MERANO, Giovanni Battista
– Figlio di Nicolò e Anna Maria, di cui si ignora il casato, nacque a Genova il 19 sett. 1632 (Belloni, 1988, p. 183).
In un suo testamento del 1663 risulta coniugato con Bettina (Battina) Scaglioso (Id., 1974, p. 128). Ebbe un unico figlio, Gasparo, ancora minorenne nel 1687 (Id., 1988, p. 184). Si ha notizia di tre fratelli che entrarono in convento: Giorgio, agostiniano nel 1647 (ibid., p. 183), Arcangela Giacinta, monaca benedettina nel monastero della Pusterla a Pavia, e Maria Benedetta, agostiniana a Parma (Fiori, 1971, p. 255). Gli stretti rapporti familiari con l’ambiente monastico potrebbero dar conto del favore che incontrò il M. in quell’ambito, foriero di numerose commissioni. Un altro fratello, Agostino, si fece accompagnare in un viaggio a Milano dal maestro del M., Valerio Castello (Soprani, p. 232).
Pittore a olio e a fresco, il M. si formò nelle botteghe genovesi di Giovanni Andrea De Ferrari prima e di Castello e di Giulio Benso poi (ibid., pp. 236, 239, 259; la sequenza è ribadita da Ratti nella biografia del M., in Soprani - Ratti, II, pp. 61-63). Tappa fondamentale del percorso di formazione del giovane M., e anche nodo cruciale della sua carriera, fu il viaggio a Parma, sulle orme di Castello, per studiare il Correggio (Antonio Allegri) e il Parmigianino (Francesco Mazzola). A questo primo soggiorno giovanile a Parma risale un’opera a fresco nella chiesa di S. Croce, ai lati dell’altare dell’oratorio di S. Giuseppe, che secondo una perduta documentazione dovrebbe riferirsi al 1651 (Copertini, pp. 21 s.; Cirillo - Godi, 1980, p. 76).
Le Ss. Lucia e Apollonia sono inserite in due mandorle circondate da festoni e decorazioni floreali e affiancate da angeli a monocromo la cui ispirazione può anche provenire da alcune figure a grisaille del Parmigianino nella chiesa della Steccata. Significativamente la prima opera nota nel Parmense è un affresco, a testimonianza della confidenza evidentemente già acquisita dal M. nei cantieri di Castello, indiscusso talento in questa tecnica e seguito su questa strada unicamente dal M. fra gli allievi.
La fase di formazione, collocabile fra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta, è avara di dati documentari, se si eccettuano la sua attestazione a Genova il 7 dic. 1650 (Belloni, 1988, p. 183), la già citata fonte dispersa che lo ricorda a Parma nel 1651 e il documento che lo menziona in un contratto di affitto a Genova il 5 genn. 1658 (Id., 1974, p. 125). Non si sa dove abbia vissuto fra il 1651 e il 1658: forse rimase a Parma, dove secondo Ratti «alcuni anni visse» (Soprani - Ratti, II, p. 62).
Al periodo giovanile si fanno risalire le opere che si mostrano ancora incerte o che più marcatamente appaiono influenzate dalla maniera di Castello, come la Decollazione del Battista (Genova, chiesa di S. Rocco: Newcome, 1982, fig. 14), un tempo nella chiesa di S. Bernardo (Soprani - Ratti, II, p. 63).
La Decollazione è caratterizzata da una stesura che emula lo sfumato di Castello e, sempre secondo l’esempio del maestro, si avvale di una cromia brumosa rialzata da blu e rossi brillanti, mentre alcuni brani di luce lasciano trapelare l’interesse per una cultura di matrice caravaggesca. Un forte sapore castellesco si ritrova anche in una tela attribuita al M. con il Convito di Baldassarre (Piacenza, Musei civici di Palazzo Farnese: Bartoletti, 1997, n. 18).
A una fase precoce della carriera del M. è tradizionalmente riferito dalla critica l’affresco a Genova con S. Agostino in gloria sulla facciata della chiesa omonima (Newcome, 1982, fig. 7).
Nella «fresca età di vent’anni, o circa» (Soprani - Ratti, II, p. 62) dipinse una Crocifissione fra i ss. Lorenzo e Giorgio per i monaci cistercensi fogliensi della chiesa di S. Bernardo (ora Genova, Palazzo Bianco, depositi: Di Fabio, pp. 43 s. n. 12), siglata in basso «I.B.M.».
Probabilmente la Crocifissione è da riferirsi al 1660 circa, dal momento che rivela una riflessione su modelli eterogenei e non più solo castelleschi. Nella particolare vivezza e forza cromatica e nella drammatica regia luministica si può cogliere lo studio dell’opera di Pieter Paul Rubens e del Grechetto (Giovanni Benedetto Castiglione); mentre per la resa della figura del Crocifisso il M. attinse a fonti fondamentali visibili a Genova, certamente al noto modello di Anton Van Dyck, ma anche alla Crocifissione di Simon Vouet nella chiesa del Gesù (ibid., p. 44).
Nel 1659 morì Castello; forse il M. ne ereditò alcune commissioni e ne portò a termine opere in corso di realizzazione, come accadde nel caso dell’Adorazione dei pastori e della Strage degli innocenti (Genova, in deposito presso la Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici: Manzitti, 2004), due opere oggi in cattivo stato di conservazione in conseguenza dei danni bellici subiti dalla chiesa di S. Stefano ove erano conservate a seguito della soppressione della chiesa di S. Maria dello Zerbino. Sullo scorcio degli anni Sessanta il linguaggio del M. giunse a maturazione: quasi a sigillo di una raggiunta autonomia egli appose la sua firma e la data (1660) nella pala con la Predica del Battista (Lavagna, parrocchiale di S. Giulia: Newcome, 2005, fig. 38), dove emerge lo studio dei veneti del Cinquecento, in una composizione che rivela una ancora non risolta dimestichezza nella resa dello spazio.
Nel 1661 fu posta in situ nel presbiterio della chiesa del Gesù a Genova la Strage degli innocenti (Id., 1982, fig. 9), una grande lunetta che figura tuttora dirimpetto a quella coeva di Domenico Piola con il Riposo nella fuga in Egitto e come questa situata a lato dell’altare con la pala di Rubens, senza dubbio la sua più prestigiosa commissione nella città natale.
Opera fondamentale nel percorso del M., costituisce un tassello importante per indagarne l’evoluzione a contatto con modelli diversi e per capirne il modus operandi, grazie alla possibilità di avere ancora sotto mano alcuni studi preparatori a essa collegati, sia disegni (Genova, Gabinetto disegni e stampe di Palazzo Rosso: ibid., fig. 10; Boccardo, p. 57 fig. XXXII) sia prove a olio (collezione privata: Lamera, 1992, pp. 225 s. nn. 124 s.). I due bozzetti di collezione privata dimostrano come il M. sapesse spaziare da una composizione appena abbozzata da pennellate sfilacciate a una impaginazione solida, che si ritrova poi nella versione finale, dove una pennellata compatta dà vita a forme turbinose, ma massicce e dai contorni definiti. L’insegnamento di Castello si fonde qui con quello di Benso e, insieme con la suggestione che proviene dal confronto con i vicini Rubens e Piola, si traduce in una veemente composizione di un pittore ormai in grado di dare vita su una vasta superficie a una scena complessa, dove movimento e dramma scaturiscono da un tormentato groviglio di corpi sullo sfondo di una sapiente impaginazione architettonica.
L’8 ott. 1663 il M. fece testamento a Genova insieme con la moglie Bettina presso il notaio Giuseppe Celesia, cui affidò a più riprese le sue volontà testamentarie (Belloni, 1974, pp. 128 s.).
Intorno alla prima metà degli anni Sessanta dovette dipingere la pala per l’oratorio della Ss. Annunziata di Spotorno, con la Natività della Vergine (Tassinari, p. 38), che integrava un ciclo di quattro grandi tele realizzate insieme con lui da Piola, autore di due opere, e da Benso, tra il 1659 e il 1669.
A questo periodo generalmente si fanno risalire alcune opere caratterizzate da composizioni pausate, prosaiche, lontane dai tumulti della Strage del Gesù o dalle opere vorticose di Castello, più in sintonia a volte con certo naturalismo di De Ferrari, come il Mosè calpesta la corona del faraone (Genova, Museo dell’Accademia ligustica di belle arti: Sanguineti, p. 122 fig. 38) e Le età dell’uomo (collezione privata: Manzitti, 2008, pp. 274, 329 n. 123), recenti acquisizioni al suo catalogo, o la Vergine del Rosario con s. Domenico (Genova, villa Imperiale: Newcome, 1983, p. 325 fig. 11) e l’Immacolata con i ss. Giuseppe e Rocco (Aggio, parrocchiale di S. Giovanni Battista: Belloni, 1974, p. 128).
Lo studio condotto presso maestri diversi dà in parte conto delle molteplici suggestioni che si incontrano nel suo linguaggio. Lo spingersi al di fuori di Genova lo portò a contatto con realtà diverse e questi incontri provocarono reazioni nella sua maniera, pronta a mutare con i cambiamenti di tempo e spazio. Il M. sembra infatti sapersi muovere fra registri stilistici diversi, lasciandosi sedurre di volta in volta da modelli differenti, combinandoli anche fra loro, in un’alternanza stilistica che pare caratterizzare tutta la sua opera. Si potrebbe pensare a una tendenza alla sperimentazione più che a un eclettismo, di cui è stato tacciato; il risultato è comunque, anche per merito della sua lunga vita, quello di un linguaggio altalenante, con omaggi e ritorni. Il corpus di opere del M. riecheggia di volta in volta, e non con chiara successione cronologica, influssi diversi e per questa ragione le opere che non hanno una datazione certa sono oggetto da parte della critica di oscillazioni di rilievo in merito alla loro collocazione nel tempo, con scarti a volte notevoli fra la fase giovanile e quella tarda. Per esempio, per il Giobbe tormentato dai demoni (Voltaggio, Pinacoteca dei cappuccini: Bartoletti, 2001), probabilmente da collocare intorno alla metà degli anni Settanta, sono state avanzate due opposte datazioni, una a ridosso del 1661 (ibid., p. 135) e una in prossimità del 1687 (Cirillo - Godi, 1980, p. 78). Il consistente corpus grafico, che annovera anche alcuni pezzi notevoli e sul quale finora ha fatto luce soprattutto Newcome, rivela la medesima eterogeneità di fonti, costituendo un altro fondamentale tassello per comprendere il percorso stilistico del Merano.
Nella prima metà degli anni Settanta dovette avere presso di sé Giovanni Maria Delle Piane detto il Mulinaretto, che Ratti (Soprani - Ratti, II, p. 147) ricorda allievo del M. per sei anni fino al 1676. Al 1673 risale la pala con lo Svenimento di Maria sotto la Croce firmata e datata (Piacenza, Musei civici di Palazzo Farnese: Cirillo - Godi, 1982, fig. 1), che si rifà a un modello del Veronese (Paolo Caliari), oggi nei Musei di Strada Nuova, ma un tempo nella chiesa dei Ss. Giacomo e Filippo. Un dipinto di collezione privata, Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia (Orlando, p. 27 fig. 22), risulta datato al 1675.
Le opere degli anni Settanta rivelano una riflessione sul naturalismo dei genovesi della generazione precedente, ma soprattutto un avvicinamento ai modi più plastici di Piola, in sintonia anche con la contemporanea scultura di Pierre Puget e di Filippo Parodi. L’ariosità delle opere di Castello, la ricerca dello sfumato e l’uso di un segno franto cedono il passo a una pittura soda, sia nella pennellata sia nelle forme, che indugia nelle definizioni anatomiche e si anima di drappi carichi di pieghe spesse e ritorte. Si possono situare in questo periodo alcune opere come la Visione di Abramo (Genova, chiesa di Nostra Signora del Rifugio: Newcome, 1982, fig. 19), il S. Angelo che soccorre i naufraghi (Ibid., chiesa del Carmine: ibid., fig. 20) e il Salomone incensa gli idoli (Piacenza, Musei civici di Palazzo Farnese: Cirillo - Godi, 1982, fig. 2). Al 1675-76 risale un bozzetto con Benedetto e Totila re (Marano di Castenaso, collezione Molinari Pradelli: Newcome, 1982, fig. 23), preparatorio per una pala oggi non rintracciabile approntata per le monache benedettine di S. Maria della Pusterla a Pavia; di quest’opera sono stati rinvenuti i documenti che ne attestano la commissione il 18 genn. 1675 e il pagamento finale il 19 maggio 1676 (Belloni, 1988, p. 183).
Alla seconda metà degli anni Settanta dovrebbero risalire alcune opere concordemente attribuite al M., come il Transito di s. Giuseppe della chiesa genovese di S. Andrea Apostolo (Cirillo, p. 26), dove si trova anche una Vergine in gloria e santi riferita alla sua mano, ma a un momento successivo (Cirillo - Godi, 1980, p. 78), e il Compianto su Cristo morto con s. Domenico di Sanremo (Palazzo Borea, Museo civico: Bartoletti - Pazzini Paglieri), che sembra appartenere a questa fase benché gli altri lavori a Sanremo si datino alla metà degli anni Novanta.
Nel 1677, come si legge negli annali della chiesa genovese di S. Siro, il M. affrescò il Giudizio finale nella campata della cappella della Pietà (Belloni, 1988, p. 184). La volta fu distrutta dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, ma se ne conserva l’immagine in una fotografia (Newcome, 1998, fig. 2); inoltre ne è stato fortunatamente rinvenuto il bozzetto preparatorio (collezione privata: Id., 2005, fig. 42).
Nel 1678 affrescò la Gloria di s. Ermete in uno dei transetti della basilica di S. Giovanni Battista a Finalmarina (Id., 1982, fig. 21) e vicino a questa data realizzò probabilmente la pala con la Vergine e santi con anime purganti (Spotorno, chiesa della Ss. Annunziata: Collu).
Con la morte della moglie Bettina nell’agosto del 1680 (Belloni, 1988, p. 184) si aprì una nuova fase nella carriera del Merano. Nel corso degli anni Ottanta, a trent’anni di distanza dal suo primo soggiorno, il Ducato di Parma e Piacenza si trasformò per il M. in una terra generosa di incarichi, provenienti principalmente dalla committenza benedettina e da quella farnesiana. Una lettera scritta a Genova dal M. il 5 febbr. 1683 (Campori, 1855) lo attesta già in stretti rapporti con Angelo Maria Arcioni, abate del monastero di S. Giovanni Evangelista a Parma, dove il M. lavorò intensamente per alcuni anni. Nella missiva il M., oltre a raccomandargli lo scultore Parodi di passaggio per Parma, ringrazia l’abate «de caldi ufficij» spesi per lui a Piacenza, testimoniando così di avere già contatti in quella città, dove il 30 novembre dello stesso anno era padrino di battesimo di una figlia di Giuseppe Molina (Fiori, 1970, p. 108). Per la stessa persona nel 1685 realizzò una Sacra Famiglia con s. Giovannino, che si conosce grazie a un’incisione di Christoph Weigel (Cirillo - Godi, 1982, fig. 3). Un altro dato induce a pensare che in quell’anno passasse del tempo a Piacenza, dal momento che una guida settecentesca ne ricorda un S. Domenico Martire oggi non rintracciabile, firmato e datato 1685, nella chiesa di S. Franca (Carasi).
Fra il 1683 circa e il 1687 lavorò con qualche interruzione per il monastero di S. Giovanni Evangelista a Parma, dove realizzò in collaborazione con il quadraturista bolognese Tommaso Aldrovandini alcune perdute decorazioni a fresco per il corridoio del dormitorio e per il cortile (L’abbazia benedettina…, p. 254). La collaborazione con un quadraturista diventò una costante per le successive impegnative prove a fresco, sia nel Ducato sia in Liguria. Il M. e Aldrovandini si dedicarono, ognuno per la sua specialità, alla chiesa annessa al monastero, affrescando le cappelle di S. Giacomo nel 1684 e di S. Nicola nel 1685 (Scarabelli Zunti).
Su pareti e volte dispiegarono con una cromia delicata e preziosa scene della vita e della gloria dei santi attorniate da putti, figure allegoriche, festoni, medaglioni, inserti vegetali e finte architetture. Nelle due cappelle il M. diede splendida prova della sua arte matura, immergendo in un’atmosfera luminosissima scene rese vive da svolazzi di panni e gesti concitati, masse tornite e particolari naturalistici, come il brano dei pesci nella Vocazione di s. Giacomo o il vasellame dell’Apparizione di s. Benedetto. Per la Gloria d’angeli nella volta della cappella di S. Giacomo il M. certamente guardò alle cupole correggesche, mentre per il Martirio e gloria del santo, di cui si conosce anche un modelletto preparatorio (Modena, collezione Torelli: Buonocore, 2003, fig. 1), ricorse a un’invenzione iconografica di Castello di quasi quarant’anni prima, quel bozzetto dello stesso soggetto che servì a Piola per approntare la sua pala nel ciclo dell’oratorio genovese di S. Giacomo della Marina. A distanza di tempo dunque, anche quando i modi erano ormai propri e lontani dal maestro, il M. ancora recuperò quella fonte per lui imprescindibile.
Nel corso del 1686 si dedicò a non meglio noti lavori per la residenza estiva dei Farnese, che dovettero essere di una certa rilevanza se a loro conclusione, il 30 genn. 1687, ricevette dal duca Ranuccio II una patente di familiarità, rilasciata a Piacenza e trascritta da Ratti (Soprani - Ratti, II, p. 65). Con la nomina a «servidor familiare» il M. si assicurò in cambio dei suoi servigi una sorta di stipendio e una serie di benefici. Secondo il biografo, il M. per andare a servizio del duca fu costretto ad abbandonare l’esecuzione della pala per S. Maria della Pace con i Ss. Pasquale, Diego e Giovanni da Capistrano (Genova, chiesa della Visitazione), che lasciò nelle mani dell’allievo G.B. Resoaggi (ibid., p. 162).
Il M. continuava nel suo impegno per la chiesa di S. Giovanni Evangelista a Parma, dove nel 1687 approntava l’enorme tela per la controfacciata con la Visione di s. Giovanni Evangelista, oggi ancora in situ e di cui si conserva anche un bozzetto (Salisburgo, Barockmuseum, collezione Kurt Rossacher: Marandel, fig. 15), commissionatagli in sostituzione di due quadri del Mazzola (Girolamo Bedoli) che erano stati venduti (Baistrocchi, c. 123).
Nella Visione colpiscono la sfavillante ricchezza cromatica, i contrasti fra luci abbaglianti e ombre profonde e soprattutto la grandiosità scenica del tumultuoso groviglio di corpi dalle anatomie marcate, cui fanno da contrappunto i panneggi corposi e nervosamente ritorti e agitati, e la statica figura di Giovanni, in cui si è intravista un’ascendenza di matrice romana marattesca (Cirillo - Godi, 1980, p. 78).
Nel corso di quello stesso 1687, il 15 marzo, il M. si trovava ancora fuori Genova, come attesta una lettera ad Arcioni di Pieter Mulier detto il Tempesta (Campori, 1855); mentre il 18 giugno era di nuovo nella città ligure, dove faceva testamento dal suo notaio di fiducia (Belloni, 1988, pp. 184 s.), in vista forse dell’imminente partenza per Parma.
Le opere lasciate nel Ducato dovettero ben impressionare gli Anziani del Comune di Parma che, preferendolo ad altri artisti, gli affidarono nel 1687 la realizzazione della cosiddetta Madonna di Piazza, l’affresco sulla facciata del palazzo del Criminale, in sostituzione di quello cinquecentesco del Bertoia (Iacopo Zanguidi), ormai in rovina.
Di questa opera realizzata nel 1688, intorno a cui Francesco Galli Bibiena dipinse subito dopo l’incorniciatura, e andata perduta meno di un secolo dopo con il riassetto della piazza da parte di Ennemond-Alexandre Petitot intorno al 1760 (Cirillo, p. 25), si possiedono, oltre al bozzetto preparatorio, la ricca documentazione delle fasi di lavorazione trascritta nell’Ottocento da Scarabelli Zunti e un’affascinante memoria pittorica in un dipinto di Ilario Spolverini in cui è raffigurato il palazzo nella scena dell’ingresso del cardinale Ulisse Gozzadini a Parma (Cirillo - Godi, 1980, p. 89 fig.8). Il grazioso modelletto con l’Incoronazione della Vergine e ss. patroni di Parma della Galleria nazionale di Parma (ibid., p. 88 fig.7), nelle mani del ministro Guillaume du Tillot all’epoca di Ratti (Soprani - Ratti, II, p. 64), rivela una preziosità cromatica e una luminosità già riscontrate negli affreschi di S. Giovanni, nonché il consueto ritorcersi insistito dei panni e la ripresa del Grechetto nelle fisionomie allungate delle figure e nella tipologia della Vergine dal volto fine e appuntito (Cirillo - Godi, 1982, p. 94).
Nel biennio 1687-88 il M. si divise fra i lavori per Ranuccio II nella cappella del palazzo del Giardino, in collaborazione con Ferdinando Galli Bibiena, e l’affresco per il palazzo del Criminale. In una lettera datata 6 genn. 1689 chiese al duca di poter tornare a Genova, avendo ormai ultimato dopo due anni i lavori per il palazzo del Giardino e per quello del Criminale (Scarabelli Zunti, c. 189r).
Fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta si fa concordemente risalire l’Adorazione dei magi (Piacenza, Musei civici di Palazzo Farnese: Cirillo - Godi, 1982, fig. 5), dove si vede un rinnovato venetismo scaturito forse a contatto con Sebastiano Ricci, in quegli anni attivo nel Ducato (Arisi, p. 184), e riappare in una grazia quasi rococò la tipologia grechettiana della Vergine dell’Incoronazione parmense, che si ritrova anche nella Madonna con Bambino e s. Agostino (Parma, chiesa di Ognissanti: Cirillo - Godi, 1980, p. 90 fig. 9), proveniente da S. Agostino, dove una delle sorelle del M. era monaca.
Il 3 luglio 1690 il M. si trovava a Piacenza (Fiori, 1970, p. 108), ma nel 1692 era di nuovo a Genova, dove l’8 luglio fece un nuovo testamento, servendosi dello stesso notaio Celesia (Belloni, 1988, p. 185). Nel 1692 firmava e datava una pala oggi non rintracciabile con l’Assunzione della Vergine e apostoli che era posta sull’altare maggiore della chiesa delle monache benedettine della Pusterla di Pavia, dove si trovava anche una Vergine con Bambino e i ss. Siro e Benedetto (Bartoli).
Nella prima metà degli anni Novanta il M. lasciò i territori farnesiani e lavorò più attivamente in Liguria. Nel 1693 firmò e datò l’affresco sulla volta dell’altro transetto della basilica di S. Giovanni Battista a Finalmarina, con l’Assunzione e incoronazione della Vergine (Newcome, 1982, fig. 22). Doveva avvalersi di una bottega e di collaboratori, perché sia a Finalmarina sia a Sanremo, dove Ratti ne ricorda l’attività nel corso del 1695 (Soprani - Ratti, II, p. 67), realizzò opere vaste con impaginazioni ricche e complesse, che richiedevano l’intervento di specialisti di quadrature, abili nel creare illusorie scenografie architettoniche e nell’arricchirle con inserti decorativi.
A Sanremo affrescò la volta dell’oratorio della Concezione con il Padre Eterno in gloria con Virtù e profeti (Newcome, 1982, fig. 24), la cappella Borea nella chiesa gesuita di S. Stefano con S. Ignazio in gloria e angeli musicanti (ibid., fig. 25) e alcuni ambienti di palazzo Borea d’Olmo, dove realizzò anche un perduto affresco in facciata (Soprani - Ratti, II, p. 67). Le decorazioni per il palazzo includono una cappella, dove alle pareti sono raffigurate le due scene dell’Orazione nell’orto e della Flagellazione (Newcome, 1982, figg. 26a, 26b), chiuse in una cornice ovale e circondate da puttini con simboli della Passione e sul soffitto la Croce portata in gloria dagli angeli. Più nota è la volta della galleria, dove le cornici architettoniche lasciano il posto a un frondoso pergolato che si apre sul cielo, in cui al centro campeggia Aurora che scaccia le tenebre. Tutt’intorno putti alati che svolazzano o sono seduti accanto a vasi fioriti nelle lunette di raccordo fra volta e pareti, mentre ai quattro lati sono rappresentate le personificazioni delle Virtù cardinali.
Agli anni Novanta dovrebbero risalire l’affresco nella sacrestia della chiesa genovese della Consolazione con la Gloria di s. Agostino (Boggero), che ripete lo stesso stilema del santo portato in gloria da due angeli del voltino della cappella di S. Nicola a Parma e di quello di S. Ignazio a Sanremo, e la tela con Santo francescano in estasi (Genova, S. Francesco d’Albaro: Newcome, 2005, fig. 45). Ancora a questo periodo si riferisce la pala con il Riposo durante la fuga in Egitto di Pietra Ligure (chiesa di S. Nicola di Bari: Manzitti, 1992), di cui è stata resa nota anche una versione di piccolo formato (collezione Francesco Mossa: Id., 2008, pp. 276, 329 s. n. 125), che condivide con la redazione in grande l’interessante presenza della mano di Carlo Antonio Tavella per i brani paesaggistici (ibid., p. 330).
Alcune opere ricordate in guide o antichi inventari, alcuni coevi e dunque maggiormente attendibili, non sono rintracciabili, mentre altre sono state ricondotte negli anni al M. dalla critica su basi stilistiche. Nulla si sa delle decorazioni che egli avrebbe eseguito, secondo Ratti (Soprani - Ratti, II, pp. 65 s.), per il duca di Modena o dei cartoni per arazzi approntati per i Farnese (ibid.), opere di cui finora non sono stati rintracciati dati che potessero dare a queste notizie fondamento almeno documentario.
Il 28 luglio 1698 (Fiori, 1971, pp. 254-257) il M. stese l’ultimo testamento a Piacenza, in casa di Carlo Molina, quasi sicuramente figlio di quel Giuseppe destinatario del dipinto con Sacra Famiglia, che qualche anno prima lo aveva voluto come padrino al battesimo di una figlia e vicino al quale il M. chiese di essere sepolto. Morì a Piacenza il 30 luglio 1698, dopo aver trascorso tre mesi in casa Molina (Id., 1970, p. 108).
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A. Marengo