giovani
Ai tempi di M. si dicono giovani gli uomini tra i ventiquattro e i quaranta o quarantacinque anni. I fiorentini distinguono ulteriormente i «garzoni» (dai ventiquattro ai trent’anni) dagli «uomini fatti», che, trentenni, possono ricoprire cariche pubbliche. I primi, giudicati troppo focosi per la vita politica, si oppongono ai secondi, di cui si pensa che agiscano con maggior ragionevolezza. Nei vari testi machiavelliani si possono identificare due categorie di «giovani». La prima è composta dalle persone nate negli ultimi anni del Quattrocento, incontrate da M. e dedicatarie o protagoniste di alcune sue opere, ma anche dai famosi g. della storia antica. Alcuni g. hanno un ruolo particolare nella sua opera. Il caso più noto è quello di Cesare Borgia, e si sa che M. dichiara di non volere rinunciare mai ad «allegare Cesare Borgia e le sua azioni» (Principe xiii 11). Aveva meno di trent’anni quando lo incontrò per la prima volta durante una missione diplomatica: pur non evocandone esplicitamente l’età, nel farne un modello da imitare M. sottolinea in lui i tratti caratteristici della giovinezza. Ma tra i protagonisti della storia antica si può, per esempio, rimandare al «giovane» Annibale, conquistatore che occupa uno statuto particolare nei Discorsi. Una seconda figura di «giovane» nelle opere machiavelliane è quella che risulta dall’idealizzazione di certe caratteristiche morali, politiche o militari: si pensi ai protagonisti delle commedie, i g. innamorati della Mandragola e della Clizia, nella quale viene ribadito, come nel Principe (xxv 26-27), che la fortuna è «amica de’ giovani» (Clizia IV i).
M. non distingue mai la prospettiva gnoseologica da quella prammatica. Si conosce per agire e quindi bisogna tener conto di chi è in situazione di agire meglio. I parametri che consentono, secondo la «verità effettuale», un’azione utile, non sono dipendenti dall’età. Tanto i g. quanto i vecchi sono in grado di agire in modo efficiente, come aveva capito la Roma antica, dove «sempre si andò a trovare la virtù o in giovane o in vecchio che la fusse» (Discorsi I lx 2). Non si tratta quindi di sostituire i vecchi con i g., ma di riconoscere che, a seconda dei tempi e degli individui, sarà valida ed efficace una certa azione piuttosto che un’altra. Interrogandosi nei Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini su ciò che determina il successo dell’agire politico, M. spiega quindi che se, da una parte, ogni «tempo» possiede i propri tratti distintivi, dall’altra, ogni individuo si atteggia in un modo che lo distingue dagli altri, e questo atteggiamento risulta più o meno adeguato alle circostanze.
M. conclude l’analisi affermando che «la fortuna varia e comanda a li uomini, e tiegli sotto el giogo suo». Ma aggiunge, in margine al testo, che occorre «tentare la fortuna che è amica de’ giovani» (M. a Soderini, 13-21 sett. 1506). Qualche anno dopo, nel Principe, spiegherà che «la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla […] come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano» (xxv 26-27). Non a caso si può rintracciare il proverbio latino secondo il quale audaces fortuna juvat sia nel capitolo “Di Fortuna” (v. 75) sia nel titolo del cap. xliv del libro III dei Discorsi. Ma per M. non si tratta di una semplice ripresa di un luogo comune né di una mera ispirazione a fonti antiche; anzi, a suggerire l’importanza di quest’asserzione nel suo pensiero è il fatto che si tratta dell’unico brano del Principe in cui i g. vengono introdotti nel ragionamento in quanto classe di età. Sottolineare «l’impeto» dei g. potrebbe essere un modo implicito di suggerire che i vecchi sono invece «respettivi». Ma papa Giulio II è un vecchio che «procedé in ogni sua azione impetuosamente» (xxv 18); il che significa che l’ardore giovanile non si trasforma con il tempo in carattere guardingo, e che i g. non sono gli unici a potere dispiegare simili qualità. Del resto a M. non preme definire il temperamento della giovinezza e della vecchiaia secondo l’opposizione topica tra l’impeto e la cautela, ma piuttosto capire quale sia il ruolo di ogni ‘classe di età’ nell’azione politica, senza stabilire gerarchie tra vecchi e giovani.
I vecchi politici di Firenze, abituati da sempre a godere il «benefizio del tempo», fanno fatica a cogliere le novità dello straordinario. Avvezzi a una politica che aveva toccato il suo apice nella seconda parte del Quattrocento, dopo la conclusione della pace di Lodi, i vecchi non accettano volentieri di integrare nel proprio ragionamento la nozione di novità. Invece la forza della novità, la logica dell’inedito, che sempre sono in grado di sconvolgere l’ordine delle cose in M., appartengono piuttosto ai g., perché «pare più naturale agli uomini favorire sempre i principii delle cose: e tali favori possono più che in alcuna altra cosa nelle opere che paiano che abbiano in sé qualche virtù e siano operate da’ giovani»; e quindi «se in una republica si vede surgere uno giovane nobile, quale abbia in sé virtù istraordinaria, tutti gli occhi de’ cittadini si cominciono a voltare verso lui e concorrere sanza alcuno rispetto a onorarlo» (Discorsi I xxxiii 8). I g. traggono ovviamente la loro formazione dall’educazione ricevuta e dal viatico di saggezza contenuti nei «libri di famiglia»; ma possono, e devono, anche imparare dall’esperienza a «conosce[re] discosto» (Principe iii 28), a prevedere in modo spregiudicato gli avvenimenti ed erigere «ripari» e «argini» (xxv 6): i g. sono quindi in grado di resistere meglio alla forza della fortuna.
Quando questa si dispiega nella storia, vince chi sia in grado di fronteggiarla, di agire, di cogliere le occasioni. Infatti, «sapere nella guerra conoscere l’occasione e pigliarla, giova più che niuna altra cosa» (Arte della guerra VII 159). Ora tale capacità sembra spesso il privilegio dei g. dal temperamento impetuoso: M. considera che, nella guerra permanente iniziata nel 1494, «sia meglio essere impetuoso che respettivo» (Principe xxv 26), al modo di Cesare Borgia, giovane eroe virtuoso che sa cogliere le occasioni offertegli dalla fortuna (Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, § 35). Alla fortuna viene spesso associato il tempo della guerra: nella lettera che M. ricevette dai Dieci della guerra il 7 novembre 1500 si legge, infatti, che «la fortuna non fa in cosa alcuna maggior pruova al sì et al non che nelle cose della guerra» (i Dieci a M., 7 nov. 1500, LCSG, 1° t., p. 512). Scrivere che la fortuna è «amica dei giovani» è dunque un modo di affermare, anche se in modo implicito, che i g. sono in grado di iscrivere la propria azione nella «qualità de’ tempi» presenti perché «la gioventù [li fa] più amici delle cose militari» (Arte della guerra I 47).
L’ardore giovanile echeggia in modo emblematico il carattere fulmineo di quelle battaglie «corte e grosse» (Discorsi II vi 5) condotte dai francesi «robusti e furiosi» (Decennale I, v. 85). Perciò M. può scrivere a proposito dell’esercizio militare che i g. sono «più pronti ad essequirlo» (Arte della guerra III 5), mentre i vecchi, «per aver già il capo bianco e avere i sangui ghiacciati adosso» (I 48), sono inetti al guerreggiare e devono dunque tenersene in disparte (VII 70). Un secolo prima di M., Coluccio Salutati affermava invece che il rischio di morire in guerra era inversamente proporzionale all’età (Epistolario, a cura di F. Novati, 1° vol., 1891, p. 315). La saggezza che andava di pari passo con la vecchiaia conferiva ai vecchi una forma di invulnerabilità che fondava e legittimava, come nell’età antica, la loro autorità politica naturale nella città. Ma significativamente, nel riprendere un episodio in cui Erodiano riferiva il dissenso che oppose Pertinace ai suoi soldati, M., invece di parlare del rispetto che il vecchio imperatore incuteva, scrive del disprezzo per la vecchiaia (Principe xix 36), associata ormai soltanto alla debolezza fisica. I vecchi non sono savi perché, essendo «incorreggibili», non rinunciano ai «cattivi modi» (Arte della guerra I 48) e di conseguenza il loro atteggiamento politico e militare non corrisponde alla nuova «qualità de’ tempi». Inoltre, i g. sono «più atti a ragionare» della guerra (III 5). Perciò M. si sofferma sul modo di educare i soldati, la cui età sarà tra i diciassette e i quarant’anni, conformemente al modello di reclutamento romano (I 144, 86). Nel formarsi al guerreggiare, i g. potranno anche dimenticare la propria oziosa viltà, «perché il trattare dell’armi, com’egli è bello spettacolo, così è a’ giovani dilettevole» (I 227). Suggestivo a tal riguardo l’entusiasmo di Castruccio Castracani che, avendo cominciato a maneggiare le armi sin dai quattordici anni, «mostrava virtù di animo e di corpo grandissima, e di lunga tutti gli altri della sua età superava» (Vita di Castruccio Castracani, § 15). Puer maior sua etate, Castruccio è un soldato ideale perché dà prova del coraggio giovanile nonché della saggezza conferita dalla vecchiaia: «in ogni cosa dimostrava ingegno e prudenza» (§ 14).
Del resto, né l’amicizia con la fortuna, né il vigore fisico e l’interesse per la guerra bastano a definire il politico capace, essendo l’impeto necessario, ma non sufficiente per governare. È infatti l’associazione tra saviezza e forza a definire il soldato ideale, come suggerisce il ritratto di Antonio Giacomini Tebalducci (→), «cauto nel pigliare i partiti, animoso nello esequirli» (Nature di uomini fiorentini, § 5). Da qui l’importanza dell’educare i g.:
gl’importa assai che un giovanetto da’ teneri anni cominci a sentire dire bene o male d’una cosa, perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua vita (Discorsi III xlvi 5).
Oltre a imparare il modo di anticipare le difficoltà, i g. potranno apprendere ad avere una parte di rilievo nella vita politica: siccome sono protagonisti dello scontro con la fortuna, la quale va urtata giovanilmente, è utile, anzi necessario, dar loro qualche occasione di comparire sulla scena politica. M. considera infatti che l’arte del governo va esperita e non ereditata. A quelli che vogliono farsi conoscere, egli raccomanda quindi di «ingegnarsi con qualche operazione istraordinaria cominciare a rilevarsi» (Discorsi III xxxiv 14). E poiché la trasmissione del capitale d’esperienza e della fama degli avi non basta più a costituire l’esperienza politica, come accadeva tradizionalmente a Firenze, sarà l’esperienza politica nelle cariche pubbliche a determinare la fama di qualcuno. Per lo stesso motivo l’età non deve più essere un criterio di selezione dei magistrati. M. cita in proposito l’esempio dei Romani, i quali consideravano che
quando uno giovane è di tanta virtù che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere, sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potessi valere allora, e che l’avesse ad aspettare che fosse invecchiato con lui quel vigore dell’animo e quella prontezza della quale in quella età la patria sua si poteva valere (Discorsi I lx 9).
Se un g. si dimostrerà capace di partecipare al governo della città, la repubblica dovrà permettergli di assumere responsabilità nella vita politica. La loro irruenza non è dunque più un ostacolo alla presenza attiva dei g. sulla scena pubblica. Simili considerazioni non suonavano ovvie a Firenze, dove le cariche pubbliche più importanti venivano riservate agli uomini almeno trentenni.
M. non esclude affatto la possibilità di una trasmissione dell’esperienza politica. Ma tale insegnamento non spetta più soltanto al capofamiglia che si rivolge ai propri discendenti (come voleva la tradizione fiorentina), bensì al cittadino, sperimentato perché attempato, che cerca di educare i giovani. Emblematica la figura di Fabrizio Colonna (seppure sia condottiero e non toscano), il protagonista dell’Arte della guerra, il quale, ritenendo di essere troppo vecchio per avere ancora l’occasione di agire, tramanda il proprio sapere ai g. che gli stanno intorno (VII 246). In un’altra situazione, proprio perché «[è] stato a studio all’arte dello stato» (M. a Francesco Vettori, 10 dic. 1513), l’ormai cinquantenne M. può concepire i suoi Discorsi anche come trasmissione di un ‘sapere dello Stato’ ai giovani Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, tramandando in questo modo «quanto [sa] e quanto [ha] imparato, per una lunga pratica e continua lezione, delle cose del mondo» (Discorsi, Lettera dedicatoria, 2). Del resto tra i suoi giovani uditori ci sarebbero stati i principali organizzatori della congiura antimedicea del 1522: Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni, Giovanni Battista Della Palla e Antonio Brucioli, ammiratori del tirannicida Bruto, decisero di eliminare Giulio de’ Medici con il ferro piuttosto che con il veleno. Con ciò, questi g. si ricordavano forse di alcune raccomandazioni di M. riguardanti le congiure (Discorsi III vi 183-84), ma fraintendevano la sostanza del discorso machiavelliano, che non lasciava più spazio al tirannicidio e diffidava dalle congiure.
Bibliografia: R.C. Trexler, Public life in Renaissance Florence, Ithaca-London 1980; Storia dei giovani, a cura di G. Levi, J.C. Schmitt, Roma-Bari 1994 (in partic. E. Crouzet-Pavan, Un fiore del male: i giovani nelle società urbane italiane (secoli XIV-XV), pp. 211-77); I. Taddei, Fanciulli e giovani. Crescere a Firenze nel Rinascimento, Firenze 2001; Langues et écritures de la République et de la guerre. Études sur Machiavel, éd. A. Fontana, J.-L. Fournel, X. Tabet, J.-C. Zancarini, Genova 2004 (in partic. P. Larivaille, Éducation civique et politique dans la pensée de Machiavel, pp. 233-57); C. Terreaux-Scotto, La «fortune amie des jeunes gens»: l’esquisse d’un nouvel ordre des générations dans les Ghiribizzi à Soderini, in Machiavelli senza i Medici (1498-1512). Scrittura del potere. Potere della scrittura, Atti del Convegno, Losanna 18-20 novembre 2004, a cura di J.-J. Marchand, Roma 2006, pp. 417-38; F. Buttay-Jutier, Fortuna. Usages politiques d’une allégorie morale à la Renaissance, Paris 2008; G.M. Anselmi, Machiavelli, le conversazioni negli Orti Oricellari e la forza della giovinezza, in Teatri di civiltà e relazioni internazionali, Atti dei Colloqui di studio, Monopoli 5-7 giugno 2008, Lecce 2009, pp. 39-52.