CASSINIS, Giovanni Battista
Primo dei sette figli del notaio Orazio e di Orsola Avogadro di Quarenga, nacque in Masserano (Vercelli) il 25 febbr. 1806. Compiuti gli studi giuridici nell'università di Torino ed ottenuta a soli diciannove anni la laurea in legge, il 16 maggio 1825, fu subito "accolto a fare i primi rudimenti nell'uffizio dell'avvocato Priggione" (Garizio). Intrapresa così l'attività forense come civilista, non abbandonò d'altro canto l'ambiente universitario.
Nel 1830 infatti, già ripetitore di leggi nell'Ateneo torinese, pubblicava al fine di essere accolto nel "Collegio d'ambo le leggi", una raccolta di sei brevi dissertazioni scritte in latino: quattro su argomenti "ex iure civili" (Pro socio - dig. L. XVII tit. 2, pp. 5-23; De aquirendo rerum dominio - dig. L. XLI tit. 1, pp. 24-39; De privilegiis creditorum et hipothecis, pp. 55-60; De criminibus, pp. 61-65)edue invece "ex iure canonico" (De homicidio volontario et causali, pp. 40-52; De potestate ecclesiae, pp. 66-69). Un lavoro in verità modesto e di carattere esercitativo ma che, per la nomina che gli valse, avvantaggiò molto l'autore nell'esercizio della professione legale, consentendogli tra l'altro di ottenere anche l'incarico di redattore degli Annali di Giurisprudenza.
L'attività forense del C., anche se ispirata dall'ammirazione per le "opere" di Cicerone, non oltrepassò mai i limiti di un indirizzo giuridico nettamente pragmatico. Del resto, anche i suoi interessi "filosofici e letterari" rimasero sempre costretti in un orizzonte angusto.
A tal proposito appare significativa la presenza del C., nel 1840, fra i soci della Accademia filarmonica di Torino con la carica sociale di direttore di sala. In questo ambiente i suoi "interessi" - distratti peraltro dalla cura dei problemi organizzativi - si posero infatti nel solco di una attività regolata nelle sue molteplici. - mani festazioni erudite su modelli tradizionali dove la letteratura veniva intesa più che altro come un passatempo. D'altra parte l'Accademia, proprio perché priva di un programma culturale ben definito, favorì in concreto l'incontro del C. con alcune delle personalità di maggior rilievo del capoluogo torinese.
Dedicatosi successivamente all'attività politica, nel 1848 - già consigliere municipale di Masserano nonché consigliere provinciale di distretto - venne eletto deputato dal collegio di Salussola per la prima legislatura del Parlamento subalpino. Convinto sostenitore dell'intervento piemontese contro gli Austriaci in ritirata, il 24 marzo, stimolato dall'entusiasmo patriottico, partiva con la moglie per Milano mentre a Torino era ancora incerta la piena vittoria degli insorti. Ma, rientrato in Piemonte dopo solo due giorni, passava per contro, nelle animate discussioni parlamentari, ad una posizione marginale che, dopo l'armistizio firmato dal generale Salasco, finì per allontanarlo temporaneamente dalla politica attiva. Terminata infatti la prima legislatura, il C. venne rieletto deputato soltanto nella quarta e al posto di Giovanni Chiarle, eletto nel collegio di Dogliani e dimessosi per impiego. Durante la quinta legislatura fu ancora deputato per il collegio di Dogliani, per la sesta di Pieve d'Oneglia, per la settima e l'ottava rispettivamente del quarto e del terzo collegio Torino.
In tutti questi anni fu tra i più fidati sostenitori del Cavour, il quale però lo conosceva più per le capacità professionali che per le doti politiche. Furono per l'appunto i notevoli successi forensi che lo avvicinarono al presidente del Consiglio, determinando così la sua ascesa politica. Nel 1857 il Cavour gli affidava in fatti la tutela giudiziaria dei propri diritti nella controversia relativa "alle acque del Pellice"; ed il C., che sostenne con brillante successo "l'uso delle acque" da parte della comunità di Cavour in caso di siccità, fondando la propria argomentazione con accurata ricerca storico-giuridica su di un "arbitramento profferitosi il 12 ottobre 1454", otteneva in quella circostanza oltre che la stima anche l'amicizia del Cavour.
Un'amicizia e una stima che provvide subito a pubblicizzare dando alle stampe la discussione tenuta nell'udienza del 30 genn. 1858 dinanzi alla Corte di appello di Torino con il seguente titolo: Ragionamento per la Comunità di Cavour e pei Signori Marchese Gustavo e S. E. il Conte Camillo Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri, fratelli Benso di Cavour, nella loro causa contro le Comunità di Bibiana, Fenile, Bricherano e Campiglione.
Sempre nel 1858, ma in questo caso a testimonianza dei suoi stretti rapporti con gli esuli napoletani, il C. pubblicò insieme con Antonio Scialoja un'altra comparsa conclusionale: L'ingegnere Ettore Alvino e lo stabilimento meccanico in Sampierdarena.
Nell'anno seguente, dopo i preliminari di Villafranca, rifiutò il portafoglio di Grazia e Giustizia offertogli dall'Arese e poi dal Rattazzi, perché convinto dalle "basi di questa pace" - che definiva "cosa sì oscura" - della intrinseca debolezza del programma di governo del nuovo ministero. Richiamato infatti il Cavour al potere con un programma spiccatamente annessionista, il C. accettò di slancio la responsabilità del ministero di Grazia e Giustizia sia nel primo gabinetto dell'ottava legislatura, entrato in carica il 21 genn. 1860, sia nel secondo del 22 marzo dello stesso anno.
Il C. nella dffficile situazione che portò alla costruzione dello Stato unitario - diversamente da quanto affermato dal Dionisotti, che lo definì "affatto digiuno di politica e di amministrazione". poiché in questa si lasciò raggirare dal suo segretario generale divenuto onnipotente - non mancò di svolgere incarichi di rilievo e di assumere iniziative polifiche determinanti. La lunga esperienza forense, che influì molto profondamente nella sua attività di governo, lo indusse anzi più volte a soddisfare le esigenze di partito con interventi che, forzando anche precise normative, contribuirono a caratterizzare l'indirizzo politico di tutto il ministero.
Fra i suoi primi atti di governo il più importante fu senza dubbio il decreto dei 25 febbr. 1860 con il quale riunì le due commissioni precedentemente incaricate di procedere all'opera di unificazione legislativa, quella nominata dal Farini nel novembre dei 1859 per le province dell'Emilia e l'altra insediata a Torino in dicembre dal Rattazzi e composta di giuristi piemontesi e lombardi. La nuova commissione, nella quale per sua iniziativa furono anche inclusi alcuni giuristi toscani in modo da allargare la rappresentanza a "tutte le provincie che al momento facevano parte del regno sabaudo" (Aquarone), lavorò con estrema rapidità intorno alla revisione del codice albertino. Ma il progetto così elaborato e presentato dal C. in forma ufficiosa sia alla Camera sia al Senato nel giugno del 1860, per consentire un più rapido esame da parte dei due rami del Parlamento. suscitò subito una vivace opposizione. Numerosi "corpi giudiziari", nelle osservazioni inviate al ministero di Grazia e Giustizia a seguito della circolare diramata dallo stesso C., si dichiararono decisamente contrari sia alla divisione della materia in quattro libri anziché nei tre della tradizione civilistica, sia alla istituzione del matrimonio civile. Né mancarono nei giornali democratici giudizi molto polemici sull'abbandono delle forme consuete per la presentazione del disegno di legge.
Il C. decise allora di affrettare l'"attuazione dei codici" in quelle province nelle quali le resistenze gli erano apparse minori. Presentò così un proprio progetto di legge per l'estensione sic et simpliciter della legislazione sarda alle province dell'Emilia che, nonostante il voto unanimemente contrario della cominissione della Camera, riuscì poi a sostenere nella discussione svoltasi nella tornata del 18 ott. 1860.
In quella occasione il C., di fronte alla "gravità" della propria posizione dinanzi al giudizio della commissione, secondo cui "così procedendo" si finiva con l'abdicare "il potere legislativo nelle mani di un ministro", impose all'Assemblea il progetto ministeriale, indicando anche le particolari "condizioni estrinseche e contingenti" che guidavano quella sua scelta "unitaria" che di li a poco avrebbe caratterizzato pure la sua attività nel riordino della magistratura delle province annesse.
È utile a questo punto ricordare che il C., in nome del "bisogno d'unificaziorie", non esitò a suggerire al Mancini, in una lettera datata 30 ott. 1860, che "tutte le sentenze nelle quali è definito un punto di diritto" fossero trasmesse per la decisione al ministero di Grazia e Giustizia anziché alle Corti di cassazione. Non a caso, quindi, la sua esasperata tendenza alla subordinazione del potere giudiziario all'esecutivo trovò modo di precisarsi soprattutto nella riorganizzazione dell'amministrazione della giustizia delle province meridionali e attraverso tutta una serie di provvedimenti caratterizzati dalla sola esigenza politica di "assicurare al governo un personale fidato più che competente" (D'Addio). Né dimostrò poi maggiore equilibrio nell'esercizio dell'alta sorveglianza sui tribunali prevista dall'articolo 145 dell'ordinamento giudiziario. Nel gennaio del 1861 rinviò, infatti, d'autorità e all'insaputa delle parti, tutte le cause penali e civili patrocinate presso la Cassazione di Torino dal Mancini, chiamato al Consiglio di luogotenenza di Napoli proprio in quei giorni.
L'episodio, che suscitò vivaci "rimproveri" da parte del foglio democratico Il Diritto e non poco imbarazzo nei giornali governativi, non valse però a modificare l'atteggiamento del C. che anzi, nel giugno successivo, interveniva nei confronti dell'avvocato Sandolini, nominato giudice di circondario in occasione del "riordino" della magistratura lombarda e "reo" successivamente di aver pubblicato alcuni articoli nettamente contrari al progetto ministeriale di revisione del codice albertino, con un mortificante trasferimento.
Frattanto, dopo essere stato chiamato il 2 ott. 1860 come reggente al ministero degli Interni al posto del Farini, che aveva lasciato l'incarico per recarsi nelle province meridionali come luogotenente al seguito di Vittorio Emanuele II, il C. veniva improvvisamente inviato anch'egli a Napoli su "preghiera" del Cavour preoccupato del tenace autonomismo napoletano. Il 16 novembre il C. partiva dunque da Torino con la missione di "affermare e di consolidare l'autorità del governo, di difendeme con fermezza la dignità, di affrettare energicamente i primi atti della unificazione ed il lavoro delle circonscrizioni elettorali del primo Parlamento italiano" (Colombo). Ma giunto a Napoli, accolto molto freddamente dal Farini - contrario ad ogni progetto di affrettata unificazione legislativa - non consultato dal sovrano, il C. stentò a lungo nell'adempimento del compito affidatogli direttamente dal Cavour. Sicché, nell'imminenza della visita di Vittorio Emanuele II a Palermo, quando si tentò in tutti i modi da parte dei democratici meridionali di impedire al La Farina e al Cordova, nominati dal governo centrale consiglieri della Luogotenenza siciliana, di imbarcarsi anche loro per la Sicilia, il C., per imporre al re le scelte governative, fu costretto a minacciare oltre alle proprie anche le dimissioni di tutto il Gabinetto. Indotto quindi dalle circostanze ad accompagnare il re a Palermo per tutelare efficacemente il prestigio e la dignità del governo, rivelò in questa ulteriore missione grande energia e dinamismo.
Si adoperò infatti non solo all'immediato allontanamento del Mordini nella convinzione che il protrarsi a Palermo della prodittatura avrebbe reso praticamente inoperante la Luogotenenza siciliana, ma affrettò anche, in una prospettiva politica di più largo raggio, il rafforzamento delle posizioni moderate attraverso la formazione delle circoscrizioni elettorali.
Rientrato a Torino assieme al re verso la fine di dicembre, concentrò nuovamente i propri sforzi sul problema dell'unificazione legislativa; così che appena convocato "il primo parlamento del Regno unificato" fu in, grado di presentarsi il 15 marzo alla Camera per chiedere che fosse nuovamente nominata una commissione incaricata di esaminare in via ufficiosa il progetto di codice civile da lui in precedenza presentato (Aquarone).
Questa volta però l'Assemblea fu quasi unanime nel rilevare l'ambiguità delle attribuzioni di "commissari" chiamati "a fare l'umile ufficio di consiglieri non di legislatori" (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, legisl. VII, tornata del 15 marzo 1861, discorso dell'on. Mellana), e invano il C. indicò "quell'utilità che dal sistema poteva risultarne, anziché allo stretto rigore del diritto" già accolta dal Senato. Costretto "a ripiegare sulla normale procedura parlamentare per la presentazione del suo progetto di codice civile", si accinse allora "ad elaborarne un altro" più vicino al modello napoleonico nella speranza che "in questo modo sarebbe risultata più facile una rapida votazione favorevole da parte del Parlamento" (Aquarone).
La morte del Cavour gli impedì di presentare alla Camera il nuovo Progetto, che, tuttavia, segnò una svolta decisiva nel processo di unificazione civilistica.
Dopo l'11 giugno 1861 la sua partecipazione alla vita politica fu assai meno intensa e significativa anche se le vicende parlamentari lo videro ancora tra i protagonisti in isolate circostanze.
Nel 1862, incaricato dal re insieme con il Pasolini di formare un governo d'affari presieduto dal Rattazzi, ma dal quale sarebbero dovuti restare esclusi i componenti delle diverse correnti politiche, interrompeva le trattative perché contrario a quella politica di corte che al momento si voleva imporre e che già era stata bloccata più volte dal Cavour. Eletto successivamente alla presidenza della Camera dei deputati il 25 maggio del 1863 con 166 voti su 253, aveva modo di segnalarsi in sede di discussione degli accertamenti compiuti dalla Commissione di inchiesta sul brigantaggio nel Mezzogiorno continentale, prima opponendosi alle reiterate richieste avanzate da alcuni deputati della Sinistra di poter consultare gli incartamenti, poi facendo votare una proposta della presidenza con la quale il progetto di legge sul brigantaggio veniva posto in coda al programma di lavoro della Camera.
In tal modo, "grazie al comportamento" del C., non solo "il silenzio calò rapidamente e definitivamente sui risultati di una inchiesta che tante aspettative aveva sollevato" (Molfese), ma anche la stessa legge sul brigantaggio venne approvata, per la voluta brevità del tempo a disposizione e soprattutto per la calcolata stanchezza dei deputati contrari ad un protrarsi ulteriore della sessione, in quella forma riassuntiva ordinata in soli cinque articoli che, proposta in aula all'ultimo momento dal Pica, evitò di fatto - con una procedura abnorme - la discussione generale sul progetto che la commissione aveva predisposto.Infine, con il mese di luglio del 1865, mentre presiedeva le sedute della Commissione di coordinamento per la redazione definitiva del codice civile, invitato dal ministro della Pubblica Istruzione ad assumere la presidenza anche della com. missione composta dal Cordova, Mancini, Tecchio e Torregiani, che doveva rispondere in termini definitivi al quesito già posto ai Consigli superiori della Pubblica Istruzione di Torino, Napoli e Palermo e cioè "se debbasi sopprimere la divisione delle facoltà di giurisprudenza nelle due sezioni, e la doppia laurea" il C. esaminava la "questione" testimoniando ancora una volta quella propensione all'asservimento di tutte le istituzioni dello Stato alle direttive di governo, che era una costante del suo impegno politico (Relazione di G. B. Cassinis all'onorevole Ministro della Pubblica Istruzione a nome della Commissione da esso istituita pel riordinamento degli studi legali nelle Università del Regno d'Italia - 22 sett. 1865 -, Torino 1865).
Nelle conclusioni della commissione - che, ponendo in rilievo le "intime relazioni" fra tutte le "discipline del diritto", auspicavano la soppressione delle due sezioni, giuridica e politico-amministrativa - il C. appunto non mancò di "chiamare a disamina" anche "il sistema degli esami", invitando il ministro ad un severo controllo della formazione scientifica della futura classe dirigente, attraverso l'esercizio di quella facoltà "accordatagli dall'articolo 87 del regolamento" che prevedeva la presenza agli esami di delegati governativi.
Il C. morì suicida a Torino il 18 dic. 1866. Il 2 ottobre dell'anno precedente, era stato nominato senatore del Regno.
Fonti e Bibl.: A. Colombo, La missione di G. B. C. ministro di Grazia e Giustizia nelle provincie meridionali (18 nov.-27 dic. 1860). Documenti ined. (Dispacci di Vittorio Emanuele II, lettere e dispacci di Camillo Cavour, di Marco Minghetti, di G. B. C., ecc.), Torino 1911; La liberaz. del Mezzogiorno e la formazione del Regno d'Italia, a cura della Commiss. editrice dei carteggi di C. Cavour, IV, Bologna 1954, ad Ind.;due lettere relative alla designazione del C. per il portafoglio di Grazia e Giustizia nel 1859 da parte dei Rattazzi sono state pubbl. a cura di F. Cognasso, Dopo Villafranca, nel Boll. stor. bibl . subaip., LVIII (1960), pp. 184 s.; G. Cassinis, Cento e più lettere di cento e più anni or sono, Torino 1961; non si è potuto rintracciare invece G. T. Ghilardi, Il decreto C. 26 sett. 1860 suibenefici vacanti sindacati e riprovati da Roma, Torino 1864; notizie biogr. sono in E. Garizio, Iscrizioni ed elogio funebre nelle solenni esequie fatte a G. C. dal Municipio di Masserano il19 febbr. 1867, Torino 1867; C. Dionisotti, Storia della magistratura Piemontese, I, Torino 1881, pp. 235 ss.; T. Sarti, Il Parlamento subalp. e nazionale, Terni 1890, p. 245. Brevissimi cenni in A. Malatesta, Ministri Deputati Senatori dal 1848 al 1922, I, Milano 1940, p. 223; e F. Ercole, Gli uomini politici, I, Roma 1941, pp. 315 s. Sulla partecip. del C. al processo di unificazione legislativa si veda L. Galeotti, La prima legislatura del Regno d'Italia. Studi e ricordi, Firenze 1866, pp. 288 ss.; E. Passerin d'Entrèves, I Problemi dell'unificazione (1860-65), in Quaderni di cultura e storia sociale, II (1953), p. 225; A. Aquarone, L'unificaz. legislativa e i codici del 1865, Milano 1960, pp. 6-9, 110-120; Storia del Parlamento italiano, V, Dalla proclamaz. del Regno alla convenzione di settembre, a cura di G. Sardo, Palermo 1968, pp. 30, 34-37. Particolarmente importante sull'attività di "riordino" del C. nel campo della amministrazione della giustizia M. D'Addio, Politica e magistratura (1848-1876), Milano 1966, pp. 155, 200 s., 301-307, 314-331. Singole notizie sulla sua attività in qualità di presidente della Camera dei deputati si traggono poi da L. Chiala, Ricordi di M. Castelli, Torino 1888, p. 167; A. Caracciolo, Il Parlamento nella formazione del Regno d'Italia, Milano 1960, p. 260; F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, Milano 1974, pp. 225, 263, 347, 429.