VASARI, Giorgio
Pittore, architetto, scrittore, nato in Arezzo il 30 luglio 1511, morto a Firenze nel 1574. Egli stesso c'informa ampiamente delle proprie vicende. Ricevette i primi insegnamenti nel disegno da Guglielmo de Marcillat, pittore di vetri; poi, inviato tredicenne a Firenze, vi fu messo a studiare presso Michelangelo; e quando questi nel '24 fu chiamato a Roma, si allogò successivamente presso Andrea del Sarto e Baccio Bandinelli. Scacciati da Firenze i Medici nel '27, ritornò ad Arezzo, ma fuggì per evitare la peste: fu allora che incominciò a dipingere per i contadini fra cui viveva. Per consiglio di Francesco Salviati, ritornò nel '29 a Firenze e con lui e con altri si mise a bottega presso Raffaello di Brescia; quindi passò presso Vittorio Ghiberti e poi, successivamente, presso l'orafo Iacopo di Lorenzo de' Papi e presso Bernardo Baldini. Nel '30 ritornò ad Arezzo a lavorare ancora come orafo, ma Ippolito de' Medici, passando per quella città, lo invitò (1531) a entrare al suo servizio: egli accettò e accompagnò il cardinale a Roma, dove, insieme con l'amico Salviati, prese a disegnare con molto impegno da Michelangelo, da Raffaello, da Polidoro, dal Peruzzi: fu questo un intenso periodo di studio, che lo mise a contatto col manierismo romano. Ritornato a Firenze, ebbe parte molto attiva nelle decorazioni preparate per l'ingresso di Carlo V (1536). Nel '37, dipinse per la chiesa di Camaldoli la Madonna col Bambino e Santi; vi condusse poi altre tavole e affreschi nei tre anni seguenti. Nel '38 è di nuovo a Roma a studiarvi architettura e scultura. L'anno successivo risulta a Bologna, incaricato delle pitture nel convento di S. Michele in Bosco; nel '41 è a Venezia, dove aveva portato una Venere e una Leda, eseguite su cartoni di Michelangelo: decora, allora, un soffitto nel palazzo di Giovanni Cornaro. Nel '42 lascia la Serenissima e ritorna ad Arezzo, dove inizia gli affreschi della sua casa, che sono fra le cose migliori che abbia dipinto. Nel '43 è a Roma e Michelangelo, per cui egli prova sconfinata ammirazione, lo consiglia di dedicarsi alla sola architettura. Dopo un succedersi ininterrotto di soggiorni a Roma e a Firenze, nel '45 è a Napoli ed eseguisce la tavola per l'altare maggiore della chiesa di Monteoliveto, la Purificazione di Maria, ora nella pinacoteca di quella città. Ritornato a Roma l'anno successivo, decide, per consiglio del cardinale A. Farnese, suo generoso mecenate, del Giovio e di altri letterati, di scrivere le Vite degli artisti, proposito già da tempo vagheggiato; poi, riparte per Firenze e, prima che l'anno finisca, dipinge una Cena per le monache delle Murate, oggi nel museo di Santa Croce. Nel '48 assume l'incarico di lavori nella Badia di Classe e nel S. Francesco di Rimini; nello stesso anno risulta a Ravenna, ad Arezzo e a Monte San Savino: ovunque lascia opere di pittura. Ai primi del '49 si stabilisce a Firenze, dove dipinge per la cappella Martelli a S. Lorenzo il Martirio di S. Sigismondo, finito nel '50. Nel marzo di quest'anno appare la prima edizione delle Vite, presso la stamperia Torrentino. Intanto, nel febbraio del '50, era salito al soglio pontificio Giulio III, e il V. si era recato a Roma per offrire i suoi servizî. Il primo incarico che ne ricevette fu la Tomba del cardinale dal Monte, zio del papa, in S. Pietro in Montorio: il V. ne diresse i lavori e diede i disegni per le pitture. All'inizio del '53, dopo soggiorni alterni in Firenze e in Arezzo, è di nuovo a Roma, dove attende a lavori nella "vigna di papa Giulio". Sul finire del '54, prende dimora a Firenze al servizio "ufficiale" del duca Cosimo I, che lo incarica della trasformazione in reggia di Palazzo Vecchio, e della sua decorazione pittorica con scene allegoriche e storiche: è questa una delle sue opere più importanti e complesse. Nel '60 incomincia la fabbrica degli Uffizî, edificio destinato alle magistrature, suo capolavoro architettonico. Nello stesso anno, a Roma, sottopone al Buonarroti il modello della Sala Grande di Palazzo Vecchio (Sala dei Cinquecento), e quello della sua decorazione con pitture di battaglie. Nel '62 è a Pisa, dove il duca aveva fondato l'ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, per il quale occorrevano un convento, un palazzotto e una chiesa: edifici che vennero ultimati nel '69. Nel '62 è tenuta in Firenze la prima adunanza dell'Accademia del Disegno, di cui egli è l'anima. Nel '64 provvede alle decorazioni per i funerali di Michelangelo e ne progetta poi la tomba in Santa Croce, che altri eseguisce. Nel '65, inizia il corridoio, che, attraverso l'Arno, congiunge Pitti a Palazzo Vecchio; toglie il tramezzo medievale di Santa Maria Novella, disegna gli altari delle navate laterali, e colloca due sue tavole su due di essi; ultima, infine, in quell'anno attivissimo, la decorazione della vòlta della Sala Grande di Palazzo Vecchio con le allegorie dei Quartieri di Firenze e delle Città della Toscana (1563-65). Nel '66 intraprende un viaggio di studio attraverso l'Italia allo scopo di raccogliere nuovo materiale per la 2ª edizione delle Vite. Ritornato in Firenze, toglie il tramezzo medievale a Santa Croce, prepara un nuovo coro, progetta gli altari delle navi laterali. Nel '68 appare la nuova edizione delle Vite, per i tipi del Giunti. Nel '70 il V. è ancora a Roma, chiamatovi da Pio V per dipingere in Vaticano le cappelle di S. Pietro Martire, di Santo Stefano, e quella degli Angeli ribelli. Nel '72 sono scoperti gli affreschi parietali della Sala Grande di Palazzo Vecchio. In quell'anno stesso interrompe la decorazione della Sala Regia in Vaticano per fare ritorno a Firenze: ivi inizia gli affreschi nella cupola di Santa Maria del Fiore. Nello stesso anno, è nominato architetto della fabbrica delle Logge d'Arezzo, di cui dà il progetto; poi ritorna a Roma dove riprende i lavori della Sala Regia, che il nuovo pontefice, Gregorio XIII, vuole ultimata al più presto: vi sono rappresentate ad affresco Sette storie papali. Ritornato a Firenze nel '74, il V. si rimette alla decorazione della cupola del duomo, di cui eseguisce soltanto la corona di Profeti e di Seniori, attorno all'occhio della lanterna: l'opera fu compiuta nel '79 da F. Zuccari.
Il V. è uno degli artisti del sec. XVI, di cui sono state tramandate più notizie e più opere. Fonti d'informazione sono il ricchissimo epistolario, un libro di ricordi e l'autobiografia nelle Vite (cfr. bibl.). Tante notizie interessano perché dànno idea di una di quelle portentose personalità del Cinquecento che papi e signori si disputarono, sopravalutandole e contribuendo alla loro formidabile posizione sociale e al loro orgoglio intellettuale. Padrone di tutte le pratiche dell'arte, fornito di una cultura vastissima, in rapporto con le più insigni personalità italiane del tempo, il V. infatti non appare tanto un artista importante, quanto un uomo importante, arbitro dal '50 alla morte del gusto manieristico dell'ora. Non fu d'uguali attitudini nei varî campi dell'arte: in pittura, operando con pericolosa sveltezza, s'ispirò a Michelangelo e a Raffaello, e ricercò un vieto compromesso fra i principî di forma e colore, spiacevole negli effetti e palesemente insincero. Soltanto quando si subordinò a fini puramente decorativi, la sua visione conseguì risultati originali, anche in questo campo: ad es., nello studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio, le cui pitture il V. ideò, diresse e in parte eseguì (1570-1572).
La sua sensibilità trovò, tuttavia, migliore espressione nell'architettura, come il Buonarroti aveva compreso. Nella trasformazione in reggia di Palazzo Vecchio, il quartiere degli Elementi, quello di Leone X, il rifacimento della Sala dei Cinquecento attestano le sue doti di costruttore e di decoratore; ma tali doti, rafforzate attraverso gl'insegnamenti di Michelangelo, di cui, con l'Ammannati, egli interpretò il modello della scala nella Libreria Laurenziana, rifulsero soprattutto nel palazzo egli Uffizî.
Il gusto manieristico, a Firenze, non aveva distrutto la tradizione brunelleschiana, la quale, a contatto con lo stile romano, si era avvivata, ma non aveva smarrito il suo carattere di armoniosa semplicità e compostezza: gli Uffizî particolarmente attestano ciò, con il loro doppio edificio, che da Piazza della Signoria giunge all'Arno, creando, in rapporto a Palazzo Vecchio, un effetto scenografico elegante e severo. Sul porticato inferiore, in cui colonne con pacato ritmo si alternano a pilastri, s'innalzano due ordini: l'ultimo è aperto in una loggia: il movimento delle luci e delle ombre non è tale, tuttavia, da dare vita pittorica all'insieme, che ha la sua ragione d'arte nella ricerca di controllato equilibrio delle masse, secondo cadenze ancora rinascimentali. L'atteggiamento riflessivo, quasi culturale, che in tale effetto appare latente, si manifesta scoperto in altre costruzioni, meno animate da un intimo movente di sensibilità: ad es., negli edifici pisani per i cavalieri di S. Stefano, nelle Logge aretine, nella cupola della Madonna dell'Umiltà a Pistoia, e, ancor più, nei tentativi infausti d'adattamento alla "maniera moderna" di templi quali Santa Maria Novella e Santa Croce.
Invece nel campo della storiografia dell'arte il V. si afferma senza discussione, sebbene spesso giudicato con parzialità. Gli appartengono i Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte nel Palazzo delle L. Altezze serenissime, dialoghi fra l'autore e Cosimo I, pubblicati postumi nel 1588 da Giorgio Vasari il Giovane; una corrispondenza amplissima, fatta conoscere da C. e D. Frey, diretta non solo a pontefici e signori, ma a uomini quali Michelangelo, il Bembo, il Giovio, il Borghini, l'Aretino, il Caro, il Varchi. ecc.; il Libro delle ricordanze, pubblicato da A. Del Vita e da D. Frey; la Descrizione delle feste per le nozze del principe ereditario Francesco con Giovanna d'Austria, Firenze 1566; infine, il suo vero capolavoro, le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori, edite, come si è detto, nel '50 e nel '68. Rappresentano queste uno dei monumenti maggiori della storiografia artistica italiana. Nella 1ª ed., all'introduzione sulle tre arti del disegno, seguono le biografie da Cimabue a Michelangelo; questi è l'unico maestro vivente di cui si dice; la trattazione che lo riguarda, è anzi, in certo modo, il coronamento glorioso di tutto l'edificio delle Vite. Nella 2ª edizione l'opera perde tanta robusta semplicità di struttura. L'autore, attraverso altri diciotto anni di studio, ha infatti accresciuto moltissimo le sue cognizioni e il suo materale; ma ciò che ne risulta, sebbene più ricco d'informazioni (sono state aggiunte 34 biografie per il solo Cinquecento), ha perduto quella schietta organicità, che è caratteristica della prima redazione. Lo stile stesso, più elaborato e controllato, è meno efficace.
Per la grande impresa il V. ha approfittato della maggior parte degli anteriori scritti sull'arte, e ne ha approfittato con una diligenza e una coscienza storica, che appaiono affinate nella 2ª edizione. Nelle biografie l'autore mira a dare risalto alla personalità, vista nel suo complesso, e si serve a questo fine di tutto quello che gli pare utile: da ciò l'importanza data all'aneddoto che, però, nella 2ª edizione è alquanto attenuata. S'intensifica, invece, in questa, l'effetto di ragioni campanilistiche e personali, che inducono più d'una volta lo scrittore nel regno della pura fantasia.
Il V. accoglie il concetto dell'evoluzione storica dell'arte, concetto indicato specialmente nei proemî di tutta l'opera, nelle introduzioni alle tre arti e nell'epilogo. Nell'evoluzione distingue varie età: la prima, quasi la fanciullezza dell'arte, da Cimabue alla fine del Trecento; la seconda, età della giovinezza, da Iacopo della Quercia alla fine del Quattrocento; la terza, infine, vero trionfo della maturità, espressa insuperabilmente nell'opera del "divino" Michelangelo. La base dell'evoluzione dell'arte è, per il Vasari, il "naturale", ossia la resa della realtà; resa che, appunto nei primi decennî del Cinquecento, avrebbe raggiunto, attraverso la sicurezza del disegno, la "perfetta maniera". Dopo, sebbene non risparmi altre lodi, lo scrittore sente che l'arte italiana decade: ciò è lasciato comprendere nella "quarta età", delineata soltanto nella 2ª ed., che è l'età dei suoi contemporanei. Accanto al criterio naturalistico ("sia la pittura un contraffar tutte le cose della natura viva") dominano la mente del V. altri principî: la necessità della ricchezza dell'invenzione; il dominio del nudo, secondo il concetto antico; l'esigenza della facilità di mano, ecc. Tali principî erano diffusissimi durante il manierismo, fenomeno storico di cui lo scrittore ha coscienza ben chiara (cfr. la vita del Lappoli). L'entità dell'opera sua di storico dell'arte va, tuttavia, al dilà del tempo cui appartiene. Se nelle Vite sono per la prima volta precisati molti dei preconcetti, che sfortunatamente perdureranno attraverso la successiva riflessione (il naturalismo, l'importanza data al contenuto, il classicismo, la sopravalutazione del concetto di forma in confronto a quello del colore, ecc.); se, per la forza di quei preconcetti, lo scrittore comprenderà male alcune scuole (la veneta, ad es.); se infine, specie nell'edizione del 1568, egli non si accorgerà di errori, ripetizioni, contraddizioni, è tuttavia innegabile che la sua sensibilità d'artista ha molte volte superato nei giudizî ogni preconcetto intellettualistico e che la sua opera è stata ed è preziosa alla moderna storia dell'arte. (V. tavv. CXXXIII e CXXXIV).
Bibl.: P. Pino, Dialogo di pittura, Venezia 1548; Il libro delle Ricordanze di G. V., a cura di A. Del Vita, Arezzo 1927 (pubblicato anche in: K. D. Frey, Der literarische Nachlass G. V.s, II, Monaco 1930); G. Vasari, Le Vite, 1ª ed. 1550 (anche in ristampa moderna); 2ª ed. 1568; si cita qui soltanto l'ediz. Sansoni, 1878-82; Ragionamenti del sginor G. V., pittore e architetto aretino, sopra le invenzioni da lui dipinte in Firenze nel palazzo delle Loro Altezze Serenissime, Firenze 1588 (ristampati dal Milanesi, 1882); K. D. Frey, op. cit., voll. 2, Monaco 1923 e 1930. Di parte del primo, che contiene "le carte vasariane", ossia il ricchissimo epistolario, già proprietà Rasponi-Spinelli, era stata fatta anche una edizione italiana da A. Lorenzoni, Carteggio artistico inedito di don Vincenzo Borghini, I, Firenze 1913; la traduzione italiana del secondo è apparsa nella rivista Il Vasari, pubblicazione periodica di studî vasariani iniziata nel 1927 a cura di A. Del Vita: essa pubblica, tra l'altro, tutto l'archivio vasariano. C. Guasti, G. V., Firenze 1855; A. Wyatt, Le "Libro dei disegni" du V., in Gaz. des Beaux-Arts (1859), pp. 339-51; A. Ronchini, G. V. alla corte del cardinale Farnese, in Atti e memorie delle RR. Deputazioni di storia patria per le provincie modenese e parmense, I (1864), p. 121 segg., ristampato in Il Vasari, II (1929), pp. 273-84; W. v. Obernitz, Vasaris allgemeine Kunstanschauungen auf dem Gebiete der Malerei, Strasburgo 1897; U. Scoti-Bertinelli, G. V. scrittore, Pisa 1905; W. Kallab, V.-studien, Vienna 1908; G. Fr. Gamurrini, Descrizione delle opere di G. V., Arezzo 1911; Sidney J. A. Churchill, Bibliografia vasariana, Firenze 1912; H. Voss, Über einige Gemälde und Zeichnungen von Meistern aus dem Kreise Michelangelos, in Jahrb. d. preuss. Kunstsamml., XXXIV (1913), p. 297 segg.; id., Die Malerei der Spätrenaissance in Rom und Florenz, Berlino 1920, p. 258 seg.; S. Capovilla, G. V. e gli edifici dell'Ordine Militare di Santo Stefano in Pisa (1562-71), in A. Crivellucci, Studi storici, XVII (s. d.), p. 305 seg.; G. Mazzoni, Il dissidio tra il V. critico e il V. ammiratore dell'arte, in Il Vasari, I (1927-28), pp. 236-242; W. Bombe, G. V.s Häuser in Florenz und Arezzo und andere italienische Kunsthäuser der Renaissance, in Belvedere, XIII (1928), pp. 55-60; A. Del Vita, Opere d'arte distrutte e salvate da G. V., in Il Vasari, II (1929-30), pp. 155-165; id., Uno specchio vasariano, in Dedalo, X (1929-30), pp. 142-49; A. Venturi, Storia dell'arte italiana. La pittura del '500, IX, vi, Milano 1933, p. 293 seg.; G. Sinibaldi, Il Palazzo Vecchio di Firenze, Roma 1934; C. L. Ragghianti, in Rendiconti dell'Acc. dei Lincei, IX (1933); J. Schlosser-Magnino, La letteratura artistica, Firenze 1935, p. 286 segg.; L. Becherucci, L'architettura italiana del Cinquecento, ivi 1936, pp. 59-60.