BRUNO, Giordano
I. Vita e opere. - Da Giovanni Bruno, gentiluomo soldato, e da Flaulisa Savolino nacque in Nola, sull'inizio del 1548, Filippo, che poi prese il nome di Giordano quando a Napoli - ove nel 1562 passò a compir gli studî di lettere e filosofia - vestì nel giugno 1565 l'abito domenicano nel convento di S. Domenico.
In questo convento il B. trascorse la maggior parte dei suoi anni di chiostro: vi fu novizio, professo (1566), sacerdote (1572), dottore in teologia (1575); sempre pervaso da un fervore di studio che gli procurò uno straordinario sapere: poeti e filosofi, pagani e cristiani, ortodossi ed eretici, tutti avidamente lesse e meditò; di alcuni specialmente subì il fascino: Eraclito, Parmenide, Lucrezio, Plotino, Lullo, Copernico e il Cusano.
Da queste letture il suo spirito, dopo una prima adesione alla metafisica e cosmologia aristotelica, fu tratto all'inquieta ricerca di nuovi orientamenti. Egli stesso ne ricorderà poi nei dialoghi italiani il quasi trentenne travaglio: il passaggio all'eliocentrismo, e la lunga fase materialistica, fino al primo balenare della sua nuova visione dell'infinità e animazione universale. Entro il chiostro, se pur riesce a far tacere i primi dubbî sui dogmi (trinità, incarnazione) contrastanti con le sue sorgenti concezioni, non sa tollerare l'incomprensione di dottrine eretiche; sicché si attira richiami e, nel 1576, un processo, rimasto sospeso a Napoli per la sua andata a Roma nel convento della Minerva. Dopo poco, non oltre il marzo 1576, mentre ancora si attendeva la continuazione del processo, deposto l'abito religioso fuggì da Roma, peregrinando fra Liguria, Piemonte, Veneto e Lombardia due anni, nei quali, fra l'altro, insegna anche astronomia a Noli, e stampa a Venezia l'operetta Dei segni dei tempi, per noi perduta, al pari della precedente Arca di Noè.
Dal Piemonte va nel 1579 a Chambéry, e a Ginevra; qui aderisce al calvinismo; ma ne prova ben presto l'intolleranza, processato e costretto a umiliarsi per aver rilevato gli errori del De La Faye, e se ne parte pieno di rancore contro la "multiforme eresia".
Entrato in Francia, v'inizia il periodo scientificamente più fecondo. Tolosa (1879-81) gli conferisce il dottorato nelle arti e la cattedra, prima straordinaria poi ordinaria, di filosofia, per quanto il suo ardore per l'arte lulliana (su cui scrive una Clavis magna, perduta) susciti, dagli aristotelici, contrasti che si rinnovano nel soggiorno di Parigi (1581-83); ma sono sopraffatti dall'alta fama che di sé leva il Bruno. L'arte combinatoria e la mnemotecnica, cui egli attribuiva il suo sapere, attirano l'interesse dello stesso re Enrico III, che gli conferisce una cattedra stipendiata. E B. nel De umbris idearum, nel Cantus circaeus e nel De architect. et Commento artis Lulli (Parigi 1582) espone le due tanto vantate arti. La lulliana vuol risolvere un problema logico-metafisico: costruire il sistema delle relazioni fra le idee, nella convinzione, schiettamente platonica, che ciò significhi costruire il sistema del reale. Essa procede a ciò per mezzo di tavole e figure: determinando gli elementi primi del pensiero (soggetti e predicati) che rappresenta con lettere (alfabeto della grande arte) in una specie di tavola pitagorica, e poi inscrive in triangoli e circoli, fatti rotare per trarne le varie combinazioni (sillabario e dizionario dell'arte). Questo congegno della combinatoria B. applica anche alla mnemotecnica (e più tardi anche alla venatoria o inventiva).
Nella mnemotecnica si tratta di risolvere il problema della memoria fondandosi sulle leggi dell'associazione; ma B., nel ricorrere per le idee all'unione con immagini sensibili, si basa su un principio filosofico: che le nostre idee, ombre delle idee eterne, sono al par di queste legate in catena quali parti di un tutto e s'illuminano a vicenda, perché unica è la luce che in tutte risplende.
Così, riprendendo la dottrina neoplatonica, B. accentua già nel De umbris l'affermazione dell'unità del principio che tutto eternamente anima, nella molteplicità e mutevolezza delle cose singole; e vien delineando quella filosofia monistica, con la quale (dice nella dedica del Candelaio) "l'animo mi s'aggrandisse e me si magnifica l'intelletto". Il Candelaio (1582) con la cruda satira (poi largamente imitata; anche da Molière) dell'insipido amante, del sordido avaro e del goffo pedante, è una delle battaglie combattute da B. "il fastidito", contro la pedanteria degli scolastici e la bassezza delle aspirazioni volgari: è quasi un preludio alla sua riforma morale dello Spaccio.
Ma l'incombente ripresa della guerra civile in Francia spinge nell'aprile 1583 B. in Inghilterra, protetto dall'ambasciatore francese conte di Castelnau. Stampa a Londra tre opere mnemoniche: Ars reminiscendi, Triginta sigillorum explicatio, Sigillus sigillorum, nelle quali, dall'affermazione della mente che tutto vivifica nell'universo, più intima alle cose che le cose stesse, si conclude con Parmenide che tutto è uno; e perciò in ogni molteplice s'ha da cercar l'uno e in ogni diverso l'identico; e perciò l'amore che tutto genera e scalda ci spinge a ricongiungerci a Dio. Abbozzi delle dottrine svolte poi nella Causa e negli Eroici furori, questi sono già associati in B. con la visione dell'infinità dell'universo dedotta dalla teoria copernicana: e certo, leggendo filosofia e astronomia a Oxford, egli espone tali dottrine; ma le ire, sollevate dall'ardimento loro e da una pubblica disputa coi teologi oxoniensi, lo costringono a interrompere l'insegnamento e a tornarsene a Londra (1583).
Ospite del Castelnau, introdotto a corte, in alte amicizie e anche nella conoscenza della "diva" Elisabetta, B. attende con fervore ai dialoghi italiani, che pubblica a Londra con la finta data di Parigi e di Venezia: Cena de le ceneri, De la causa principio et uno, De l'infinito universo et mondi, Spaccio de la bestia trionfante (1584), Cabala del cavallo pegaseo con l'aggiunta De l'asino cillenico, Degli eroici furori (1585). La Cena e l'Infinito svolgono, contro la cosmologia geocentrica, la visione dell'infinità dell'universo dedotta dalla cosmologia copernicana e dal principio dell'infinità divina; e dall'unità del primo principio e dell'anima universale, che tutto muove e governa, la Causa conclude all'unità divina dell'infinita Natura; e lo Spaccio, applicando all'uomo, specchio dell'universo, l'immanenza del divino, traccia per lui il processo di una purgazione morale, la quale, riconoscendo il valore della legge di natura ed esaltando lavoro, giustizia e amore come principî dell'unità etica dell'umanità, avvia lo spirito all'unità più profonda con l'universalità divina. Ma a questa, che solo nella contemplazione della verità si realizza, la Cabala e l'Asino liberano la via abbattendo l'ostacolo della "santa asinità", nemica dell'investigazione del vero; e gli Eroici furori infine fan percorrere la scala ascendente della conoscenza e dell'amore fino alla visione dell'infinita Natura, nella cui unità la mente ritrova il Dio più intrinseco a lei ch'ella non sia a sé stessa, e con lui s'immedesima. Nella discontinuità e diversità d'oggetto e d'ispirazione, si cela in questi dialoghi un certo nesso che li lega in organismo; né può dirsi che vi manchi serietà pur sotto il riso amaro di una satira che suscitò le reazioni violentc della società inglese, le quali avrebbero travolto B. se non l'avesse salvato la protezione del Castelnau.
Richiamato questi in Francia (autunno 1585), B. lo segue in non lieto ritorno: derubati in viaggio di quanto portavano, caduto in disgrazia il Castelnau, fallito a B. il tentativo di rientrare nel cattolicismo senza riprender l'abito di frate, egli si raccoglie nello studio, scrivendo Arbor philosophorum (perduto), Dialogi duo de Mordentis prope divina adinventione (1586), esaltazione di pretese scoperte del geometra suo conterraneo, Figuratio aristotelici auditus (1586) e fors'anche Libri physicorum Aristotelis explanati, più tardi trascritti dal suo scolaro Bessler in Germania. Ma queste accurate esposizioni d'Aristotele sono per lui affinamento di armi per attaccarlo poi, contrapponendogli l'infinità, unità e animazione dell'universo nelle 120 tesi (Centum et viginti articuli o Acrotismus), che il suo discepolo Hennequin proclama (giugno 1586) a sfida dei dottori dell'università. Il tumulto che ne nasce e i pericoli che minacciano B. lo inducono a partire.
Ed eccolo in Germania, ove una cattedra, negatagli a Marburgo, gli è concessa a Wittenberg (agosto 1586) con rispetto di quella libertà filosofica che egli altamente rivendica nell'introduzione all'Acrotismus (1888). Ma prima pubblica opere lulliane: De progressu et lampade venatoria e De lampade combinatoria (1587); detta Animadversiones circa lampadam lullianam e Lampas triginta statuarum, applicando alla venatoria o inventiva il congegno della combinatoria, con tentativi di deduzione delle categorie, di costruzione della trinità neoplatonica e dimostrazioni della sostanzialità dell'anima. Ma nel corso del 1588 il prevalere dei calvinisti minaccia anche a Wittenberg quella libertà filosofica, per cui B. celebrava questa nuova Atene e Lutero (Oratio valedictoria); ed egli trasmigra a Praga, accolto e beneficato da Rodolfo II, cui presenta il trattatello lulliano De specierum scrutinio e dedica gli Articuli adversus mathematicos, dove, contro lo spirito d'intolleranza e di setta religiosa, esalta la divina legge d'amore e la dignità della libertà umana. Sulla fine del 1588, passato a Helmstedt, accolto dal duca Enrico Giulio, vi resta per un anno e mezzo. Riassume allora i trattati mnemonici nel De imaginum compositione; trae le applicazioni magiche dell'animismo universale nelle cinque opere De magia, Theses de magia, De magia mathematica, De rerum principiis, Medicina lulliana, e nella summa terminorum Metaphysicorum afferma l'identità di volontà e necessità, l'ottimismo e il rispecchiamento dell'universo in ogni cosa; compie infine i tre poemi latini: De triplici minimo, De monade, numero et figura, De immenso et innumerabilibus. Importante il primo, per il tentativo di risolvere il problema della conciliazione fra la dottrina monistica e la mutevole pluralità delle cose, ricorrendo alla concezione atomistica della materia tutta penetrata dall'anima universale; e il terzo in quanto sviluppa ed elabora la confutazione della cosmologia aristotelica e la nuova intuizione dell'infinita natura, già svolte nella Cena e nell'Infinito.
Per la pubblicazione di questi poemi e del De imaginum compositione, B. è a Francoforte sul Meno nel giugno 1590, e, dopo breve dimora a Zurigo, nella primavera 1591. A Francoforte un libraio da Venezia gli reca l'invito di un patrizio, Giovanni Mocenigo, che, letto il De minimo, s'è invogliato di apprender dall'autore i segreti della memoria per farsi dotto. E nell'agosto 1591 il B. torna in Italia. Dimorando prima a Padova, dopo qualche mese passa a Venezia in casa Mocenigo, ove detta De vinculis in genere e De tigillis Hermetis et Ptolomaei, e infine, compiuto l'insegnamento promesso a costui e terminata l'opera Le sette arti liberali e inventive, che pensava di presentare al papa per essere riammesso nel cattolicesimo, decide nel maggio 1592 di recarla a stampare a Francoforte. Ma il Mocenigo, fosse o no deluso nel suo sogno di diventare dotto con la mnemonica, lo denuncia al Santo Ufficio; e la notte del 21 maggio lo consegna con tutte le carte e i manoscritti (fra cui De' predicamenti di Dio e Libretto di congiurazioni); e in tre successive denunce ne elenca eresie e bestemmie.
Il processo s'inizia. B. espone la sua vita e il suo pensiero filosofico, insistendo sulla separazione fra "la raggion filosofica secondo li principî e lume naturale" e "la verità secondo il lume della fede"; ma, coerente con la sua teoria del valore pratico della religione, si dichiara il 3 luglio pentito e pronto a sottomettersi. Il processo avrebbe potuto chiudersi favorevolmente, se non fosse intervenuta dal papa l'insistente domanda di consegna dell'imputato che Venezia dové cedere, secondo il diritto allora vigente.
Nel gennaio 1593 B. è trasportato a Roma nelle carceri dell'Inquisizione, e i processi precedenti e i suoi libri sono dati in esame al commissario generale e al Bellarmino. Ben sette anni si trascina il nuovo processo, che solo a frammenti si può oggi ricostruire. Ci mancano, oltre alle carte trasmesse da Venezia, i numerosi memoriali e gl'interrogatorî dell'imputato; ci manca l'elenco delle proposizioni eretiche che il Bellarmino estrasse dalle opere minutamente censurate e dai costituti; solo quattro ne troviamo accennate: due questioni teologiche - ripudio della transubstanziazione (cfr. minuta della sentenza) ed eresia novaziana sulla trinità (verbale 24 agosto 1599) - e due filosofiche: la pluralità dei mondi (verbale 24 marzo 1597) e la teoria dell'anima presente nel corpo come nocchiero nella nave (24 agosto 1599), teoria pertinente anche alla teologia a causa della definizione dommatica del concilio di Vienna. Queste ultime due tesi erano capitali nella filosofia bruniana. Il B. credette subito di trovare una differenza tra il tribunale veneto e il romano, pensando che questo volesse non solo la ritrattazione sul terreno della fede, ma la sconfessione della sua stessa filosofia. In un interrogatorio del 15 febbraio 1599 (cfr. sentenza) B. avrebbe, dopo sette anni di resistenza, vacillato dicendosi pronto ad abiurare le otto proposizioni e qualsiasi altra; e forse anche in una scrittura del 5 aprile (cfr. verbale 24 agosto) le avrebbe in parte revocate; ma nei memoriali e interrogatorî successivi stette fermo a nulla ritrattare: contesta che le accuse si fondano su proposizioni malamente staccate; che egli non deve né vuol ravvedersi, perché non ha né sa di che ravvedersi. Il 20 gennaio 1600, aperto ma non letto l'ultimo memoriale di B., il papa ordina che si emani la sentenza; l'8 febbraio B. come eretico impenitente, pertinace e ostinato è cacciato dal gremho della chiesa e consegnato alla corte secolare; ciò che significa anche per lui quel che la sentenza ordina per tutti i suoi scritti: condanna ad esser arso. Alla lettura il condannato fieramente risponde: "Tremate forse più voi nel pronunciar la sentenza che io nel riceverla"; e da quel momento il suo contegno non piega fino all'estremo istante, quando, sul rogo di Campo di Fiori, la mattina del 17 febbraio, esala l'ultimo respiro.
II. La libertà filosofica: religione e filosofia. - "Araldo e martire della nuova e libera filosofia" fu chiamato B. dallo Spaventa; e certo, dal suo punto di vista, non c'è altri nel Rinascimento cui più convenga tal nome; obstinatissimo eretico" lo dissero con gli Avvisi contemporanei i cattolici romani, da quelli del sec. XVII sino a quelli dei giorni nostri. Secondo il B., si cerchi sempre la ragion vera e necessaria: si ascolti la voce della natura (dedica Advers. Mathem.): natura sit rationi lex non naturae ratio (De immenso, VII, 14°, 13). Ma a ciò occorre il libero esercizio e la libera espressione del pensiero; ed ecco il nemico più fiero: l'intolleranza e lo spirito di setta, di cui massima rappresentante è per B. la Riforma (Spaccio, 87-91).
Il compito della religione per B. (qui la ragione della sua preferenza per il cattolicismo, che riconosce il valore delle opere e il libero arbitrio) è soprattutto morale. La rivelazione divina nelle Scritture non vuol essere insegnamento teorico "come se fusse filosofia" (Cena, 86), ma fondamento e indirizzo alla norma morale per tutti quelli (e sono i più) che han bisogno di un comando e di una sanzione per seguire e operare il bene. Ciò implica a un tempo che la religione debba essere intesa come principio d'unione e d'amore, e che i saggi debbano praticamente aderire alla chiesa del paese in cui vivono, appunto per la coscienza più profonda del danno di scismi e discordie, senza peraltro che alla loro libertà sia portato pregiudizio dai teologi (Infin., 239).
Esigenza di rispetto reciproco che su una di queste due condizioni potrebbe fondarsi: o solidarietà e cooperazione tra fede e ragione, o separazione dei rispettivi campi, in modo che esse mai debbano scontrarsi e urtarsi. B. tende da una parte alla seconda soluzione, per la teoria dell'incommensurabilità fra verità rivelata e razionale (lumeggiata in lui dal Gentile): la separazione così non è coesistenza nelle stesse coscienze, ma divisione fra "rozzi popoli, che denno esser governati" e "gli contemplativi, che sanno governar sé e altri" (Infin., 295). Ma d'altra parte B. ha coscienza della profonda religiosità della sua filosofia, in quanto ricerca dell'eterna infinita verità: amor dei intellectualis, come aveva detto Leone e dirà Spinoza. E così il rapporto fra religione e filosofia diventa rapporto fra due forme di religiosità (Causa, 232). La doppia verità diventa così contesa fra due verità: di fede e di ragione; delle quali B. chiama bensì "più alta contemplazione" la sopramondana; ma in realtà, non scorgendovi che abbandono "alla rivelazione o degli dei o de' vicarî loro" la satireggia amaramente nella Cabala e nell'Asino.
Per lui questa fede, che scinde natura e Dio, ripudiando ciò che è "naturale e per conseguenza divino" (Spaccio, 6), è una forma inferiore di religione: là dove la sua filosofia, che nell'infinità dell'universo "magnifica l'eccellenza de Dio e manifesta la grandezza dell'imperio suo (Infin., 275), favorisce la religione più che qualsivoglia altra sorta di filosofia (Cena, 91). "Dalla qual contemplazione... aremo la via alla vera moralità... perché doveneremo veri contemplatori dell'istoria de la natura, la quale è scritta in noi medesimi, e regolati executori delle divine leggi, che nel centro del nostro core son iscolpite" (Infin., 273).
Ma B. stesso, inviluppato nella contraddizione propria del Rinascimento, non vedeva chiaro tutto il logico sviluppo di quell'"uman pensiero e sentimento naturale" contrapposto alla "santa asinità". Affermava (Cena, Infinito, Spaccio, Cabala, Eroici furori, Acrotismus, De immenso) come voluta da natura e da necessità una divisione dell'umanità in due piani, un'opposizione fra il popolo asino e i pochi sapienti, fra la moltitudine del volgo che come la mano non può aver l'occhio perché "non è stata fatta da natura per vedere" (Cena, 88), e i rari uomini eroici e divini. Ma quest'antitesi (lo vide in parte lo Spaventa) è minata dalla più profonda dottrina dell'immanenza di Dio in tutti, che significa bisogno prepotente dell'infinito in noi e in tutta la natura (De immenso, I, XIII, Er. fur., 342-356, 388; Spoccio, 80-81; Infin., 412).
L'immanenza universale del divino tende così alla coerente conclusione universalistica; per essa "in ogni tempo, in ogni etade e in qualsivoglia stato che si trove l'uomo sempre aspira" alla verità, e per lei "suol spreggiare qualsivoglia fatica, tentar ogni studio" (Er. fur., 440).
III. La conoscenza. - In tutti la conoscenza e l'amore del divino si svolgono quale conato dell'intrinseca potenza infinita verso l'atto. "La potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile..., l'intelletto vuol intender tutto il vero", perché nell'una "si trova tutto il visibile in attitudine", nell'altra tutto l'intelligibile (ibidem, 356-7). Ecco "quel sprone ch'il stimola [l'animo] sempre oltre quel che possiede" (362), onde "da la maggior apprensione nasce maggior e più alto desio" (396) e "la potenza intellettiva mai si quieta, mai s'appaga in verità compresa, se non sempre oltre e oltre procede alla verità incomprensibile" (421).
La radice di questa infinità di conato, che non è vana, perché è "circa l'atto infinito" (394), è l'immanenza della Mente divina che è tutta in tutti gli esseri e tutti li anima, anche se non tutti sogliam dire animati. Dal Sigillo alla Summa e al De immenso un'identità d'istinto, senso e intelletto si afferma costantemente. Al posto dell'antitesi si afferma l'identità di natura: e quindi i diversi gradi, che con i neoplatonici B. seguita a differenziare, si unificano (come notò il Tocco) in una continuità di sviluppo tutta svolgentesi dal senso. Sensus in se sentit tantum; in imaginatione persentit etiam se sentire... in ratione imaginari se percipit... in intellectu animadvertit se argumentari... in divina mente intelligentiam suam tuetur (Sigillus, § 932). Ma dunque dalle prime alle ultime opere di B. sotto le formule neoplatoniche si cela ben diverso significato, conforme alla teoria dell'immanenza: è sempre la stessa potenza conoscitiva come è sempre la stessa verità "ne l'oggetto sensibile come in uno specchio; ne la ragione per modo di argomentazione e discorso; nell'intelletto, per modo di principio o di conclusione; nella mente, in propria e viva forma" (Infin., 281). Nel salire questi gradi "montando alla perfetta cognizione, andiamo complicando la moltitudine" (Causa, 250), perché per comprendere bisogna semplificare e unificare: nel grado più alto l'unificazione è compiuta non soltanto nell'oggetto della conoscenza, ma nello stesso rapporto del soggetto con esso, che è d'immedesimazione e identità. Siamo all'unione intellettuale con Dio, all'estasi neoplatonica (preparata dalle concentrazioni di cui parla il Sigillo), a quel rapimento in cui la mente che insegue l'oggetto dell'intuizione ne è assorbita. Ma per quanto B. parli di "rapto platonico" in cui l'anima può giungere a lasciare il corpo e restar assorbita in Dio (morte di bacio), in realtà l'anima, anziché annullarsi in questa unione, la raggiunge "procedendo al profondo de la mente... al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più che [ella] medesima essere non si possa" (Eroici fur., 413; Cena, 24). Per ciò tale contemplazione non solo si oppone alla passiva ricezione dello spirito divino, ma si distingue anche dall'estasi mistica per essere "un impeto razionale", che viene "dal contatto intellettuale di quel nume oggetto" (332-3). Il qual nume non può essere pertanto "l'inobiettabile, non sol che incomprensibile... luce absoluta , ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l'universo, la natura che è nelle cose... perché dalla monade che è la divinitate procede questa monade... che è la natura comprensibile, in cui influisce il sole e il splendor della natura superiore" (443-4). Per ciò al posto della neoplatonica identità assoluta dell'Uno, cui solo il silenzio o la teologia negativa convengono, si riflette nel pensiero concretamente la coincidenza dei contrarî e la moltitudine dei mezzi, per cui essa "natura descende alla produzione de le cose e l'intelletto ascende a la cognizion de quelle" (Causu, 248-56). Non potendo "la nostra potenza intellettiva... apprendere l'infinito, se non in discorso" (Eroici fur., 341), in luogo dell'assoluta quiete dell'estasi si ha "l'infinita persecuzione che ha raggion... di certo moto metafisico" (353). E il movimento e conato infinito, per cui la contemplazione è infinita ricerca dell'"infinito oggetto de la mente", è nell'anima umana partecipazione alla condizione divina (ibid., 453-5)
IV. Dio e l'Universo: infinità e animazione della nature. - Così nelle formule neoplatoniche è travasato un ben diverso spirito. Anche la trinità neoplatonica di Mens (Padre), Intellectus (Figlio) e Anima universi (Spirito) è riaffermata; ma la distinzione fra i tre vacilla, perché tutti son fatti nella Lampas e nella Summa intimi alle cose; e nella Causa l'intelletto diventa la prima facoltà dell'anima del mondo; e la Mens super omnia o provvidenza sopraceleste o Dio trascendente, che Bruno continua sempre ad affermare, o si riduce a un caput mortuum, che il "vero filosofo" abbandona al "fedele teologo", ovvero tende a intrinsecarsi esso pure nella natura, "più intimo alli effetti della natura, che la natura istessa; di maniera che, se lui non è la natura stessa, certo è la natura della natura, ed è l'anima dell'anima del mondo, se non è l'anima istessa" (Spaccio, 179; cfr. anche Cena, Causa, Eroici fur., ecc.). E la Natura, a sua volta non può esser altro che Dio nelle cose" (Spaccio, 174; cfr. De immenso, 1°, 307; 2°, 193 e 312).
Ed ecco l'animazione universale, l'unità della natura, la sua infinità. La dottrina dell'infinità dell'universo, che B. svolge nella Cena, nell'Infinito e nel De immenso è da lui esaltata in tutto il suo ardimento: nella luminosa visione del nolano si dissolvono le sfere cristalline, il centro e la periferia assoluti, i luoghi naturali dei varî elementi, l'opposizione fra cielo e terra, il motore estrinseco. Come il nostro pensiero procede di spazio in spazio senza fine, così nella realtà si distende uno spazio infinito, in cui centro, circonferenza e ogni altra determinazione è relativa; e un'infinita materia tutto ugualmente lo riempie, mossa dalla stessa infinita causa intrinseca (anima universale), che forma e fa rotare mondi innumerevoli. Per tale presenza dell'anima universale tota in toto et in qualibet totius parte ogni cosa è specchio dell'universo ed eco della voce che ovunque risuona. Il detto di Anassagora (in ogni cosa tutte) si ripete in un senso che anticipa Leibniz: in quacunque re, etiam exigua et abscissa, mundum, nedum mundi simulacrum valeas intueri (Sigillus, II, 3); "in ogni uomo, in ciascun individuo si contempla un mondo un universo e (Spaccio, 12). Da questo concetto consegue che la conoscenza della natura ci è possibile perché, essendone parte, possiam studiarla in noi; e che un vincolo universale d'amore lega e unifica tutte le cose: radice e giustificazione speculativa delle credenze magiche (cui B. ha dedicato tutta una serie di opere), secondo le quali su tutte le cose possiamo operare per mezzo di tutte. Ma anche un'altra conseguenza ne discende: che tutti gli esseri si raccolgono in una specie suprema, e viceversa ogni singola specie le rappresenta tutte (De monade, I, 146-205); ossia che ogni forma nelle cose non sia altro che la presenza dell'anima universale, sicché alla aristotelica molteplicità delle forme si sostituisce l'unità di un solo principio formale, "vero atto e vera forma di tutte le cose" (Causa, 183).
V. Il monismo bruniano: l'uno e i molti e la coincidenza dei contrarî. - "Mi par udir cosa molto nova", dice un interlocutore della Causa (179) a questo preludio del monismo bruniano. L'unità della forma (anima, fonte delle forme) viene a trovarsi di fronte all'unità della materia (ricetto delle forme): "doi geni di sustanza, l'uno... atto sustanzialissimo, nel quale è la potenza attiva di tutto..., l'altro... potenza e suggetto, nel quale non sia minor potenza passiva di tutto" (197-8). Ma "l'una non è senza l'altra in modo alcuno... perché l'una potenza implica l'altra; voglio dir con essere posta, lei pone necessariamente l'altra"; anzi "è tutt'uno e a fatto la medesima cosa" (211). Così la potenza passiva si insinua anche nel "primo principio soprannaturale"; e la distinzione fra Dio e natura vacilla. B. l'appoggia all'antitesi posta dal Cusano, per cui l'identità di potenza e atto (possest) è in Dio "come complicata, unita ed una" e nell'universo "secondo un modo esplicito, disperso e distinto". Ma si può ben rilevare che né Dio sarebbe più "potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti", se fosse potenza e atto solo della complicazione e non anche dell'esplicazione; né l'universo potrebbe, senza farsi Dio, avere in sé la stessa identità complicata di potenza e d'atto, ossia "un primo principio che medesmo se intenda non più distintamente materiale e formale" (212-16).
Questo primo principio è l'unità della omniforme sustanza (136), in cui la distinzione dei "doi geni di sustanza" ("spirituale e corporale") "si riduce ad uno essere e una radice... Onde non fia difficile e grave di accettar al fine che il tutto, secondo la sustanza, è uno, come forse intese Parmenide" (2 I7). Ecco la divina unità della natura: sostanza che si può dir materia nel senso più profondo, in cui questa s'identifica con l'anima: cosa indistinta... raggione comune e, che si fa corporea assumendo l'attributo o "raggione propria... de le dimensioni e estensione" (227); ma "non viene a ricevere le dimensioni come di fuora, ma a mandarle e cacciarle come dal seno" (230); perché in sé stessa non ne ha nessuna solo in quanto le ha tutte, ossia è complicazione genitrice dell'esplicazione, sostanza-causa, "che esplica lo che tiene implicato"; e "deve esser chiamata cosa divina e ottima parente, genetrice e madre di cose naturali anzi la Natura tutta in sustanza" (234). Siamo alle soglie dello spinozismo: il "summo principio... escluso dalla nostra considerazione" è abbandonato al "fedele teologo" e il "vero filosofo" guarda all'"Universo uno, infinito, immobile", che "è talmente forma, che non è forma; è talmente materia, che non è materia; è talmente anima che non è anima; perché è il tutto indifferentemente, e però è uno, l'universo è uno" (239-40).
Ora ecco di fronte al monismo il problema della pluralità. Preoccupato dell'unità immutabile della sostanza, B. pare spinto come gli Eleati alla svalutazione della molteplicità: "tutto lo che fa differenza e numero, è puro accidente... Rimanendo la sustanza sempre medesima... ogni volto, ogni faccia, ogni altra cosa è vanità e come nulla, anzi è nulla tutto lo che è fuori di questo uno" (243). Ma la vanità e il nulla si convertono d'altra parte nella stessa realtà della sostanza: la quale è unità; ma l'unità concreta, diceva il De umbris, non è l'astratto logico, bensì il totum et unum, che in sé racchiude e ordina la pluralità (Opp. lat., II, 44-47). L'unità è complicazione; ma questa è infinita potenza di sglomeramento, che resterebbe senz'atto (ossia astratto logico) se non si esplicasse. Bisogna dunque che si sdoppî dapprima in infinita potenza attiva e infinita potenza passiva: "è necessario conoscere nella natura doi geni di sustanza, l'uno che è forma (anima) e l'altro che è materia" (Causa, 197). Bisogna poi "che in diverse parti della materia tutte le forme abbiano attuale esistenza" (176) simultanea, e successiva in ogni singola parte, perché ognuna è sustanza nella parte" per l'immanenza dell'anima o "essenza dell'universo" la quale ha in sé complicate tutte le forme" (244-6): perciò in qualsivoglia cosa" è in volontà della natura, che ordina l'universo, che tutte le forme cedano a tutte" (213), "a fin che secondo tutte le parti (la materia) si fia tutto, se non in un medesimo tempo e istante d'eternità, almeno in diversi tempi, in varî istanti d'eternità successiva" (Cena, 113). Quindi ecco l'infinita molteplicità e il suo moto incessante; ecco il principio degl'indiscernibili, per cui non si dànno nell'infinito universo due pesi, due lunghezze, due suoni o due moti eguali (De minimo, II, 5ª, 48), e in ogni specie sono tutte rappresentate per la diversità fra gli individui (De monade, introd.); ecco nell'infinità del tempo la stessa infinita varietà, per cui "noi medesimi e le cose nostre andiamo e vegniamo, passiamo e ritorniamo, e non è cosa nostra che non si faccia aliena; e non è cosa aliena che non si faccia nostra... e non è cosa, alla quale... convenga esser eterna, eccetto che alla sustanza, che è la materia, a cui non meno conviene essere in continua mutazione" (Cena, 114); ecco questa mutazione non poter essere mai ripetizione identica del passato, e anzi accennare in un luogo del De immenso (Opp. lat., I, 2°, 294) a un'introduzione dello sviluppo in Dio.
Perché la potenza infinita deve tradursi infinitamente in atto; e ovunque è la stessa infinita potenza attiva e passiva; ovunque, per la presenza dell'anima universale e per l'indifferenza della materia, è l'infinita complicazione, che deve esplicarsi nell'infinità del tempo e dello spazio; diventando in ogni istante e in ogni punto determinazione che è limite o negazione, ma perciò "necessariamente avverando in sé la successione di uno essere dopo l'altro" (Causa, 212-4 e Spaccio 72-73).
Poiché la molteplicità infinita è intrinseca alla stessa unità della sostanza, come necessaria esplicazione dell'implicazione sua, essa discende egualmente dall'uno e dall'altro dei due generi di sostanza (materia e anima): l'una infinita potenza di ricetto, l'altra infinita potenza di conferimento delle forme. Per ciò B. sembra continuamente oscillare nel determinar l'origine del differenziamento, della molteplicità e della mutazione: di fronte all'unità dell'anima ricorre alle divisioni e diverse disposizioni della materia, di fronte all'indifferenza della materia ricorre all'anima che la foggia e informa, per riconoscere talvolta che in tutte le specie è la stessa materia e la stessa anima, e che le differenze derivan tutte dalla contrarietà originale e prima di materia e forma. Ossia (come è detto in Lampas) ogni distinzione in atto implica la divisione, cioè l'estensione, che la Causa già poneva quale attributo della materia. Il problema del rapporto fra complicazione ed esplicazione, ossia della stessa concezione della sostanza come unità concreta anziché astratto logico, conduce quindi B. ad approfondire quella teoria della divisione della materia, che in tutte le sue opere appare tendente verso un atomismo, dapprima limitato da una distinzione fra elementi, superata infine nel pieno atomismo dei poemi latini. Il quale pertanto non va giudicato, come parve al Tocco, abbandono del monismo della Causa, ma svolgimento del problema che esso poneva. Certo la coincidenza di complicazione ed esplicazione, unità e molteplicità pone un altro problema che B. (pure affrontandolo) non risolve con netta coerenza: il problema del rapporto in cui la divisione della materia si trova con l'unità dell'anima universale. Posta la materia come principio della divisione e l'anima immanente come principio dell'unità, mal s'intendono le teorie delle anime-demoni particolari, che sono separabili dal corpo; che a seconda dei loro meriti han segnato le successive trasmigrazioni d'uno in altro corpo e nell'intervallo son tormentate dalla paura dell'inferno.
Ma forse B. vedeva in tutte queste distinzioni e opposizioni nulla più che un caso dell'esplicazione delle forme diverse e contrarie complicate nell'unità dell'anima universale. La sostanza ha una doppia realtà: "è complicatamente uno... ed è esplicatamente in questi corpi sensibili e in la distinta potenza ed atto, che veggiamo in essi. Però... quello che è generato e genera (anima)... e quello di che si fa la generazione (materia) sempre sono di medesima sustanza" (Causa, 247): la natura naturans coincide con la natura naturata; l'antitesi di complicazione ed esplicazione non è quella astratta di Parmenide, ma quella concreta di Eraclito. La moltitudine non è dunque "nella superficie della cosa" come B. eleaticamente ripete, ma nell'intimo della realtà. L'unità si esplica nel descenso alla produzione delle cose, si complica nell'ascenso alla perfetta cognizione: ma così la natura come l'intelletto, percorrendo "una e medesima scala... da l'unità procede all'unità, passando per la moltitudine di mezzi" (Causa, 248-50). E questo passaggio non è come il circolo neoplatonico estrinseco all'unità, che è solo inizio della processione e termine della conversione e sola ha valore: ma è intrinseco e identico ad essa e partecipe della sua realtà; "nella moltitudine è l'unità e ne l'unità è la moltitudine... l'ente è moltimodo e moltiunico... il dividuo è individuo, l'atomo è immenso" (Causa, 137-8). L'unità, come la superiore armonia di Eraclito, risulta dai diversi e contrarî. E da ciò viene anche l'ottimismo della teodicea bruniana, che anticipa quella di Leibniz. Esso discende dal veder i contrarî coincidenti nell'unità, le opposizioni concorrenti alla perfezione del tutto; onde il "male... ne l'occhio de l'eternitade è compreso o per bene o per guida che ne conduce a quello" (ibidem, 335)
VI. L'etica. - Così nel rapporto fra l'unità e i contrarî anche il problema della pratica appare implicato. Problema che B. ha trattato nei dialoghi morali e nelle opere magiche in modo che non è facile ritrovare il filo dell'unità e continuità fra le diversità e divergenze, che hanno indotto F. Tocco a distinguere fasi differenti.
L'immanenza dell'anima universale lega e congiunge tutte le cose, determinando le attrazioni (e repulsioni) che nel De vinculis B. studia naturalisticamente, riducendole tutte a un affetto fondamentale, l'amore, nodo dei nodi, vincolo universale unificatore. Qui, come negli Eroici furori, son distinte tre specie di amore e rapimento: sensuale o ferino, attivo morale o umano, intellettuale contemplativo o divino. Ma anche il ferino è naturale; e nel De vinculis, come nello Spaccio e negli Eroici furori, B. lo difende contro i sicofanti, che chiaman male ciò che natura stessa proclama bene e santifica. Non condanna, dunque, ma disciplina degli affetti naturali egli vuole; e questa è oggetto dello Spaccio, che delineando la via della purgazione morale e dell'ascensione dalla bestia all'uomo, anziché antitesi è introduzione agli Eroici furori, o, come dice B. stesso, preludio che "è espediente preponere". Ma anche la Cabala e l'Asino fan parte di tali preludî. Giacché la differenza fra le tre specie di amore, che pur rappresentano tutte il bisogno e conato d'infinito, suscitati in ogni essere dall'immanenza dell'infinita anima universale, è essenzialmente differenza nel grado di consapevolezza.
Il conato è d'amore e di conoscenza insieme, l'uno all'altra legati in reciprocità inscindibile; e a seconda che la consapevolezza s'illumina e s'approfondisce, anche la sfera dell'azione e della conoscenza si amplia e si eleva. Quindi l'anelito di tutta l'etica bruniana è verso quella consapevolezza piena, che la "santa asinità" specie nella forma del calvinismo, contrasta e impedisce: consapevolezza è la virtù attiva, consapevolezza la contemplazione vera; consapevolezza che s'illumina e sviluppa nell'attività delle opere e del pensiero, che per rivolgersi al proprio oggetto e comprenderlo han bisogno di perseguirlo con inesausta e instancabile venazione. L'intelletto e le mani non son nemici fra loro, ma necessarî cooperatori; azione e contemplazione sono entrambe attività, che muovono da un bisogno, da un'insoddisfazione; e svolgendosi in sempre nuove e meravigliose invenzioni, convertono l'uomo in dio della terra, capace di formare altri corsi e altri ordini oltre quelli naturali e ordinarî (Spaccio, 143). Quindi la Fatica, Sollecitudine e Diligenza, con tutta la coorte delle divinità affini, sono esaltate nello Spaccio (126-143), come nel De monade il lavoro e nella Cena il valore dello sforzo e in tutti gli Eroici furori l'infinito conato o venazione incessante, che è la vera e sola conquista, il vero e solo possesso riconosciuto allo spirito umano. Quindi la virtù, posta nell'amore e nelle opere utili al convitto umano, non si riconosce se non è consapevolezza (Spaccio, 144) di una norma che possa tradursi in legge universale (ibid., 163). E dovendo perciò essere conoscenza delle leggi divine, essa viene a identificarsi con quella contemplazione della natura nella sua infinità, che l'Infinito (273) appunto proclama "la via alla vera moralità": e perciò il primo posto nel cielo morale è dato nello Spaccio alla Verità (76-77), che la filosofica contemplazione deve abbracciare (198).
La scala dell'amore è dunque scala di valori, che nelle loro antitesi coincidono tutti in un valore essenziale: l'unità universale dell'essere che è il sommo bene. Conato d'unità è l'amore sensuale, che si volge al particolare corporeo; più alto conato l'amore umano attivo, che si volge al perfezionamento del consorzio umano; più alto ancora il divino, che ha per oggetto l'unità universale. Ma i gradi più alti non son negazione degli inferiori, come l'unità non è annullamento della molteplicità. B. è veramente tratto negli Eroici furori in due direzioni antagonistiche: da una parte il misticismo neoplatonico, che nell'aspirazione a Dio vede l'abbandono del mondo e il desiderio dell'anima di uscire non solo dal corpo ma anche da sé stessa; ma d'altra parte contro questo dualismo sta l'aspirazione monistica di un naturalismo panteistico, per il quale "Dio, l'infinita bellezza e splendore riluce ed è in tutte le cose", sicché non è errore ammirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle". E però il fastigio della contemplazione, che talvolta misticamente appare come "morte di bacio", nella più profonda convinzione di B. è "sentimento della divina e interna armonia" per cui l'uomo "concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose".
Il "disquarto" dell'anima eroica, divisa fra il finito e l'infinito, il particolare e l'universale, il corporeo e lo spirituale, si concilia così in una superiore armonia che a tutto fa il suo posto nella "natura che è ne le cose". Diana dell'universale Apolline, luce splendente "ne l'opacità della materia". La contemplazione dell'infinito non è perciò estasi e quiete di possesso, ma infinito conato e venazione e moto metafisico; e come tale non è solo all'apice della scala, quasi antitesi a tutti i gradi inferiori, ma è in tutti i gradi continuata ascensione o sforzo, di abbracciare più vasto orizzonte. Come tale, se anche solo "uno o due può giungere" alla meta suprema, "basta che tutti corrano; ognuno può giungere, secondo la sua possibilità, alla sua meta".
E nel corso della storia dell'umanità, in cui B. vede attuarsi l'infinito progresso - incremento quantitativo e qualitativo insieme dello spirito umano - l'industre fatica cui questo è sospinto dalla capacità e dal bisogno che ha in sé, crea la verità figlia del tempo, per la divina facoltà che ha l'uomo di "operar non solo secondo la natura ed ordinario, ma oltre e fuor le leggi di quella", e così "formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l'ingegno". Vico è qui preannunciato: e per questo balenare della nuova intuizione dell'uomo, oltre che per la vigorosa affermazione della nuova concezione dell'universo infinito e dell'unità della natura e dell'essere universale, B. apre le porte alla filosofia immanentistica moderna.
Edizioni: Vanno segnalate: J. Bruni Nolani, Opera latine conscripta, publicis sumptibus edita, recensebant F. Fiorentino, F. Tocco, H. Vitelli, V. Imbriani, C. M. Tallarigo, Napoli-Firenze 1889-91, tomi 3 in 8 voll.; G. Bruno, Opere italiane: I. Dialoghi metafisici e II. Dialoghi morali, con note di G. Gentile, III. Candelaio, a cura di V. Spampanato, Bari 1907-09: a queste edizioni vanno riferiti i richiami fatti nella voce.
Bibl.: Dei moltissimi studî biografici e critici si segnalano quelli di D. Berti e V. Spampanato per la biografia, e quelli di B. Spaventa, F. Fiorentino, F. Tocco, G. Gentile, McIntyre, per le opere e il pensiero di B. Vedi, per indicazioni più precise, V. Salvestrini, Bibl. delle opere di G. B. Pisa 1926 (ottima).