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CRESCIMBENI, Giovan Mario

di Nicola Merola - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)
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CRESCIMBENI, Giovan Mario

Nicola Merola

Nacque a Macerata il 9 ott. 1663 in una delle più ragguardevoli famiglie della città marchigiana, da Giovan Filippo, professore di discipline giuridiche presso l'università locale, e da Anna Virginia Barbo. Il C. ricevette un'educazione particolarmente accurata (materialmente impartitagli, per i primi rudimenti di grammatica, dal religioso Francesco Gioannangeli, per la rettorica, dal dantista e latinista padre Carlo d'Aquino, per l'eloquenza toscana e latina, da Niccolò Antonio Raffaelli) e al tempo stesso precocemente finalizzata alla carriera forense, alla quale, contro le sue inclinazioni, lo aveva destinato il padre.

Dopo aver conseguito, nel 1679, la laurea in legge, egli si trasferì, ospite del facoltoso zio paterno Anton Francesco, a Roma, dove, anziché esercitare la professione, preferì partecipare attivamente alla intensa vita culturale. Divenne così successivamente membro dell'Accademia degli Umoristi, di quella degli Intrecciati e di quella degli Infecondi, alle quali tutte recò il suo contributo di fautore del classicismo, e fu, nel 1690, con il Gravina, il Leonio, lo Zappi e il Taia, tra i quattordici intellettuali del circolo cristiniano che, nel ricordo della ex regina di Svezia, fondarono l'Arcadia. Nominatone primo custode generale, impresse ben presto all'accademia un indirizzo di moderata restaurazione classicistica e moralistica, tale che potesse essere accolto in ogni parte d'Italia (ma non soltanto in Italia) e che, all'insegna della rivalutazione della cultura nazionale, non lasciasse cadere neanche la componente più blandamente barocca del gusto contemporaneo. In questo modo però, mentre l'affermazione dell'accademia si traduceva nella moltiplicazione delle sue "colonie" (ne vennero "dedotte" quaranta nel solo periodo del custodiato del C.) e nella diffusione capillare del complesso rituale pastorale, l'eccessiva disponibilità e il disarmo ideologico della linea imposta dal custode generale portarono alla secessione di colui che, nel latino delle Dodici tavole, era stato il legislatore dell'Arcadia, Gianvincenzo Gravina, più decisamente innovatore e più teoricamente impegnato.

La superficiale restaurazione classicistica e moralistica del C., che si esaurì praticamente nell'organizzazione burocratica dell'accademia e nella regolamentazione di un gusto letterario che era prima uno stile di vita, si appoggiò a una solerte attività di sistematore della tradizione letteraria italiana, in opere come L'istoria della volgar poesia (Roma 1698), e quindi La bellezza della volgar poesia (ibid. 1700) e i Comentarj intorno alla storia della volgar poesia (ibid. 1702-1711) e in un'incessante laboriosità di propagandista, di editore e di storico dell'Arcadia, che, fin dalla celebrazione romanzata dei suoi fasti, L'Arcadia (Roma 1708), sempre più venne portata a coincidere con il proprio modesto mondo fantastico e con la propria leggenda, cioè in sostanza con lo strumento più efficace del progetto politico-culturale di unificazione letteraria ed egemonia nazionale di Alfesibeo Cario (tale era il nome assunto in Arcadia dal Crescimbeni). Accanto a questa operosità profana, il C., che nel 1705 divenne canonico e nel 1719 arciprete della basilica di S. Maria in Cosmedin, coltivò una ricerca sulla storia delle chiese romane (la stessa S. Maria in Cosmedin, S. Giovanni a Porta Latina, S. Anastasia), cui adibì non comuni doti di serietà e rigore.

Morì a Roma, l'8 marzo 1728, dopo aver chiesto e ottenuto, per sciogliere un voto, di entrare nella Compagnia di Gesù.

L'opera erudita, sacra e profana, del C. si inquadra nel complesso del rinnovamento metodologico che era stato avviato oltralpe dai maurini e che in Italia aveva avuto il suo antesignano in B. Bacchini. I notevoli progressi denunciati dalla Istoria e dalla Bellezza della volgar poesia, rispetto alle compilazioni puramente biografiche e aneddotiche secentesche, non vanno però tanto attribuiti al nuovo rigore dell'indagine delle fonti e alla parziale emancipazione dalla prospettiva retorica della storiografia umanistica, quanto piuttosto semplicemente all'affermazione di uno svolgimento logico e cronologico nella nostra tradizione letteraria. Su di esso per l'appunto era fondata la pretesa arcadica di riattivare e gestire la tradizione, finalizzandola e limitandola alle proprie esigenze di una comunicazione raffinata e mondana, mentre la nozione stessa di progresso autorizzava, più che le singole scelte di gusto, pressoché irrilevanti all'interno di un tono generale dei commerci letterari che si rifaceva soprattutto alle esigenze della vita mondana, un rapporto dinamico con i classici (nel senso beninteso della loro degradazione). In questi limiti, si può senz'altro ritenere che l'opera del C. segni "l'inizio di quel processo dell'erudizione settecentesca che dovrà portare, attraverso le opere del Gimma e del Quadrio, alla Storia del Tiraboschi, alla fondazione cioè del primo complesso organismo storiografico relativo alle lettere italiane", e che corrisponda al compimento di una consapevole svolta rispetto agli "esemplari del passato" (G. Getto, Storia delle storie letterarie, Firenze 1967, pp. 33 s.).

Bisogna però ugualmente precisare che la dimensione nella quale si compie la svolta, e soprattutto se ne ha la consapevolezza, non è quella storiografica senz'altro, perché nasce da un'"ispirazione, in ultima istanza, controversistica e immediatamente pragmatica" (G. Compagnino-G. Savoca, L'Accademia d'Arcadia e i suoi esordi, in La letteratura italiana. Storia e testi, a cura di C. Muscetta, Bari 1973, VI, I, pp. 35-68: la citazione è tratta da p. 43); resta in primo piano l'imprescindibile interesse precettistico di fornire una esemplificazione canonica delle forme e dei temi convalidati dalla tradizione e compatibili con la convenzione pastorale; l'orientamento critico del discorso ubbidisce alla trasparente intenzione di riassumere tutta la tradizione nell'Arcadia ed esibisce così ancora più chiaramente i suoi limiti teorici. Quelli stessi che denunciava il giudizio perentorio e impietoso del Baretti, al quale peraltro sfuggiva totalmente la portata dell'operazione complessiva del C., quando scriveva: "Della pazienza, della buona schiena e della memoria il Crescimbeni ne aveva quanto ne occorre a un compilatore, ma di quella cosa, che chiamiamo ingegno, ei non ne aveva il minimo che" (G. Baretti, La Frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, I, Bari 1932, p. 68).

Ma l'iniziatore della moderna storiografia letteraria italiana non poteva che essere chi, più di ogni altro, contribuì a che si affermassero quella base comune di gusto e quel richiamo al buon senso (in una parola, quel pubblico consapevole dei propri diritti), senza i quali appare puramente velleitario porsi il problema di una storiografia letteraria.

Nell'Istoria infatti, e nei Comentarij che le si vennero aggiungendo a illustrazione e complemento tra il 1702 e il 1711, è sempre secondo un programma di rinnovamento e di regolamentazione della moderna poesia italiana che vengono privilegiati i generi e le forme metriche rispetto alla stessa ricerca documentaria intorno alla vita e alle opere dei poeti, all'interno di una scelta generale per la poesia in versi e per quella lirica in particolare: "Ideale soggetto della narrazione non sono infatti gli autori e le opere degli autori, ma proprio le forme metriche" (Getto, cit., p. 37). Così le vicende di una tradizione, che naturalmente fa capo al Petrarca e al petrarchismo, e che prevede comunque due soli sbocchi possibili (oltre a quello più propriamente italiano per l'appunto petrarchesco, quello chiabreresco, greco italianizzato, sia nella versione pindarica, sia in quella anacreontica, che è la più conveniente), sembrano effettivamente condurre alla conciliazione arcadica e al disegno crescimbeniano di una colonizzazione poetica dell'Italia e della sua tradizione letteraria.

Nei dialoghi della Bellezza della volgar poesia più scoperti sono gli intenti precettistici e più largo lo spettro degli interessi dell'autore, che non si limita più a prendere in esame la sola poesia lirica, ma si occupa dei vari stili e dei vari generi. Nel nono e ultimo dialogo in particolare, il C., tornando a trattare della lirica e soprattutto del sonetto, fa il punto sulla situazione contemporanea e ne deriva esplicitamente la ragione e l'indirizzo della sua riforma letteraria. In questo modo chiude il cerchio logico che aveva aperto teorizzando l'inattualità delle "favole" della antichità greca e latina, che non sarebbero state più proponibili a un pubblico ormai emancipato dalla diffusione delle conoscenze scientifiche e ben in grado di spiegarsi razionalmente le stesse cose che le "favole" illustravano per ambagi, e ribadisce che l'affermazione dell'originalità della poetica classicistica degli Arcadi corrisponde effettivamente alla sanzione dell'autonomia e della autonoma rappresentatività della nostra tradizione volgare.

Sbaglierebbe però chi credesse che la contrapposizione tra il Gravina e il C., che doveva portare allo "scisma" del 1711, si incentrasse sugli orientamenti di poetica dell'accademia. Perché, se è vero che il Gravina ha additato nell'opera del custode generale la causa della corruzione che avrebbe portato l'accademia a trastullarsi con insulse pastorellerie, tradendo la sua originale vocazione alla serietà e all'impegno intellettuale di un classicismo nutrito di idee ed eticamente motivato, la scelta moderata per il classicismo italiano e per l'intrattenimento raffinato, circoscritto per giunta nella dimensione dell'idillio, ubbidiva di fatto alle predominanti esigenze organizzative di una politica culturale che, magari senza la diretta e consapevole ispirazione della Curia romana, mirava ormai soltanto a gestire e allargare i consensi che le erano toccati, e perciò non era certamente disponibile alle rigorose prescrizioni graviniane. Le quali avevano il solo torto di rivolgersi a una figura di intellettuale ben più ricca e complessa di quella sulla quale lavorava il Crescimbeni.

Per lo stesso motivo l'accademia puntava soprattutto sui dati esteriori di un rituale chiaramente mondano e tutt'altro che impegnativo sul piano ideologico, sulla base esclusiva del quale, dal momento che il richiamo al "buon gusto" si risolveva come abbiamo visto nella sanzione del gusto contemporaneo e magari anche delle sopravvivenze secentiste, si operava una selezione addirittura meno severa di quella che, nelle opere di storiografia letteraria, aveva portato il C. a censurare quasi soltanto gli umanisti e i marinisti, risparmiando però a ogni buon conto lo stesso cavalier Marino.Non casualmente dunque Alfesibeo Cario dedicò le stesse attenzioni erudite e la stessa energia di sistematore che aveva già dimostrato nei lavori storico-letterari alla storia interna, alla selezione e alla edizione delle prove letterarie dei "pastori" consociati (Le vite degli Arcadi illustri, Roma 1708-1727; Le rime degli Arcadi, ibid. 1716-1722; Notizie istoriche degli Arcadi morti, ibid. 1720-21). A esse infatti egli attribuiva la medesima funzione precettistica e la medesima importanza delle opere classiche, stabilendo una continuità della poesia nel suo svolgimento storico che dai provenzali giungeva fino ai vari Zappi, e magari a quel Bernardino Perfetti che lo entusiasmò con le sue doti di improvvisatore e che per questo egli provvide a far incoronare in Campidoglio, dandone la debita registrazione alle stampe (Atto della solenne coronazione di Bernardino Perfetti, Roma 1725).

Ed è da questo ulteriore motivo di discordia con il Gravina, avversario irriducibile dell'improvvisazione, che si ricava il senso ultimo della poetica arcadica avallata e promossa dal C.: unificare i letterati, allargandone al tempo stesso la presenza, in una categoria omogenea di produttori e consumatori di poesia, per giungere alla formazione di una koinè poetica capace di abbellire senza sforzo qualsiasi attività e qualsiasi pensiero, allo stesso modo in cui l'armamentario pastorale mascherava e abbelliva le modeste variazioni e gli involgarimenti che subiva la versione mondana del petrarchismo - a uso e consumo di abati, cicisbei e nobildonne.

Della vastissima produzione poetica del C., "che egli stesso del resto riduce ad un esercizio pedagogico e illustrativo della tematica e del gusto arcadico", come se fosse un'"appendice al suo lavoro di organizzazione pratica e di editoria ufficiale e alla sua interpretazione della poesia italiana in funzione di una nuova poetica del "buon gusto" offerta all'Arcadia nei suoi volumi letterari" (W. Binni, Il Settecento letterario, in Storia della letter. italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, VI, Milano 1968, p. 357), bisogna sottolineare la scarsa originalità e la decisa opzione per un tono programmaticamente leggero, adibito per giunta alla trattazione di argomenti prevalentemente seri. Le varie edizioni delle sue Rime (Roma 1695, 1704 e 1723) non ebbero d'altra parte, nemmeno all'interno dell'accademia, la stessa importanza di quelle di uno Zappi.

Opere (oltre a quelle citate): Breve notizia dello stato antico e moderno dell'adunanza degli Arcadi, Roma 1712; L'istoria di S. Maria in Cosmedin, ibid. 17151 L'istoria della chiesa di S. Giovanni a Porta Latina, ibid. 1716; Le prose degli Arcadi, ibid. 1718; Arcadum Carmina, ibid. 1721; Historia della basilica di S. Anastasia, ibid. 1722; Raccolta di varii poemetti lirici, drammatici e ditirambici degli Arcadi, ibid. 1722; Componimenti poetici nel gittarsi la prima pietra ne' fondamenti del nuovo Teatro d'Arcadia, una corona poetica rinterzata in lode di Benedetto XIII, ibid. 1725.

Fonti e Bibl.: F. M. Mancurti, Vita e catal. delle opere di G. M. C., Roma 1729;M. G. Morei, Vita di Cr. M. C., in Vite degli Arcadi illustri, V, Roma 1751;G. Patroni, G. M. C., in L'Arcadia, II (1890),343-352, 546-551, 615-633;G. Pischedda, 81. C. nelle mo rime, Bari 1900; Per il Il centenario della morte di G. M. C., Macerata 1928; G. Natali, G. M. C., in Atti dell'Accad. dell'Arcadia, XII (1929), pp. 201-225; A.Quondam, Problemi di critica arcadica, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. Fubini, I, Padova 1970, pp. 515-523;V.M. Gaye, L'opera critica e storiogr. del C., Parma 1970;E. Esposito, C. G. M., in Diz. critico della letter. italiana, I, Torino 1973, pp. 640-643; S. Baldoncini, L'Otthoboniana, Accad. romana del Settecento (dal Memoriale di G. M. C.), in Accad. e Bibl. d'Itaha, XLII (1974), pp. 33-42.

Vedi anche
Arcadia (o Accademia dell’Arcadia) Accademia letteraria, fondata a Roma (1690) da G.V. Gravina, G.M. Crescimbeni e altri 12 letterati, dopo la morte di Cristina di Svezia, nel cui salotto erano soliti riunirsi. Il nome fu scelto con riferimento alla regione greca, simbolo fin dall’antichità di vita innocente ... Gian Vincenzo Gravina Giureconsulto e letterato (Roggiano, Cosenza, 1664 - Roma 1718). Convinto assertore dei principi del cartesianesimo, nella sua opera è attestato quel gusto della chiarezza e della ragionevolezza che caratterizza la nascente Arcadia, di cui fu tra i fondatori (1690) e da cui si staccò (1711) per formare ... Giacinto Gimma Erudito (Bari 1668 - ivi 1735), abate. Oltre a opere scientifiche e di carattere storico ed enciclopedico, e ad Elogi accademici (1703), utili per le notizie sui contemporanei, scrisse l'Idea della storia dell'Italia letterata (1723), che si può considerare la prima storia della letteratura italiana... Alessandro Guidi Poeta (Pavia 1650 - Frascati 1712); sedicenne era già alla corte dei Farnese a Parma, dove nel 1681 pubblicò Poesie liriche (ripudiate poi nel 1691 insieme con tutte quelle opere che Guidi, Alessandro considerava d'imitazione mariniana) e il melodramma Amalasunta in Italia, musicato da Policci. Recatosi ...
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