AURISPA, Giovanni
Nacque a Noto (patria di altri tre umanisti contemporanei, Giovanni Marrasio, Giovanni Campiano e Antonio Cassarino), verso la metà del 1376. In alcuni documenti egli è chiamato Piciunerio o Piciuneri, certo un secondo cognome, al quale egli comunque preferì sempre l'altro, sotto il quale è comunemente conosciuto, di Aurispa, forse perché ricollegabile alla parola aurum. Visse gran parte della prima giovinezza, all'incirca tra il 1390 e il 1402, a Napoli: soggiorno di cui serbava ancora dopo molti anni vivo e lieto ricordo. Tornato in Sicilia, riuscì ad ottenere dal re Martino II una borsa di studio per recarsi all'università di Bologna; e qui rimase alcuni anni, applicandosi allo studio del diritto civile. Ma la sua vocazione non era quella del giurista. Un suo epigramma, scritto il 21 apr. 1413, testimonia che in quella data egli si trovava a Chio, e che qui aveva acquistato un codice di Euripide e Sofocle; ma, come provano altri documenti, Chio non fu che una tappa di un primo viaggio in Oriente, durante il quale egli ebbe modo non solo di procurarsi parecchi altri manoscritti greci, ma anche di apprendere la lingua greca. Al ritorno appunto da questo primo viaggio, nel 1414, egli fissò la sua residenza a Savona, dove visse per alcuni anni, tenendo una specie di pensionato scolastico, e non senza recarsi più volte a Bologna, a Firenze e a Pisa per vendere i codici greci portati dall'Oriente. Nel 1419, a Firenze, riuscì ad entrare nella corte del papa Martino V, allora di passaggio in quella città; e sempre con la corte papale nel 1420 venne a Roma, dove insegnò a Lorenzo Valla i primi elementi della lingua greca. L'anno seguente era di nuovo in viaggio per l'Oriente con una missione di Gian Francesco Gonzaga per l'imperatore bizantino Manuele Paleologo. Giunto a Costantinopoli, entrò nelle grazie del figlio e successore di Manuele, Giovanni Paleologo, che lo nominò suo segretario e poi, nel 1423, lo condusse con sé in un viaggio diplomatico presso le corti europee. L'A. tuttavia si limitò ad accompagnare l'imperatore solo nelle prime tappe, a Venezia, a Verona, a Milano, dove si fermò: aveva portato dall'Oriente molti e preziosi codici greci, e da varie parti aveva ricevuto offerte allettanti e anche inviti di sistemazione decorosa. Il suo ideale era sin d'allora Firenze: "Nulla usquain civitas est", scriveva per esempio al Traversari (Carteggio, pp. 25 s.) "in qua libentius esse velim, quam apud vos istic Florentiae; et praecipuum animi mei desiderium diu. est, ut honeste in ista civitate vivere possim". E a Firenze, dopo aver insegnato un anno a Bologna, ottenne di esser chiamato nel 1425, quale professore di greco nello Studio. Ma già nel febbraio del 1426 egli confessava, in una lettera al Guarino (Carteggio, p. 41), la sua delusione: "undique hic simultates et indigna facinora confiantur; nihil mihi pacificum, omnia invidorum et stultoruin plena sunt". In realtà, sembra che i Fiorentini fossero poco soddisfatti sia delle sue scarse capacità didattiche, sia delle sue cautele ed astuzie di abile mercante di manoscritti. L'A. rimase per qualche tempo indeciso se restare a Firenze o trasferirsi altrove. Come dice il suo amico Toscanella (cfr. R. Sabbadini, Un biennio umanistico..., p. 115), "movebat euin ex una parte lucrum, quod grandis pecunia ei extra Florentiam offerebatur quodque sibi et honor maximus parabatur et spes melioris fortunae", ma d'altra parte si rendeva conto che solo nella città toscana v'era "librariorum magnus numerus, copia exemplorum in omni humanitate, idest refertissimae Florentinoruin bibliothecae et illa quae ad haec pertinent". Alla fine scelse di recarsi a Ferrara, dove l'amico Guarino si era adoperato in suo favore, ottenendogli il posto (desiderato anche dal Panormita) di precettore di Mehaduce, uno dei figli naturali del marchese Niccolò III d'Este. Neppure a Ferrara, dove passò tra la fine del 1427 e l'inizio del 1428, pare che si trovasse bene, almeno all'inizio, come dimostra anche qualche suo cauto sondaggio per un ritorno a Firenze. Ma Ferrara rimase fino alla morte la sua sede definitiva, anche se da essa l'A. si allontanò parecchie volte e durante periodi di tempo abbastanza lunghi, sopra tutto per espletare missioni affidategli dagli Estensi e dalla Curia pontificia. Si sa in particolare che nel 1433 accompagnò il suo allievo Meliaduce al concilio di Basilea, e che di qui mosse per un viaggio lungo il Reno verso Magonza, Colonia e Aquisgrana, durante il quale ebbe la fortuna di scoprire importanti codici latinL Negli anni successivi visse tra Firenze e Ferrara, e in occasione del concilio tenuto in questa città nel 1438-39 poté rifornirsi, dai dotti bizantini ivi convenuti,di nuovi codici greci. Nell'ultimo periodo della sua vita soggiornò a lungo in Roma, donde si recò tre volte a Napoli, sia per curare di persona alcuni suoi interessi, sia per rivedere il Panormita, il suo amico forse più caro. Chiuse la lunga vita, durante la quale aveva potuto vedere (come egli scriveva) tredici papi, a Ferrara, nell'ultima decade di maggio del 1459.
Tra gli umanisti della prima generazione, la figura dell'A. non si distingue, per particolari qualità morali o letterarie. Per quanto riguarda il primo aspetto sarà certo da valutare con molta cautela il giudizio che di lui dette Poggio Bracciolini, accusandolo, oltre che di epicureismo, di turpi costumi. Ma che egli fosse uomo di pochiscrupoli è provato a sufficienza dai loschiintrighi che, proprio insieme con il Bracciolini, egli macchinò in Roma, negli ultimi anni della sua vita, contro il Trapezunzio, cercando per esempio di far credere scritte da questo due fittizie e oltraggiose lettere di Maometto II a Niccolò V, che invece erano state composte da Poggio.
Una buona conoscenza del latino e del greco e anche capacità letterarie non volgari appaiono negli scritti di lui che ci rimangono: un gruppetto di epigrammi latini, alcune traduzioni dal greco in latino, soprattutto di operette di Luciano e di Plutarco; un volgarizzamento del trattato De nobilitate di Buonaccorso di Montemagno; un breve dialogo satirico, sul tipo di quelli di Luciano, fra la Virtù e Mercurio, intitolato De conquestu Virtutis; e un centinaio di epistole latine indirizzate in gran parte al Traversari, al Filelfo e al Panormita. Ma, a parte la loro scarsità, in questi scritti non siritrova una personalità di scrittore paragonabile a quella di altri umanisti contemporanei quali Poggìo, il Guarino, il Filelfo, il Panormita. Le stesse epistole, se contengono, specie quelle al Panorniita, qualche pagina vivace, hannoimportanza soprattutto come documenti storici.
Vero è che il contributo originale dell'A. alla cultura umanistica si esercita su un altro piano, sul piano cioè della rícerca, della raccolta e della diffusione dei manoscritti antichi. Che a questa sua attività egli fosse spinto almeno in buona parte dall'amor del guadagno, da un istinto di mercante e di uomo d'affari, non si può certo negare. "Totus es in librorum mercatura, sed in lectura mallem"; "Es tu sane librorum. officina; sed ex ista tua taberna libraria nullus unquam prodit codex nisi cum quaestu": così gli scriveva con franchezza il Filelfo, che gli era amico e lo conosceva bene. E le stesse lettere dell'A. documentano ampiamente con quanta attenzione al proprio interesse economico egli sapeva condurre il proprio commercio, sia impiegando sottili artifici di esperto imbonitore, sia cautelandosi contro i clienti che fossero sprovvisti di danaro o cattivi pagatori. C'era però, alla radice della sua attività di ricercatore e raccoglitore, anche una genuina passione per il manoscritto antico, nella quale entravano la curiosità dell'investigatore e l'ardore del collezionista piuttosto che l'interesse approfondito dell'uomo di cultura, ma che certo aveva qualcosa di eroico: "Fuit mihi iam a puero voluptuosum" egli dichiara in una epistola a Niccolò Speciale (Carteggio, p. 91) "variamultaque legere. Quae res tantam. mihi cupiditatem habendi codices intulit, ut librorum, possessionem rebus omnibus praetulerim. Quo factum est, ut nihil aliud habeam. praeter codices, quorum tanta mihi multitudo est, ut nulla in Italia hodie bibliotheca sit quam. mea non superet: nec rincipum quidem excipio, nec praelatorum. Qua in re tantum aurum expendi, ut privatum hominem tantum aut potuisse aut ausum fuisse non credatur.. Alii equos, multi domos, alii res alias sibi auro compararunt. Ego omnem industriam, omne argentum, vestimenta etiam saepe pro libris dedi. Nam memini Constantinopoli graeculis illis vestimenta dedisse, ut codices acciperem, cuius rei nec pudet nec poenitet". È appunto questa singolare mescolanza di fiuto affaristico e di passione disinteressata che permise all'A. di diventare, insieme col Bracciolini, il più grande scopritore di testi antichi di tutta l'epoca umanistica.
La migliore documentazione è l'elenco dei più importanti manoscritti che egli scoprì e portò in Italia. Nel primo viaggio in Oriente del 1413 egli raccolse fra l'altro una Iliade indue volumi (i codici Marc. Ven. 453 e 454) e un'Odissea, un manoscritto miscellaneo di Sofocle e di Euripide (Laur., Conv. soppr., 71), un Focilide, un Tucidide, alcune opere di Aristotele e di Teofrasto, l'Anabasi di Arriano, la Storia romana di Cassio Dione e le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. I inanoscritti riportati dal secondo viaggio del 1421-1423 furono ben 238. Tra quelli di cui rimane memoria vanno almeno ricordati ancora un'Iliade e un'Odissea e inoltre un codice, ora perduto, degli Inni omerici; un manoscritto, anch'esso purtroppo perduto, dei Καϑαρμοί di Empedocle; un Eschilo (Laur. 32, 9) e un Sofocle, congiunto col precedente; "multae κομῳδίαι" di Aristofane; "quani plurimae odae" di Pindaro; di Demostene "ferme onmia quaecumque scripsit"; le Orazioni e le Lettere diEschine unite alle Epistole di Isocrate (Helmst. 902); tutte le opere di Senofonte; di Platone "quidquid scripsit"; di Aristotele l'Etica Εὐδήμια, i tre libri della Rhetorica, l'Opus rhetoricum ad Alexandrum, De vaticinio in somniis, De his quae in orbe mira dicuntur, De machinis e "plura alia"; molte opere di Teofrasto; l'Argonautica di Apollonio Rodio (Laur. 32, 9) e gli Inni di Callimaco; i Moralia e i Parallela omnia di Plutarco; di Luciano "risus et seria omnia"; tutte le opere di Plotino e di Proclo; l'Antologia Palatina e l'Antologia Planudea; e infine parecchi testi sacri, fra cui due centinaia di lettere di Gregorio Nazianzeno e alcune orazioni di Giovanni Grisostomo. Né il suo interesse si limitò agli scrittori greci: sappiamo che già da Costantinopoli chiedeva copia delle opere retoriche di Cicerone scoperte dal Landriani in un codice, ora perduto, della cattedrale di Lodi; e che poi, tornato in Italia, acquistava e trascriveva manoscritti di Sallustio, Catullo, Cicerone, Virgilio, Tibullo, Properzio, Plinio il Giovane, Comelio Celso e Marziale. Ma egli stesso, nel suo viaggio in Germania, ebbe la fortuna di scoprire fra l'altro il Panegirico di Plinio a Traiano e il commento di Donato a Terenzio.
Le sue epistole latine con alcune lettere di corrispondenti sono state pubblicate da R. Sabbadini nel vol. Il carteggio di G. A., Roma 1931 (in Fonti per la storia d'Italia dell'Istituto Storico Italiano, LXX), dove sono anche elencati (pp. XXII s., 174-177 e 179 s.) gli altri scritti dell'A., con l'indicazione delle fonti manoscritte e a stampa.
Bibl.: Per la conoscenza della vita e dell'atuvità sono fondamentali i seguenti lavori di R. Sabbadini: Biografia documentata di G. A., Noto 1891, su cui cfr. la rec. di G. Salvo Cozzo e la risposta del Sabbadini, in Giorn. stor. d. letter. ital., XVIII (1891), pp. 303-12, e XIX (1892), pp. 357-66; Un epigramma dell'A.. ibid., XXVIII (1896), pp. 341 s.; Un biennio umanistico (1425-1426) illustrato con nuovi documenti, ibid., suppl. n. 6 (1903), pp. 74-119; G. A. scopritore di testi antichi, in Historia, I (1927), pp. 77-84; la voce nell'Enciciopedia Italiana, V, pp. 375 8.; e soprattutto la prefazione e il commento del vol. cit. Il carteggio di G. A., dove sono riassunti e in qualche punto corretti i risultati delle indagini precedenti. Per quanto riguarda in particolare l'attività dell'A. come scopritore di testi vanno poi tenuti presenti pure dei Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV, 2 voll., Firenze 1905 e 1914, passim; e Storia e critica di testi latini, Catania 1914, passim. Si vedano inoltre: G. A. Cesareo, Un bibliofilo dei Quattrocento, in Natura e arte, I (1892), pp. 958-64 (discute in alcuni punti la Biografia cit. del Sabbadini); R. Cessi, La contesa fra Giorgio da Trebisonda, Poggio Bracciolini e G. A. durante il pontificato di Niccolò V, in Arch. stor. per la Sicilia orientale, IX (1912), pp. 211-32; F. Ferri, Un epigramma di G. A. a Francesco Ferretti, in Athenaeum, III (1915), pp. 148-51; C. Sgroi, Anecdota Netina. G. A. bibliofilo e umanista in uno scritto inedito di M. Raeli,Catania 1932; W. L. Grant, On G. A.'s name, in Philological Quarterly, XXXII (1953), pp. 219-23 (sulle ragioni che avrebbero indotto l'A. a preferire il cognome Aurispa a Piciunerio).