Giorgio Vasari
Giorgio Vasari, pittore e architetto aretino che ottenne molte e importanti commissioni nella sua lunga attività artistica (1532-1574), è l’autore delle Vite, apparse a Firenze nel 1550 e ivi riedite nel 1568. Il testo costituisce il primo esempio di moderna letteratura artistica: dopo aver affrontato la trattazione delle tre arti (architettura, scultura e pittura), Vasari traccia il profilo biografico degli artisti dal Medioevo alla sua epoca e ne analizza l’operato. Citate, imitate, tradotte, le Vite rappresentarono un modello storiografico per almeno due secoli, e rimangono tuttora una fonte imprescindibile per la documentazione e le notizie fornite, nonché per l’attenta lettura delle opere.
Giorgio Vasari nacque ad Arezzo il 30 luglio 1511. Ricevuti i primi insegnamenti nell’arte da Guillaume de Marcillat, maestro vetraio francese che concluse la propria esistenza ad Arezzo (1529), Vasari venne condotto giovanissimo, nel 1524, dal cardinale Silvio Passerini di Cortona a Firenze; lì poté conoscere Michelangelo Buonarroti e frequentare le botteghe di Andrea del Sarto e di Baccio Bandinelli, da cui apprese una salda perizia disegnativa. Con la cacciata dei Medici nel 1527 e con il diffondersi della peste (che mieté fra le proprie vittime il padre di Vasari), il giovane artista venne richiamato dallo zio Antonio ad Arezzo, ove ebbe modo di impratichirsi con gli ammaestramenti di Rosso Fiorentino, anch’egli rifugiatosi nel contado per sfuggire all’epidemia. Al seguito del cardinale Ippolito de’ Medici giunse a Roma nel 1532: in compagnia di Francesco Salviati si dedicò allo studio e al disegno delle antichità e delle opere d’arte conservate nell’Urbe.
Ritornato a Firenze e accolto dalla benevolenza di Ottaviano de’ Medici, Vasari entrò stabilmente al servizio del duca Alessandro (eseguendone il Ritratto oggi agli Uffizi) fino alla sua scomparsa, ucciso per mano del cugino Lorenzo (6 gennaio 1537). Colpito dall’accaduto e disgustato dalla vita di corte, Vasari si rifugiò a Camaldoli, grazie ai buoni uffici del letterato aretino Giovanni Lappoli (il Pollastra), di cui era stato discepolo, e di don Miniato Pitti, con cui aveva familiarità sin dal suo soggiorno a Pisa nel 1529, quando il monaco olivetano era abate del cenobio di S. Girolamo ad Agnano Pisano.
Tramite la committenza olivetana, Vasari ottenne incarichi che lo portarono in altri monasteri e località italiane: fu a Bologna, a S. Michele in Bosco, nel 1539, a Napoli, a Monteoliveto, nel 1544-45, a Rimini e a Ravenna nel 1547-48 e ad Arezzo nel 1548. Nel frattempo aveva avuto modo di incontrare e di lavorare per personalità come Pietro Aretino (che lo chiamò a Venezia nel 1541 per allestire le scene della sua commedia, La Talanta), Bindo Altoviti, ricco banchiere fiorentino esule a Roma, e Alessandro Farnese, per cui realizzò la tavola con la Giustizia (1543), oggi a Napoli, e il ciclo di affreschi della Sala dei cento giorni nel Palazzo della Cancelleria (1546).
Nell’Urbe Vasari era già tornato nel 1538 per continuare la sua formazione disegnando anticaglie, e vi venne richiamato nel 1550 da papa Giulio III che gli affidò i lavori della cappella di famiglia in S. Pietro in Montorio e, insieme con Bartolomeo Ammannati, del ninfeo di Villa Giulia. Nel 1554 Vasari si trasferiva definitivamente a Firenze, al servizio del duca Cosimo de’ Medici, per lavorare ai cantieri di Palazzo Vecchio, degli Uffizi e di numerose chiese cittadine (S. Maria Novella, S. Croce, il Duomo). Fu attivo anche ad Arezzo (alla pieve di S. Maria, 1560-64, e alle logge di Piazza Grande, 1570-72), e nuovamente a Roma (grazie alle commissioni ottenute da Pio V in Vaticano, 1571-73). Morì a Firenze il 27 giugno 1574.
Il ruolo intellettuale di Vasari, oltre a quello squisitamente professionale, emerge già con piena evidenza nella lettera che egli inviava a Benedetto Varchi in occasione dell’inchiesta promossa da quest’ultimo nel 1547 (e pubblicata a Firenze, da Lorenzo Torrentino, nel gennaio del 1550 con il titolo Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, nella prima delle quali si dichiara un sonetto di M. Michelagnolo Buonarroti. Nella seconda si disputa quale sia più nobile arte la scultura, o la pittura, con una lettera d’esso Michelagnolo, et più altri eccellentissimi pittori et scultori, sopra la quistione sopradetta; cfr. A. Andreoni, La via della dottrina. Le lezioni accademiche di Benedetto Varchi, 2012, pp. 16 e 20) sulla ‘maggioranza delle arti’, ossia sulla preminenza in campo artistico rivendicata tanto dalla pittura quanto dalla scultura.
Fra le missive di coloro che risposero all’appello (Agnolo Bronzino, Iacopo Pontormo, Niccolò Pericoli detto il Tribolo, Giovanni Battista del Tasso, Benvenuto Cellini e Michelangelo), la responsiva di Vasari si distingue per la perfetta padronanza del mezzo scrittorio, tanto che – non casualmente – essa apre la serie degli interventi degli artisti, chiusa poi dal Buonarroti (B. Varchi, V. Borghini, Pittura e scultura nel Cinquecento, a cura di P. Barocchi, 1998, pp. 61-66 e 84). Tale abilità di scrittura era il frutto di un’educazione non certo dozzinale ricevuta in gioventù (Carrara 2011) e di un’instancabile capacità di intrattenere una rete sempre più ampia di relazioni personali, servendosi dello scambio epistolare come veicolo privilegiato: l’epistolario di Vasari, vasto fin dagli anni giovanili (Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, hrsg. K. Frey, H.-W. Frey, 1923-1940; Agosti 2010), testimonia l’assidua frequentazione di letterati – dall’Aretino a Paolo Giovio, da Annibal Caro a Lodovico Domenichi – mentre l’artista viaggiava per l’Italia, trovando accoglienza e commissioni in città e corti di primo piano, da Firenze a Venezia e Roma, dalla familia di Alessandro de’ Medici, alla cerchia di Aretino e al palazzo del cardinale Farnese (cfr. Agosti 2011). Non stupisce allora che già nel 1548 il pittore veneziano Paolo Pino, nel suo Dialogo di pittura, parlasse in termini assai elogiativi di Vasari:
Giorgio da ’Rezzo, giovane il qual, oltra che promette riuscir raro nell’arte, è anco vertuosissimo, et è quello che, come vero figliuol della pittura, ha unito e raccolto in un suo libro con dir candido tutte le vite et opere de’ più chiari pittori (Dialogo di pittura, in Trattati d’arte del Cinquecento fra manierismo e controriforma, a cura di P. Barocchi, 1° vol., 1960, p. 135).
Si tratta di una precoce e significativa attestazione, al di fuori dei confini toscani, della notorietà di Vasari e, soprattutto, del suo impegno nel campo della storiografia artistica.
La già citata lettera di Vasari a Varchi «circa la maggioranza e dificultà della scoltura e pittura» (B. Varchi, V. Borghini, Pittura e scultura nel Cinquecento, cit., p. 61) rappresenta un imprescindibile punto di partenza per la stesura del testo delle Vite apparso a Firenze nel 1550 per i tipi di Torrentino. Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, descritte in lingua toscana da Giorgio Vasari pittore aretino. Con una sua utile et necessaria introduzzione a le arti loro sono infatti costituite da una parte introduttiva sulle caratteristiche delle singole arti – preceduta dalla Dedica al duca Cosimo de’ Medici e dal Proemio – e dalle biografie degli artisti (l’ultima è quella di Michelangelo), seguite dalla Conclusione della opera agli artefici et a’ lettori.
È proprio nel Proemio che Vasari rielabora le tesi espresse nella sua missiva a Varchi, in cui aveva affermato con forza la superiorità della pittura sulla scultura sulla base della maggiore capacità mimetica grazie all’uso del colore, per giungere a una nuova sintesi secondo la quale le due arti sono entrambe figlie del disegno («nate […] in un sol parto et ad un tempo», Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di R. Bettarini, P. Barocchi, 1° vol., 1966, p. 26), una formulazione innovativa e fortunata (cfr. Bätschmann, in Le “Vite” del Vasari, 2010, p. 85) che a sua volta molto aveva in comune con quanto espresso da Varchi nel proprio testo («[…] io stimo, anzi tengo per certo, che sostanzialmente la scultura e la pittura siano una arte sola», B. Varchi, V. Borghini, Pittura e scultura nel Cinquecento, cit., p. 43).
L’unitarietà delle arti (che sono pertanto sorelle) per Vasari era incarnata da Michelangelo, l’artista nel quale «amendue queste arti sì perfette et sì simili et unite insieme appariscono», e che – dimostrando la compiuta padronanza dell’architettura – può essere a ragione definito «divino» (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 1° vol., pp. 26-27). Buonarroti è per Vasari la figura che in virtù della sua eccellenza in tutti i campi artistici pone fine alle contese fra pittori e scultori e, come artefice ancora in piena attività, rappresenta l’unica eccezione alla regola che si è proposto nelle Vite, ossia di trattare di coloro che sono ormai scomparsi per «mantenergli più lungamente che sia possibile nelle memorie de’ vivi» (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 1° vol., p. 10).
Il profilo biografico di Michelangelo, in un’ottica dunque di continuo progresso dell’arte, chiude la rassegna degli artisti presi in esame da Vasari «secondo i tempi che ei sono stati di mano in mano da Cimabue insino a oggi, non toccando altro degli antichi se non quanto facesse al proposito nostro, per non ne poter dire più che se ne abbino detto quei tanti scrittori che sono pervenuti alla età nostra» (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 1° vol., pp. 10-11). In effetti il periodo storico analizzato abbraccia poco più di due secoli e mezzo, ponendo la personalità di Cimabue (1240 ca.-1302) a capo della rinascita delle arti in Italia dopo l’oblio dell’epoca altomedioevale, come scrive Vasari nel lungo e articolato Proemio delle Vite, che introduce questo primo segmento cronologico:
Giovanni Cimabue, il quale, sì come dètte principio al nuovo modo del dipignere, così è giusto e conveniente che e’ lo dia ancora alle Vite; nelle quali mi sforzerò di osservare il più che si possa l’ordine delle maniere loro più che del tempo […] (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 2° vol., 1967, p. 32).
Alla Vita di Cimabue «prima luce della pittura», seguono quelle di Giotto, dei Lorenzetti, di Simone Martini, di Duccio da Boninsegna, giusto per menzionare gli artisti più noti, e la sezione si chiude con il pittore fiorentino Lorenzo di Bicci, con un computo totale di 28 biografie. Vasari segna il passaggio dalla «prima età» (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 3° vol., 1971, p. 10) a quella successiva con il meditato e fortemente programmatico Proemio della seconda parte delle Vite, nel quale egli enuncia il proprio modo di procedere nello scrivere le biografie, sulla falsariga degli «scrittori delle istorie»:
avendo io preso a scriver la istoria de’ nobilissimi artefici per giovar all’arti quanto patiscono le forze mie, et appresso per onorarle, ho tenuto quanto io poteva, ad imitazione di così valenti uomini, il medesimo modo; e mi sono ingegnato non solo di dire quel che hanno fatto, ma di scegliere ancora discorrendo il meglio dal buono e l’ottimo dal migliore, e notare un poco diligentemente i modi, le arie, le maniere, i tratti e le fantasie de’ pittori e degli scultori; investigando, quanto più diligentemente ho saputo, di far conoscere a quegli che questo per se stessi non sanno fare, le cause e le radici delle maniere e del miglioramento e peggioramento delle arti accaduto in diversi tempi et in diverse persone (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 3° vol., pp. 3-4).
Vasari si propone, dunque, di tracciare un percorso in cui esporre a coloro che non sono in grado di individuarli da sé i diversi stili e modi di operare degli artisti (cfr. Sohm 2000), evidenziando il superamento dei lasciti e dei portati della prima età grazie alle capacità di figure quali Filippo Brunelleschi, Lorenzo Ghiberti, Donatello, Masaccio e Iacopo della Quercia, con il quale si apre la seconda parte (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori […], cit., 3° vol., p. 19), per un totale di 53 ‘Vite’ (ma spesso più biografie vi sono accorpate: paradigmatico il caso di Iacopo Bellini e dei figli Gentile e Giovanni).
Se Pietro Perugino, maestro di molti artisti fra i quali «il miracoloso Raffaello Sanzio da Urbino» (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 3° vol., p. 611), chiude la sezione appena menzionata, è per merito di Leonardo da Vinci che si diede «principio a quella terza maniera che noi vogliamo chiamare la moderna», come spiega Vasari nel Proemio della terza parte delle Vite (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 4° vol., 1976, p. 8), che funge da introduzione al secondo volume delle Vite, completamente occupato dalle biografie – in numero di 51, ivi compresa la Vita di «Properzia de’ Rossi scultrice bolognese» – degli artisti della «bella maniera de’ tempi nostri» (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 3° vol., p. 131). Tale Proemio, vero snodo cruciale del pensiero di Vasari (Pinelli 1993, pp. 105-109), evidenzia le note di merito degli «artefici» delle «cose moderne di maggior pregio e più celebrate» che seppero portare «a la somma perfezzione» cinque elementi già padroneggiati dagli artisti della seconda età: «regola, ordine, misura, disegno e maniera» (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 4° vol., p. 3). La sintetica ma puntuale disamina di ognuno di questi termini («La maniera venne poi la più bella da l’avere messo in uso il frequente ritrarre le cose più belle; e da quel più bello, o mani o teste o corpi o gambe, agiugnerle insieme, e fare una figura di tutte quelle bellezze che più si poteva, e metterla in uso in ogni opera per tutte le figure, che per questo se dice ella essere bella maniera», p. 4) rende palese la capacità di Vasari di scrivere del proprio lavoro rivolgendosi tanto «agli artefici et a’ lettori», come precisa nella Conclusione della opera:
e’ mi sarà contento non piccolo lo aver durato fatica in una cosa tanto onorevole, che io ne merto pietà, nonché perdono, da le persone virtuose e dagli artefici miei, a chi bramava di satisfare […] (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 6° vol., 1987, p. 412).
Nello stesso testo conclusivo Vasari insiste sulla sua volontà di essere facilmente compreso anche da chi, come «gli artefici», non ha una compiuta formazione letteraria, utilizzando una lingua ricca di termini desunti dalle tecniche, e sottolinea la fatica e la durata di un simile impegno, protrattosi per numerosi anni, raccogliendo fonti scritte e dati provenienti dalla tradizione orale, frutto della frequentazione di artisti e artigiani attivi in innumerevoli botteghe e cantieri:
mi sono ingegnato per questo effetto, con ogni diligenzia possibile, verificare le cose dubbiose con più riscontri, e registrare a ciascuno artefice nella sua Vita quelle cose che elli hanno fatte; pigliando nientedimeno i ricordi e gli scritti da persone degne di fede, e col parere e consiglio sempre degli artefici più antichi che hanno avuto notizia delle opere e quasi le hanno vedute fare (p. 411).
L’insistenza di Vasari sulla terminologia tecnica rappresenta uno dei temi portanti dell’intero corpo delle Vite, trovando la sua naturale collocazione nelle Teoriche – così come viene definita comunemente la parte introduttiva sulle caratteristiche dell’architettura, della pittura e della scultura (cfr. Collareta, in Le “Vite” del Vasari, 2010, pp. 97-101) – dove egli tratta approfonditamente dei materiali utilizzati, delle loro modalità d’impiego, delle professionalità richieste agli artisti e con quali insegnamenti esse possano essere apprese (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 1° vol., pp. 31-172). E lo fa, come anticipa e precisa nel Proemio, scusandosi
de lo avere alle volte usato qualche voce non ben toscana, de la qual cosa non vo’ parlare, avendo avuto sempre più cura di usare le voci et i vocaboli particulari e proprii delle nostre arti, che i leggiadri o gli snelli della delicatezza degli scrittori (p. 29).
Accanto alla volontà di essere compreso fino in fondo, Vasari non manca di ricordare il
desiderio di conservare almanco questa memoria degli artefici più celebrati, poiché in tante decine di anni non ho saputo vedere ancora chi n’abbia fatto molto ricordo (p. 30).
È presente anche in questo passo la sottolineatura (e dunque se ne palesa l’importanza) del lungo percorso di ricerca sorto intorno alle biografie degli artisti che trova eco, e conferma, nella già citata Conclusione della opera:
[…] con somma fatica mia, e spesa e disagio, nel cercare minutamente dieci anni tutta la Italia per i costumi, sepolcri et opere di quegli artefici de’ quali ho descritto le Vite, e con tanta difficultà che più volte me ne sarei tolto giù per disperazione, se i fedeli e veri soccorsi de’ buoni amici, a’ quali mi chiamo e chiamerò sempre più che obbligato, non mi avessero fatto buono animo e confortatomi a tirare avanti gagliardamente, con tutti quelli amorevoli aiuti, che per loro si poteva, di advisi e riscontri diversi di varie cose, de le quali io stava perplesso, benché io le avessi vedute e considerate con gli occhi proprii (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 6° vol., pp. 409-10).
Al novero «de’ buoni amici» non può mancare il nome di Paolo Giovio, letterato ed ecclesiastico comasco, che conobbe Vasari fin dal suo primo viaggio a Roma, nel 1532, e ne seppe comprendere le doti artistiche e di scrittore, incoraggiandolo nella stesura delle biografie degli artisti, un genere con cui si era a propria volta cimentato, benché in latino, con le Leonardi Vincii, Michaelis Angeli et Raphaelis Urbinatis vitae (cfr. P. Giovio, Scritti d’arte. Lessico ed ecfrasi, a cura di S. Maffei, 1999, pp. 234-79). Nella lettera del 2 settembre 1547 Giovio esortava Vasari a far leggere l’opera anche a Benedetto Varchi, per averne un parere informato al pari di quello di Annibal Caro, cui Vasari egualmente inviò le Vite ormai concluse, come ci conferma la lettera del letterato e traduttore marchigiano stilata il 15 dicembre dello stesso anno (cfr. Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, hrsg. K. Frey, H.-W. Frey, 1° vol., 1923, pp. 209-10).
L’approntamento del testo per la tipografia del Torrentino aveva avuto inizio almeno dalla fine di novembre 1546, secondo quanto testimonia una lettera di Giovio a Vasari (Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, cit., 1° vol., p. 175) e subì un decisivo impulso grazie alla stesura di una copia completa apografa (ossia non di mano di Vasari) presso l’abbazia di Scolca nei pressi di Rimini, dove il pittore lavorò per l’abate olivetano Gian Matteo Faetani fra il settembre e il dicembre 1547; su tale esemplare intervenne, con correzioni grafiche o di refusi, Pier Francesco Giambullari, al fine di procedere alla preparazione della copia da mandare nell’officina torrentiniana, di cui egli seguì dunque la mera veste tipografica, accanto a don Vincenzio Borghini che si assunse il compito di stilare gli indici dell’edizione e di rivedere il testo per emendarne ulteriori errori (cfr. P. Scapecchi, Una carta riminese delle “Vite” del Vasari con correzioni di Giambullari. Nuove indicazioni e proposte per la Torrentiniana, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 1998, 42, pp. 101-14).
Cade fatalmente, grazie alla sola e semplice lettura del carteggio vasariano, che documenta il puntuale svolgimento degli eventi e la reale portata del ruolo dei vari personaggi citati (cfr. Scapecchi 2011), l’accusa rivolta a Vasari in anni recenti (Hope 2005) di essere solo uno dei tanti autori delle Vite, frutto della collaborazione di più letterati, e in particolare di Cosimo Bartoli (Frangenberg 2011), come si evincerebbe dalla diversità di scrittura e di impostazione metodologica fra le parti introduttive (i vari Proemi letterariamente più raffinati) e la stesura più corriva delle Teoriche e delle singole Vite (Blum 2011, p. 159).
Un’accusa destinata a svanire, del resto, grazie a un’analisi approfondita del tessuto narrativo e compositivo delle Vite, che evidenzia in modo lampante come Vasari rielaborasse proprio in passi particolarmente complessi e ricercati fonti e compendi storici in volgare largamente diffusi nel mercato librario di metà Cinquecento (cfr. Rubin 1995, p. 169 nota 104; Carrara 2010-2012, p. 161), e dunque facilmente accessibili anche a un artista, per quanto si voglia sminuire la dimensione culturale di tale figura (Hope, in Le “Vite” del Vasari, 2010, pp. 33-39).
Nel gennaio del 1563 Vasari dava vita all’Accademia delle arti del disegno, insieme con Lelio Torelli, primo segretario di Cosimo I, e con don Vincenzio Borghini, spedalingo dell’Ospedale degli Innocenti, che ne assunse la carica di luogotenente (cfr. Waźbiński 1987). Fortemente voluta dal duca, la nuova istituzione fiorentina – che cancellava la medievale Compagnia di S. Luca Evangelista – aveva quale proprio compito precipuo quello normativo in merito alla formazione artistica dei giovani apprendisti, in modo da avviarli a una carriera regolamentata e di successo, e da inserirli con le loro botteghe al servizio delle varie esigenze di rappresentanza del potere mediceo. Se ne ebbe una pronta riprova in occasione sia delle esequie di Michelangelo, celebrate il 14 luglio 1564 nella chiesa di S. Lorenzo, sia delle fastose nozze fra il principe ereditario Francesco I e Giovanna d’Austria, nel dicembre 1565, quando l’affiatato binomio costituito da Vasari e Borghini poté progettare e allestire imponenti apparati effimeri, contando sulla collaborazione degli artisti attivi sulla piazza fiorentina, dopo aver ridotto al silenzio ed estromesso le voci di dissenso e di critica tra cui spiccò per la contumeliosa virulenza quella di Benvenuto Cellini (cfr. Carrara 2008).
L’incessante operosità di Vasari si indirizzò negli stessi anni anche alla riscrittura delle Vite. Andata rapidamente esaurita l’edizione del 1550 (Simonetti 2005, p. 105), che aveva provocato la risentita risposta di Michelangelo – urtato dalla scarsa documentazione di prima mano presente nella Vita a lui dedicata – per il tramite di Ascanio Condivi (Vita di Michelagnolo Buonarroti, 1553), e le articolate critiche in area veneta di Lodovico Dolce, Vasari decise di stenderne una seconda redazione. A tal fine affrontò in solo due mesi (fra aprile e giugno 1566) un lungo viaggio che lo portò da Firenze all’Italia centrale (Roma, l’Umbria e le Marche) per poi risalire lungo l’Emilia e la Romagna fino alla Lombardia e al Veneto, rientrando a Firenze per la via di Ferrara, Bologna e Pistoia (cfr. Davis 1981, pp. 226-27).
Gli elementi visivi e documentari raccolti nei suoi spostamenti dovevano servirgli per ottenere informazioni precise e attendibili sui principali centri artistici italiani e per consentirgli di avvicinarsi all’operato delle figure più importanti nel panorama a lui coevo, così da rispondere da un lato alle accuse di toscano-centrismo (cfr. Conte 2010, p. 18) che aveva scatenato la Torrentiniana (e legate in gran parte al riconoscimento della grandezza di Tiziano, ora omaggiato di una Descrizione dell’opere, essendo egli ancora vivente: Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 6° vol., pp. 155 e segg.) e dall’altro illustrare con dovizia di particolari i vari cantieri e opifici avviati nella Firenze medicea, resi apprezzabili nella larga trattazione Degl’accademici del disegno, pittori, scultori et architetti e dell’opere loro, e prima del Bronzino (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 6° vol., pp. 231 e segg.).
Nelle Vite stampate dai Giunti a Firenze nel 1568 Vasari superava, dunque, il monumento verticistico dell’edizione del 1550, tesa alla celebrazione della grandezza di Michelangelo, scomparso il 18 febbraio 1564 (cfr. Ruffini 2011, pp. 85-88), per accogliere istanze che giungevano da ambiti non toscani e per legittimare in definitiva il proprio lavoro quale pittore e architetto di corte a capo di tutte le attività volute dal duca Cosimo, dedicatario dell’opera. Corredata dai ritratti incisi su legno degli artisti faticosamente (anche se non in toto) recuperati da Vasari (cfr. De Girolami Cheney 2005), la seconda edizione delle Vite rappresenta un ampliamento significativo della prima in senso sia cronologico sia di contenuto, frutto delle meditate riflessioni di Vasari (grazie anche alla possibilità di acquisire nuove informazioni: cfr. Plebani 2008) e del costante confronto con Vincenzio Borghini: a lui spettava l’invito, nella lettera a Vasari dell’11 agosto del 1564, a scrivere una «HISTORIA universale di tutte le pitture et sculture di Italia» (cfr. Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, cit., 2° vol., 1930, p. 98) che trattasse delle opere più che degli artisti. E in effetti nelle Vite giuntine ravvisiamo un’ancora maggiore attenzione alle tecniche, in specie per quelle più trascurate come l’incisione, che divenne soggetto di un ampio approfondimento nella Vita di Marcantonio Raimondi (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 5° vol., 1984, pp. 3 e segg.), nonché di un’importante apertura sulla produzione di ambito fiammingo che molto deve alla missiva in latino che Domenico Lampsonio aveva inviato a Vasari il 25 aprile 1565 (cfr. Pozzi, Mattioda 2006, pp. 186-98). Compaiono inoltre significative aggiunte alla «Prima parte» come la Vita di Nicola e Giovanni Pisano scultori et architetti (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 2° vol., pp. 59 e segg.), all’interno di un generale ampliamento delle notizie fornite in tale sezione (cfr. Barocchi 2000), ma pure la dotta Lettera di messer Giovambatista di messer Marcello Adriani a messer Giorgio Vasari (Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori…, cit., 1° vol., pp. 177 e segg.), che andava a fissare i capisaldi della storia dell’arte greca e romana, in ossequio a quella esaustività informativa richiesta con competente autorevolezza da Borghini (cfr. Carrara 2010).
Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, descritte in lingua toscana da Giorgio Vasari pittore aretino. Con una sua utile et necessaria introduzzione a le arti loro, 2 voll., in Firenze [Lorenzo Torrentino] 1550.
Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, a cura di L. Bellosi, A. Rossi, Torino 1986.
Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori scritte da M. Giorgio Vasari pittore et architetto aretino, di nuovo dal medesimo riviste et ampliate con i ritratti loro. Et con l’aggiunta delle Vite de’ vivi et de’ morti dall’anno 1550 insino al 1567 […], 3 voll., in Fiorenza appresso i Giunti 1568.
Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di R. Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi, 6 voll., Firenze 1966-1987 (http://www.memofonte.it/home/ files/pdf/vasari_vite_torrentiniana.pdf; http://www.memofonte.it/home/files/pdf/vasari_vite_giuntina.pdf, 5 maggio 2013).
Ragionamenti del sig. cavaliere Giorgio Vasari pittore et architetto aretino […], in Firenze appresso Filippo Giunti 1588, in Le opere di Giorgio Vasari. Con nuove note e commenti di G. Milanesi, 8° vol., Firenze 1882, pp. 7-223 (http://www.memofonte.it/home/files/pdf/vasari_ ragionamenti.pdf, 5 maggio 2013).
Il Libro delle ricordanze di Giorgio Vasari, a cura di A. Del Vita, Arezzo 1927, (http://www.memofonte.it/home/ files/pdf/vasari_ricordanze.pdf, 5 maggio 2013).
Lo Zibaldone di Giorgio Vasari, a cura di A. Del Vita, Roma 1938 (http://www.memofonte.it/home/files/pdf/vasari_ Zibaldone.pdf, 5 maggio 2013).
L’ampio epistolario vasariano è stato edito in Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, hrsg. K. Frey, H.-W. Frey, 3 voll., München 1923-1940 (http://www.memofonte.it/ autori/carteggio-vasariano-1532-1574. html, 5 maggio 2013).
Sull’epistolario cfr. inoltre:
Ch. Davis, Carteggio vasariano: a letter form Carlo Serpa and twelwe related documents, Heidelberg 2012 (http:// archiv.ub.uni-heidelberg.de/ artdok/volltexte/2012/ 2098/, 5 maggio 2013).
W. Kallab, Vasaristudien, Wien-Leipzig 1908.
E. Panofsky, Das erste Blatt aus dem “Libro” Giorgio Vasaris. Eine Studie über die Beurteilung der Gotik in der italienischen Renaissance mit einem Exkurs über zwei Fassadenprojekte Domenico Beccafumis, «Städel Jahrbuch», 1930, 6, pp. 25-72; rist. in Id., Meaning in the visual arts, Garden City (NY) 1955, pp. 169-225 (trad. it. Il significato nelle arti visive, Torino 1962, pp. 169-224).
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Abbozzati dallo scultore Lorenzo Ghiberti (Firenze 1378-1455) verso la fine della propria esistenza (1447-1455), I commentarii spettano alla mano di un suo copista che pose in bella i materiali e li raccolse in un’unica compagine, poi suddivisa da Julius von Schlosser – che la pubblicò integralmente nel 1912 – in tre Commentari. Il primo di essi tratta la storia dell’arte antica, servendosi come fonti di Plinio il Vecchio e di Vitruvio, il secondo quella dell’età moderna, mentre l’ultimo è dedicato a problemi di ottica e di prospettiva. Benché tramandata solo per via manoscritta (cfr. L. Ghiberti, I commentarii, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333, a cura di L. Bartoli, 1998, pp. 9-12), l’opera di Ghiberti era ben nota presso i suoi contemporanei e successori, come testimonia lo stesso Vasari nella seconda edizione delle Vite (cfr. Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori […], a cura di R. Bettarini, P. Barocchi, 3° vol., 1971, p. 103).
Fu invece redatto sia in latino sia in volgare (1435 e 1436, o viceversa), il De pictura di Leon Battista Alberti (Genova 1404, da padre bandito da Firenze-Roma 1472). È costituito da tre «brevissimi comentari» (De pictura. Redazione volgare, a cura di L. Bertolini, 2011, p. 205), nei quali l’artista espone le sue tesi in merito ai principi matematici utili alla pittura, per poi passare al disegno, alla composizione pittorica e ai colori, e infine alla cultura e alla preparazione generale necessaria alla formazione di un buon pittore. Stampata a Basilea nel 1540, nella versione latina, l’opera godette di ampia fortuna sia in volgare sia in latino, grazie alla ricca tradizione manoscritta che ne fece uno dei testi più citati e influenti del Rinascimento italiano (cfr. L.B. Alberti, Opere volgari. Volume terzo. Trattati d’arte…, a cura di C. Grayson, 1973, pp. 299-304).
Altrettanto importante e pervasiva fu la diffusione del vasto trattato in dieci libri sulla tecnica costruttiva architettonica che, pubblicato postumo nel 1485, dopo aver avuto due edizioni in latino (1512 e 1541), venne stampato a Venezia nel 1546, nel volgarizzamento di Pietro Lauro, e poi a Firenze, nella versione in volgare di Cosimo Bartoli, con la dedica a Cosimo I de’ Medici (cfr. Vasari, gli Uffizi e il Duca, a cura di C. Conforti, F. Funis, F. de Luca, catalogo della mostra, Firenze, Galleria degli Uffizi, 2011, p. 388, scheda XV.17, a cura di C.A. Girotto).
Un decennio più tardi, nel 1557, apparve a Venezia il Dialogo della pittura intitolato l’Aretino di Lodovico Dolce (Venezia 1508-ivi 1568). A un anno dalla morte del suo protagonista (Pietro Aretino era infatti scomparso nella città lagunare nel 1556), l’opera si rivela polemica fin dal sottotitolo in cui programmaticamente si enuncia che «si ragiona della dignità di essa pittura […] e nel fine si fa menzione delle virtù e delle opere del divin Tiziano» (cfr. http://www.memofonte.it/ home/files/pdf/scritti_dolce.pdf, 5 maggio 2013). L’andamento dialogico del testo favorisce la vis polemica di Dolce che, per bocca dell’alter ego Aretino, ha buon gioco nello scardinare le certezze del letterato fiorentino Giovanni Francesco Fabrini, portavoce delle tesi espresse da Vasari nella prima edizione delle Vite, e in particolare della superiorità di Michelangelo. La sconfitta delle posizioni filotoscane è resa evidente dalla decisione di Dolce di assegnare il titolo di ‘divino’ a Tiziano, poiché sopravanza tutti gli altri artisti per la sua abilità di colorista (cfr. Ph. Sohm, Style in the art theory of early modern Italy, 2001, pp. 95-97).
Tra il 1742 e il 1745 il pittore di genere Bernardo De Dominici (Napoli 1683-ivi 1759) pubblicò a Napoli i tre volumi delle Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani che costituiscono il tentativo di una risposta, spesso non fondata su attendibili basi documentarie, alle Vite di Vasari, colpevole di aver trascurato l’intera area meridionale (cfr. B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, a cura di F. Sricchia Santoro, A. Zezza, 3 voll., 2003-2008).