TRISSINO, Giovan Giorgio
TRISSINO (Drasseno, Dressano, Dresseno), Giovan Giorgio. – Nacque a Vicenza, l’8 luglio del 1478, da Gaspare e da Cecilia Bevilacqua, veronese.
Entrambe le famiglie appartenevano alla nobiltà feudale: il nonno materno, Guglielmo, era stato un condottiero prima al servizio degli Scaligeri, poi dei Visconti, mentre il padre, appartenente al ramo cadetto dei Trissino dal Vello d’Oro, era stato al servizio della Repubblica di Venezia fino alla morte, nel 1487.
Come imponeva il suo stato, Trissino ricevette un’educazione militare e venatoria, ma non trascurò quella intellettuale, che gli fu impartita da Francesco da Gragnola e successivamente da Girolamo da Brescia. Certo assecondando la politica familiare che esigeva da lui un erede, nel novembre del 1494 sposò Giovanna di Francesco da Trissino, cavaliere e dottore, da cui ebbe cinque figli, dei quali solo Giulio raggiunse la maggiore età. Giovanna morì nell’aprile del 1505.
Assicurata la discendenza, Trissino si allontanò da Vicenza: nel 1500 si trasferì a Roma, dove sarebbe rimasto due anni, per spostarsi nel 1505, dopo la morte della moglie, a Brescia, città in cui, sfruttando legami familiari, strinse rapporti con il potente casato Gambara. Nel 1506, quando decise di completare i suoi studi, preferì allo Studium patavino quello di Milano, dove studiò greco e approfondì la conoscenza dell’Iliade sotto la guida di Demetrio Calcondila. Se si escludono i brevi soggiorni a Genova e Bergamo, rimase a Milano tre anni, entrando in contatto con diverse nobildonne meneghine, tra cui Cecilia Gallerani Bergamini, che avrebbe poi cantato in rima come Cillenia, Ippolita Sforza e Margherita Pio, vedova Sanseverino, e con i letterati Lucio Scipione Atellano e Lilio Gregorio Giraldi.
Il soggiorno milanese fu interrotto nel 1509, quando a Vicenza le sorti della guerra tra l’Impero e Venezia delusero le aspettative dei filoimperiali, tra cui militavano anche i Trissino, costretti all’esilio. Forse in compagnia dei figli e della madre, Trissino si rifugiò a Riva di Trento, per tornare a Milano e stabilirsi nel 1512 a Ferrara, dove viveva la sorella Maddalena. Nella città degli Este, accolto da Isabella, completò gli studi filosofici con Niccolò Leoniceno e avviò quelli sulla poesia in volgare, certo più consona alla corte in cui conobbe Enea Pio, Ludovico Ariosto, Celio Calcagnini e Lucrezia Borgia, per cui scrisse la canzone Quella virtù, che del bεl vostro velω (Rime, Vicenza 1529, pp. ddIIr-IVr). Proprio a questi anni risale l’esordio letterario di Trissino, che a Ferrara compose per Isabella d’Este una elegia latina (Elegia inedita di Giovangiorgio Trissino ad Isabella d’Este, Perugia 1848) e i Ritratti, un dialogo ambientato nella Milano di Demetrio Calcondila tra Vincenzo Macrè, Pietro Bembo e Lucio Pompilio, sulle bellezze di Isabella, descritta combinando le parti più eccelse di tutte le belle donne del tempo. Un’opera per molti versi programmatica, che assume i contenuti e le funzioni della letteratura di corte di primo Cinquecento, svolta sotto il segno bembiano, ma li compone nelle forme ellenistiche dell’aneddoto narrato da Plinio su Zeusi. Così facendo Trissino prendeva altresì posizione nel dibattito sull’imitazione, attestandosi su posizioni polizianee cui sarebbe rimasto fedele.
Sempre agli anni ferraresi andrà verosimilmente datata anche la εpistola de la vita che dεe tenere una Dωnna vedova (stampata nel 1524), se nel maggio del 1512 Cecilia Gallarani poteva chiedere copia al vicentino di uno scritto sullo stesso argomento. Il breve trattato, che è un organico assemblaggio della trattatistica sulla vidua, nell’accordare la precedenza ad alcune virtù del tutto prevedibili, come la castità, raccomanda anche comportamenti meno scontati nel panorama del tempo, come l’invito a leggere e a istruirsi.
Nell’estate del 1513, afflitto dai lutti e dalle vicende politico-familiari, Trissino accusò un forte malessere e, su consiglio dei medici, soggiornò alle terme di Bagni di Lucca, dove conobbe Bernardo, Cosimo e Palla Rucellai e Francesco da Diacceto, con i quali avrebbe successivamente partecipato alle dotte riunioni degli Orti Oricellari fiorentini.
L’elezione di papa Leone X, frattanto, richiamò a Roma anche Trissino, che vi si recò nell’aprile del 1514: forte delle amicizie strette tra Ferrara e Firenze, fu così introdotto nella sfarzosa corte del papa mediceo, dove strinse amicizia con Giovanni Rucellai e avviò la composizione della Sωphωnisba (offerta a Leone X nel 1518 e andata a stampa nel 1524), che nella storiografia gode del primato di prima tragedia regolare della letteratura italiana.
Ispirata alle vicende della regina numida narrate da Tito Livio e meditate da Francesco Petrarca nell’Affrica, nel riprendere i modelli tragici greci – primo fra tutti l’Euripide dell’Alcesti – , l’opera si regge una volta di più su una poetica combinatoria; ma il risultato, che nel poema epico della maturità risulterà troppo scoperto e disarmonico, qui raggiunge una sua armonia, disegnando un modello di eroismo femminile problematico e tuttavia luminoso nella libido libertatis che porta la protagonista a eleggere la morte piuttosto che divenire prigioniera del nemico. E se, nella storia del genere, l’adozione della favola indivisa di stampo greco sarà presto soppiantata da una scansione in atti di derivazione latina, Trissino detterà legge sul versante metrico, forgiando per i drammaturghi dei secoli successivi la forma primaria del verso tragico: l’endecasillabo sciolto dalla rima.
Benché sia difficile indicare quando, è possibile che proprio durante il soggiorno romano Trissino acquistasse il codice del De vulgari eloquentia di Dante Alighieri (ora a Milano, Biblioteca Trivulziana, 1088), allo studio del quale si sarebbe dedicato nel decennio seguente.
Più che i meriti letterari, fu probabilmente la fedeltà di Trissino all’imperatore a indurre Leone X a eleggerlo come mediatore con Massimiliano I, che il papa voleva condurre alla pacificazione – o alla tregua –, con Francesco I, per poter così garantire la ‘pace universale’ e indirizzare verso il Vicino Oriente le forze della cristianità. Nell’estate del 1515, con il titolo di ambasciatore, Trissino partì verso Augusta, dove rimase per tutto l’inverno del 1516, quando verosimilmente ebbe modo di comporre l’Encomion per Massimiliano I, edito più tardi nel 1529.
La missione avrebbe dovuto proseguire verso il re di Danimarca, ma l’imperatore, insospettito dalle trattative tra il papa e Francesco I, affidò a Trissino le proprie rimostranze contro il pontefice, che il vicentino riportò a Leone X. L’esito della trattativa con Massimiliano I dovette soddisfare il vescovo di Roma, che intervenne in favore di Trissino presso la Repubblica di Venezia: rientrato a Roma nel 1516, fu inviato al Senato veneto, che proprio all’inizio di quell’anno, grazie alla mediazione del pontefice e del re di Francia, aveva condonato il bando a suo carico. Dopo essersi speso per favorire la pacificazione tra Francesco I e l’imperatore, Trissino fu richiamato a Roma, da dove ripartì, nel 1518, alla volta di Napoli, dove probabilmente conobbe Iacopo Sannazaro.
La morte di Massimiliano I, nel 1519, pose fine a questo primo biennio di intensa attività diplomatica trissiniana al servizio del pontefice: rientrato a Vicenza all’inizio degli anni Venti, poté riprendere i suoi studi e consolidare la sua autorevolezza in ambito letterario e linguistico di cui è testimone nel 1521 la richiesta di Mario Equicola di una revisione del Libro de natura de Amore. Il ritorno a Vicenza lo vide impegnato anche nell’amministrazione cittadina, prima come deputato per le cose utili, poi come console e sovente come oratore alla Serenissima (si ricordi, almeno, l’omaggio posto ad Andrea Gritti, eletto doge). Nel marzo del 1523 sposò in seconde nozze Bianca, figlia di Nicolò Trissino e Caterina Verlato, da cui avrebbe avuto due altri figli (Ciro e Cecilia), avviando una relazione matrimoniale complicata dalle rivalità e dalle gelosie della prole di primo letto di entrambi i coniugi. Nel 1523, infatti, Giulio, avviato alla carriera ecclesiastica, era entrato al servizio di Clemente VII come cameriere segreto, ma il soggiorno romano, lungi dal giovargli, aggravò le sue condizioni fisiche, tanto da spingerlo a intraprendere il viaggio di ritorno a Vicenza, per sopperire alle cui spese non esitò a vendere la veste ecclesiastica. In questo atto di ribellione al padre e nel simbolismo legato alla ‘svestizione’ è stato visto il segno di un’eterodossia che sarebbe deflagrata più avanti, ma che era certamente alimentata dallo spiritualismo del cattolicesimo vicentino, cui non dovette essere estraneo neanche Trissino, come dimostra la lettera sulla grazia ad Antonio da Mula, in cui Trissino tentò una mediazione tra l’etica intellettualistica di origine greca e le teorie riformiste sull’arbitrio umano limitato dall’intervento divino.
Eletto Clemente VII al seggio pontificio, Trissino tornò a Roma, dove giunse verosimilmente nel 1524. Nei circoli della Curia romana espose, come testimonia Claudio Tolomei nel Cesano, la sua teoria linguistica, elaborata forse anche in risposta alla sperimentazione teatrale, di certo sollecitata dall’esperienza di una lingua viva ed eterogenea nelle sue realizzazioni orali, e dal dibattito coevo: a Roma, centro simbolico dell’operare letterario trissiniano, stampò quell’anno il primo saggio della sua riforma ortografica: la canzone a Clemente VII, Signωr che fωsti εtεrnamente εlεttω, ribadendo le linee politiche del precedente decennio (la pacificazione tra l’Impero e la Francia e la crociata contro gli ottomani), che all’indomani della caduta dell’isola di Rodi (1522) si riproponevano con rinnovata urgenza.
La riforma ortografica esemplificata dalla canzone a Clemente VII consisteva nella distinzione degli omografi vocalici e consonantici attraverso l’inserimento di alcune lettere dell’alfabeto greco, per la realizzazione tipografica delle quali Trissino si era avvalso del calligrafo vicentino Ludovico degli Arrighi. A ridosso della canzone a Clemente VII, il vicentino diede alle stampe il testo teorico a sostegno della riforma ortografica, la εpistola de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua italiana, parimenti indirizzata al papa, che suscitò vivaci reazioni polemiche.
Inviato dal pontefice al doge di Venezia nel 1525, Trissino fece quindi ritorno in patria, anche per adempiere ad alcuni incarichi affidatigli da Niccolò Ridolfi, nominato vescovo di Vicenza nel 1524. Tra il 1525 e il 1526 fu nuovamente a Roma e poi a Venezia, sempre per conto del papa, la cui politica, come rivela il carteggio con Ridolfi, impensieriva Trissino: il vicentino temeva, infatti, la possibile reazione dell’imperatore, che non sarebbe tardata ad arrivare con il sacco di Roma del 1527.
A Vicenza, riprese i suoi studi linguistici, sollecitati dalla polemica suscitata dalla εpistola: nacque così il dialogo Il Castellano, ambientato nella Roma del 1521, in cui compaiono Giovanni Rucellai, espositore delle idee linguistiche di Trissino, Iacopo Sannazaro, suo sostenitore, e il fiorentino Filippo Strozzi, avverso alla proposta trissiniana di una lingua ‘italiana’, di contro alle proposte ‘fiorentine’ di Bembo e a quelle ‘toscane’ di Claudio Tolomei. Mettendo a frutto anche la teorizzazione dantesca consegnata al De vulgari eloquentia, Trissino proponeva una lingua unitaria dal forte eclettismo, basata su un canone letterario ampio e indistinto.
Il Castellano fu pubblicato nel 1529, in un anno chiave per Trissino, che diede alle stampe anche una nuova edizione della Sωphωnisba, dell’Encomion e della εpistola, con alcuni aggiustamenti ortografici, i Dubbi grammaticali, che tenendo conto delle riflessioni linguistiche di Tolomei ampliavano i prestiti dall’alfabeto greco, e la Grammatichetta, una descrizione delle parti del discorso della lingua italiana e uno specimen dell’alfabeto così riformato. Soprattutto, certo per rafforzare la propria teoria linguistica, vedeva la luce, anonima, la prima traduzione ed edizione del De vulgari eloquentia, con una dedica al cardinale Ippolito de’ Medici firmata da Giovan Battista Doria.
Lo studio del trattato dantesco fu alla base di un impegno teorico che avrebbe a lungo interessato Trissino: nello stesso 1529 videro infatti la luce le prime quattro parti («divisioni», nella formulazione trissiniana) della Pωetica, che riprendeva la teorizzazione dantesca e il trattato metricologico di Antonio da Tempo per intervenire su questioni di metrica e di prosodia, in netta polemica tanto con le Prose bembiane, quanto con la linea ‘toscana’ del dibattito letterario.
In forte continuità con la Pωetica, Trissino volle raccogliere la sua produzione in versi in un volume dal titolo, destinato ad avere ampia fortuna, di Rime (dedicato a Niccolò Ridolfi), in cui sul frontespizio compare per la prima volta come motto personale una citazione dall’Edipo re di Sofocle: «chi cerca trova». Nel volume confluiva quanto il vicentino aveva fino a quel momento scritto in versi volgari: tanto la produzione giovanile e amorosa, quanto quella encomiastica. L’eterogeneità del libro consentiva così di presentare un ventaglio di generi e di forme quanto mai eclettico, al pari del lessico e della organizzazione macrostrutturale che, nella parte ‘amorosa’, presenta un andamento blandamente narrativo di stampo petrarchesco, sul quale si innestano sonetti stilnovistico-descrittivi e altri ispirati a un costume tipicamente cortigiano.
Questo periodo di grande esposizione pubblica culminò nel 1530 a Bologna, quando, durante la cerimonia di incoronazione di Carlo V, Trissino ebbe l’onore di reggere lo strascico del mantello papale, certo a suggellare una vita diplomatica spesa nel tentativo di conciliare i due ‘soli’ del suo sistema politico, in ricompensa della quale il papa gli offrì la carica di governatore di Firenze, che Trissino rifiutò. Durante il quarto decennio del secolo, infatti, Trissino fu soprattutto a Vicenza, dove attese alla cura del patrimonio familiare, la cui rendita era minacciata dalle spinte autonomistiche dei comuni a lui soggetti (si veda, a esempio, l’Orazione in difesa de’ diritti di decima ne’ comuni della Valle dell’Agno), e del bene cittadino, per il quale si adoperò contro le pretese della Serenissima di addebitare a Vicenza i costi per le fortificazioni murarie (Orazione alla signora di Venezia). Nel 1532, al passaggio dell’imperatore da Vicenza, Trissino lo accolse a Montecchio Maggiore, dove, presumibilmente, fu insignito del titolo ereditario di conte palatino e cavaliere.
Gli anni Trenta videro Trissino impegnato anche sul fronte familiare, dovendo tener testa all’intemperanza del primogenito Giulio, la cui ‘svestizione’ non aveva impedito al padre di fargli avere il canonicato della cattedrale di Vicenza. L’arrivo in città, nel 1532, di Pellegrino Morato e la frequentazione tra i due portò alla radicalizzazione delle tesi ereticali di Giulio e all’inasprimento dei rapporti con il padre e con la madre adottiva, che, esasperata dal comportamento violento del figliastro, si separò da Trissino nel 1535.
I dissidi familiari degli anni Trenta non sembra offuscassero la fama pubblica di Trissino, raggiunto sovente dalle richieste di autorevoli pareri sulle più disparate questioni: nel 1533 Bembo scriveva al figlio Giovan Matteo a Vicenza di adoperarsi affinché Trissino gli prestasse il volgarizzamento di Livio tradotto da Giovanni Boccaccio; a un più impegnativo appello si deve la descrizione di una grotta nei pressi di Vicenza, Il covolo di Costozza, come anche la lettera sulla Grazia ad Antonio da Mula già ricordata; ma gli interessi di Trissino spaziavano anche nel campo dell’architettura, cui lo avvicinava il culto dell’antico che ispirò il restauro della villa di Cricoli. Fu forse proprio l’impegno profuso nella costruzione della villa, destinata a diventare un punto di aggregazione della cultura di primo Cinquecento, a favorire l’incontro con Andrea di Piero, che Trissino ribattezzò ellenicamente Palladio; e certamente a questo periodo della sua esistenza andrà ricondotto anche il trattato, incompiuto, Della architettura.
Il prestigio acquisito da Trissino si misura altresì nella frequenza con cui la città di Vicenza fece ricorso a lui come oratore presso il Senato veneziano (1535, 1536, 1538, 1540) e nel ruolo svolto nell’accoglienza dei prelati coinvolti nel Concilio di Vicenza (1538), presto abortito.
Terminata la villa di Cricoli e oramai separato dalla moglie, nel 1538 Trissino, che frattanto curava l’edizione delle Api del compianto Giovanni Rucellai, si trasferì a Padova, dove lo attirava la presenza di Gabriel Trifone, di Vincenzo Maggi, di Sperone Speroni. Nel 1540 prese dimora nell’isola di Murano, nella laguna veneziana, dove avrebbe soggiornato discontinuamente nel successivo decennio. Nel 1541, infatti, si recò nuovamente a Roma per offrire al pontefice la traduzione compiuta da Niccolò Leoniceno del trattato sull’Armonia di Tolomeo, certo in previsione di un nuovo incontro tra il papa e l’imperatore. Le lettere dei primi anni Quaranta al pontefice descrivono un Trissino impaziente di riprendere il proprio ruolo di mediatore tra il Papato e l’Impero, nella cui veste si ritrovò nel 1543 a Bologna, per accogliere Carlo V. Nel 1545 fu di nuovo a Roma, in compagnia di Giambattista Maganza, Girolamo Thiene e Andrea Palladio. Trissino era allora impegnato nella revisione del poema cui affiderà la propria gloria poetica, La Italia liberata da Gotthi, di cui nel 1547 uscirono a Roma i primi nove libri.
Il poema, in ventisette libri di endecasillabi sciolti, con il quale Trissino volle restaurare l’epica classica in concorrenza con il romanzo ariostesco, si ispira alle vicende storiche narrate da Procopio di Cesarea, lette alla luce dei modelli politici cinquecenteschi: come avverte la dedica a Carlo V, infatti, nell’imperatore Giustiniano, che dichiarò guerra agli Ostrogoti per la conquista della penisola italiana, Trissino volle cantare un’idea imperiale di assoluta attualità al tempo delle guerre d’Italia. L’assunzione del modello omerico, dal quale Trissino mutuò lo stile volto al particolareggiamento e i caratteri principali, non fu tuttavia integrale: Trissino infatti fece ampio ricorso al sistema dell’allegoria, di derivazione medioevale e cavalleresca, inserendo molti episodi ricalcati sui romanzi ariostesco e boiardesco. Dalla mancata integrazione tra i due sistemi ideologici derivò uno sfondo religioso ambiguo, in cui le ‘intelligenze celesti’ cristiane sono travestite di fogge e nomi greci, dando luogo a patenti contraddizioni confessionali, che si sommano a una infelicità poetica sul piano dell’invenzione e della versificazione. Tanto più atteso, il poema trissiniano era pertanto destinato a unanime condanna e all’oblio.
Unitamente alla seconda parte del poema (uscita in una duplice edizione: una destinata all’imperatore, l’altra al mondo cattolico, significativamente alleggerita di una condanna del malcostume della Chiesa romana), nel 1548 uscirono anche i Simillimi, una commedia di smaccata imitazione classica. Trissino era però già assorbito dal completamento delle ultime due «divisioni» della Pωetica, che sarebbero uscite postume insieme al volgarizzamento dell’Ecuba di Euripide e all’Ode di Orazio (III 9), in un contesto biografico quanto mai misero: i dissapori con il figlio erano infatti degenerati in una lite giudiziaria che privò Trissino dei suoi beni, costringendolo, malato di podagra, ad abbandonare Vicenza alla volta di Augusta, dove sperava di ottenere giustizia dall’imperatore, e poi, tornato in Italia, a lasciare anche Venezia, contro la quale scrisse una vibrante invettiva poetica.
Riparato a Roma, morì l’8 dicembre 1550.
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