Giotto
Com'è noto, il passo più importante della Commedia per un riferimento esplicito di D. alla ‛ novità ' dell'arte giottesca, è quello di Pg XI 94-96 Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura.
Bisogna considerare anzitutto il riferimento cronologico ora che allude alla contemporaneità recente della fama giottesca. Tale riferimento ha come terminus ante quelli il 1315.
Quindi va considerato il parallelo che D. istituisce, di seguito, fra cultura figurativa e cultura letteraria nella risonanza contemporanea dello stesso ambiente (vv. 97-99): Così ha tolto l'uno a l'altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l'uno e l'altro caccerà del nido.
Nella critica moderna i due passi ricordati s'intendono generalmente secondo una logica della progressione storica dal meno moderno al più attuale, che D. concluderebbe con un'allusione di senso autobiografico, consapevole della propria imminente affermazione come una nuova ‛ gloria della lingua '.
Intanto va osservato che non è possibile precisare in modo definitivo se D., riferendo l'eco della fama giottesca, esprima un giudizio critico personale, fondato sulla conoscenza diretta di opere di G.; oppure se si faccia portavoce, impersonalmente, della risonanza di quell'evento artistico fuori di Firenze. Nella prima ipotesi D. al momento della pubblicazione del Purgatorio avrebbe potuto conoscere direttamente le opere giottesche soprattutto a Roma e Padova. La seconda ipotesi è forse meno probabile in considerazione, fra l'altro, che mentre è possibile ammettere un interesse relativo del poeta per le vicende della pittura fiorentina contemporanea - della quale poteva giungergli soltanto l'eco indiretta - invece nel caso del confronto tra Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese, che precede quello Cimabue-G. (Pg XI 79-84), è difficile che la miniatura suscitasse una fama immediata e così vasta da consentire al poeta d'istituire il confronto fra i due miniatori senza aver visto dei codici illustrati dell'uno o dell'altro. È piuttosto probabile che il doppio confronto Oderisi-Franco, Cimabue-G. fosse suggerito a D. dalla conoscenza personale di alcune opere degli artisti.
Riguardo all'interpretazione del significato che il poeta intese conferire a questi paralleli fra il successo degli artisti contemporanei, è necessario intanto osservare che nei due confronti Cimabue-G., Guido Guinizzelli-Guido Cavalcanti, D. si serve come portavoce proprio di Oderisi, il quale ha già premesso che al principio del secolo XIV più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese (Pg XI 82-83). E quindi egli stesso introduce il discorso moralistico sulla durata effimera del successo, riferendo la propria esperienza di artista già ‛ superato '. Quindi, ancora, la svalutazione della fortuna di Cimabue per effetto di G., e di Guido Guinizzelli a causa di Guido Cavalcanti (Pg XI 94-98) viene posta, certo non casualmente, fra due passi che conferiscono ai versi 94-98 un significato incontrovertibile; prima (v. 88): Di tal superbia qui si paga il fio, e Oh vana gloria de l'umane posse! / com' poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da etati grosse! (vv. 91-93). Poi (vv. 100-102): Non è il mondan romore altro ch'un fiato / di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato.
Il fatto che il duplice confronto artistico dei vv. 94-98 si trovi inquadrato fra due passi di eguale senso sulla caducità del mondan romore, ha un significato incontrovertibile nell'indicare che D. vedeva la fama contemporanea di G. come un fenomeno anch'esso effimero. Tanto più che l'ultimo esempio di caducità della fama, quello della gloria de la lingua, è concepito come un trinomio in quanto vi appare la velata allusione autobiografica (vv. 98-99) forse è nato / chi l'uno e l'altro caccerà del nido; allusione che va messa in rapporto ai vv. 20-21 del canto XIV della stessa cantica, in cui D. dichiara a Guido del Duca: dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, / ché 'l nome mio ancor molto non suona.
Questa comparsa di un terzo elemento nel confronto letterario, posto da ultimo dopo i precedenti binomi a proposito della miniatura e della pittura, ha certo un riferimento-chiave a entrambi; nell'indicare in forma indiretta come nella fortuna letteraria stia per intervenire un nuovo fattore di successo: egualmente probabile, dunque, per analogia, anche nelle altre tecniche artistiche. Le quali rientrando pure nel ciclo della storia umana, perciò vengono a essere equiparate, analogamente, nella concezione dantesca, per valore di provvisorietà.
E tale interpretazione del resto viene confermata dalle parole con cui Oderisi conclude l'excursus dantesco sulla fama terrena (XI 115-117): La vostra nominanza è color d'erba, che viene e va, e quei la discolora per cui ella esce de la terra acerba.
Escludendo per ora la portata della fama giottesca (circa 1310) nella terzina 94-96 dell'XI del Purgatorio (che peraltro riceve un significato contestuale limitativo da tutto il discorso di Oderisi da Gubbio), vi sono altri elementi per dubitare che tale fama potesse essere sentita favorevolmente da Dante. Si prescinda anche dalla considerazione già fatta - e di notevole peso al proposito - che, di per sé stessa, l'evidenza ‛ progressista ' rivoluzionaria e palmare della pittura di G. veniva a essere a priori un fattore culturale incompatibile con la mentalità conservatrice di D. e con la sua affezione alla cultura cavalleresca (viceversa estranea all'arte di G. proprio in quanto cultura squisitamente tradizionale). A parte dunque questa e altre possibili considerazioni critiche di fondo propriamente culturale, sussistono dei motivi intrinseci d'incompatibilità fra il fenomeno giottesco e il mondo morale di D., che appartengono alla storia del sentimento religioso in quella società.
Non parrà strano che due artisti come D. e G. possano apparire divergenti non tanto sulla base di un problema estetico quanto in rapporto a un fenomeno religioso come il francescanesimo; si consideri infatti che tale fenomeno era ancora il massimo esponente della religiosità del tempo e che essa costituiva l'ideologia comune e quasi esclusiva della produzione artistica. Nella critica moderna, per quanto concerne i problemi di cui si sta trattando, è stato l'Antal a considerare che " la filosofia e la letteratura, alle quali esclusivamente la storia dell'arte ricorre per spiegare l'arte di un periodo, sono a questo riguardo molto meno importanti del sentimento religioso, e dovrebbero essere considerate piuttosto come fenomeni paralleli " (La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino 1960, 9). Tale definizione corrisponde ancora alla realtà storica dell'ultimo Medioevo, in cui il sentimento religioso è comprensivo di altre forme del pensiero umano - come la filosofia e la letteratura - poiché la concezione della vita stessa è soltanto di senso religioso; corrisponde ossia a un'interpretazione provvidenziale e ‛ verticale ' della storia.
Ancora alla fine del Duecento e al principio del Trecento il francescanesimo rappresentava il più ampio contenuto della religiosità popolare. Orbene, ogniqualvolta nella critica moderna si torna sul problema delle concordanze ideologiche fra l'arte giottesca e dantesca, non si considera mai abbastanza che l'interpretazione rigorista della povertà francescana fornita da D. nel canto XI del Paradiso (su cui in particolare si veda più oltre) non presenta alcun rapporto, anzi è piuttosto ragione di discordanza con l'origine storica di quella leggenda francescana che aveva fornito il costrutto iconografico all'interpretazione giottesca di Assisi. E il ciclo assisiate costituiva in ogni modo un prototipo iconografico, e insieme il maggior antefatto culturale divenuto ormai canonico nel francescanesimo quando D. scriveva il canto XI del Paradiso. Allo stesso tempo, viceversa, il ciclo degli affreschi giotteschi rientrava nell'enorme dispendio della basilica di Assisi; e veniva dunque a porsi in stridente contrasto con lo spirito originario della povertà francescana, sostenuto inflessibilmente dal santo nella prima regola e ribadito ancora nel suo testamento. Inoltre si può presupporre che G. nella composizione iconografica della vita di s. Francesco sulla base di una redazione testuale promulgata ufficialmente dalla curia, si rendesse conto delle discordanze di tale redazione rispetto allo spirito originario del movimento francescano. Nella partecipazione di G. al piano decorativo della basilica assisiate con l'istituzione di un'iconografia francescana, è probabile che per l'artista non costituisse un problema la contraddizione fra il dispendio dell'opera e lo spirito della povertà francescana. Ma sarebbe assurdo d'altro canto supporre che G. non fosse neppure consapevole del problema stesso.
Mentre dunque l'interpretazione giottesca di s. Francesco da un lato deriva testualmente dalla versione mitigata della Legenda maior che corrispondeva agl'interessi del papato, d'altro lato, contenutisticamente, attraverso il nuovo linguaggio iconografico, G. esprime un'adesione aperta ai problemi del sentimento religioso che accoglievano, in senso comunitario, allora, la concezione del mondo come realtà cristiana.
Questo fenomeno, apparentemente strano, di una duplicità di senso nelle origini della spiritualità francescana in G., non è in fondo dissimile dall'altro, forse più particolare, della seconda grande interpretazione giottesca delle Storie di san Francesco; molti anni dopo, al momento delle cappelle di Santa Croce. Là dove siamo in presenza di un fenomeno ancora più incongruente, di rapporto fra la base materiale dei committenti e il contenuto estetico di quell'opera. Mentre il contenuto si riferisce di nuovo agl'ideali ascetici della povertà francescana, la base materiale di quella commissione proviene dalla potenza economica dei ricchi banchieri fiorentini fondata sui grossi prestiti finanziari a usura, che nulla poteva avere in comune con la mistica di s. Francesco.
Ma proprio allora siamo negli anni della composizione del Paradiso e la coincidenza non è del tutto casuale. Perché allora di fronte al travisamento della religiosità francescana da parte della curia di Roma e delle classi dominanti di Firenze, D. produce nel canto XI del Paradiso la sua interpretazione intransigente del rigorismo francescano ricondotto alla base della povertà: e in tale interpretazione è il senso storico forse non casuale della coincidenza con il secondo ciclo giottesco di Francesco.
Il tema della povertà costituisce, per D. in senso esclusivo, la chiave interpretativa del movimento francescano, così come viene allegorizzato nel canto XI: v. per questo FRANCESCO di ASSISI; POVERTÀ. Poiché D. era consapevole della bolla Ouo Elongato con cui Gregorio IX aveva invalidato il Testamentum (1230), la conclusione della storia francescana nel canto XI del Paradiso assume indirettamente un senso polemico contro la curia nel ribadire il rigorismo della povertà come ultimo volere del santo.
Sebbene D. non potesse vedere gli affreschi delle cappelle Bardi e Peruzzi, di cui probabilmente non ebbe neppure notizia, negli ultimi anni della vita era però al corrente dei commerci scandalosi fra i banchieri fiorentini e la curia (nella prima metà del Trecento proprio il banco dei Bardi e dei Peruzzi in modo particolare), realizzati sul tasso d'interesse delle imposte ecclesiastiche di cui solo un terzo o la metà potevano essere devoluti in beneficenza; si ricordi, nel canto di s. Domenico (Pd X11 88-94): E a la sedia che fu già benigna / più a' poveri giusti, non per lei, / ma per colui che siede, che traligna, / non dispensare o due o tre per sei, / non la fortuna di prima vacante, / non decimas, quae sunt pauperum Dei, addimandò.
Si potrebbe anche, per ipotesi, prescindere da certi riscontri di contesto storico nel delineare la cultura dantesca e giottesca come un processo parallelo; con equivalenti, ma anche indipendenti motivazioni che possono indurre a confronto solo per suggestione della loro contemporaneità storica e della comune origine nella civiltà fiorentina del tardo Medioevo. Prescindendo pure per ipotesi da tutti gli elementi ricavati dalla tematica francescana nelle interpretazioni dei due grandi artisti, rimane pur sempre il problema contenutistico di fondo nel quale le personalità dei due contemporanei divergono profondamente nelle rispettive concezioni del mondo in quel loro tempo transitorio, ai limiti del mondo medievale. Poiché il conservatorismo di D., retrivo all'espansione della borghesia toscana sotto la spinta economica del secondo Duecento, e anzi per effetto di questo volto al passato nell'elogio nostalgico del Medioevo feudale, contrasta invariabilmente con le intenzioni dell'arte giottesca che perseguono come polarità costante un linguaggio iconografico devozionale nuovo, dietro al rinnovamento sociale di quella borghesia che apre una cesura nella tradizione.
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