in voga va notata Higuchi Ichiyō (1872-1896), una cucitrice, che in Umore-gi (Legni fossili, 1893), Nigori-e (Palude mortifera, 1894) ed altri lavori sorprende i connazionali con le sue descrizioni piene di sentimento e di pietà, e Tokutomi Rokwa (nato nel 1898) tolstoiano, il cui famoso romanzo Hototogisu (Il cuculo, 1900) venne anche tradotto in inglese. La letteratura tedesca comincia in questa epoca a venire apprezzata con le traduzioni, assai accurate, primo esempio del genere, del Kleist, del Lessing, del Hoffmann e di altri, uscite dalla penna di Mori Ōgwai (1860-1922), autore anche di traduzioni di scrittori francesi e italiani e di lavori originali (Mai-hime "La danzatrice"; Sokkyō Shijin "Il poeta estemporaneo", ecc.), lo stile dei quali rivela la sua profonda conoscenza delle letterature occidentali.
Si giunge così alla guerra russo-giapponese. La vittoria modifica le condizioni sociali e il benessere genera una vera frenesia edonistica, fino allora sconosciuta. Alla ricerca d'una nuova interpretazione della vita, i giovani letterati si volgono a Zola, a Maupassant, a Dostoevskij, a Ibsen, a D'Annunzio. Sotto l'influenza di questi, sorge il naturalismo con l'affermazione che l'arte deve essere espressione naturale e reale di vita, e tale diventa solo se liberata dai ceppi d'ogni convenzione morale che le impediscono il contatto intimo con quella. Tra la falange di fautori della nuova corrente, si distinguono Toyama Kwatai (nato nel 1871), fecondo e sensuale, Shimazaki Tōson (nato nel 1872), sentimentale, Masamune Hakuchō (nato nel 1879), nihilista, e soprattutto Kunikida Doppo (1871-1908), coi suoi romanzi pieni di potenti descrizioni.
Anche il naturalismo, con le sue rappresentazioni, spesso brutali, di vita, stancò presto il pubblico e dovette cedere ad altri ideali. Una serie di romanzi di livello più elevato metteva, intanto, in evidenza il nome di Natsume Sōseki (1867-1916), di cui l'arguzia, la profondità di analisi psicologica, tinta d'un blando scetticismo, e la classicità di stile, limpido e piacevole, vennero molto apprezzate. Tra i suoi lavori migliori vanno citati: Wagahai wa neko de aru (Io sono un gatto, 1905), Bōtchan (Un sempliciotto, 1906), Kokoro (Cuore, 1914). Dei suoi seguaci, Kikuchi Kwan (nato nel 1889), critico, in brevi novelle e schizzi drammatici, come Tōjūrō no koi (L'Amore di T., 1919) ecc., afferma la necessità, per l'uomo, di un'obiettività ragionevole, ond'egli possa trovare la propria via, al disopra del sentimento e delle convenzioni sociali; Akutakawa Ryūnosuke, psicologo, ama trattare vecchi argomenti in modo nuovo, e Kume Masao (nato nel 1891), sentimentale e analitico, dà descrizioni colorite e palpitanti di vita moderna.
Sui primi anni dell'era Taishō (1912-1926) un gruppo di scrittori, abbeverati alle ideologie tolstoiane e pieni di concezioni altruistiche e umanitarie della vita, fanno della rivista Shirakaba (La betulla bianca), da essi fondata, lo strumento del loro pensiero, mentre una serie di romanzi mette in evidenza i migliori. Fra questi, vanno annoverati Mushakōji Saneatsu (nato nel 1885), tolstoiano, autore di romanzi riboccanti di passione, Arishima Takerō e suo fratello Ikuma, Satomi Ton (nato nel 1887) e Shiga Naoya (nato nel 1883), stilista originale e rigido moralista. Di un altro gruppo d'idealisti-umanitarî, ma d'ispirazione diversa dalla tolstoiana, fanno parte Tanizaki Juni-chirō (nato nel 1886), erotico scrittore di romanzi a sensazione, Nagai Kafū (nato nel 1879), famoso edonista e Satō Haruo (nato nel 1892), dallo stile pieno di fantasia.
Dopo la guerra europea il paese ha assistito al sorgere di tutta una produzione tendente alla valorizzazione di ideali sociali. Tra le figure più eminenti sono Kagawa Toyokiho (nato nel 1889), cristiano-socialista e Nishida Tenkō, buddhista-francescano, che afferma la propria solidarietà coi nulla abbienti, mentre Akita Uiaku (nato nel 1883) e Fujii Shinchō, sulla falsariga di Barbusse, lavorano alla creazione d'una letteratura proletaria.
Non entra nel quadro di questa breve rassegna la trattazione della letteratura scientifica, che i numerosi contributi dei Giapponesi nei varî rami dello scibile hanno già reso cospicua per volume e qualità, ma una parola va spesa intorno allo stato attuale degli studî storici nel paese. Il tentativo di sfrondare la storia primitiva dal mito non è, naturalmente, sotto un regime teocratico, opera accetta; e per il Giappone, in particolare, esso urta contro la teoria della divina discendenza imperiale. In tale condizione di cose, quei pochi che si sono arrischiati in questo tentativo hanno dovuto soffrire i segni della disapprovazione ufficiale. La maggior parte degli studiosi, come Inoue Tetsujirō, Anesaki Masaharu, Haga Yaichi e altri hanno dovuto indirizzare le loro ricerche in campi diversí della storia, dov'essi hanno colto meritati allori, lasciando agli studiosi europei il recinto proibito degli albori della civiltà nazionale, dove la loro collaborazione sarebbe riuscita, invece, particolarmente preziosa.
Poesia. - Un tentativo d'introdurre alcune caratteristiche dei versi europei (poesie lunghe, divisioni in strofe ed in versi, rima, ecc.), e di usare la lingua moderna, venne fatto da Toyama Masakazu (1848-1900) con la collaborazione di pochi altri. Questa nuova moda (shintaishi, "poesia nella nuova forma"), ricevette dapprima buona accoglienza ed ebbe seguito con traduzioni o adattamenti di poeti occidentali e con composizioni originali, ma la vecchia tanka e il haikai, finirono per riprendere il sopravvento, acquistando, tuttavia, più vasti orizzonti d'ispirazione e di pensiero.
Fra i poeti contemporanei, il maggiore è forse l'imperatore Mutsuhito (1852-1912), che ci ha lasciato migliaia di poesie, prevalentemente patriottiche. Yosano Tekkan (nato nel 1873) ha un po' il tono del cantastorie; sua moglie, Yosano Akiko (nata nel 1878), uno dei maggiori astri letterarî, ha una vena inesauribile piena d'immaginazione e d'amore passionale; Matsuura Hajime mostra una purezza di frase e uno stile inimitabili; Arishima Takerō e suo fratello Arishima Ikuma, trattano i soggetti tristi della vita, mentre Masaoka Shiki canta la natura ispirandosi al Manyōshū. Accanto a questi "classici", la shintaishi è rappresentata principalmente dalle liriche tutte pensiero di Shimazaki Tōson (nato nel 1872), dal simbolismo melanconico di Kambara Yūmei e di Susukida Kyūkin e dall'epica sonora di Tsuchii Bansui (nato nel 1871).
Dramma. - Nel dramma, i primi effetti delle nuove correnti si ebbero nella migliorata condizione degli artisti, non più disprezzati, ma apprezzati e nelle riforme di vario genere apportate al teatro: abbreviazione degli spettacoli, costruzione più razionale delle sale, soppressione delle sale da tè, immorale accessorio tradizionale dei vecchi teatri, ecc. La produzione si divide presto in due correnti: l'antica (kyū-ha), aderente ai drammi di vecchio stile, e la nuova (shimpa) in cui ebbe parte importante l'attore Kawakami e sua moglie Sadayakko, i quali portarono sulla scena il Giappone reale, quale l'avevano trasformato le nuove idee. Il loro successo, tuttavia, fu limitato al popolo, a causa del tono volgare e della mancanza d'intellettualità delle loro rappresentazioni.
I veri riformatori furono gl'intellettuali, i quali crearono il dramma moderno sul modello europeo. Anche qui Tsubouchi Shōyō, con la collaborazione di Mori Ōgwai, segna una nuova era con composizioni storiche di carattere, piene di colorito, ma arieggianti un po' l'antico. Sul principio del secolo, salgono molto in favore le drammatizzazioni del romanzi più in voga (Hototogisu, Konjiki Yasha, ecc.), mentre il dramma europeo compare sulle scene, dopo aver subito opportuni adattamenti destinati ad ambientarlo e renderlo intelligibile alle masse. Fra gli autori così trattati, stanno in prima linea: Shaw, Gorki, Ibsen, Maeterlinck, Racine, Corneille, Hauptmann e altri. Fra i più reputati drammaturghi odierni vanno citati Okamoto Kidō (nato nel 1872), versatile autore di drammi nel vecchio e nel nuovo stile, Nakamura Kichizō (nato nel 1877) autore di drammi di carattere socialista, Osanai Kaoru (nato nel 1881), riformatore e delicato scrittore di composizioni originali e traduttore di drammi esteri, Yamamoto Yūzō (nato nel 1887), realista e abile delineatore di caratteri e Kurata Hyakuzō (nato nel 1891), noto per i suoi drammi di carattere buddhista. Un segno del progresso dei tempi è il recente riconoscimento dei diritti d'autore da parte degl'impresarî, mentre all'orizzonte si delinea già una reazione tendente a rimettere in auge il vecchio nō e il habuki.
Gli studi di letteratura giapponese in Italia. - In Italia gli studî di letteratura giapponese cominciarono nel sec. XIX, per opera di Antelmo Severini, dal 1863 professore di lingue dell'Estremo Oriente nel R. Istituto di Studî Superiori di Firenze. Egli pubblicò numerosi studî dal 1872 al 1894, tra cui: Un principe giapponese e la sua corte, Firenze 1871; Uomini e paraventi, racconto giapponese di Riutei Tane Hiko, Firenze 1872; L'epigramma giapponese, in Ann. della Soc. it. di St. Or., Firenze 1873; Astrologia giapponese, Ginevra 1875; Repertorio sinico-giapponese, Firenze 1875; Le curiosità di Yohohama, Firenze 1878; Il Zahetori Monogatari, ossia la fiaba del nonno taglia bambù. Firenze 1881, ecc. Carlo Puini, professore di storia e geografia dell'Asia orientale nel R. Ist. di stud. sup. di Firenze, tradusse dal giapponese: I sette genii della felicità, Firenze 1872, e scrisse Notizie sopra il Buddismo, dall'Enciclopedia sinico-giapponese, Firenze 1877; e numerose altre memorie, nel Giorn. della Soc. Asiat. Ital., nella Riv. di st. or., ecc. Carlo Valenziani insegnò giapponese nell'università di Roma dal 1876. Tradusse dal giapponese: La via della pietà filiale, Roma 1873 e Firenze 1878; Proverbi giapponesi, Roma 1897; Naga-mitu, antica rappresentazione scenica giapponese, in Rend. R. Acc. dei Lincei, 1891; Raccolta di atti di valore eroico, in Giorn. della Soc. As. It., 1892; Raccolta di intermezzi comici: Il principe di Satsuma, ibid., 1894; La spiaggia di Suma, in L'Oriente, II, 1894; Osome e Hisamatsu, dramma di Chikamatsu Hanji, Roma 1894; Sulla vita e sulle opere di Takizawa Bakin, in Rend. Acc. Lincei, Roma 1892, ecc. Lodovico Nocentini, professore di lingue e letterature dell'Estremo Oriente nella università di Roma dal 1899, tradusse: La ribellione di Masakado e di Sumitono, Firenze 1878; L'Asia centrale, di Nisci Tocugirò, Torino 1911, ecc.; Bartolomeo Balbi insegnò giapponese nel R. Ist. Orientale di Napoli durante alcuni anni; tradusse Proiettili umani, dal romanzo di T. Sakurai; ma è da avvertire che cessato l'insegnamento in Napoli, pubblicò varî romanzi che di giapponese non hanno che il titolo. Attualmente in Italia (1931) il giapponese è insegnato solo, con scopi pratici, nel R. Istituto Orientale di Napoli.
Bibl.: Opere di carattere generale: W. G. Aston, History of Japanese Literature, Londra 1899; K. Florenz, Geschichte d. japanischen Litteratur, Berlino 1906; W. Gudert, Die japanische Litteratur, Berlino 1929; J. Ingram Bryan, The Literature of Japan, Londra 1929; M. Revon, Anthologie de la littérature japonaise, Parigi 1919. Le opere principali della letteratura giapponese sono state, ormai, tradotte nelle lingue europee; per queste traduzioni, come pure per studî e lavori di carattere particolare, si rimanda alla bibliografia di O. Nachod, Londra e Lipsia 1928. Saggi di traduzioni da autori giapponesi, prevalentemente moderni (Mori Ōgwai, Yosano Akiko, Kunikida Doppo, Higuchi Ichiyō, Tsuchii Bansui, ecc.) sono apparsi per iniziativa di H. Shimoi, assistito da un nucleo di collaboratori, nella rivista Sakura che, fondata a Napoli nel giugno 1920, ebbe breve vita (fino all'agosto 1921), e nella parallele Collezione dei rami fioriti di Sakura, di cui uscirono 7 voll. È da aggiungere, infine, una traduzione del Hōjōki, a cura di M. Muccioli (Lanciano 1930).
Arte.
Non è giusto vedere nell'arte giapponese - come pure tante volte è stato fatto - esclusivamente una derivazione dell'arte cinese. Al contrario, nell'Impero nipponico epoche caratterizzate dall'influsso del continente asiatico si alternarono con altre assolutamente indipendenti: e scuole dell'uno e dell'altro indirizzo sussistettero insieme, procedendo per vie parallele o con rapporti reciproci. Tracciare un quadro d'insieme dell'arte giapponese entro limiti di spazio ristretti, non è facile impresa, giacché la felice situazione geografica ha preservato il Giappone assai più che altri paesi dalla distruzione delle opere d'arte, e gli abitanti, dotati d'una mirabile disposizione per ogni ramo d'arte, hanno creato in ogni tempo cose meravigliose. D'altra parte le numerose iscrizioni conservateci permettono allo storico dell'arte di ordinare con facilità i monumenti nella loro successione cronologica.
Tipica dell'arte giapponese è la molteplicità dei varî generi artistici, ognuno dei quali ha dato vita a innumerevoli scuole. Delle lacche, delle ceramiche, dell'incisione in legno e dell'arte di decorare le spade non potremo dare che un'idea assai sommaria.
Epoca preistorica. - A differenza della Cina, manca in Giappone ogni traccia di prodotti paleolitici. Questa constatazione basta da sola a mettere in luce la data relativamente recente della sua civiltà. Nel Giappone la preistoria termina soltanto nel sec. V d. C.
La successione cronologica di varî stili innanzi a questa data è ancora oscura. Tutto quello che si può con verosimiglianza assegnare all'età neolitica si distingue per una netta indipendenza dalla Cina. In tutto il Giappone non esiste - contrariamente a quanto è stato affermato - alcun vaso fittile dell'età della pietra. Coi vasi (le armi di pietra non hanno carattere artistico) s'inizia la serie dei prodotti artistici. La ceramica presenta affinità da un lato con quella della Corea, dall'altro con quella della cerchia artistica maleo-polinesiaca: e ciò potrebbe rafforzare la ipotesi degli antropologi, secondo la quale i Giapponesi attuali sarebbero il prodotto della mescolanza - verificatasi già in epoca preistorica d'una razza asiatica (che sopravviverebbe oggi negli Ainu) con una razza immigrata dal sud, affine ai Polinesî. I motivi ornamentali più antichi della ceramica sono intrecci viminei impressi che si ritrovano soprattutto nelle regioni settentrionali. Accanto a questo sistema d'ornamentazione ve n'è un'altro, di tipo spiccatamente geometrico, a rilievo. Le statuette fittili più antiche, che generalmente rappresentano figure femminili o esseri grotteschi, sono modellate con un certo naturalismo. Appartengono ancora all'età neolitica i vasi sui quali appare la tecnica del graffito, mentre le raffigurazioni umane degenerano sempre più in forme geometriche e astratte spinte alle loro estreme conseguenze nei cosiddetti idoli a tavoletta.
L'inizio dell'età dei metalli - ancora totalmente preistorica - è caratterizzato dalla ceramica a cordoncini rilevati. Quest'epoca prende il nome dalla provincia di Yamato, che ne ha dato i ritrovamenti più cospicui e che è del resto ancor oggi uno dei centri della produzione artistica giapponese. Il suo retaggio principale consiste in possenti dolmen. I più recenti fra questi contenevano figure funerarie fittili, d'un carattere tutto speciale (haniwa), affini ad alcune statuette coreane primitive, mentre nel modo di dipingere il viso ricordano le maschere fittili siberiane di Minussinsk. Si ritrovano anche i vasi, frequenti in Corea, dal piede traforato; e non mancano quelli con figure plastiche applicate sul collo.
La conoscenza dei metalli coincide con l'inizio della nostra era ed è indubbiamente d'origine cinese. Furono ritrovati specchi cinesi dell'epoca Han, ma nelle imitazioni giapponesi la decorazione s'allontana sensibilmente da quella dei prototipi. Essa ne sottolinea il carattere lineare, rappresentando anche alberi ed edifizî come nelle regioni meridionali del continente asiatico. Nei dolmen si rinvennero inoltre campane dalle pareti sottili, di cui l'uso è ignoto e la cui decorazione a linee rilevate di tipo geometrico o zoomorfo si può definire assolutamente giapponese. Nelle tombe si trovarono anche ricche decorazioni metalliche di spade, spesso di metallo dorato; e inoltre pendagli a forma di dente (magatama), anch'essi già conosciuti in Corea, di giada o di altre pietre dure o anche di vetro. Poco studiati sono stati sinora i prodotti plastici della provincia di Yamato, di tipo assai primitivo, che si riattaccano a prodotti meridionali delle regioni della Malesia e Polinesia. In tal modo già sin dal suo inizio l'arte giapponese mostra accanto a forme indigene, correnti di vario influsso.
Benché la forma originaria di tutti gli edifizî di culto dello shintoismo - la religione più antica del Giappone - debba venir ricercata nella preistoria più lontana, prima dell'influsso buddhistico, mancano nel Giappone esempî d'architettura preistorica. Lo shintoismo adora gli spiriti della natura (kami) e gli antenati divinizzati. Ma in origine questi non erano rappresentati che da simboli, come specchi, sciabole e pietre. Il luogo di culto può essere un terreno chiuso da considerarsi come l'abitazione degli antenati; così che le costruzioni ci dànno un'immagine della capanna più antica. Il passaggio praticato attraverso la siepe viene seguito da una porta (torii) che talora si trova isolata nel mezzo della campagna, e talora è ripetuta più volte, in fila. La ritroviamo usata più tardi dalla religione buddhistica ed è indubbiamente affine al pai-lu, alla porta cinese. Essa consiste principalmente in un tetto, spesso a linee ricurve, retto da pali, accompagnati tanto davanti, quanto di dietro, da assi di sostegno. Delle serrature verticali completano il carattere di tutto l'insieme. L'esempio più noto riprodotto, nella pagina seguente, il torii rosso di Itsukushima, deve la sua fama al fatto che durante l'alta marea è circondato dalle acque.
A differenza del torii il tempio shintoista ha chiari rapporti con la Polinesia. Poggiato su pali, si sviluppa in larghezza; ne è tratto dominante il tetto coperto di paglia o di canne o di cortecce d'albero, mai di tegole. Un sistema costruttivo cosi fragile e così antico fu protetto dalla prescrizione - certamente rituale - che obbligava a rinnovare, senza apportarvi modificazioni, il legname dei templi a distanza di non meno di venti e non più di sessanta anni. Alcuni particolari colpiscono per la loro singolarità, soprattutto i travicelli perpendicolari sul culmine del tetto a spiovente e i travicelli incrociati sulla fronte, ma il loro significato simbolico si è perduto nei secoli. I santuarî più importanti costruiti in questo stile arcaico sono quelli di Ise e di Izumo. Il locale riserbato al culto vero e proprio si compone di due aule (honden) alle quali si aggrega una sala di preghiera (haiden), collocata più in basso, congiunta alle prime mediante un passaggio diagonale. Gli edifizî sacri d'importanza secondaria sono disposti attorno all'edificio principale in perfetta simmetria.
Epoca di Suiko (552-645). - La prima epoca veramente storica del Giappone prende il suo nome da un'imperatrice, sotto cui le relazioni culturali col continente divennero straordinariamente intense. L'influenza cinese fu in questo periodo così forte, che si può addirittura parlare di un'arte cinese in Giappone. Missionarî cinesi diffondevano in questo tempo il buddhismo nel paese: la vecchia e primitiva religione naturista dello shintoismo, che aborriva l'immagine dipinta o scolpita, decadeva sempre più, senza però scomparire del tutto. Allo shintoismo, la cui importanza nello sviluppo dell'arte giapponese fu minima a causa del mancato uso di immagini, succedeva il buddhismo che ne ha invece una grandissima, per le forze che da lui furono sprigionate.
Nella plastica, sin dall'inizio, non mancano iscrizioni col nome dell'artista e date. Artista di prim'ordine fu indubbiamente Tori Busshi col quale si può riconnettere tutta una serie di opere grandiose, in gran parte conservate nel santuario di Hōryūji presso Nara. Legno e bronzo erano i materiali preferiti. Gli elementi formali, simili in tutte le figure del pantheon buddhistico, ripetono con ritardo quelli della Cina dell'epoca delle sei dinastie (secoli V e VI): essenziali la solennità ieratica e le prescrizioni rituali. Le pieghe delle vesti si sovrappongono in ritmiche cascate; la frontalità è rigida; ma vi è anche - come nei modelli cinesi - un'eleganza raffinata e al tempo stesso primitiva. In genere, le migliori sculture di questo periodo si possono considerare fra le più notevoli opere d'ogni epoca e d'ogni luogo.
Già durante l'epoca Suiko troviamo i fattori dell'arte che dovevano svilupparsi nella seconda metà del sec. VII e alla quale appartengono numerosi oggetti minuti in bronzo, come pure la più bella delle statuette lignee di quest'epoca, con modi ancora geometrici nelle pieghe delle vesti, ma animata dalla tendenza verso una maggiore naturalezza e da una vita latente che affiora pur dentro la materia in un contrasto, sintomo del vicendevole compenetrarsi dello spirito di due epoche, che forma il fascino di quell'opera d'arte.
Anche della pittura di quest'epoca non mancano esempî. Sono degni di menzione, oltre a un tessuto figurato, il famoso scrigno di Tamamushi (tempio di Hōryūji) derivato anch'esso da un esemplare cinese - affreschi di Tunhuang - ma superiore al modello.
I più antichi monumenti di architettura buddhistica nel Giappone si trovano nelle vicinanze di Nara; essi sono l'Aula d'oro (kondō), il portale interno (chūmon) e la pagoda del recinto sacro del Hōryuji e infine le pagode dei due piccoli templi attigui, Hōrinji ed Hōkiji. Solo la pagoda - destinata, secondo un uso derivato dall'India, a conservare delle reliquie - è di struttura nettamente verticale; in tutte le altre costruzioni, invece, domina la linea orizzontale che dà al tetto un'importanza eccezionale. Il portale di Hōryūji, diviso in tre piani, presenta già quella leggiera curva del tetto caratteristica per la Cina dal sec. V in poi. La costruzione è in legno eccetto la base in pietra e la copertura in laterizio, come di regola in tutti i templi buddhistici. Gl'interstizî sono chiusi da assicelle intrecciate e cementate con argilla bianca. Le colonne che reggono il tetto terminano in due sostegni, tipici, nella loro semplicità, per il periodo primitivo. Esse si trovano anche nelle pagode. Quella di Hōrvūji ha cinque tetti sovrapposti, quelle del Hōrinji e del Hōkiji solo tre. L'interno, invece, ha scarso interesse architettonico; nell'"aula d'oro" del Hōryūji sono racchiuse su un imbasamento, fitte e pigiate, le statue venerate.
Epoche di Hakuhō e di Nara (645784). - Queste due epoche, di cui la seconda prende il nome dalla capitale, sono do. minate da un comune grande avvenimento artistico, dalla conquista della realtà esteriore, che è l'avvenimento d'importanza decisiva anche per l'arte della Cina durante l'epoca T'ang. Anche in questo periodo possiamo seguire l'evolversi del panneggio che perde a mano a mano la sua rigidità e del modellato del corpo che s'affina e s'arricchisce. I monumenti più importanti dell'era Hakuhō (673-686) si trovano nel tempio di Yakushiii presso Nara.
Il Hōryūji racchiude un altare domestico, di un'estrema eleganza, adorno sul fondo e sul tergo di motivi lineari armonicamente mossi. Accanto al bronzo sono in uso in questo tempo anche l'argilla e la lacca asciutta; soprattutto quest'ultima (kanshitsu) è straordinariamente adatta per esprimere gl'ideali artistici del tempo, intenti a modellare con naturalezza organica e a differenziare anche nella materia il panneggio dai corpi. Nei volti, alla semplicità monumentale del periodo precedente subentra un'espressione di raccoglimento e rapimento interiore, che, ripetuta poi in modo sommario e stereotipo, diverrà la nota caratteristica dell'epoca Nara. Alcuni elementi tradizionali dell'arte cinese assumono durante questo periodo particolare carattere giapponese. Così, per es., vi sono numerosi gruppi fittili di atletici "custodi del cielo" e di "guardiani delle porte", che sono più naturalistici nei particolari dell'armatura e più individuali nell'espressione del viso di qualsiasi opera del continente. Contemporaneamente una vivacità nuova, spesso addirittura selvaggia, investe le figure prima tanto calme. Comincia allora quella esagerazione degli atteggiamenti eroici che più tardi giunge sino alla caricatura e che è stata la causa del concetto sfavorevole che per tanto tempo si ebbe dell'arte dell'Estremo Oriente, sino a che non furono conosciuti i monumenti dell'età arcaica. Anche le maschere dell'epoca Nara - conservate nei tesori dei templi, soprattutto nello Shōsōin (v. appresso) - spesso accennano già al grottesco. Esse sono un prodotto proprio del Giappone, come pure le statue che ritraggono sacerdoti celebri, nei cui esemplari del sec. VIII il naturalismo è ancora trattenuto da una severa forma plastica, come se il volto, pur volendo essere un ritratto, fosse idealizzato secondo i canoni delle statue per il culto.
Anche la pittura dell'epoca Nara ci è abbastanza nota. Gli affreschi murali nel kondō del Hōryūji, purtroppo molto guasti, vanno considerati come l'opera più perfetta della pittura T'ang. Il modellato delle pieghe del panneggio, disposte secondo uno schema ornamentale. accennano a stretti rapporti con l'Asia centrale. Poi questa maniera, derivata dalla Cina, scompare. Ispirati all'arte cinese sono anche cinque rotoli illustrati (ingwakyō), di contenuto buddhistico, solo in parte conservati. In essi osserviamo - per la prima volta in Giappone - lo schema diagonale e il paesaggio quasi a quinte di scenario. Ma solo verso la fine di quest'epoca nasce nel Giappone una pittura vera e propria. L'immagine della dea Kichijōten del tempio di Yakushiji (Nara, Museo) mostra chiaramente l'impronta etnica del suo creatore. L'eleganza delle linee, l'umanità che anima quella pittura, denunciano l'origine giapponese, giacché non vi sono che leggiere sfumature che distinguono la pittura giapponese di questo periodo dalla contemporanea cinese.
Le arti minori del sec. VIII sono raccolte in ricchezza e numero incommensurabili nello Shōsōin (lett. "Magazzino della rettitudine") di Nara; ma c'è il dubbio che una gran parte di quei tesori sia stata importata dalla Cina o anche da più lontano ancora. Il nucleo della raccolta è costituito dagli oggetti di proprietà dell'imperatore Shōmu, morto nel 756. Un inventario, redatto in quell'anno, ci fornisce un prezioso terminus ante quem per la maggior parte degli oggetti. Più tardi il tesoro si arricchì di singoli doni votivi, soprattutto, verso il 950, di quelli importantissimi provenienti dal vicino tempio Tōdaiji. Le ceramiche dello Shōsōin sono indubbiamente cinesi e di tipo assai rozzo. Mirabili invece gli specchi con intarsio nello stile decorativo Ts'ang. Le stoffe giustificano la grande fama che l'Oriente asiatico godeva anticamente come centro di loro produzione. I mobili e le armi intarsiate sono gli oggetti che possono essere attribuiti con maggior sicurezza al Giappone: con lo stile loro ben si accorda quello degli oggetti rinvenuti negli scavi delle fondazioni del Tōdaiji, dove, tra i doni votivi, fu trovata una spada di bronzo, dalla guaina di lacca riccamente ornata d'oro, con viticci, mossi e animati nei modi più maturi dello stile decorativo di quest'epoca, quando le sue tendenze naturalistiche erano oramai in pieno sviluppo.
Nell'architettura le innovazioni consistettero nell'uso di costruire due pagode anziché una soltanto, di coordinare al kondō l'aula delle conferenze (kōdō), e nel disporre tutto l'insieme delle costruzioni lungo l'asse longitudinale.
Fra i pochi edifici rimastici di questo tempo, va ricordata la pagoda orientale di Yakushiji presso Nara. Piccoli modelli di pagode mostrano il ricco sviluppo dell'antico tipo nel sec. VIII. Il modello di Ikoma, per es., rappresenta una pagoda a cinque piani. I capitelli dei piani superiori sono divenuti di forme assai complesse e contorte. Anche un granaio di questo tempo, privo di finestre, si è conservato nell'architettura dello Shōsōin. Nei grandi complessi architettonici del Tōdaiji e del Saidaiji - l'uno in Nara, l'altro nelle vicinanze - vi sono parti della medesima epoca, ma rimaneggiate e deturpate da restauri. Infine va qui menzionata l'aula ottagonale, del Sogno (Yumedono) nel Hōryūji, che appartiene sicuramente all'era Tempyō (729-748).
Epoca Heian (784-876). - Sotto questo nome, ch'era quello della nuova capitale, Kyōto (o Heian), vanno unite diverse epoche stilistiche. Nelle sculture delle ere Kōnin (810-823) e Jōgwan (859-876) si sviluppa la tendenza a deformare la realtà (che abbiamo già constatato nell'epoca T'ang avanzata e il cui inizio cade già nell'epoca Nara). Come in Europa nel tardo barocco, così pure qui le forme si accumulano, le figure si gonfiano, il volto s'irrigidisce in una maschera, non priva di grandiosità, ma inespressiva, mentre teste e braccia si moltiplicano, per incarnare i varî aspetti e portare i varî attributi della divinità. Anche il materiale cambia: viene preferito soprattutto il legno.
Nel mondo buddhistico sorgono nuove immagini paurose, prima fra tutte il Fudo, con la spada e il laccio da presa: cosa dovuta alle nuove sette, che importavano i simboli del pantheon indiano, tra cui la principale era la setta mistica Shingon diffusa in Giappone da numerosi pellegrini reduci dalla Cina, e soprattutto dal famoso Kōbō Daishi. Ai capi stessi della setta sono attribuite molte opere d'arte.
Quest'ultimo particolare è caratteristico per il nuovo posto che nella società ha l'arte e soprattutto la pittura: sacerdoti e cortigiani vi si dedicano. Al sec. IX appartiene uno dei più grandi nomi nella storia dell'arte giapponese, il pittore Kose no Kanaoka, della cui attività purtroppo non possiamo farci idea che mediante le opere della sua scuola e della tradizione ininterrotta che fa capo a lui. Una rappresentazione sempre ripetuta dall'epoca Heian in poi è la mandara, il cui più antico esempio risale all'anno 621, portato del lamaismo, ossia del buddhismo tibetano. Essa voleva guidare lo spirito alla meditazione mediante determinate linee e colori; e ogni particolare vi ha un significato simbolico. Erano preferite le rappresentazioni sehematiche, e, su tutte, quelle del Paradiso Occidentale nel cui centro troneggia Amida Buddha, il salvatore dei credenti. Ma più che in queste opere, nelle quali il contenuto religioso predomina sull'espressione artistica inceppata da formule pressoché immutabili, il processo di affrancamento dall'egemonia artistica cinese si svolge nella pittura di paesaggio.
L'architettura delle sette mistiche, che costituiscono l'elemento predominante nella cultura di quest'epoca, non è priva d'un carattere proprio. Ai luoghi abitati essa preferiva le cime dei monti, dove però era costretta a rinunciare alla regolarità e alla simmetria delle costruzioni di tipo cinese per adattare gli estesi fabbricati alle accidentalità del terreno. Sul monte Kōya sorse, per opera del gran patriarca Kōbō Daishi, il primo convento annesso a un tempio, nucleo attorno al quale si doveva poi sviluppare un'intiera città sacra, il cui posto nella storia dell'arte giapponese è assai importante. Il Murōii, edifizio nello Yamato celebre per i suoi affreschi ben conservati, si ispira anch'esso a quella che è la caratteristica essenziale dell'architettura del sec. IX: l'intima fusione con la natura circostante.
Epoca Fujiwara e Heike (876-1185). - Quest'epoca prende il nome dalle famiglie feudali che per lungo tempo privarono gli imperatori d'ogni effettivo potere. Fu un periodo di corti cavalleresche, di faide violente, di lusso sfarzoso, d'un tipo di vita e civiltà completamente diverso da quello del vicino continente, mentre, nell'895 il Giappone si distaccava completamente dalla Cina rompendo addirittura le relazioni diplomatiche.
La scultura è connessa sempre più con determinati nomi d'artisti, anzi di famiglie d'artisti. Così, Jōchō (morto nel 1057) è già una personalità ben definita. Amida Buddha diventa il centro del culto. E l'Amida di Jōchō, figura centrale del tempio Byōdōin in Uji, rappresenta l'ideale stilistico del tempo, nella struttura ben proporzionata, nell'accurato lavoro d'intaglio, nella ricca doratura, nell'espressione sorridente e gentile del volto. Molte sono le opere animate dallo stesso spirito, le quali, fissando in un tipo poi divenuto canonico le maggiori figure religiose, esercitarono un influsso decisivo su tutta l'arte religiosa posteriore. Il panneggio e il modellato del corpo conservano ancora la loro funzione espressiva, ma non hanno più tanto valore stilistico come nel periodo precedente. Nelle sculture di piccole dimensioni ha già grande importanza la policromia assai naturalistica; né mancano esempî di caverne decorate con rappresentazioni del Buddha, ultima reminiscenza cinese. La pittura rispecchia lo spirito dell'epoca ancor più della scultura. Gli autori dei quadri religiosi erano generalmente sacerdoti: e vi furono varie scuole, fra le quali quelle del Kanaoka o quella del Takuma. Il tempio Byōdōin ha i monumenti principali della pittura di questo periodo, nei suoi affreschi. Novità fu il largo uso del kirigane, cioè di riquadri ornamentali d'oro ritagliati. Di un grande maestro, Eshin Sōzu, il museo sul monte Kōva possiede una pittura di vaste dimensioni.
La pittura ha in quest'epoca caratteri schiettamente giapponesi: l'eleganza e l'espressione intima ne sono qualità essenziali, oro e colori delicati la rendono decorativa, una religiosità spinta all'estasi mistica e una raffinatezza squisita ne sono lo spirito. Il paesaggio spesso vi appare: e nel suo taglio a guisa di scenario continua ancora l'antica tradizione cinese. Per la prima volta nella storia dell'arte giapponese si trovano pitture profane. La letteratura romanzesca in voga nelle corti, le leggende sacerdotali e le storie cavalleresche dell'età di Fujiwara esigevano delle illustrazioni. Dapprima semplici vignette inserite nel testo, le illustrazioni divengono alla fine i makimono, specie di rotoli, di lunghezza considerevole, da svolgersi a poco a poco. Con questo genere artistico s'inizia la scuola Tosa, lo Yamato-e, un'arte di cui il Giappone - come dice lo stesso nome - ha sempre rivendicato orgogliosamente l'esclusività. Un esempio già appartenente all'epoca seguente ne mostra con sufficiente chiarezza le particolarità tecniche. Essa possiede una prospettiva che non è, come quella dell'arte europea, tratta dallo studio diretto della natura, ma è di carattere illustrativo, intento a mettere anzitutto in evidenza il piano mediano, il principale campo visivo, verso il quale convergono tutte le linee tanto dall'alto che dal basso. Il principio e il fondo del campo prospettico vengono occultati per quanto è possibile, con nuvole o con nebbia, quasi quinte spaziali. Si vede l'interno delle case come se fossero prive di tetto. Per i visi il pittore adopera una forma stereotipata, che ha persino un suo nome speciale (Kikime kagibana, lett. "occhio = striscia, naso = uncino"). Il piccolo formato dei quadri esige una ricca policromia, di una finezza da miniatore. Eccezione a questi canoni fanno i rotoli del sacerdote Toba Sōjō, che non ebbe una scuola, illustrati da disegni acquarellati, che mettono in ridicolo la degenerazione della vita monastica, presentando i personaggi sotto le spoglie di animali.
Intanto anche le arti minori avevano acquistato caratteri nazionali. La lacca occupa il posto principale, tanto nella decorazione che nell'arredamento. Il fondo ne era o lucido o dorato o semplice e nero; intarsiata di madreperla o dipinto. Ma già nel sec. XII comincia a farsi strada una tecnica più ricca che consiste soprattutto nel disseminare piccole foglioline d'oro nello strato scuro della lacca. Questi lavori si distinguono dalle grandiose lacche cinesi per la loro molteplicità tecnica e per la tendenza a rappresentazioni figurate. Anche negli oggetti in metallo s'afferma il gusto giapponese: gli specchi vengono decorati con eleganti motivi zoomorfi o vegetali, e le guarnizioni riccamente traforate manifestano la predilezione dei Giapponesi per la perfezione tecnica.
L'architettura ha finalmente qualche edificio profano di lusso e non di pura utilità che, d'altronde, si collega nella struttura ai templi e ai conventi.
Il più importante fra tutti i monumenti architettonici di questa epoca, il tempio Byōdōin in Uji, presso Kyōto, era destinato originariamente a palazzo. Della sua pianta complicata si dice che voglia rappresentare una fenice ad ali aperte. Le proporzioni armoniose, la leggerezza e l'eleganza dell'insieme, l'assenza d'un rigido schema costruttivo gli conferiscono un fascino incomparabile, lacche, dorature, guarnizioni metalliche dànno al suo interno un nuovo aspetto quanto mai caratteristico per lo stile Fujiwara. Altri esempî di questo stile si trovano in varî templi dei dintorni di Kyōto, per esempio nel Daigoji, nel Jōruriji e nello Yakushidō. L'architettura shintoista soggiace ora all'influsso delle forme derivate dai templi buddhisti.
Epoca di Kamakura (1185-1337). - Da Kamakura, considerata come la seconda capitale dell'impero, i principi reggenti, appartenenti alla famiglia Hōlō, dominano, ora, tanto sugl'imperatori, quanto sugli shōgun della famiglia Fujiwara. Quei guerrieri nulla tolsero a Kyōto del suo splendore di centro di produzione artistica; ma sotto il loro influsso avvenne un distacco, almeno parziale, dall'arte troppo raffinata di corte, e un ritorno alla tradizione del continente. Gl'influssi cinesi e le correnti nazionali non si alternano più, d'ora in poi, da un'epoca all'altra, ma coesistono distintamente secondo i diversi generi artistici: riesce perciò più che complicato definire una linea di sviluppo artistico. Importanza predominante nell'arte ebbe la setta Zen, la più notevole fra tutte le scuole mistiche buddhiste, tendente verso la semplificazione, la concentrazione e la compenetrazione con la natura.
La scultura dipende chiaramente da modelli cinesi, disponendo però di un repertorio più ricco, più grandioso. La famosa dinastia degli scultori dell'epoca Kamakura s'inizia con Kōkei e culmina nel suo scolaro, e forse suo figlio, Unkei, di cui abbiamo molte opere. Suoi compagni furono Kwaikei e Jokei, forse della stessa famiglia. Celebre è pure Tankei, figlio di Unkei.
I caratteri di quella scuola risaltano soprattutto nelle rappresentazioni dei patriarchi e sono da ricordare specialmente le statue di Kōfukuji a Nara, di Unkei, di Rengyōin a Kyōto, probabilmente di Tankei. La scultura di quest'epoca ha ormai conquistato tutti i mezzi tecnici: con convincente realismo rappresenta particolari del viso e del corpo, dell'epidermide e delle membra, atteggiamenti varî. Il legno fu il suo materiale preferito, perché adatto ad ogni effetto plastico o pittorico. Immenso è il numero delle sue opere. Nelle rappresentazioni di Buddha si seguì una formula generica, sempre uguale, che nella sua perfezione tecnica appare alquanto vuota, come si vede soprattutto nel gigantesco Buddha di Kamakura, uno dei pochi lavori in bronzo di quest'epoca, ma oltremodo caratteristico per l'arte giapponese.
Nella scultura di ritratto si compie il processo di liberazione da ogni legame d'indole religiosa, non solo nell'abbandono delle vesti di culto, nell'uso d'innalzare statue fuori del recinto sacro, ma anche nello spirito che non conosce altro ideale artistico che il tradurre, con la massima fedeltà possibile, la realtà vivente in una forma plastica. Gli artisti non rifuggono ormai da alcun movimento, per quanto vivace e scomposto, né da alcuna espressione individuale; anche le numerose maschere, usate dal sec. VIII in poi nelle rappresentazioni che si eseguivano entro i templi, lo dimostrano. Più legata alla tradizione rimase invece la pittura.
Continuano a sussistere le vecchie scuole di Kose e di Takuma, che di nuovo accolgono elementi cinesi, ma conservano per il pantheon buddhistico la ricca policromia e l'abbondante doratura dell'epoca Fujiwara. Come nei ritratti scolpiti, così anche in quelli dipinti si cerca di rendere con la maggiore fedeltà possibile i caratteri individuali. Molti templi e molti conventi in Kyōto e nei suoi dintorni possiedono ritratti sicuramente di questo periodo, ma nello stesso tempo si cominciavano a usare ritratti di personaggi di corte, di carattere profano. Innumerevole è la quantità dei rotoli dipinti - i cosiddetti makimono - di questo periodo giunta sino a noi: in essi si narrano le gesta degli eroi, le vicissitudini dei patriarchi, le favole dell'oltretomba. Sui famosi rotoli di Heiji Monogatari, con le loro selvagge scene di lotta, gruppi in violento movimento dominano la scena. Invece nelle pitture di Tosa il paesaggio domina, e spesso l'azione figurativa non è che un modesto particolare in mezzo allo splendore della natura, animata dal giuoco dei colori.
Le arti minori ebbero grandissima varietà di tradizioni e di caratteri nei diversi generi. Tra le lacche, accanto ai grandi recipienti dei templi, compaiono ora lavori più minuti. Importanti fra questi la scatola per gli scrivani (suzuribako) con i suoi scomparti costanti, la scatola per i pennelli, la ciotola per l'acqua e il sasso su cui si stemperano i colori. Frequente nelle lacche è il fondo nero con squame d'oro, nonché il fondo dorato con intarsî di madreperla, oltremodo caratteristico di quest'epoca. Insieme con l'uso del tè, venuto dalla Cina, compare anche la terracotta invetriata; della produzione più antica, collegata col nome di Toshiro, non si sa nulla di preciso; è certo però che essa fu fabbricata nel villaggio di Seto. Si tratta, a quanto sembra, di scatolette a doppia invetriata bruna, molte delle quali a pareti sottilissime, forse di terra appositamente importata dalla Cina. Gli oggetti di bronzo avevano una grande importanza nei templi: le guarnizioni per il loro interno e gli arredi per il culto erano lavorati con la massima cura. Per la prima volta ci si presenta l'arte dello spadaio e del corazzaio, ma non conosceremo mai appieno le spade magistralmente lavorate e tutte le bizzarre armature. Col nome della famiglia Myōchin si ricollegano gl'inizî della decorazione delle spade, ristretta da principio alla guardia, in forma di disco (lo tsuba), e consistente in un parco rilievo con scarse damaschinature d'oro.
L'architettura ricevette l'impulso principale dalla setta buddhistica Zen. Seguendo modelli cinesi, ritornò a piante regolari. Nuove forme appaiono nei capitelli e nella disposizione dei mattoni. Si constata, accanto al persistere dell'eleganza dell'architettura nazionale dell'epoca precedente, un ritorno a forme più severe. E anche le costruzioni shintoiste ritornano al tipo tradizionale, libero da ogni influsso buddhista.
Epoca degli Ashikaga (1337-1573). - Ha nome dagli shōgun Ashikaga. Il paese era dominato dai grandi feudatari che diventavano sempre più indipendenti; ma nonostante tutte le lotte, Kyōto, sicura entro alle sue mura, non perdette nulla della sua egemonia artistica, e il mecenatismo dei principi, appassionati per l'arte, continuò a favorirne la produzione.
La scultura si esaurì nella ripetizione degli schemi tramandati. Solo nel ritratto continuò a produrre capolavori, come pure nelle maschere. Queste maschere, la cui origine è oscura, erano richieste per il nō, il dramma classico (v. sopra: Letteratura). Gl'intagliatori dell'epoca Ashikaga si servirono, è vero, di tipi di maschere più antichi, ma diedero alle loro formule qualcosa di definitivo, la cui efficacia nella scena perdura ancora oggi. Il modo col quale la realtà viene colta e ridotta a una forma astratta e intensa (ad esempio, un demone, una donna in angosce, una bella fanciulla, un vecchio, un eroe) è inimitabilmente giapponese.
La pittura fu l'arte più importante. Continua la tradizione dei quadri religiosi buddhistici e la produzione dei rotoli Tosa con poca originalità, sebbene Tosa Mitsunobu possa essere sempre considerato come una delle figure più importanti nella storia dell'arte giapponese. Ma il fatto nuovo, che ebbe un influsso immenso sullo svolgimento della pittura in questo periodo, fu l'entusiastica adozione della tecnica cinese a bianco e nero, nella quale divennero famose le accademie Sung.
Il primo maestro che imitò i Cinesi fu Jōsetsu, seguito dal discepolo Shūbun, cui si associano il figlio Geiami, Nōami, Sōtan e il sacerdote Sesshū, il più eminente fra tutti. Anche i nomi di Jasoku, di Sōami figlio di Geiami, di Sesson e di Shūgetsu non debbono esser passati sotto silenzio. L'importanza di Sesshū per il Giappone è paragonabile solo a quella del Rembrandt per l'Europa. I suoi soggetti sono paesaggi, scene di contenuto religioso, animali e piante, tutti pervasi da m profondo senso religioso. Nonostante le varianti individuali, in tutti i pittori nominati ritroviamo delle note stilistiche comuni che sono quelle dello stile bianco e nero. Le forme dei quadri da appendere (kakemono) si adattano alle nicchie (tokonoma) entro le quali debbono trovare posto. I paesaggi sono il soggetto che più si prestava a dare forma concreta all'ideale della setta zenita, palese nella limitazione voluta dei mezzi d'espressione. Si arriva al punto di rappresentare un albero, un santo buddhista, un frutto o un uccello con una sola macchia d'inchiostro. La calligrafia viene di frequente inserita nella composizione; le zone vuote destinate ad essere riempite dalla fantasia dello spettatore occupano sempre uno spazio notevole. Questa maniera portò a un'accademia fondata da Kanō Masanobu, il cui figlio Monotobu ne fu il rappresentante maggiore. La scuola di Kanō dominò soprattutto la produzione di corte; benché non insensibile ad altri influssi, si mantenne essenzialmente fedele alle tradizioni del bianco e nero.
L'uso della lacca giunge al suo massimo sviluppo. La sua tecnica, varia e duttile, comincia a prendere un posto predominante che non sarà senza conseguenze fatali. Essa riesce a rappresentare i diversi piani, a variare il fondo e le sostanze adoperate per l'intarsio. E si applica di preferenza a oggetti di piccole dimensioni, mantenuta da maestri e da dinastie di artisti le cui opere sono ricordate a parte a parte.
L'uso della lacca rossa appare in Kyōto in stretta dipendenza dai modelli cinesi. In un oggetto di uso così comune, la teiera, la lacca si conforma mirabilmente allo scopo, negli ornamenti dipinti e intarsiati, con una costrizione che rivela meglio la maestria degli artisti.
Gli oggetti della ceramica servirono soprattutto alla cerimonia del tè; e il valente ceramista non era meno considerato del valente pittore, mentre doveva, coi suoi pochi mezzi d'espressione artistica, condensare in sì piccolo spazio concetti trascendenti. Per la cerimonia del tè (cha-no-yu) (che consiste nel bere, entro una capanna preparata a questo scopo e sotto la direzione d'un cerimoniere speciale, una tazza di tè preparata frullandone la polvere), si confezionavano determinati tipi di recipienti. Il tè in polvere è conservato entro una piccola urna chiusa da un coperchio d'avorio (chaire). L'acqua viene tratta dal recipiente maggiore (mizusashi), mentre per rimescolare il tè e per bere serve la coppa (chawan). Altri pezzi per il servito da tè erano l'incensiere, il piatto per i dolci, i piattini. L'invetriatura, spesso ottenuta con diverse cotture, lascia sempre scoperta al piede delle ceramiche una piccola zona d'argilla. Il pezzo di ceramica viene generalmente staccato dalla ruota per mezzo d'un filo spiraliforme che lascia sotto il piede un segno (itokiri); e questo, e la quantità dell'argilla sono le caratteristiche più importanti per distinguere le scuole e i maestri. La rinomata ceramica Seto (yakimono) si riannoda a tradizioni cinesi, quella Bizen adopera una terra simile alla maiolica. Ricordiamo inoltre le grandi urne per foglie da tè (chatsubo) e servizî di porcellana.
L'arte del bronzo si afferma in modi originali negli oggetti rituali. Essa si servì liberamente di motivi ornamentali, plasma i contorni con forza e grazia. Lo scopo dell'oggetto ne determina ancora la forma e la decorazione: solo più tardi scompare, proprio da questo ramo d'arte, la parsimonia nell'uso dei mezzi.
La decorazione delle spade è dapprincipio affidata al solo incisore. Essa era limitata a determinate parti dell'arma, alla guardia discoide della spada, all'impugnatura della spada a coltello (kozuka) e della spada a spiedo (kōgai), alle chiusure dei pernî trasversali che servono a tener unite l'elsa e la lama (fuchi), alla copertura terminale superiore (kashira) e alle placche sull'elsa (menuki). Nei lavori più antichi la guardia discoide della spada era ornata a traforo anche per alleggerirla. Nei lavori del sec. XV predominano invece le damaschinature di metallo giallo a leggero rilievo, senza escludere qualche ornato a traforo. Tra i molti maestri di questo periodo, Nobuie occupa il primo posto. Dell'epoca degli Ashikaga sono i primi lavori della famiglia Gotō assai ammirata più tardi, specializzata nel decorare i pezzi minori della spada con metalli preziosi su fondo nero cesellato.
Anche nell'architettura si manifestò la tendenza per forme raffinate. Il convento si trasforma in villa, che include con sapiente calcolo il giardino nelle linee del suo insieme architettonico. Anche il locale per la cerimonia del tè viene ridotto a maggiore semplicità, appunto per non disturbare l'effetto d'insieme (v. soprattutto il grazioso edificio del Kinkakuji). I capitelli sembrano quasi soppressi, i tetti meno salienti nel loro effetto scenografico. Si moltiplicano le pagode anche troppo ornate all'esterno.
Epoca dei tokugawa (1573-1868). - Dopo lotte violente prevalse una nuova stirpe di shōgun, i cui fondatori risiedettero nella nuova città di Yedo, la futura Tōkyō. Lo stato, perfettamente organizzato. viene chiuso ad ogni influsso europeo, concedendo il permesso di commercio con i bianchi solo in pochi punti dell'impero, accuratamente isolati dall'interno. Le opere più belle di scultura in questo periodo sono le maschere. Una delle più celebri famiglie d'intagliatori fu quella dei Deme, il cui marchio venne spesso contraffatto.
Per la prima volta s'incontrano sculture minute di soggetto profano e soprammobili di porcellana. Vengono in voga (e poi furono ricercatissimi dai collezionisti europei) i netsuke, bottoni di legno o d'avorio destinati a tener fermo il nastro a cui erano appese le scatolette di lacca per il tabacco o altri oggetti d'uso comune (inrō). Nel sec. XIX la produzione di questi minuscoli capolavori divenne enorme. La meravigliosa capacità dei Giapponesi di cogliere il lato umoristico si maniíesta nelle piccole figure, in cui la finezza della tecnica si unisce a quella del gusto.
La pittura, fin dall'inizio di quest'epoca, assolve nuovi compiti con grande successo. Porte scorrevoli, paraventi a molti pannelli, ombrelli fissi, sono abbelliti con decorazioni lussuose, adatte ai sontuosi interni di palazzi e conventi di cerimonia: e ritorna in uso il fondo d'oro. I primi rappresentanti del nuovo stile decorativo sono i maestri Kanō.
Al fastoso arredamento di castelli e di templi dei secoli XVI e XVII sono associati i nomi di Eitoku, Sanraku e Sansetsu, tutti membri della scuola Kanō. Il problema del rapporto tra la superficie e i varî piani del fondo è risolto con maestria insuperabile: la distribuzione asimmetrica di pochi elementi mette in moto la fantasia; la giusta contemperanza fra la tradizione stilistica severa e la ricerca del vero e della vita pongono questi capolavori nei posti più alti dell'arte giapponese. Kanō Tan-yū portò alla perfezione codeste qualità. Ma già nelle opere sue, e più ancora in quelle della sua scuolȧ, gli elementi decorativi, adoperati con superficialità d'intenti, subentrano alla composizione vigorosamente costruita. I maestri della famiglia Kanō dipinsero anche in bianco e nero; tecnica nella quale essi erano divenuti celebri e che non aveva affatto perduto di popolarità sotto i Tokugawa. Tra i loro seguaci indipendenti citiamo Tōhaku, Soga Chokuan e Shōkwadō. La vecchia scuola di Tosa si congiunse in parte con la scuola Kanō, in parte creò uno stile nuovo, anch'esso schiettamente decorativo e rappresentato da artisti come Kōetsu, Sōtatsu, Kōrin e Kenzan. Anche i rapidi schizzi del grande Kōriti sono arrotondati nel contorno, suddivisi in superficie, illeggiadriti da colori; i suoi fiori variopinti, accuratamente disegnati, si avvicinano ai modi decorativi delle arti minori. Invece nelle opere dei quattro maggiori maestri della scuola di Kōrin (detta anche di Kōetsu), tutto rimane moderato e aristocratico; anche quei maestri non disdegnarono di dipingere lacche e porcellane. Solo verso l'inizio del sec. XIX si giunge a un netto manierismo. Fa i molti pittori non del tutto scevri da influssi europei si può citare Jakuchū. La sua pennellata varia, ma stilizzata, è tipica per quest'epoca tarda, caratterizzata da grande abilità tecnica e scarsa fantasia. I due monaci tonsurati che incedono con passo così energico in mezzo al passaggio appena accennato, intenti, lungi dagli uomini, allo studio del loro testo religioso, non personificano più il vecchio spirito zenita: sono esseri strani, leggermente ridicoli. È impossibile enumerare tutte quante le scuole manieristiche. Quella di Ōkyo si vale persino già della prospettiva e del modellato appresi dall'Europa.
I soggetti infine divengono del tutto profani specialmente nell'incisione ma anche nella pittura. Matabei inizia a Yedo un'arte, che più tardi con Motonobu si allontana definitivamente dai vecchi soggetti. Una nuova classe sociale, la borghesia, si afferma anche nel campo artistico. In colori vivaci, ma accordati con molto gusto, si rappresentano - spesso con un realismo assai crudo - scene tratte dalla leggenda, dalla storia e dalla vita quotidiana. Persino in quest'arte, apparentemente nuova, ma in realtà basata su formule fisse, continua a vivere il retaggio dei grandi maestri del passato, soprattutto dei Tosa.
I nomi e lo sviluppo dell'ultima grande scuola giapponese, la Ukiyo-e (lett. "pittura della vita") sono legati all'arte dell'incisione in legno.
Quest'antica arte, in origine adoperata solo a scopi religiosi come mezzo facile per riprodurre le immagini divine, ora diventa uno strumento di propaganda, d'istruzione e di abbellimento economico della casa. Rappresenta di preferenza lottatori, attori e geishe. La scuola di Kwaigetsudō, importante anche nel campo della pittura, predilige ancora i fogli acquarellati a mano. Sembra che Harunobu sia stato il primo a stampare in più colori illustrazioni di scene galanti che si svolgono quasi esclusivamente nelle case da tè. Kiyonaga riesce a conservare una certa ampiezza di linee e di composizione; Shunshō e Shunkō preferiscono scene tratte dal teatro; Utamaro e la sua scuola creano nuove formule per i ritratti di belle cortigiane. I potenti ritratti di attori, della mano di Sharaku, liberano ancora una volta l'arte dell'incisione dal manierismo inerte con l'accentuazione fortemente caricaturale delle particolarità fisionomiche. Questo artista, maestro nell'animare la superficie con sapienti composizioni lineari, ha esercitato sull'Europa, durante il periodo di voga del Giappone, grandissimo influsso, accanto a quello di Utamaro. Assai inferiori sono le incisioni dei suoi successori, i Toyokuni e i Kuniyoshi, abili nelle pubblicità teatrali. Con Hokusai, artista molteplice, e Hiroshige, il geniale paesista, l'incisione in legno colorato giapponese termina nel secolo XIX il suo breve, ma brillante sviluppo.
In lacca furono prodotti capolavori, verso il 1600, ancora ispirati alla pittura decorativa. Poi le lacche dell'epoca Tokugawa si distinguono per eleganza. Soltanto le opere dei seguaci di Kōetsu sono legate a canoni stilistici severi, pur non essendo questi determinati dalle possibilità tecniche della materia; il resto è prodotto di lusso, di grande ricchezza coloristica e di un'eleganza minuziosa, di una tecnica raffinata più che espressione d'un impulso artistico. Gli inrō (specie di astuccetti che si portavano alla cintura e che erano composti di varie suddivisioni) hanno decorazioni spesso troppo artificiose.
Per la ceramica continuò ad avere grande importanza la cerimonia del tè, la quale andò modificandosi nei suoi caratteri, e da contemplazione quasi religiosa divenne un giuoco di formalità. Questo non diminuì la valentia tecnica dei vasai. Un numero stragrande di scuole continua a ispirarsi, nella sua produzione, ai principî stilistici dell'età degli Ashikaga. L'impulso nuovo che l'arte ricevette da dilettanti come Rikyū ed Enshū - soprattutto nella ceramica fatta a mano detta raku-yaki - è rimasto efficace sino a noi. Unanime ammirazione suscitavano anche le opere dei vasai coreani, spesso strappati addirittura con la violenza alla loro terra natia. Importanti manifatture di porcellana si svilupparono, non del tutto libere dall'influsso cinese. Nabeshima e Kutani nonché Kyōto sono i centri di produzione per il mercato interno, seguendo l'indirizzo dato da Ninsei, forte personalità d'artista che introdusse principalmente l'uso dei colori fusi su fondo bianco. Per i mercati esteri lavorano invece Arita e Satsuma, che si uniformano al gusto europeo.
La decorazione delle spade diventò sempre più ricca a mano a mano che esse, perdendo il loro carattere di arma da combattimento, diventavano un elemento essenziale del vestiario signorile. Le scuole di Higo alla fine giungono a comporre la guardía della spada con intrecci di sottili fili metallici. Altre scuole usano intarsî d'un lusso fantastico, e riescono a ottenere come per un incanto effetti pittorici in uno spazio piccolissimo, ma oltrepassano - ad esempio nell'abuso degli smalti - i limiti segnati dalla destinazione originaria degli oggetti.
Nei costumi teatrali soprattutto si mantenne la ricchezza tecnica ed ornamentale dell'arte tessile giapponese. In questa si osserva spesso l'influsso europeo (ad esempio nel motivo dell'aquila a due teste, probabilmente importata dai Portoghesi). Ma anche allora i colori discreti e l'uso temperato dell'oro e dell'argento appartengono ancora al patrimonio artistico giapponese. Nei numerosi campioni di stoffe giunti fino a noi si può studiare, come in una grande enciclopedia, l'immensa fantasia di quell'arte, grande anche in queste piccole cose.
Nell'architettura, accanto ai palazzi, acquistano importanza i castelli fortificati non senza particolari derivati dall'architettura europea. I castelli di osaka e di Nagoya sono fra i più noti. Nei templi si ripetono ancora vecchie forme, spesso infiacchite o sovraccariche e ricercate. E da ultimo l'architettura segue anche troppo la scultura. Esempî tipici di quest'arte degenerata sono molti edifizî commemorativi, soprattutto le tombe degli shōgun a Nikkō, portali come quello di Nishi Hongwanji a Kyōto. Ma quanto in tali costruzioni va perduto di grandiosità è compensato dall'eleganza dei particolari e dalla perfetta padronanza deì problemi tecnici. L'Europa, per molto tempo, non ha conosciuto, ammirato e imitato dell'arte giapponese se non questo suo aspetto decadente.
Dall'era Meiji in poi (1868 ad oggi). - Mentre, attraverso una rivoluzione, la corona riusciva a riconquistare il potere assoluto, e se ne serviva per condurre il Giappone a una posizione politica ed economica mai vista prima, la rapidità con la quale si effettuava tanta trasformazione da stato feudale a grande potenza mondiale non era senza scapito delle tradizioni, durate fino allora ininterrottamente. Solo verso l'inizio del sec. XX si manifestò un ritorno cosciente all'arte dei padri, dopo l'infatuazione occidentalista.
Nella scultura una rinascita non era più possibile. La pittura invece cerca, e con successo, di riannodarsi al passato, in contrasto con l'imitazione troppo servile dell'Occidente. Oggi, in Giappone, predominano i tradizionalisti, come si è potuto constatare pochi anni or sono nelle due mostre di Roma e di Berlino.
Le arti minori sono riuscite, almeno parzialmente, a mantenersí immuni dall'uniformità meccanica. Gli artisti della lacca continuano a lavorare sempre con l'accuratezza tecnica dei maestri del passato; i ceramisti mantengono la tradizione dei loro predecessori e delle loro fabbriche; solo gli spadai videro la loro arte condannata a morte dal divieto di portare armi. Ma anche là dove l'arte mantiene pure le tradizioni antiche, da tutte le opere traspare qualcosa di artificioso, di voluto, che non riesce a dissimularsi.
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Epoca Ashikaga. E. S. Morse, Catalogue of the Morse Collection of Japanese Pottery, Cambridge 1901; Sh. Hara, Die Meister der japanischen Schwertzierraten, Amburgo 1902; F. Brinkley, Japan, VIII, Londra 1903; Sesshū Gwashū, Tōkyō 1903; G. Jacoby, Japanische Schwertzierraten, Lipsia 1904, voll. 2; E. Grosse, Der Stil der Japanischen Lackkunst, in Zeitschr. für ısthetik, 1906; Monotobu Gwashū, Tōkyō 1909, voll. 3; Bijutsu Shuyei, Tōkyō 1911, voll. 25; O. Kümmel, Japanische Stichblätter und Schwertzierraten der Sammlung G. Oeder, Berlino 1913; E. Grosse, Das ostasiatische Tuschbild, Berlino 1922; J. Poncetton, Les gardes de sabre japonaises, Parigi 1924; F. Perzyński, Japanische Masken, Berlino 1925, voll. 2; K. Okakura, Das Buch vom Tee, Lipsia s. a.
Epoca Tokugawa. Körin Gwashū, Tōkyō 1904, voll. 5; A. Brockhaus, Nesuke, Lipsia 1905; Ukiyoye Gwashū, Tōkyō 1906, voll. 5; J. Kurth, Utamaro, Lipsia 1907; id., Sharaku, Monaco 1910; id., Harunobu, Monaco 1910; id., Der japanische Holzschnitt, Monaco 1911; id., Die Primitiven des Japanholzwchnittes, Dresda 1922; L. Bachhofer, Die Kunst der japanischen Holzschnittmeister, Monaco 1922; L. Binyon e J. J. O'Brien Sexton, Japanese Colour Prints, Londra 1923; F. Rumpf, Meister des japanischen Farbenholzschnittes, Berlino 1924; id., Frühe japanische Holzschnitte: Sammlung Straus Negbaur, Berlino s. a.
Epoca Meiji. Catalogue of the Okura Exhibition of Japanese Art at Rome, Tōkyō 1930, voll. 2.
Musica.
La musica giapponese, con le sue basi teoriche e i suoi strumenti, nasce dalla scuola cino-coreana, che in Giappone penetra del sec. V al VII. Quella teorica cinese, che è sì lontana dalla nostra di oggi, trova soltanto colà una naturale diffusione, rispondendo pienamente alle conseguenze della sensibilità musicale nipponica. Tutti gli studiosi hanno constatato la singolare somiglianza delle teoriche cinesi con quelle di Pitagora; somiglianza che del resto si nota anche tra le due concezioni astronomiche: mistica dei numeri, ecc. Quel che è meno facile da accertare è la ragione storica di tale fatto: influenza greca sulle scuole cinesi o derivazione di ambedue le teoriche da un'anteriore sorgente comune.
La gamma giapponese tipica si forma, come la cinese, con elementi di due tetracordi disgiunti (cioè senza nota limitrofa comune), ma dalla cinese differisce per il genere degl'intervalli tra i gradi: invece che su toni interi e terze minori (do-re-fa-sol-la-do'), essa procede, tranne un intervallo, su semitoni e terze minori (do-re b-fa-la b, do'). Presso questa gamma troviamo però anche la gamma a toni interi ed altre le quali, in pratica, all'atto dell'esecuzione musicale, subiscono frequenti ed ampie oscillazioni, che però non sono considerate come vere alterazioni della gamma. Né esse potrebbero sconvolgere lo schema melodico fondamentale, presso cantori che, come i giapponesi, si distinguono per una sorprendente memoria, oltre che del ritmo, anche dell'altezza dei suoni, relativa e assoluta.
Per quel che concerne la tecnica tradizionale della composizione dotta, dobbiamo anzitutto notare l'assenza di un'armonia vera e propria, nel senso che noi diamo a tale termine; la musica giapponese s'informa, se mai, piuttosto a una sorta di eterofonia in cui la frase cantata da una delle voci viene contemporaneamente a passare, presso altre voci, a traverso una sorta di ornamentazione a base di fioriture, pur conservandovi sempre immutato il proprio schema melodico costitutivo.
Gli strumenti usati in Giappone sono quasi tutti - come già si è accennato - d'origine cinese; tra di essi ricorderemo specialmente i seguenti: 1. A corda: biwa, sorta di liuto, a 4 corde di seta lunghe circa cm. 79 ½ con 4 fermagli in legno; l'accordatura è in sol-la-re-sol' oppure in mi-si-mi'-la'; koto, corrispondente al cinese ch'in; ha 13 corde in seta. Nell'accompagnamento di certi canti (come i saibara, di cui segue un esempio), se ne usano due tipi, differenti nell'estensione della serie dei suoni e nella tecnica dell'esecuzione, chiamati sōchō e hyōjō. Il primo abbraccia la seguente serie:
Particolarità di questi strumenti a corda è che essi possono essere suonati anche da due esecutori. 2. Strumenti a fiato: shō, fatto da 17 sottili zufoli di bambù, di cui 15, muniti di ancia, producono la serie:
Simile all'oboe è il kichiriki, con 7 fori (per le dita) sul lato esterno e 2 sull'interno; usato specialmente per accompagnare la melodia. Dà la serie:
Si dice fue un flauto con un foro per la bocca e 7 per le dita, lungo 40 cm., la cui estensione è alquanto più ristretta, specialmente nel registro acuto, di quella del flauto europeo. Tra gli strumenti a percussione ha importanza lo shaku-byōshi, d'origine nazionale, che consta di due leggiere tavolette di legno, lunghe 37 cm.
Un'idea approssimativa della composizione musicale giapponese classica e di quella sua tecnica, dianzi paragonata all'eterofonia greca, si potrà avere dal seguente esempio, un frammento di saibara (genere di composizione per canto e strumenti) tratto dal repertorio della musica di corte, cioè da una delle fonti più vetuste:
Nell'esame del frammento (la cui trascrizione è approssimativa) si ricorda che lo shaku-byōshi è suonato dal solista, che le note precedute da freccia vanno di poco alzate o abbassate, e che al Tutti entra un coro a 6 voci virili.
La differenza di tonalità fra le parti vocali e le strumentali è tipica della musica giapponese, cui non è inerente il senso dell'armonia proprio dell'arte occidentale. È lecito del resto pensare che tale supposizione tonale tenda anche a rinforzare la sonorità complessiva. Come l'antica musica cinese, così anche la giapponese ha le sue prime manifestazioni nel servizio sacro; tanto che ad ogni tonalità rimase una propria funzione magica, e un valore non dissimile si attribuì anche al clangore del gong usato nel tempio.
Ma, oltre che nel cerimoniale sacro e aulico, la musica penetra anche nella vita borghese e popolare; sono conosciuti anche in Giappone, per es., i cantori girovaghi, i quali cantano e danzano in maschera, al suono dello shamisen, sorta di liuto a 3 corde, d'origine cinese. Così anche nel teatro la musica ha una notevole importanza. Già era formato di dialogo, danza e musica il cosiddetto nō, spettacolo fortemente stilizzato, di durata media (circa un'ora), nato da forme del cerimoniale sacro del secolo XV. Nel nō si può vedere un annunzio del moderno teatro giapponese, assai ricco di musica nonostante l'estrema parsimonia di mezzi materiali. Quivi intervengono infatti soltanto due musici, l'uno dei quali suona lo shamisen o il koto, mentre l'altro accompagna col canto e con strumenti a percussione l'entrata dei personaggi principali e le scene di danza.
L'esercizio professionale della musica era ordinato in quattro categorie: alla prima, che forniva i cantori della corte imperiale, appartenevano i cosiddetti gakunin, di famiglia nobile; alla seconda i genin, di famiglia borghese, la cui istruzione doveva avere un carattere unicamente pratico; alla terza i ciechi, il cui repertorio doveva limitarsi alla musica popolare; alla quarta le donne (di solito geishe) cui era vietata l'esecuzione di musiche del repertorio classico o di genere spirituale.
L'istruzione musicale in Giappone è stata sempre assai curata, anche prima dell'arrivo dei maestri europei chiamati ad apportarvi riforme. Con i corsi di canto andava poi connesso l'insegnamento di norme inerenti al cerimoniale. La chiamata d'insegnanti europei al conservatorio dì Tōkyō ha aperto la via alla musica e alla cultura musicale d'Occidente alla cui diffusione contribuiscono in gran parte i dischi, le trasmissioni per radio e il cinematografo sonorizzato.
Alla conseguente estinzione della tradizione giapponese si cerca oggi di contrapporre la tutela dei documenti che ne restano; e si vengono formando collezioni di strumenti, discoteche, serie di edizioni.
Bibl.: Müller, Einige Notizen über japan. Musik, in Mitteilungen der deutschen Gesellschaft für Ostasien, VI-IX; F. T. Piggott, The music and musical instruments of Japan, Londra 1893; O. Abraham e E. M. v. Hornbostel, Studien über das Tonsystem der Japaner, in Sammelbände d. Int. Musik-Gesellschaft, IV; R. Lachmann, Musik und Tonschrift des Nō, in Atti del 7° Congresso della Deutsche Musik-Gesellschaft, Lipsia 1926; S. Isawa, Collection of Japanese Koto Music, Tōkyō 1888, perfezionata nel 1913; K. Kiyosuke e S. Tsuji, Die geschichtlichen Denkmäler der japanischen Tunkunst, Tōkyō 1930.
Diritto.
Cenni Storici. - La storia del diritto giapponese è suddivisa generalmente in quattro grandi periodi.
Epoca delle leggi indigene. - Va dalla fondazione leggendaria dell'impero, nel sec. VII a. C., sino alla fine del secolo VI d. C. In quest'epoca la società giapponese ha base patriarcale, l'unità politica e sociale è il clan, a ciascun clan spetta un compito proprio; su tutti i clan predomina l'imperatore, la cui famiglia è il clan primigenio, al quale gli altri sono sottomessi.
Epoca dell'adozione del sistema di diritto cinese. - Va dal principio del sec. VII sino alla fine del sec. XII. L'adozione del sistema di diritto cinese fu l'opera dello stesso potere imperiale, il quale, vedendosi minacciato dai clan divenuti eccessivamente potenti, compì quella che si potrebbe chiamare una vera e propria rivoluzione, se non fosse stata compiuta dall'autorità legittima: introdusse la costituzione cinese, abolì i clan e i loro privilegi, ne espropriò le terre, incamerandole alla corona, ecc. Tuttavia il paese era ben lungi dal possedere quelle condizioni di progresso e di civiltà che in Cina avevano permesso lo sviluppo sorprendente del diritto sotto la dinastia dei T'ang (618-907). Di modo che la riforma s'impose finché il potere imperiale che l'aveva introdotta rimase forte politicamente e militarmente, ma con l'indebolirsi di esso, la riforma trovò ostacoli formidabili nella situazione stessa del paese, e, con l'andar del tempo, contribuì, al contrario, a formare e a consolidare il feudalesimo. In questo secondo periodo si ebbero le prime codificazioni di leggi. Queste a "norme penali" ryō "a norme civili" kaku sono le ordinanze complementari, emanate posteriormente alla codificazione, e shiki sono gli ordini amministrativi e i rituali delle feste e delle cerimonie. Il primo codice giapponese, denominato Ōmi-ryō, terminato nel 689, dopo più di trent'anni di lavori preparatorî, era completamente modellato sul codice cinese e comprendeva 22 libri di ryō, ma non è pervenuto sino a noi, né è chiaro se contenesse o no le norme penali. Esso venne sostituito nel 701 dal famoso "Codice dell'era Taihō", il Taihō ritsu-ryō. Questo codice, opera dell'imperatore Monmu (697-707) è rimasto formalmente in vigore sino alla restaurazione imperiale nel 1868. Nei due secoli successivi si ebbero poi tre importanti codificazioni di kaku e di shiki, e cioè il Kōnin-kaku-shiki, pubblicato nel 1811, il Jōgztan-kakushiki nel 1868 e l'Engei-kaku-shiki nel 1907.
Epoca mista di leggi indigene e di diritto cinese. - Va dal 1192 sino al 1868. Questo periodo comprende il regime shogunale dei Minamoto, la reggenza degli Hōjō, lo shogunato degli Ashikaga e quello dei Tokugawa. Questo lungo periodo, di circa sette secoli, è suddiviso in tre periodi minori, ossia: 1192-1477, Periodo dei capitolari; 1477-1615, periodo delle leggi daimyōnali; e 1615-1867, periodo delle ordinanze. Fra le più importanti manifestazioni legislative di quest'epoca sono da notare: per il periodo dei capitolari, il Jōei shikimoku ossia "Il capitolare dell'era Jōei", promulgato nel 1232, durante la reggenza degli Hōjō (1205-1333), e contenente 51 capitoli; il Kenmu shikimoku ossia "il capitolare dell'era Kenmu", promulgato nel 1356 durante il regime shogunale degli Ashikaga (1338-1573); per il periodo delle leggi daimyōnali, il Jinkai-shō, "Codice della casa daimyōnale dei Date", compilato verso il 1535; e infine per l'ultimo periodo delle ordinanze, sono da notare i tre famosi codici promulgati nel 1615 dallo stesso fondatore della potenza dei Tokugawa: il Buke shohatto, codice per i militari, i daimyō e i samurai; il Kuge shohatto, codice per i principi e i nobili di corte, e il Sōke shohatto, codice per gli ecclesiastici. Durante il lungo e pacifico shogunato dei Tokugawa tutta la legislazione ebbe un nuovo e vigoroso impulso, e furono fatti notevoli tentativi di sistemazione. Le numerosissime disposizioni emanate durante questo periodo sono state riunite insieme, a seconda della materia, nei primi anni dopo la restaurazione imperiale, per servire come materiale di studio per la preparazione dei codici, formando la poderosa raccolta intitolata Kwajōruiten. Caratteristica della legislazione di questo periodo è che essa non veniva resa pubblica, ma soltanto comunicata riservatamente alle autorità giudiziarie e amministrative che dovevano applicarla.
Epoca dell'adozione del diritto europeo e americano. - Ha inizio dalla restaurazione imperiale (1868). Subito dopo l'abolizione dello shogunato, venne tentato il ritorno puro e semplice alle leggi cinesi, le quali dodici secoli prima erano state introdotte dallo stesso potere imperiale; ma, oramai, i grandiosi avvenimenti che avevano portato alla restaurazione della feudalità e a regolari rapporti con le potenze europee, richiedevano riforme più radicali. Un movimento per l'adozione delle leggi dei paesi occidentali trovò validi appoggi nella stessa classe dirigente, ed ebbe il sopravvento. Il Giappone, in pochi anni, si diede una legislazione nuova, modellata su quelle delle potenze europee più progredite.
Diritto vigente. - Diritto costituzionale. - V. sopra: Ordinamento dello stato.
Díritto civile. - Nel corso del 1889 venne promulgato, per entrare in vigore col 1° gennaio 1893, un codice civile, basato essenzialmente su un notevole progetto eseguito dal giurista francese Boissonade de Fontarabie. Ma tale codice non venne mai applicato, per le fortissime opposizioni del paese, e fu sostituito con un nuovo codice molto più elaborato, che entrò in vigore nel suo complesso il 16 luglio 1898, pur essendo stato promulgato in due volte, nel 1896 e nel 1898. Il vigente codice civile del Giappone si è ispirato al codice civile tedesco, non trascurando codici d'altri paesi e consuetudini nazionali, specie in materia di parentela e di successione, e in genere di diritto di famiglia.
Il codice civile giapponese (Minpō) comprende cinque libri. Il libro primo (articoli 1-74) contiene le disposizioni generali; il libro secondo (articoli 75-398) tratta dei diritti reali; il libro terzo (articoli 399-724) delle obbligazioni; il libro quarto (articoli 725-963) della parentela e il libro quinto (articoli 964-1046) della successione. Per la trasmissione dei diritti reali, il codice ha adottato il principio che essa avviene mediante la semplice dichiarazione di volontà delle parti, ma che non possa opporsi a terzi l'acquisto o la perdita, oppure la modificazione di un diritto reale su un immobile, se non sia trascritto secondo le norme stabilite dalla legge sulla trascrizione degl'immobili. Questa legge, del 24 febbraio 1899, statuisce che la trascrizione ha luogo per la costituzione, la modificazione o l'estinzione di uno qualunque dei diritti su immobili qui appresso enumerati: 1. proprietà; 2. superficie; 3. enfiteusi; 4. servitù; 5. prelazione; 6. pegno; 7. ipoteca; 8. locazione. La legge ammette altresì una trascrizione provvisoria e una trascrizione cautelare. In proposito sono da ricordare alcune altre leggi: 1. legge del 27 marzo 1900, sul diritto di superficie; 2. legge del 1° maggio 1909, sulla protezione degli edifizî; 3. legge del 21 settembre 1901, sul diritto di affitto perpetuo dei terreni; 4. legge del 13 aprile 1910, sul diritto di proprietà fondiaria degli stranieri; 5. legge del 7 aprile 1921, sulla locazione delle case d'abitazione; 7. legge del 31 marzo 1914, sullo stato civile; 8. legge del 16 marzo 1899, sulla cittadinanza, ecc.
Diritto commerciale. - La codificazione del diritto commerciale venne prima eseguita sul progetto del giurista tedesco Hermann Roesler, fondamentalmente basato sul codice dello Zollverein tedesco del 1861. Pur essendo stato promulgato nel corso del 1890, per entrare in vigore il 1° gennaio 1893, questo codice ebbe soltanto parziale applicazione dal 1893 al 1897, e una brevissima applicazione integrale dal 1897 al 1899. In quest'ultimo anno, col 16 giugno, entrò in vigore il nuovo codice di commercio, preparato da un comitato di giureconsulti giapponesi, il quale si ispirò principalmente al progetto di revisione del codice commerciale tedesco (divenuto poi il Handelsgesetzbuch del 1897), pur senza trascurare i codici degli altri paesi e gli usi mercantili nazionali. Il codice di commercio del Giappone (Shō-hō) venne promulgato con legge del 9 marzo 1899, restando tuttavia in vigore il libro terzo del vecchio codice, sul fallimento, libro infine abrogato e sostituito dal 1° gennaio 1923 dalla nuova legge sul fallimento, del 25 aprile 1922.
Il codice di commercio del 1899, che è stato notevolmente modificato nel 1911, comprende 5 libri. Il libro primo (articoli 1-41) contiene le disposizioni generali; il secondo (articoli 42-262 ter) tratta delle società commerciali; il terzo (articoli 263-433) degli atti di commercio; il quarto (articoli 434-537) dei titoli di credito e il quinto (articoli 538-689) del commercio marittimo. Norme importanti per l'applicazione del codice di commercio vennero emanate con legge del 9 marzo 1899.
Diritto processuale civile. - Un primo codice di procedura civile venne promulgato nel 1890, per entrare in vigore col 1° gennaio 1891: esso era compilato quasi letteralmente sulla Zivilprozessordnung del 1879 e venne successivamente modificato nel 1898 (per concordarlo col nuovo codice civile, allora pubblicato), nel 1911, nel 1922 e nel 1926.
Il codice di procedura civile (Minji-soshō-hō) comprende 8 libri. Il libro primo (articoli 1-222) contiene le disposizioni generali; il secondo (articoli 223-359) tratta dei procedimenti di prima istanza; il terzo (articoli 360-419) dei ricorsi; il quarto (articoli 420-429) della revisione; il quinto (articoli 430-443) del procedimento sommario (la modificazione del 1926 ha soppresso gli articoli 444-496); il sesto (articoli 497-763) dell'esecuzione forzata; il settimo (articoli 764-785) del procedimento per via di citazione per pubblici proclami; l'ottavo (articoli 786-805) della procedura per via di arbitrato.
Vi è poi un gruppo di leggi che formano un vero e proprio complemento del codice di procedura civile, e che qui ci limitiamo a enumerare: 1. legge del 21 giugno 1898, sulla procedura per le azioni di stato; 2. legge del 21 giugno 1898, sulla procedura in materia non contenziosa (legge importantissima, il cui libro primo contiene le disposizioni generali, il secondo tratta della materia non contenziosa civile, e il terzo della materia non contenziosa commerciale); 3. legge del 21 giugno 1898, sulla vendita all'incanto; 4. legge del 25 aprile 1922, sul fallimento, nel cui libro secondo vi sono vere e proprie norme procedurali; 5. legge del 25 aprile 1922, sul concordato.
Diritto e procedura penale. - La codificazione del diritto penale venne dapprima eseguita sul progetto preparato dal giurista francese Boissonade de Fontarabie, fondamentalmente basato sul codice di Napoleone. Esso venne promulgato nel 1880 per entrare in vigore col 1° gennaio 1882. e dopo circa tre decennî venne sostituito da un nuovo codice ispirato a principî più moderni e più consoni ai tempi mutati.
Il vigente codice penale (Kei-hō) fu promulgato il 24 aprile 1907, per entrare in vigore col 1° ottobre 1908. Comprende due libri (disposizioni generali e reati), e consta in tutto di 264 articoli.
Il codice di procedura penale (Keiji-soshō-hō) è il codice di più recente data del Giappone, essendo stato promulgato il 5 maggio 1922, in sostituzione del vecchio codice di procedura del 1890.
Sono disposizioni complementari del codice penale e di procedura penale la legge del 17 aprile 1922, che istituisce un tribunale speciale per i minori; l'altra del 18 aprile 1923, che istituisce i giurati, e infine la legge del 28 marzo 1931, che accorda indennità in caso di detenzione illegittima o di errore giudiziario.
Bibl.: A) Opere in lingue europee: J. C. Hall, Japanese Feudal Laws, in Transactions of Asiatic Society of Japan XXXIV (1906); XXXVI (1908); XXXVIII (1911); XLI (1913); G. Perris, Rassegna completa di legislazione giapponese, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, IV-V ii (1930); J. E. De Becker, Elements of Japanese Law, in T. A. S. J., XLIV (1916); H. Itō, Commentaries of the Constitution of the Empire of Japan, 2ª ed., Tōkyō 1906; Y. Oda, Principes de droit administratif du Japan, Parigi 1928; J. E. De Becker, Annotated Civil Code of Japan, voll. 4, Yokahama 19 9-10; R. Ikeda, Die Hauserbfolge in Japan unter Berücksichtigung der allgemeinen japanischen Kultur- und Rechtsentwickelung, Berlino 1903; N. Hozumi, Il nuovo codice civile giapponese quale materiale per lo studio del diritto comparato (trad. it. dall'inglese), Milano 1910; N. Hozumi, Il culto degli antenati e il diritto giapponese. Trad., pref. e note di G. Castelli, a cura di E. Albertario e P. De Francisci, Milano 1923 (con aggiunta una densa nota di Pietro Bonfante che mette in evidenza come l'antico diritto giapponese offra un'analogia quasi inesplicabile, tant'è sorprendente, con l'antichissimo diritto romano); H. Roesler, Entwurf eines Handelsgesetzbuches für Japan mit Commentar, voll. 3, Tōkyō 1884; Code de Commerce de l'Empire du Japon. Traduction française avec une introduction et des notes, a cura di G. Ripert e S. Komachiya, Parigi 1924; J. E. De Becker, Commentary on the Japanese Commercial Code, voll. 3, Tōkyō 1914; The Commercial Code of Japan, Annotated, vol. I, edito da: The Codes Translation Committee, The League of Nations "Association of Japan", Tōkyō 1931; Japanisches Strafgesetzbuch vom 13 April 1907, Berlino 1908. Per la legislazione giapponese in materia agraria si può utilmente consultare la collezione dell'Annuaire internationale de législation agricole, pubblicata dall'Ist. Internazionale di Agricoltura di Roma a partire dal 1911.
B) Opere in lingua giapponese: S. Takigawa, Nihon hōsei-shi (Storia del diritto giapponese), Tōkyō, 2ª ed., 1930; Y. Oda, Hōgaku tsūron (Principî generali di diritto), Tōkyō 1924; T. Minobe, Gyōsei teiyō (Elementi di diritto amministrativo), voll. 2, ed. riveduta, 1930; S. Mitsuma, Minpō sōsoku teiyō (Trattato sulle disposizioni generali del codice civile), ed., riveduta, Tōkyō 1931, voll. 2; N. Nakashima, Minpō tsūron (Trattato di diritto civile), Tōkyō 1924; T. Takeno, Shin minji-soshō-hō shakugi (Commentario della nuova legislazione di procedura civile), Tōkyō 1931; N. Matsunami, Shin Nihon-shō-hō (Il nuovo codice commerciale del Giappone), ed. ampliata, Tōkyō 1918; K. Minaguchi, Shō-hō yōron (Trattato di diritto commerciale), Tōkyō 1930; E. Makino, Nihon kei-hō (Il diritto penale del Giappone), 41ª ed., Tōkyō 1931; E. Makino, Keijisoshō-hō (La procedura penale), ed. riveduta, Tōkyō 1931; M. Watanabe, Hōristu jiten (Dizionario giuridico), 2ª ed. riveduta, Tōkyō 1929; Hōritsu nenkan (Annuario giuridico), adesso al sesto anno (1931).
V. tavv. I-XXXII e tavv. a colori.