Giordano Bruno
In seguito alla morte sul rogo, sull’opera di Giordano Bruno si è accumulata la densa polvere di una fortuna, e di un mito, che ha stravolto per un lungo periodo tratti essenziali del suo volto e dei suoi scritti. Eppure a lui si devono alcuni dei principali concetti del pensiero europeo moderno: l’universo infinito e i mondi innumerabili; la distruzione del cosmo aristotelico e tolemaico; la critica radicale dell’età dell’oro; la concezione del lavoro come ‘principio’ delle civiltà; la dissoluzione dei generi letterari tradizionali; un nuovo – e rivoluzionario – modello di scrittura filosofica. Intellettuale europeo, figlio della tradizione ‘civile’ italiana, è stato uno dei costruttori delle ‘libertà dei moderni’.
Nato a Nola nel 1548 da una famiglia di modesta condizione, Filippo Bruno (questo è il nome con cui viene battezzato), dopo studi privati a Napoli, intorno ai diciassette anni entra come novizio nel convento di San Domenico Maggiore, assumendo in questa occasione il nome di Giordano. Dopo essere stato ordinato sacerdote, nel 1575 consegue, sempre a San Domenico Maggiore, la laurea in teologia. In seguito alle prime accuse di eresia, fugge a Roma (1576); poi, ormai deposto l’abito, si sposta in Liguria, a Venezia, in Lombardia, dando inizio alla lunga peregrinazione che lo condurrà in tutta Europa. Dopo un breve soggiorno nel convento di Chambéry, si trasferisce a Ginevra, dove aderisce al calvinismo (1579). Processato con l’accusa di aver diffamato Antoine de la Faye, titolare della cattedra di filosofia e rettore dell’Accademia, subisce la scomunica.
Lasciata Ginevra, si reca a Tolosa, dove ottiene l’incarico di magister artium e di lettore ordinario di filosofia; per quasi due anni tiene lezioni pubbliche sul De anima di Aristotele e compone un trattato di arte della memoria rimasto inedito e andato perduto, la Clavis magna. Nel 1581 si trasferisce a Parigi, dove frequenta gli ambienti della corte e conquista l’ammirazione dello stesso Enrico III, che lo include nel numero dei lecteurs royaux. Qui, nel 1582, pubblica le prime opere di ispirazione mnemotecnico-lulliana (il De umbris idearum, il Cantus Circaeus, il De compendiosa architectura et complemento artis Lullii) e il Candelaio, sua unica commedia.
Nel 1583, al seguito dell’ambasciatore Michel de Castelnau, lascia la Francia per Londra, dove pubblica un volume con l’Ars reminiscendi, l’Explicatio triginta sigillorum e il Sigillus sigillorum. Nell’estate dello stesso anno inizia a Oxford un ciclo di lezioni in cui sostiene, tra l’altro, le tesi copernicane; ma il corso sarà presto interrotto con l’accusa di plagio dal De vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino. A Londra, tra il 1584 e il 1585, pubblica i dialoghi italiani: Cena de le Ceneri, De la causa, principio et uno, De l’infinito universo e mondi, Spaccio de la bestia trionfante, Cabala del cavallo pegaseo e De gli eroici furori.
Rientrato in Francia al seguito di Castelnau nell’autunno 1585, dopo un vano tentativo di «ritornar nella religione» grazie alla mediazione del nunzio apostolico a Parigi, nel 1586 pubblica la Figuratio aristotelici Physici auditus, un’esposizione mnemonico-mitologica della fisica aristotelica, in netto contrasto con il tradizionalismo della Sorbona. Risale a questo periodo la polemica con il geometra salernitano Fabrizio Mordente, come anche la stesura dell’opuscolo antiaristotelico Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos, alla base della burrascosa disputa tenuta al Collège de Cambrai (maggio 1586).
Costretto a lasciare Parigi sia per le reazioni negative alla disputa, sia per il precipitare della situazione politico-religiosa, ora segnata dalle rinnovate fortune della Lega cattolica dei Guisa, si reca in Germania. Dopo aver soggiornato a Magonza, Wiesbaden e Marburgo, arriva a Wittenberg, introdotto dal giurista marchigiano Alberigo Gentili (agosto 1586). Qui insegna per circa due anni, e pubblica il De lampade combinatoria lulliana e il De progressu et lampade venatoria logicorum (1587). Tiene inoltre un corso privato sulla Rhetorica ad Alexandrum, che sarà pubblicato solo nel 1612 da Johann Heinrich Alsted con il titolo di Artificium perorandi. Compone le Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas triginta statuarum, opere che saranno pubblicate postume, rispettivamente nel 1890 e nel 1891. Nel 1588 pubblica una seconda edizione (ridotta) dei Centum et viginti articuli usciti a Parigi due anni prima, sotto il titolo di Camoeracensis Acrotismus. Appartengono a questo periodo pure i commenti alle opere aristoteliche, pubblicati anch’essi nel 1891 con il titolo di Libri physicorum Aristotelis explanati.
Congedatosi dall’Università di Wittenberg con una Oratio valedictoria, nella primavera del 1588 si reca a Praga, dove dedica all’imperatore Rodolfo II gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, preceduti da una lettera dedicatoria in cui Bruno illustra la propria concezione della religione e la propria idea di tolleranza. Passando per Tubinga, arriva a Helmstedt, sede dell’Academia Iulia, fondata dal duca Giulio di Brunswick; nel luglio 1589 legge e pubblica l’Oratio consolatoria, composta in occasione della morte del duca. Risale a questo periodo la composizione della maggior parte delle opere di argomento magico, pubblicate postume nel 1891: il De magia naturali, le Theses de magia, il De magia mathematica, il De rerum principiis et elementis et causis, la Medicina lulliana, il De vinculis in genere.
Nell’estate 1590 giunge a Francoforte, dove pubblica i poemi filosofici latini: il De triplici minimo et mensura, il De monade, numero et figura e il De immenso et innumerabilibus, stampati con la data del 1591. Costretto a lasciare la città per ordine del Senato, passa a Zurigo, dove nei primi mesi del 1591 tiene lezioni di filosofia scolastica, raccolte e in seguito pubblicate da Raphael Egli con il titolo di Summa terminorum metaphysicorum (Zurigo 1595 e Marburgo 1609). Tornato per breve tempo a Francoforte, Bruno pubblica ancora un’opera di argomento mnemotecnico, il De imaginum, signorum, et idearum compositione (1591).
Sollecitato dal patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, e confidando nella possibilità di ottenere una cattedra all’Università di Padova, nell’agosto del 1591 torna in Italia, convinto del favore della nuova situazione politica, in seguito alla scomparsa del pontefice Sisto V e all’ascesa al trono francese di Enrico IV – due eventi che sembrano prospettare una fase di pace e di distensione per tutta l’Europa. Sfumata la prospettiva dell’insegnamento padovano, nei primi mesi del 1592 Bruno si trasferisce a Venezia, prendendo dimora presso Mocenigo. Denunciato da quest’ultimo all’inquisitore veneto nel maggio 1592, viene arrestato e processato. Estradato a Roma all’inizio del 1593, resta nelle carceri del Sant’Uffizio fino al 17 febbraio del 1600, quando, dopo essere stato condannato come eretico impenitente e pertinace, viene arso vivo in Campo de’ Fiori.
Chi era Giordano Bruno? Che uomo era? Quali sono i tratti distintivi della sua personalità che risaltano sia dalle sue opere sia dalle testimonianze di chi gli fu vicino (da prendere, ovviamente, con la cautela necessaria)?
Era un uomo piccolo, con un po’ di barba; quando parlava in pubblico si rincalzava di continuo le maniche, come fanno i predicatori che indossano il saio; amava far lezione, e sapeva essere un maestro affascinante per quei pochi che si decidevano a seguirlo. Era laboriosissimo: le poche immagini che ci restano di lui ce lo mostrano in viaggio con una borsa di libri; oppure a insegnare; o a chiedere materiale per poter scrivere, come fa a Roma nel carcere dell’Inquisizione, preparando uno dei tanti ‘memoriali’ che invia al tribunale e al papa per difendersi dalle accuse.
Come dimostra proprio il suo comportamento durante il processo, sia a Roma che a Venezia, era tenacissimo, un combattente: non si arrendeva mai, nemmeno nei momenti di massima difficoltà. Era anche molto spregiudicato e pronto a giocare tutte le carte disponibili, se individuava una via d’uscita, come fa a Venezia, quando decide di pentirsi, pensando di aver trovato la via per togliersi da quella situazione e rimettersi in cammino per l’Europa. Quello che gli interessava più di ogni altra cosa era poter disporre come voleva di se stesso, e poter continuare a svolgere la sua ricerca, la sua filosofia.
Aveva un fortissimo senso di sé e del suo lavoro, e non era disposto, in alcun caso, a venir meno alle ragioni ultime della sua vita e della sua filosofia. Si riteneva una specie di ‘angelo’, di messaggero della verità. Questo però non gli impediva di stimare quanti riteneva dovessero essere presi in considerazione. Secondo il ritratto tradizionale, Bruno sarebbe stato una sorta di iconoclasta, ostile a tutte le tendenze filosofiche che l’avevano preceduto e a quelle a lui contemporanee. Non è vero: perfino nei confronti di Aristotele – di cui dice tutto il male possibile, ma che studia a fondo, specie negli anni tedeschi – ha un giudizio articolato, e sa distinguere tra metafisica, da un lato, ed etica e retorica, dall’altro.
Sapeva che per affermarsi aveva bisogno di propagandare se stesso e la sua opera, suonando tutti gli strumenti a fiato; e lo fece, in modo costante e senza alcuna remora. Ma bisogna leggere quelle pagine tenendo presente l’obiettivo – comprensibile, del resto ‒ che esse si proponevano. L’idea di un Bruno in guerra contro tutti in nome della libertà di pensiero, secondo l’immagine elaborata nelle genealogie – e nella iconografia – dei ‘moderni’, è senza fondamento.
Fin dagli anni del convento, e della fuga, aveva imparato a non sottovalutare gli avversari e aveva cercato, in modo costante, di trovare dei punti di equilibrio con i poteri accademici e politici. In tutta la sua vita fu sempre alla ricerca di una cattedra, in ogni parte d’Europa, ed era pienamente consapevole che per ottenerla aveva bisogno di aiuti (come avvenne in Germania, grazie al sostegno di Gentili) e di una positiva predisposizione delle autorità. Ma in questi rapporti stabiliva un limite invalicabile, che decideva lui, e che riguardava la dignità e il rispetto della sua persona e della sua filosofia. Né, da questo punto di vista, avevano alcun peso ai suoi occhi distinzioni di religione, di nazione, di costumi: «Al vero filosofo – scrive – ogni terreno è patria» (De la causa, principio et uno, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, 2000, p. 188); e in ogni Paese aveva perciò diritto di far sentire liberamente la sua voce. Bruno – e questo è uno dei tratti di fondo della cultura italiana in questo periodo – non si muove mai in un orizzonte ristretto, provinciale. E pur sentendosi parte di una ‘tradizione’ italiana – che evoca ed elogia –, si sforza, in maniera costante, di entrare in contatto con le tendenze più significative del pensiero del suo tempo, facendone – quando lo ritiene opportuno – anche l’elogio.
Era impaziente, intollerante, pronto a farsi trascinare dall’ira, dal risentimento; e quando riteneva di non essere considerato e rispettato, esplodeva; né c’era modo di trattenerlo: qui si situava per lui il punto di rottura. Se questo accadeva, diventava pericoloso anzitutto per se stesso: come avvenne nel carcere veneziano, quando inanellò, giorno dopo giorno, una serie di dichiarazioni che sarebbero state fatali nella sua vicenda processuale. Certo, giocava in questo anche la sua voglia incontenibile di stupire i suoi interlocutori e di rendere evidente la sua superiorità, la sua grandezza e anche il suo disdegno per le convinzioni e gli atteggiamenti accettati solo per abitudine (una delle sue bestie nere). Ma lì, a Venezia, esplose anche per il disprezzo che portava verso tutti quelli che considerava ignoranti, rozzi, incapaci, e dai quali, in quei mesi, si sentiva osservato, giudicato, assediato. Erano frati, uomini di Chiesa; il concentrato, ai suoi occhi, di tutti i vizi: oziosi, inconcludenti, dannosi, pericolosi, come aveva potuto imparare negli anni trascorsi nel convento napoletano di San Domenico Maggiore – un’esperienza, una lezione che lo avrebbe segnato in modo irrevocabile, per la sua crudezza e violenza, e di cui qualcosa traluce nel Candelaio (da questo punto di vista, un testo nettamente autobiografico).
Bruno per tutta la vita fu impegnato, giorno dopo giorno, in un’attività senza respiro: a Londra in tre anni scrisse tutti i dialoghi italiani, un risultato prodigioso, possibile solo con una totale concentrazione su se stesso e il proprio lavoro. Ma era tutt’altro che un cenobita, anzi. Amava la vita e amava le donne; si lamentava di non essere riuscito a superare il numero di quelle amate da Salomone. Era un «piacevol compagnietto», come dice di lui Iacopo Corbinelli (Yates 1988, p. 123); e quel diminutivo mette a fuoco, come in un flash, sia la piccola statura del Nolano (che, del resto, egli stesso cita, quasi fosse segno di un destino avverso), sia la simpatia che, se voleva, era capace di far nascere intorno alla sua persona.
Sapeva essere altezzoso, sgarbato – come nella Cena de le Ceneri con i dotti e i costumi inglesi; ed era diffidente, come lo sono i perseguitati, tutti quelli che hanno alle calcagna un potere nemico. Ma, pur lasciandosi andare a sogni di grandezza, a grandi illusioni – trasformandoli, come era solito fare, in testi, opere letterarie – sapeva altrettanto bene che la strada che aveva scelto era assai impervia. E soprattutto era capace di guardare a se stesso con disincanto, misurando la distanza fra quello che avrebbe voluto, e cui riteneva di aver diritto, e i colpi che aveva ricevuto dalla sorte, le «mille spellicciate» da cui era stato colpito.
Ma non si fermava mai, e non solo in senso geografico (percorse tutta l’Europa, da cima a fondo): la resa, quella vera, definitiva, era estranea al suo carattere, al suo temperamento, al suo orizzonte; soprattutto era estranea all’idea che aveva di sé e della sua filosofia. Poteva cercare di trattare sulle scelte che riteneva, per quanto importanti, secondarie; non su quelle che considerava costitutive, irrinunciabili. Sui punti ultimi non tratta, in effetti, mai; nemmeno a Venezia. Parla, parla, riempie di parole le orecchie degli inquisitori; ma anche qui non c’è mai una concessione reale, come comprende il tribunale veneto che, d’accordo con l’Inquisizione centrale, spinge le autorità della Serenissima a trasferire il processo a Roma. Del resto, neppure la Repubblica veneziana avrebbe potuto tollerare una esperienza, e una posizione, come quella di Bruno. Infatti tutte le speranze che aveva deposto in Venezia e nella sua ‘libertà’ si rivelarono un tragico fallimento, cominciando dalla delusione che provò quando non riuscì a ottenere la cattedra di matematica allo Studio di Padova che poi sarebbe andata a Galileo Galilei. Come disse con orgoglio ai compagni di prigionia, era Bruno per primo a riconoscersi fino in fondo nel verso che, «giocando con alcuni […] amici», gli era toccato in sorte: «D’ogni legge nemico e d’ogni fede» (Firpo 1993, pp. 249-50, 252).
Tante volte gli studiosi si sono chiesti perché avesse scelto di morire sul rogo; ma in quella situazione, per lui, era l’unica strada possibile; non ce n’era un’altra che non si risolvesse in una resa, una disfatta personale e filosofica; e questo per lui era impossibile, inaccettabile. Era in questione il senso ultimo di tutta la sua vita. Si situa qui il vero punto di contrasto fra lui e Clemente VIII, nella fase finale del processo. Il papa non voleva che fosse condannato a morte, e pensava che Bruno si sarebbe accontentato di aver salva la vita, accettando di abiurare. E Bruno, per parte sua, teneva alla sua vita, come dimostra la lunga battaglia fatta per salvarsi. Ma voleva vivere, e filosofare; non sopravvivere.
Si potrebbe dire che in questo modo si rischia di riproporre un’immagine antica, classica di Bruno e della sua morte. Non è così: in quella morte – come in una crudele, ed estrema, rappresentazione – si riannodano, e si potenziano, tutti i fili che avevano sorretto la sua vita e la sua filosofia, quasi che in essa si fossero raccolte, per contrasto, tutte le energie vitali.
La critica, negli ultimi anni, ha insistito molto sul nesso, in Bruno, di biografia e filosofia; ma merita fermarsi, sia pur brevemente, su questo punto delicato, che coinvolge direttamente la ‘costituzione interiore’ di questa filosofia.
La storiografia di tipo idealistico che si è occupata di Bruno su questo ha avuto una posizione drastica: in lui biografia e filosofia sono unum et idem. In questo senso, la dimensione biografica deve essere oggetto anzitutto del lavoro degli eruditi (e certo il più grande di loro è stato Vincenzo Spampanato), ma non ci dice niente sulla sua filosofia in quanto tale. Posto così il problema, il gesto filosoficamente più significativo di Bruno è la sua morte, quando biografia e filosofia si fondono in modo compiuto, senza residui: quella morte sarebbe, infatti, in sé e per sé un gesto direttamente filosofico.
Ovviamente, alla base di queste posizioni c’è una specifica concezione della filosofia, e del rapporto tra autore e testo, tra vita e opera su cui in Italia ha scritto parole tanto notevoli quanto nette Benedetto Croce, discorrendo, per es., di William Shakespeare:
Quella che forma oggetto di studio pel critico e lo storico dell’arte, non è la persona pratica dello Shakespeare, ma la persona poetica; non il carattere e lo svolgimento della sua vita, ma il carattere e lo svolgimento dell’arte sua (B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, 1920, 19292, p. 73).
Riprendendo il tema che per lui era centrale, poco dopo ribadisce:
La poesia deve essere bensì interpretata storicamente, ma con quella storia che le è intrinseca e propria, e non già con una storia ad essa estranea e con la quale non ha altro rapporto che quello che l’uomo ha con ciò che trascura, allontana e getta via, perché gli nuoce o non gli serve, o, ch’è lo stesso, perché se n’è già servito tanto quanto gli bastava (p. 85).
È una tesi nota, che Croce mette in esecuzione anche nei confronti di se stesso; ma non serve nel caso di un autore come Bruno e del rapporto che egli stabilisce tra la sua vita e la sua opera (il che non significa che egli le relazioni in modi meccanici o estrinseci). Né questa precisazione riguarda solo lui, perché coinvolge altri pensatori del Rinascimento, i quali non rientrano, come per secoli è stato fatto, nelle genealogie stabilite dai ‘moderni’ quando parlano di Rinascimento.
Nella sua opera – e questo, come si è detto, può costituire perfino un ostacolo al giudizio critico – Bruno parla costantemente di sé, della sua infanzia, della sua famiglia: nella Cena de le Ceneri, in polemica con gli inglesi, si definisce «napolitano nato […] sotto più benigno cielo» (in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 101). Né è il caso di ricordare i toni e i modi con cui nelle opere sia latine che italiane ricorda la sua piccola patria, Nola.
Il problema che si pone non concerne perciò il nesso tra biografia e filosofia, che c’è, per esplicita scelta dell’autore, e non è in discussione. Riguarda il modo con cui Bruno lo pone, e questo è il nodo interessante, dal punto di vista filosofico. I riferimenti alla sua vita personale, a episodi della sua infanzia, alle persone che aveva conosciuto da bambino, a Nola, non sono mai collocati in un orizzonte ‘empirico’, ‘privato’, ‘pratico’, avrebbe detto Croce. Sono sempre situati in una dimensione metapersonale, universale e sono, anzi, sempre espressione di qualcosa di più profondo che a livello di superficie non si può vedere e che, comunque, va al di là dell’‘empiricità’ e della ‘praticità’. Essi vengono riscattati dalla loro dimensione originaria, e posti in un altro orizzonte.
In Bruno – questo è il punto teoricamente più importante – vi è una continua tendenza alla oggettivazione, alla universalizzazione della sua esperienza. Qui, per usare una formula, non è il ‘filosofico’ che, corrompendosi, ‘scende’ nel ‘biografico’; è il ‘biografico’ che, innalzandosi di funzione e di significato, ‘sale’ nel ‘filosofico’, che, però, a sua volta, viene modificato in modo strutturale da questa presenza.
Tale simmetrica ‘trasfigurazione’ del ‘biografico’ e del ‘filosofico’ è un elemento costitutivo della posizione di Bruno, e complica profondamente lo schermo posto fra noi e lui. Quanto più eventi e situazioni sono importanti e significativi, tanto più essi si situano sul piano della ‘interpretazione’, mai su quello della ‘descrizione’. Se è vero che non si mente mai tanto come quando si parla di sé, qui la ‘menzogna’ ha a che fare direttamente con la filosofia, è una scelta filosofica. Né da questo cerchio si potrebbe uscire eliminando i testi autobiografici di Bruno: significherebbe violentare, e deformare, tutta la sua opera.
È una sorta di gioco di specchi, del quale Bruno è pienamente consapevole, che si rifrange – e si potenzia – anche nello ‘sdoppiamento’ che egli fa di sé nei dialoghi italiani. Attraverso Teofilo, che è il suo ‘doppio’, egli si oggettiva e le sue esperienze empiriche, pratiche diventano parte organica dell’opera, assumendo valore universale. Si trasformano, appunto, in opera filosofica, in filosofia. Qui il ‘doppio’ non serve, infatti, a guardare nel fondo dell’anima umana, complicando lo spazio dell’io, e il rapporto dell’io con se stesso; è, all’opposto, la tecnica che consente di uscire dalla dimensione privata, personale, pratica – e, soprattutto, di porsi da un altro punto di vista, che coincide con il processo di svelamento della verità.
Bruno fu uomo di teatro, non solo perché scrisse il Candelaio: tutti i suoi dialoghi sono testi teatrali. Il rapporto tra lui e Teofilo rispecchia quello tra l’autore e l’attore: si muovono nello stesso contesto, ma secondo prospettive diverse e, al tempo stesso, complementari: l’attore – cioè Teofilo – distanzia l’autore, e collocandosi, rispetto al presente, in un diverso spazio e in un diverso tempo, dà al testo profondità, oggettività, universalità. La tecnica dialogica, così diffusa nel Rinascimento, qui diventa un’altra cosa ed entra, a pieno titolo, nello spazio della filosofia.
Forse può essere utile un paragone per capire questa posizione, distinguendola da altre. Bruno è profondamente diverso da Michel de Montaigne (che infatti diffidava dei tipi come lui). A Montaigne (il quale pure sa che in ogni uomo è presente tutta la condizione umana) interessa Michel in sé e per sé, da dipingere anche «nudo», se ciò non fosse indiscreto; interessa, cioè, la vita di Michel, da cogliere nella sua autenticità, senza mettersi cipria sul viso, ma guardando al fondo dell’anima e delle cose.
Bruno conosce il valore dell’‘interiorità’ – del sinus phantasticus, senza cui non sarebbe possibile alcuna arte della memoria, punto centrale di tutto il suo pensiero; tuttavia guarda sempre al mondo, alla realtà. L’‘interiorità’ gli interessa se e in quanto si oggettivi in ‘immagini’ che aprano la strada al mondo, all’universo e si facciano strumento per afferrare il fondo della realtà.
È sempre complicato, e ambiguo, parlare di ‘tradizioni’ nazionali; ma Bruno e Montaigne appartengono a tradizioni diverse. A Bruno l’‘interiorità’ in quanto tale non interessa, così come non interessa a Niccolò Machiavelli; come Machiavelli assegna un ruolo decisivo alla politica, alla praxis umana; e come Machiavelli ritiene che la ‘religione civile’ sia una struttura fondamentale del vivere dell’uomo. E legato alla ‘tradizione’ italiana è il criterio con cui, a suo parere, vanno giudicate le filosofie: quello che conta è la loro capacità pratica, la loro forza operativa. Più una filosofia ha effetti pratici positivi, più è da prendere in considerazione, prescindendo anche – se necessario – dai principi sbagliati da cui deriva. Quello che conta sono gli effetti, non i principi astrattamente considerati.
Sono, appunto, tutti temi della ‘tradizione’ italiana; il che non toglie che Bruno sia stato un grande pensatore europeo, e che così vada considerato. Ma, anche in questo caso, occorre tener conto di un dato che ci riporta di nuovo all’Italia: con tutta la sua originalità, l’esperienza di Bruno rientra nella generale vicenda della grande emigrazione italiana del Cinquecento (e di questo anche lui era consapevole).
Vi è in ogni filosofo un punto archimedeo intorno al quale si raccolgono i fili di tutta la sua ricerca e della sua filosofia. Nel caso di Bruno è il concetto di infinito. Se ne potrebbero indagare le complesse scaturigini nel corpo della sua opera. Ma qui conviene ribadire anzitutto un elemento essenziale: esso incide su tutti gli aspetti della «nova filosofia» – dalla gnoseologia all’ontologia, dall’estetica alla concezione del valore delle immagini e dello stesso testo filosofico che, considerato dalla prospettiva dell’infinito, si rivela come una struttura infinitamente aperta – e al tempo stesso segreta –, da decifrare da una pluralità di punti di vista, senza mai ritenere che esso si possa risolvere nel suono di un solo tema, di un solo motivo.
Bruno, anche in questo caso, riprende temi della tradizione – quali, per es., i ‘sileni di Alcibiade’ –, ma ripensandoli in chiave filosofica, in modi tutti diversi, che trasformano in maniera radicale il classico motivo letterario della silenicità.
Conviene però procedere per ordine, analizzando – brevemente e in modo sintetico – due aspetti importanti della «nova filosofia», entrambi connessi alla ‘scoperta’ dell’infinità: in primo luogo, la teoria delle immagini che ne consegue, e poi la rivoluzionaria concezione del testo letterario che Bruno propone nella Cena de le Ceneri.
È noto: le immagini svolgono, in generale, una funzione rilevante in molti autori del Rinascimento. Ma, anche in questo caso, Bruno opera un rivolgimento decisivo: per lui, infatti, il ‘pensare per immagini’ assume un valore centrale perché si situa nella prospettiva ontologica dell’infinito e, correlata a essa, in una concezione antropologica imperniata, fin dai primi scritti, sul limite e sulla dimensione ‘umbratile’ della condizione umana.
Fin dall’inizio della sua attività Bruno individua, infatti, con forza la differenza insuperabile tra finito e infinito e svolge, di conseguenza, una critica inesorabile del trinitarismo cristiano. Se si volesse trovare un filo rosso che distingue il suo pensiero dall’inizio alla fine, esso risiede, precisamente, nella consapevolezza della ‘sproporzione’ tra finito e infinito, tra uomo e Dio: per questo la figura di Cristo è ai suoi occhi letteralmente inconcepibile ed è sbeffeggiata in modo sanguinoso nello Spaccio de la bestia trionfante, dove è identificato prima in Orione, quindi nel centauro Chirone – mezzo uomo e mezza bestia.
Bruno però – ed è questo uno dei tratti costitutivi della sua posizione – non si limita all’accettazione di questa ‘sproporzione’, che gli serve per rifiutare sia il dogma della trinità che quello dell’incarnazione; ma si interroga in modo costante – e questo è l’altro filo rosso della sua riflessione – sulle vie attraverso cui l’uomo, che pure è un ente finito, possa riuscire a toccare qualcosa dell’infinito, cioè della «prima bontà» e della «prima verità». È precisamente nel corso di questa ricerca che egli si imbatte nel tema delle immagini, destinate a diventare il centro generatore di tutta la sua filosofia.
Alla base della rivoluzione linguistica proclamata con energia nella Cena de le Ceneri – come ora si vedrà – c’è proprio questo tipo di questioni: quella che Bruno teorizza in quel testo, collegandola in modo organico alla pittura, è precisamente una ‘scrittura per immagini’ – l’unica in grado, e proprio perché così costituita, di poter rappresentare e descrivere il cammino dell’uomo verso la verità, la quale, nella sua dimensione «absoluta», è inaccessibile all’uomo.
Ma questo punto si impone in modo pieno e compiuto soprattutto negli Eroici furori, nei quali il viaggio del filosofo verso la verità – descritto in termini parodici nella Cena – si svolge in forme coinvolgenti e appassionanti attraverso una spettacolare galleria di immagini – non dipinte, perché è impossibile farlo, ma descritte, e rappresentate come punti cardinali dell’itinerario del furioso verso la verità.
Nell’universo infinito, infatti, all’uomo non è possibile accedere alla verità solo attraverso la potenza dell’intelletto, il quale non è in grado di penetrare in ciò che strutturalmente lo oltrepassa – per la ‘sproporzione’ che si è detta.
Perché l’uomo possa attingere qualcosa della «prima verità» è necessario ricorrere alla forza della volontà (alla potenza dei «mastini»), la quale, come una sorta di energia eccezionale, sospinge l’uomo oltre i propri limiti, a rischio della sua stessa vita, ma mettendolo in condizione di toccare, sia pure per un momento e nell’«ombra» della natura, la «prima verità». È questa, per Bruno, l’apocalypsis, l’esperienza eccezionale nella quale si compie l’itinerario del furioso, mai uniforme, mai riducibile a una regola fissa, stabilita una volta per sempre e per tutti.
Nell’infinito ciascuno è infatti chiamato ad assumersi, di fronte alla verità, la propria responsabilità, e ad accettare di correre, in nome della vita, il rischio della fine, della morte. Né questa posizione sorprende: è l’ontologia della Vita-materia infinita che genera l’esperienza dell’eroico furore, e le modalità sempre nuove e sempre originali dell’accesso dell’uomo alla verità.
Ma l’azione della volontà, per poter essere efficace, si deve congiungere, a sua volta, alla potenza dell’immaginazione: solo attraverso una inesauribile produzione di immagini (il sinus phantasticus, cui si è già fatto riferimento) essa riesce a dischiudere all’uomo, oltre la vita, la vita «beata», la «più che vita». Senza immagini, l’uomo resta chiuso nel suo limite; fermo alla ‘circonferenza’, si limita a comprendere il ritmo della vicissitudine universale; per avvicinarsi al ‘centro’ ‒ e oltrepassare l’orizzonte della ‘sapienza’ ‒, è necessario fare l’esperienza del furore. Al centro, nell’infinito, non è però possibile avvicinarsi per via retta, secondo le regole del moto fisico; occorre mettersi da un punto di vista radicalmente nuovo, quello del «moto metafisico»: un moto che ci avvicina e, insieme, ci distanzia incessantemente dalla verità, dischiudendoci, per un istante ‒ e come in un flash ‒ l’esperienza dell’apocalypsis.
Per la sua stessa struttura interiore questa visione si colloca al confine tra l’umano e il divino; ma proprio perché si situa in questo punto, essa sbalza l’uomo oltre se stesso, mutandone – sia pure per un istante – la figura, e la funzione, nella ‘scala’ degli esseri, spezzando l’ordine della vicissitudine. E, a sua volta, questo può accadere perché in tale processo il furioso e tutte le sue facoltà si trasformano; e, trasfigurati, vengono posti a un altro livello della realtà. Il furore, nel suo intimo, è infatti rottura dei confini, degli equilibri stabiliti e degli assetti normali della vita; e, in quanto tale, esso è, per l’uomo, apertura di un’altra dimensione, mai acquisibile – anzi, neppure immaginabile – con gli strumenti ordinari della conoscenza.
Nell’esperienza del furore mutano tutti i punti di riferimento e tutti i giudizi ordinari, compresi quelli sul furore stesso: esso, scrive Bruno in una pagina assai bella, non è «oblio», ma una più profonda «memoria» di sé (Eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 806). Ma, come si vede proprio negli Eroici furori, esso può esprimere tutta la sua energia solo se rinuncia agli ‘strumenti’ ordinari e individua nuove ‘potenze’ conoscitive capaci di situarsi, per la loro stessa costituzione interiore, sul confine; e nelle quali si possano perciò intrecciare, fino a fondersi, pittura e scrittura, ragione e passione, oltre le distinzioni e i ruoli tradizionali. In breve: se il furioso vuole condurre una «caccia» vittoriosa, deve esprimersi, e realizzarsi, attraverso una inesauribile produzione di immagini; le quali – sorgendo dall’interno dell’uomo e proiettandolo fuori da se stesso – sono le uniche che gli consentano di afferrare qualche traccia della verità. Bisogna dunque imparare a ‘pensare per immagini’. Non è una scelta, ma una necessità: solo chi, come il furioso, ‘pensa per immagini’, può situarsi nel «moto metafisico», aprendo gli occhi verso la «prima verità».
E senza illudersi di togliere una volta per tutte, e in via definitiva le distinzioni tra uomo e Dio, tra finito e infinito. Su questo Bruno è sempre netto, anche nei Furori. Si tratta di una esperienza eccezionale, mai compiuta una volta per tutte; ma proprio perché spinge l’uomo oltre se stesso ed è strutturalmente ‘viziosa’, essa non può essere una condizione ordinaria del vivere dell’uomo. Ordinario è il limite, la condizione finita in cui l’uomo è collocato. In Bruno, l’esperienza della verità – la possibilità dell’apocalypsis – è un rischio, una sfida permanente sempre aperta alla possibilità dello scacco; né – come si è già accennato – essa segue percorsi stabiliti (e quindi imitabili, ripercorribili), definiti secondo una serie di stazioni dell’anima rigorosamente individuate e ‘misurate’.
Il problema posto e risolto in quel testo eccezionale consiste nel trovare un «punto de l’unione» tra dimensioni non commensurabili, in grado di metterle in comunicazione; nell’individuare un confine tra due mondi. Sta qui, precisamente, la forza, e l’importanza decisiva, delle immagini: nel loro essere potenze ‘confinarie’, forze di frontiera. Nel De l’infinito universo e mondi, riferendosi alla nostra immaginazione, Bruno dice che essa è
potente di procedere in infinito imaginando sempre grandezza dimensionale oltre grandezza, e numero oltra numero, seconda certa successione e (come se dice) in potenzia (in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 345).
E su questa base la rapporta e, al tempo stesso, la distingue da Dio, il quale «si deve intendere che […] attualmente intende infinita dimensione et infinito numero». Quanto nel «primo principio» è pienamente realizzato, nell’immaginazione si attua attraverso un movimento inesauribile in cui si esprime la tensione dell’uomo sia verso la divinità che verso la verità, in un moto senza fine che è il segno distintivo dell’umanità, quando essa si propone, con tutte le sue forze, di uscire da se stessa – a ogni costo – per cogliere ciò che strutturalmente la oltrepassa.
Alcuni interpreti hanno insistito sull’importanza di Dio nella «nova filosofia». Ma su questo punto bisogna essere chiari. Quello che effettivamente interessa a Bruno non è il «primo principio», Dio; gli preme l’universo e, con esso, le «cose de l’universo», a cominciare dall’uomo.
Come si vede bene nel De l’infinito, per quanto possa apparire paradossale, è l’universo che pone Dio; né Dio può fare a meno dell’universo e dei mondi che incessantemente produce:
Un giorno – si legge negli atti del processo – […] disse che Dio havea tanto bisogno dell’uomo quanto il mondo di Dio, e che Dio non sarebbe niente se non vi fosse il mondo, e che per questo Dio non faceva altro che crear mondi nuovi (Firpo 1993, pp. 267-68).
Se sparissero l’universo e i mondi che lo compongono, sparirebbe dunque anche Dio: sono, in essenza, unum et idem; l’uno non può essere senza gli altri, e reciprocamente.
È per questo, come si è appena visto, che le immagini assumono in Bruno un significato così decisivo come potenze ‘confinarie’, forze di frontiera: sgorgando, in un moto inesauribile, dal sinus phantasticus esse consentono all’uomo di entrare in comunicazione con Dio, attraverso l’universo.
Ma – e questo testimonia la radicalità della sua posizione – lo stesso universo intanto può essere «compreso» dall’uomo, mediando il suo rapporto con il «primo principio», in quanto venga riconcepito, esso stesso, come immagine, come
figura eccelsa, vestigio altissimo, infinito ripresentato di ripresentante infinito, e spettacolo conveniente all’eccellenza et eminenza di chi non può esser capito, compreso, appreso (De l’infinito universo e mondi, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., pp. 317-18).
È solo in questo modo, riconcependolo cioè come immagine, che l’universo può essere «compreso», e può essere contemplato in esso il primo principio, il quale «non si glorifica in uno, ma in soli innumerabili: non in una terra, un mondo, ma in diececento mila, dico in infiniti» (p. 318).
È chiaro dunque il ‘circuito’ costituito da Bruno: dall’universo a Dio, da Dio all’universo, attraverso un movimento inesauribile di immagini al centro del quale stanno l’uomo e l’infinita capacità della sua immaginazione, della sua produzione immaginativa. Qualunque sia il punto di vista che si assume, sia esso soggettivo oppure oggettivo, la realtà è costituita da immagini infinite che, come specchi, si rifrangono le une nelle altre producendo un infinito universo di luce – siano esse stesse sorgenti luminose, cioè soli; oppure superfici illuminate, cioè terre che, come acque, rifrangono la luce e la potenza del sole.
In questo modo Bruno trasforma, da un lato, l’universo in immagine, in una realtà totalmente luminosa; dall’altro, l’uomo in «purissimo occhio» in grado di cogliere – attraverso l’immagine dell’universo – l’unità di tutta la realtà. Il furioso, scrive Bruno in una pagina ormai classica,
vede l’Amfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte ragioni, che è la Monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle sustanze intellettuali (Eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 921).
Come si vede, da qualunque punto lo si consideri, il problema delle immagini (e della costellazione concettuale in cui esso si inserisce) costituisce una vera e propria chiave di volta della concezione di Bruno, del tutto originale rispetto ad altre posizioni a lui contemporanee: immagine, ritratto è l’universo; l’uomo stesso è un’ombra; possiamo conoscere attraverso immagini e ciò che conosciamo è a sua volta ombra, ossia immagine della «prima verità», così come Diana – la natura – è ombra di Apollo.
Certo, occorrerebbe distinguere in modo specifico i diversi componenti di questa costellazione – immagine, ombra, ritratto –, e verificare quali sono i contesti in cui Bruno li utilizza e con quali differenze e sfumature di significato (quando non li presenta egli stesso come sinonimi). Qui, però – ritornando a quanto si diceva sopra –, interessa porre in rilievo un punto teorico di ordine generale: è la scoperta dell’infinito che pone, simultaneamente, il problema dell’immagine, dell’ombra, del ritratto.
Nell’infinito, senza la mediazione dell’immagine, dell’ombra, la comunicazione fra umano, divino, naturale diventa, infatti, impossibile, perché non si dà alcuna mediazione tra finito e infinito – come a Bruno era, del resto, chiaro fin dall’originaria scelta in favore dell’antitrinitarismo.
Ma, come si è cominciato a vedere, questo problema non riguarda – e non può riguardare – solo il singolo finito (l’uomo), ma concerne – naturalmente a tutt’altro livello – anche l’universo. Bruno rifiuta, come si sa, la distinzione, rispetto a Dio, di potentia absoluta e potentia ordinata; ma è del tutto consapevole di ciò che significa l’infinito sia dal punto di vista dell’universo che da quello dell’uomo.
Se Johannes Kepler aveva terrore dell’infinito, e lo dichiarava, Bruno era entusiasta della sua ‘scoperta’; ma era cosciente della sua radicalità e della necessità che essa aveva, per non esplodere, di un quadro teorico generale che rispondesse a due requisiti essenziali: porre – attraverso Dio – l’infinito; ma salvaguardando, al contempo, la costituzione specifica e, per questa via, l’autonomia – al suo livello, ovviamente – dell’universo.
È per questo che pone, subito, la distinzione tra Dio e universo, insistendo in modo sistematico sulla differenza tra ciò che è in atto e ciò che è in potenza, fra istante e tempo, fra ‘intensione’ ed ‘estensione’, costruendo una prospettiva binaria incardinata in una serie di coppie – assoluto, comunicato; luce, ombra; «ripresentante», «ripresentato» –, che apre la strada al riconoscimento della centralità del livello, e della funzione, dell’immagine.
Specchio, ritratto, immagine del primo principio, l’universo rientra in questa struttura binaria, anzi ne è il caposaldo. Per Bruno essa era tanto più necessaria perché consentiva di mantenere fermo il concetto della infinita potenza di Dio – essenziale al suo ragionamento –, inserendola in un contesto che ne fonda addirittura la necessità facendola coincidere, attraverso una serie di sillogismi, con la sua stessa libertà. Ma ai suoi occhi questa posizione implicava un altro risultato decisivo, su cui dovrebbero riflettere gli interpreti in chiave ‘trascendente’ del suo pensiero: se la relazione avviene nella forma di una continua comunicazione – espressa dall’infinito prodursi di mondi, cose, accidenti – viene meno, in modo definitivo, e simultaneamente, il concetto di creazione.
È da questo complesso di motivi che scaturisce l’articolazione binaria della sua posizione: situarli in questa prospettiva significa distinguere l’infinito di Dio e l’infinito dell’universo e, al tempo stesso, metterli in relazione riconoscendo la specifica struttura dell’universo – ciò che massimamente interessa a Bruno.
Certo, egli batte e ribatte sulla sua ‘immobilità’; ma quando considera l’universo ab extra, e lo valuta nella sua ‘unità’. Visto ab intra, esso è in continuo movimento e trasformazione; è tutt’altro che fermo o statico. Appunto per questo la «caccia» del furioso è difficile: perché ciò che egli deve afferrare – e riuscire a cogliere come ‘uno’ – è in moto, in continua successione, è nella universale vicissitudine. E questo riconduce, nuovamente, alla funzione delle immagini, le quali – come si è visto – sono, precisamente, il punto di confine – cioè di mediazione – tra assoluto e comunicato, eternità e tempo, luce e ombra.
Infinito e immagine, ombra, ritratto sono dunque i due perni della posizione di Bruno, e sono strutturalmente connessi: simul stabunt, simul cadent.
Quando si parla di infinito e di immagine si entra dunque nel nucleo più profondo della filosofia di Bruno, come risalta con chiarezza anche dalla vera e propria teoria della scrittura elaborata nella Cena de le Ceneri, nella quale – ed è sintomatico – la nuova concezione della realtà è proclamata, per la prima volta, in tutta la sua portata.
Qui la ‘scoperta’ dell’infinito ha due effetti: anzitutto sconvolge le gerarchie tradizionali dei materiali linguistici e concettuali; in secondo luogo, pone il problema di una nuova scrittura filosofica imperniata su un radicale rovesciamento del rapporto ordinario tra essere e apparire – qualora essa intenda esprimere il processo reale attraverso cui l’uomo ‘caccia’ la verità.
Come si teorizza nella Cena e si realizza nei Furori, l’esperienza della verità si configura come un ‘viaggio’ che, svolgendosi in una dimensione infinita, non può essere né scandito, né espresso secondo stazioni e ordini precisi, stabiliti una volta per tutte. L’infinito coincide infatti con la dissoluzione di ogni regola ferma, fissa, su tutti i piani. E come non esiste più una via diretta alla verità e non ci sono luoghi privilegiati in cui essa si presenta, così non è concepibile una scrittura nella quale il ‘viaggio’ del filosofo possa essere presentato in forme fisse, statiche, ordinarie. Se, nell’infinito, la verità è, obiettivamente, segreta, nascosta, allo stesso modo la scrittura deve fare i conti con ciò che è segreto, nascosto, senza rimanere alla superficie della realtà.
Vi sono due punti da sottolineare. Anzitutto, si situa qui il fondamento teorico del rapporto tra verità, dissimulazione e scrittura. La verità, nell’infinito, si nasconde, si cela, si copre; e in questo modo si difende anche dai suoi nemici. Bisogna perciò imparare le tecniche e le dinamiche della dissimulazione, se si vuole scoprire la verità. E la stessa cosa occorre fare quando si scrive un testo che voglia entrare in contatto con la verità. Tra verità, dissimulazione, forme della scrittura c’è un rapporto organico, ontologicamente fondato.
In secondo luogo, proprio perché diventa uno strumento fondamentale nella tensione dialettica fra essere e apparire, nella ricerca della verità la scrittura svolge, in forme proprie, una funzione omogenea a quella delle immagini. È questa la radice teorica della centralità, in Bruno, del rapporto tra scrittura e pittura. La scrittura, quando voglia realizzare i suoi scopi, deve essere sempre costituita da una specie di ‘geroglifici’ – se dal piano della lingua si vuole scendere a quello dei «sentimenti», cioè della verità. Risiede qui la pietra di paragone, e di giudizio, della scrittura: c’è, infatti, la scrittura inerte dei pedanti e c’è quella che entra in contatto con la verità, con l’infinito; quella che sa essere, al tempo stesso, dentro e fuori l’alfabeto. In una parola ‒ e qui siamo a un luogo teoricamente centrale ‒, quella che nel suo procedere fa proprie, appunto, le tecniche della pittura.
Ut pictura philosophia, pensa Bruno: il filosofo, come il pittore, lavora sui frammenti, sui dettagli, sugli «stracci», perché, mettendosi dal punto di vista dell’infinito, sa quanto questo abbia mutato le modalità di accesso alla verità e le forme della sua rappresentazione. Nell’infinito muta, infatti, il rapporto fra massimo e minimo, e con esso cambiano tutte le gerarchie tradizionali, anche a livello della lingua e della scrittura, riscattando – e assegnando compiti del tutto nuovi – alle «minuzzarie».
Quando Bruno scrive i suoi dialoghi, e insiste in modo sistematico sui minimi, sui frammenti, è questo complesso di motivi che ha in mente: nella sua scrittura cambia, in modo radicale, il rapporto fra dettaglio e figura, tra grandezza e verità. Vale qui lo stesso principio proclamato contemporaneamente sul piano cosmologico: gli astri più grandi non sono i più luminosi, perché astri piccoli possono essere più luminosi di astri grandi.
I dialoghi di Bruno, per essere compresi, vanno letti in questa prospettiva, come egli dice, e richiede, in modo esplicito. Vanno letti, e compresi, «rompendo l’ossa e cavandone le midolla» (Cena de le Ceneri, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 10). E con «occhi di Linceo», sapendo che l’autore ha fatto
giusto com’un pittore, al quale non basta far il semplice ritratto de l’istoria: ma anco, per empir il quadro, e conformarsi con l’arte a la natura, vi depinge de le pietre, di monti, de gli arbori, di fonti, di fiumi, di colline; e vi fa veder qua un regio palaggio, ivi una selva, là un straccio di cielo, in quel canto un mezo sol che nasce, e da passo in passo un ucello, un porco, un cervio, un asino, un cavallo: mentre basta di questo far veder una testa, di quello un corno, de l’altro un quarto di dietro, di costui le orecchie, di colui l’intiera descrizione; questo con un gesto et una mina, che non tiene quello et quell’altro; di sorte che con maggiore satisfazzione di chi remira e giudica, viene ad istoriar (come dicono) la figura (p. 11).
E «questi Catoni saranno molto ciechi e pazzi, se non sapran scuoprir quel che è ascosto sotto questi Sileni», perché «in tutte parti è da mietere, e da disotterar cose di non mediocre importanza», e «cose minime e sordide son semi di cose grande et eccellenti» (pp. 14-15).
Coloro che hanno criticato la lingua – e la scrittura – di Bruno, o che oggi addirittura si propongono di ‘tradurre’ in italiano il suo volgare, non hanno capito da quali complesse radici fosse generata e quale profonda rivoluzione essa producesse sia sul piano della lingua che della filosofia.
La prospettiva binaria che abbiamo visto sopra in azione distingue anche il pensiero politico di Bruno. Nello Spaccio de la bestia trionfante si stabilisce un rapporto diretto tra «Sofia celeste» e «Sofia umana» e tra «Providenza» e «Prudenza». E questo perché Bruno è ostile a una interpretazione in chiave puramente strumentale della legge, così come è distante da una interpretazione della religione in termini di pura impostura. Bruno, come Machiavelli, si muove secondo le linee specifiche della ‘tradizione’ italiana, che sono lontane, in sostanza, dalle correnti di tipo libertino. Ciò che gli interessa è stabilire il fondamento metafisico della legge, e stabilire anche su questo piano un rapporto fra Dio, uomo e natura, come avviene appunto nello Spaccio, nel quale questi temi sono sviluppati con maggior rigore e organicità, anche per il particolare momento storico in cui quel dialogo venne scritto.
Ormai è accettata generalmente la tesi, avanzata alcuni anni fa, secondo cui il primo dialogo morale va letto, e interpretato, anche alla luce del conflitto che scoppia in Inghilterra tra puritani e anglicani. Non serve dunque insistere ancora su questo punto ormai acquisito. Conviene piuttosto ribadire alcune posizioni specifiche e, in primo luogo, la concezione della religione elaborata nel dialogo.
Nei dialoghi cosmologici Bruno aveva sviluppato con rigore un’argomentazione destinata a essere ripresa da Galileo Galilei nella lettera a Maria Cristina di Lorena, sostenendo che il testo biblico andasse letto comprendendone i particolari codici linguistici, i quali sono strettamente connessi al pubblico cui esso intende rivolgersi. La Bibbia ha un obiettivo di carattere essenzialmente pratico – quello di dare la ‘legge’ al popolo ebraico ‒, e si serve a questo fine del linguaggio più adatto, corrispondente agli usi e ai costumi del pubblico al quale è diretto il suo messaggio.
Nel sottolineare questo punto – che, come si è detto, era destinato a molti sviluppi – Bruno si proponeva anzitutto di emancipare sia Nicola Copernico, sia soprattutto, la «nova filosofia» dalle critiche che potevano essere rivolte a entrambi in nome di una interpretazione ‘letteralistica’ – pedantesca, avrebbe detto il Nolano – della Sacra Scrittura.
Tentativo che non ebbe successo, come è facile vedere dalle reazioni dei «dottori» inglesi e dalle durissime reazioni suscitate dalla Cena. Ma Bruno tiene fermo in modo costante il problema della religione e lo riaffronta in modo esteso nello Spaccio, variando anche le posizioni che aveva sostenuto nella Cena: se qui scrive che la religione è fatta per i popoli e per i ‘rozzi’, mentre i ‘sapienti’ non ne hanno bisogno perché sanno guidarsi in modo autonomo, nello Spaccio cambia posizione. E svolge un discorso che coinvolge sia i ‘rozzi’ che i ‘sapienti’, sottolineando, in linea generale, quanto un buon fondamento religioso sia importante per lo sviluppo di tutta la civiltà, comprese le scienze, e indicando come un modello di religione universale positiva quella ‘egizia’.
È difficile spiegare questo mutamento, che certo affonda le radici anche in quella situazione storica specifica. Ma, certo, potrebbe avere un peso importante anche la lettura dei Discorsi di Machiavelli, per il giudizio lì espresso su Girolamo Savonarola, il quale a Firenze – osserva Machiavelli – era riuscito a convincere sia i ‘dotti’ che i ‘rozzi’ di parlare con Dio. Mostrando, in questo modo, a tutti quanto grande potesse essere la forza di convincimento della religione e quanto grande fosse la sua funzione nella nascita e nello sviluppo di uno Stato.
Neppure è escluso che in questo mutamento possa aver pesato la riflessione di ordine generale svolta nello Spaccio, nel quale il ciclo ebraico-cristiano viene interpretato alla luce della filosofia della storia ermetica, imperniata sul ritmico alternarsi di luce e tenebre, di sapienza e ignoranza. Con pochissime eccezioni – coloro che Bruno chiama «Mercuri» –, la decadenza cristiana aveva, infatti, coinvolto tutti – i ‘dotti’ e i ‘rozzi’ –, come dimostrava la generale crisi del sapere che continuava a devastare il «secolo infelice», cioè il tempo di Bruno. E questo confermava che il ruolo della religione andava considerato in termini ‘sociali’, senza circoscriverne l’importanza a un solo cerchio, a coloro che avevano bisogno di essere governati perché incapaci di farlo da soli.
È difficile individuarne le complesse motivazioni; certo è che nello Spaccio Bruno elabora un nuovo concetto di religione, concepito, secondo l’insegnamento di Machiavelli, come fondamentale ‘vincolo’ civile, imperniato, da un lato, sui Romani (valorizzati in polemica esplicita con Martino Lutero); dall’altro, sugli Egizi, di cui Bruno fa l’apologia, esaltandone la sapienza magica e la capacità di parlare, attraverso la natura, con gli dei.
Naturalmente, Bruno non scendeva su questo terreno impervio per uno scopo dottrinario; voleva, piuttosto, prendere posizione rispetto allo scontro che travagliava l’Inghilterra e fare una proposta politica e religiosa, teoricamente fondata, alla regina Elisabetta I. Ma, si è detto, il terreno era impervio, scivoloso, come appare chiaro dal giudizio della stessa regina che, proprio sulla base di quel dialogo, definisce Bruno «infedele, empio e ateo» (cfr. V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno, con documenti editi e inediti, 1921, p. 588; Immagini di Giordano Bruno, 1600-1725, a cura di S. Bassi, 1996, p. 48). Né dal suo punto di vista aveva torto: nello Spaccio l’attacco al cristianesimo, specialmente nella sua versione riformata, è frontale e non lascia spazio ad alcun possibile compromesso. Ammesso pure che Bruno abbia fatto una proposta favorevole al potere della regina – la quale, a suo parere, avrebbe dovuto raccogliere nelle sue mani sia il potere politico che quello religioso –, quel giudizio così aspro e duro sul cristianesimo rendeva assai difficile una diversa accoglienza del dialogo da parte di Elisabetta.
Ma quel giudizio della regina, forse, non va circoscritto solamente a Bruno e allo Spaccio, come spesso si fa; ha una portata più vasta, nella quale va inquadrato. Probabilmente esso coinvolge un giudizio critico sul Rinascimento ‘radicale’ italiano, al quale Bruno apparteneva, e che Elisabetta – esperta anche della nostra lingua – conosceva bene. Non è escluso, in altre parole, che dietro Bruno la regina avesse intravisto i lineamenti di Machiavelli, e che il giudizio di ateismo e di irreligiosità riguardasse sia l’uno che l’altro. Machiavelli viene pubblicato integralmente, e in italiano, a Londra proprio negli stessi anni in cui Bruno scrive e pubblica lo Spaccio, provocando le durissime reazioni dei «dottori» di Oxford. Se Bruno era stato costretto a lasciare Oxford con un’accusa di plagio, anche se per evidenti motivi religiosi, le critiche a Machiavelli – come al Rinascimento ‘radicale’ italiano in generale – erano un leitmotiv quotidiano nelle prediche dei grandi maestri dell’università inglese.
Alla base di quel conflitto – e Bruno era il primo a esserne consapevole – c’era una drastica differenza di costumi, di modi di pensare, di concezione della religione – in una parola, di ‘civiltà’, di tradizione; un sentimento sempre assai vivo in lui, che si rafforza, comprensibilmente, negli anni in cui gira per l’Europa. A esso risale – senza alcun dubbio – il modo con cui egli pensa la figura e la funzione dell’intellettuale, del filosofo, espresso in modo assai netto, oltre che dalla generale vocazione alla praxis che connota la sua filosofia, dall’ambizione dichiarata di diventare un capo politico, un «capitano» di popoli, come disse a Mocenigo, che lo riportò, con il solito zelo, agli inquisitori veneti (Firpo 1993, p. 248).
Il nesso tra filosofia e politica è costitutivo in Bruno, né si capirebbero momenti essenziali della sua esperienza se non lo si tenesse presente in maniera adeguata. A suo giudizio, la politica – come l’etica – deve essere ontologicamente fondata su una visione generale della realtà, da cui scaturisce il nesso organico tra agire politico e magia. Sono i temi che Bruno sviluppa, in forma rigorosa, nel De vinculis in genere, una delle sue principali opere latine, nella quale al centro dell’analisi è, precisamente, il concetto di ‘vincolo’ con cui il capo politico, che è un «cacciatore di anime», lega a sé i suoi seguaci in un rapporto diretto, personale, attraverso dinamiche che coinvolgono l’anima, la psiche, del tutto estranee – conviene sottolinearlo – al concetto moderno di potere, di legge, di Stato.
In questo senso, Bruno, da un lato, innova profondamente la tradizione machiavelliana, dalla quale riprende il tema del ‘vincolo’, ma proiettandolo in una prospettiva di tipo magico; dall’altro, con una tale impostazione, si rivela assai distante dalle genealogie ‘moderne’ in cui è stato lungamente collocato. La sua idea di politica, e di agire politico, si situa in un quadro teorico profondamente diverso, nel quale la dimensione magica è centrale.
Magica, occorre ribadire, non ermetica. È un punto delicato, sul quale va spesa una parola: Bruno accetta temi ermetici nella sua riflessione di filosofia della storia, come appare sia nel De umbris idearum che nello Spaccio, dove questi motivi sono centrali; ma nella sua concezione della natura si muove secondo i principi della magia naturalis, ripensandoli senza dubbio in modi originali. Avere confuso questi due livelli, ermetismo e magia – risolvendo tutta la «nova filosofia» nella ‘tradizione’ ermetica –, ha generato errori interpretativi assai gravi sia nella decifrazione delle stesse opere magiche che nella interpretazione della posizione generale di Bruno.
Quando Bruno torna in Italia, nel 1591, su invito del patrizio veneziano Mocenigo, è un filosofo conosciuto in molti ambienti europei – in Francia, in Inghilterra, in Germania. Anzi, è più conosciuto in Europa che in Italia, dalla quale manca ormai da più di dieci anni. Paradossalmente, proprio questo è il problema: è conosciuto, ma è poco apprezzato, se non da alcuni scolari ed estimatori ai quali, anche per questo, esprime profonda gratitudine. Né c’è dubbio che in questo atteggiamento – una vera e propria persecuzione, dice Bruno – abbiano inciso i tanti scontri avuti con i poteri accademici tradizionali e i conflitti con tutte le Chiese cristiane. Se fugge dall’Italia per non finire nelle grinfie della Chiesa romana, negli anni della peregrinatio europea viene scomunicato, o messo al bando, da tutte le Chiese cristiane: dai calvinisti a Ginevra, dai puritani a Oxford, dai luterani in Germania. Quando decide di tornare a Venezia, i principali centri accademici europei sono per lui terra bruciata. E anche qui c’è un paradosso: era nel pieno della maturità scientifica, aveva pubblicato i tre poemi latini e il De imaginum compositione, nel quale porta a importanti sviluppi la sua ars memoriae; eppure Bruno nel 1591 era un uomo solo. Lo era sempre stato; ma forse mai come in quel momento.
È per questo che accettò l’invito di Mocenigo trasmessogli dal libraio Giovanni Battista Ciotti, sperando però, fin dall’inizio, di riuscire a trasferirsi a Padova e di ottenere la cattedra di matematica in quella prestigiosa università. Come Mocenigo deve aver capito subito, cominciando ad accumulare quei feroci risentimenti che lo avrebbero spinto a denunciarlo, quando capì che da Bruno non avrebbe mai ottenuto quello che aveva sognato: un’arte della memoria che consentisse anche a uno come lui di fare mirabilia.
Da qui – da questa denuncia – sarebbe scaturita la serie di eventi che avrebbe condotto Bruno alla morte – il processo, il suo ‘pentimento’ (che nell’Ottocento inquietò tanto Francesco Fiorentino), il trasferimento a Roma, gli ottanta mesi nel carcere dell’Inquisizione, il rifiuto dell’abiura, il rogo in Campo de’ Fiori.
Di fronte a questa scelta, fin dai tempi di Keplero molti si sono chiesti perché il processo abbia avuto quell’esito, e perché Bruno non abbia voluto abiurare, salvando così la vita. Domanda legittima, alla quale non è forse impossibile rispondere, se si tiene conto di come Bruno si era comportato in situazioni, se non simili, analoghe.
A Ginevra, per es., aveva accettato di pentirsi, dopo essere stato scomunicato; ma con un obiettivo preciso: togliersi da quella situazione, riacquistare la propria libertà e abbandonare la città. Quando vede che questa strada è praticabile, non ha alcuna remora a seguirla fino in fondo: dissimula, mente, ma riesce a conseguire l’obiettivo che si è proposto, con freddezza; e questo ai suoi occhi è più che sufficiente.
A Venezia si comporta in modo affine: decide di pentirsi e si pente (chiedendo che la cerimonia non sia pubblica: un punto dirimente per lui), confidando, come era accaduto a Ginevra, di poter uscire dal ginepraio in cui è caduto per imprudenza sua e per la vendetta di Mocenigo, e di riacquistare la libertà. Il ‘pentimento’ era un prezzo che era disposto a pagare senza alcun indugio, se l’obiettivo che gli stava a cuore poteva essere conseguito solo in quel modo. Anche in questo caso mente, dissimula, si mostra pronto a cedere su tutta una serie di passi incriminati, che egli non considera, dal suo punto di vista di filosofo, centrali.
Questo, in linea generale. Dall’esito del processo veneto Bruno però comprende anche che la Chiesa romana è un osso assai più duro dei puritani inglesi, dei luterani tedeschi e anche dei calvinisti ginevrini. Si rende conto, cioè, che la partita è molto più difficile, che deve essere più flessibile anche su punti più strettamente filosofici e, soprattutto, che per uscire da quella difficilissima situazione ha bisogno di trovarsi degli interlocutori, qualcuno cui spiegare la sua posizione.
Ai suoi occhi, la carta su cui puntare – quando capisce che ormai sta perdendo la partita – è il papa, Clemente VIII Aldobrandini. Una scelta che, a prima vista, può stupire, ma che aveva, agli occhi di Bruno, motivi precisi.
A quel papa aveva cominciato a guardare già da tempo, fin da quando gli era arrivata la notizia che aveva chiamato Francesco Patrizi, uno che (come disse a Mocenigo) non credeva in niente (Firpo 1993, p. 248), a insegnare alla Sapienza. Anzi, quando aveva capito che a Padova gli spazi accademici per lui erano definitivamente chiusi, aveva pensato di scrivere un trattato «delle sette arti liberali», che si proponeva di «presentare ai piedi» del papa per ottenerne il favore (Firpo 1993, pp. 195, 198, 296).
Insomma, nel 1599, nella fase finale del processo, Clemente VIII apparve a Bruno come l’unico interlocutore possibile; ed è a lui infatti che egli si rivolse con due ‘memoriali’, cercando consapevolmente di conseguire due obiettivi: stabilire un canale di comunicazione diretto con il capo della Chiesa; cercare di aggirare il tribunale dell’Inquisizione, nel quale non riponeva, evidentemente, alcuna fiducia. Né questo sorprende: a Venezia aveva fatto una esperienza che continuava a bruciargli, quotidianamente, sulla pelle. Proprio quando pensava di essere sul punto di risolvere la situazione a suo favore, aveva visto cadere d’improvviso tutte le sue speranze: dalla sera alla mattina, con il consenso delle autorità della Repubblica, era stato imbarcato alla volta di Ancona, per proseguire di lì verso Roma e il carcere dell’Inquisizione.
Per sollecitare il trasferimento a Roma del Nolano – il quale, ovviamente, di ciò non era a conoscenza – era intervenuto, allora, anche il papa, manifestando poi la sua gratitudine all’ambasciatore veneziano a Roma, Paolo Paruta (Firpo 1993, p. 214). Ma se si scorre quello che ci rimane degli atti del processo, si può vedere che negli ultimi mesi del 1599 le posizioni di Bruno e del papa, sia pure per un momento e muovendo da punti opposti, si sfiorarono.
Del primo già si è detto: è al papa che si rivolse direttamente, quando si vide di fronte all’abisso; da parte sua, il secondo manifestò con alcuni segni inequivocabili di non volere che il processo si concludesse con la morte di Bruno. Di questa posizione è una verifica interessante la lettera che Kaspar Schoppe – il quale frequentava gli ambienti del tribunale e assistette al rogo – scrisse a Konrad Rittershausen proprio il 17 febbraio 1600: il pontefice, sottolineò Schoppe, era rimasto ‘deluso’ dall’atteggiamento di Bruno, dalla sua intransigenza (Firpo 1993, p. 351): il che conferma che Clemente VIII avrebbe voluto che il processo avesse un altro esito e che Bruno si comportasse in modo da agevolare i suoi propositi.
È questo, evidentemente, che non era accaduto, ‘deludendo’ il papa, togliendo spazio e forza alla sua linea, e consentendo che nel tribunale si affermassero, e prevalessero, le forze più intransigenti. Nell’ultimissima fase del processo, tra il papa e Bruno si spezzò ogni possibilità di comunicazione: Clemente VIII si rifiutò addirittura di aprire l’ultimo ‘memoriale’ che Bruno gli aveva inviato, in un estremo – e disperato – tentativo di far valere le sue ragioni. Né c’era, in effetti, alcun motivo di aprirlo: la partita ormai si era chiusa, e in modo sanguinoso. Ma forse si può capire perché le cose siano finite in questo modo, e altri esiti non siano stati possibili.
Il processo di Bruno ebbe un andamento singolare, che getta luce anche sull’Inquisizione. Entrato in carcere, a Venezia, nel 1592, nel settembre del 1599, a Roma, non era ancora convictus: cioè, sul piano giuridico non se ne era dimostrata in modo irrefutabile la colpevolezza. Disponiamo del verbale della seduta del tribunale in cui viene alla luce, in modo sorprendente, questo dato decisivo (Firpo 1993, pp. 328-29). Ed è perciò possibile vedere il comportamento, e le proposte, dei sei consultori, tutti orientati a richiedere che Bruno fosse sottoposto alla tortura, per chiarire in via definitiva la sua posizione. Il Generale dei domenicani – appartenendo Bruno al suo ordine, e considerando suo interesse togliere di mezzo un problema che, continuando a restare aperto, avrebbe solo danneggiato i domenicani – chiese addirittura che egli fosse torturato due volte, se necessario. Ma sostenne anche che Bruno doveva essere giudicato sulla base di quanto avrebbe detto nel corso di questo interrogatorio, azzerando di fatto, con questa affermazione, tutto quanto era stato effettuato fino a quel momento, non ritenendolo adeguato a sostenere la richiesta di pentimento e di abiura.
Il papa però intervenne ed escluse il ricorso alla tortura, ritenendo che il tribunale avesse già accumulato materiale sufficiente per chiedere a Bruno di pentirsi; al tempo stesso sollecitò il tribunale a continuare a esaminare «dicta testium et illius confessiones» (Firpo 1993, p. 329), visto che questa strada aveva dimostrato di dare risultati positivi e poteva continuare a darne.
Si può congetturare che Clemente VIII abbia ritenuto in questo modo di aver risolto il problema e di aver trovato una soluzione equilibrata: da un lato, si chiedeva a Bruno di pentirsi; dall’altro, gli si garantiva la vita, evitando sia la tortura che la condanna a morte. E, visto l’accenno di Schoppe alla sua ‘delusione’, era evidentemente convinto che Bruno avrebbe accettato questo compromesso. Ma era qui che si sbagliava: quella soluzione – se si vuole usare questa espressione – per Bruno era inaccettabile.
Riconsideriamo come si era comportato a Ginevra e a Venezia: quello che Bruno voleva, allora come ora, era uscire subito da quella situazione, oppure ottenere una sentenza che, se pure non gli concedesse subito la libertà, potesse però consentirgli di averla in tempi, ai suoi occhi, ragionevoli. Per conseguire questo risultato era disposto, come sempre, a dissimulare la sua effettiva posizione, a mentire, e anche, stavolta, a mostrarsi più flessibile su punti importanti della sua concezione (riguardo ad alcune posizioni che il tribunale gli aveva contestato, si dimostrò, per es., disposto a riconoscerle come eretiche, a patto che fossero dichiarate tali ex nunc: cioè eretiche, ma dopo che egli le aveva sostenute). Del resto, non era una scelta, ma una necessità: a Roma come interlocutore aveva il cardinale Roberto Bellarmino, e non poteva permettersi di comportarsi come aveva fatto a Venezia.
Era però fermissimo, anzi intransigente, su alcuni punti. Anzitutto non intendeva pentirsi e abiurare, tanto meno in pubblico: la considerava un’umiliazione inaccettabile, un ‘farmaco indigeribile’, come aveva già detto in modo esplicito al tribunale veneto (Firpo 1993, p. 199); la prospettiva di dover continuare a rimanere in carcere doveva far rivoltare il Nolano, solo a pensarci. È vero – e lo sapeva –, con l’abiura avrebbe salvato la vita. Ma non era in questione solo la sua esistenza personale, ‘empirica’. In gioco erano la sua missione, la «nova filosofia», il suo destino di «capitano» di popoli.
È qui che fra il papa e il Nolano si aprì un abisso: è possibile che Clemente VIII ritenesse di avere risolto il problema salvandogli la vita; per Bruno la sua vita era importante, come dimostra la lunga battaglia che fece per salvarsi; ma non era tutto, né poteva essere tutto. E, certo, in questo suo atteggiamento incidevano la consapevolezza che aveva di se stesso, il sentirsi chiamato a riportare alla luce la verità aprendo una nuova epoca di luce dopo la tenebra del ciclo ebraico-cristiano.
Se il papa poteva pensare di avere ormai chiuso la questione, Bruno, quando capì in quale vicolo cieco fosse finito il processo e quale ne potesse essere, ormai, l’esito, venne travolto dal risentimento, dall’ira, da una collera incontenibile e dichiarò, con durezza, che non si pentiva, che non capiva di cosa dovesse pentirsi, che non aveva nulla di cui pentirsi: una reazione dura, rabbiosa, analoga – per certi aspetti – a quella che aveva avuto nel carcere veneziano quando, comprendendo in quale trappola fosse caduto, si era messo a rovesciare contumelie senza fine su Cristo, la Madonna, Mosè, travolto da una collera che si fondeva con un sentimento di disperazione e di impotenza che acuiva ulteriormente il suo risentimento.
Ma si sbaglierebbe a pensare che abbia scelto di morire solamente perché trascinato dalla rabbia, dall’ira. Non è così: fece, come era capace di fare, una valutazione della situazione. Gli obiettivi che si era prefisso erano caduti uno per uno; l’unica strada che gli restava aperta era segnata da un’insopportabile umiliazione pubblica: in abito di penitenza e in ginocchio avrebbe dovuto riconoscere la propria colpevolezza; riacquistare la libertà era diventato impossibile, e far fruttificare la «musa nolana» un’illusione senza alcun fondamento. Se anche si fosse pentito pubblicamente – e questo era per lui inaccettabile –, non ne avrebbe ricavato alcun vantaggio; sarebbe rimasto in carcere, dove già era da otto anni.
Nella sua decisione si unirono, fino a saldarsi e a potenziarsi, impulsi, emozioni, risentimenti, ma anche giudizi disincantati, valutazioni fredde, riflessioni realistiche. È un intreccio difficile da districare, ma non ci fu alcun ‘crollo’ da parte di Bruno: al fondo, pur aspra e rabbiosa, fu una decisione consapevole, una scelta lucida sulla base di una analisi realistica sia della situazione sia di quelli che erano, in quel momento, i rapporti di forza effettivi.
In ogni caso – come mostra il suo comportamento in carcere e sul rogo –, con quella morte, e la straordinaria rappresentazione che l’accompagna, Bruno inaugurò il lungo mito che l’avrebbe accompagnato fino ai nostri giorni.
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