LAMPRIDIO, Giovanni Benedetto
Nacque a Cremona nel 1478 dal notaio Leonardo Bellintendi, assumendo poi il cognome di Lampridio (forse coniato sul greco αῶ ἰδέα, "bell'intendere"; ma risulta pure attestato un cognome Alfeo o Alfeno), già usato in famiglia, se lo zio Bartolomeo, umanista ospite a Roma della famiglia Cortesi intorno al 1480, veniva così citato nel De hominibus doctis di Paolo Cortesi (1489) e nei registri della Biblioteca Vaticana (con lui pare peraltro da identificarsi anche un Bartolomeo Petronio avunculus del L., poeta e precettore dei figli di Francesco Sforza). Anche in ragione di tale retroterra familiare, comunque, il L. dovette essere presto avviato agli studi classici, sotto la guida dell'umanista cremonese Niccolò Lugari, maestro pure di Marco Gerolamo Vida.
Forse era a Padova già nei primi anni del Cinquecento: Giovanni Piero Dalle Fosse (Pierio Valeriano) lo menziona tra i "sodales Patavii", ma sicuramente dal 1515 si trovava a Roma, dove, negli anni di straordinaria promozione culturale del pontificato di Leone X, si affermò, come già lo zio, come poeta e classicista "litteris Graecis doctus".
Nell'edizione greca delle odi di Pindaro (Roma, agosto 1515) eseguita da Zaccaria Calliergi e finanziata dal viterbese Cornelio Benigno, infatti, compariva un suo epigramma greco in lode di quest'ultimo. La testimonianza consente di far risalire già a questa fase l'interesse del L. per la poesia di Pindaro, di cui sarebbe stato nella sua produzione lirica latina cultore ed emulo, destinato a guadagnarsi la fama, non soltanto italiana, di primo iniziatore del pindarismo nella poesia moderna (esemplare al riguardo il giudizio di Lilio Gregorio Giraldi nel De poetis nostrorum temporum).
Paolo Giovio testimonia che egli fu chiamato a insegnare, insieme con Marco Musuro e Giano Lascaris, presso il Collegio greco istituito da Leone X nel 1516. Inoltre partecipò agli incontri presso gli Orti Colocciani e la villa di Pietro e Celso Mellini a Monte Mario, dove entrò in contatto con letterati e poeti.
Conobbe Baldassarre Castiglione (che nel 1523 si sarebbe dato da fare per avere il L. come precettore di Ercole Gonzaga e nello stesso anno, secondo una lettera di Castiglione ad Andrea Piperario, gli offrì protezione in una lite); Francesco Berni (che in una lettera a Giulio Sadoleto del 23 luglio 1518 si lamentava di non poterne seguire le lezioni di greco e che il L., in una lettera a Pietro Vettori del 4 marzo 1523, avrebbe indicato di tenere "come fratello"); Antonio Tebaldeo (cui il L. avrebbe indirizzato un carme invocandolo iudex della sua poesia, e l'amicizia con il quale è pure attestata dal riferimento a essi in uno scambio di lettere tra Francesco Bellini e Angelo Colocci, del 27 agosto e 25 sett. 1525); Vittoria Colonna (cui avrebbe dedicato un'ode consolatoria per la morte del marito, Ferdinando Francesco d'Avalos marchese di Pescara). Nello stesso contesto culturale il L. avviò il rapporto di stima e consuetudine che lo avrebbe legato nel tempo a Pietro Bembo.
Tra il 1522 e il 1523, dopo la morte di Leone X e la difficile successione di Adriano VI, il L. soggiornava a Firenze, come attesta in una lettera a Pietro Vettori del 21 febbr. 1523. Con il filologo e classicista fiorentino il L. avrebbe inaugurato in questo periodo un cospicuo scambio epistolare legato al comune interesse per i classici, soprattutto per le opere di Cicerone, alla cui edizione Vettori andava lavorando e nella ricerca dei cui manoscritti il L. si impegnava alacremente (così come, alla fine del 1526, avrebbe svolto ricerche di codici provenzali a Venezia per conto di Angelo Colocci).
Il carteggio superstite, conservato alla British Library (Add.Mss., 10267, cc. 326-339; 10277, cc. 70-71) si compone di tredici lettere indirizzate a Vettori tra il 21 febbr. 1523 e il 4 genn. 1537, ricche di informazioni di interesse biografico (si vedano i ripetuti accenti di stanchezza verso una Roma definita "miserabile", in lettera del 9 sett. 1523; oppure, in anni successivi, gli spostamenti tra Cremona, Verona e Brescia alla ricerca di codici ciceroniani, in una lettera da Padova del 30 luglio 1535), rilevanti per l'attività umanistica del L.: tra l'altro, egli si riferisce a "emendationi de Luciano" richieste a Calliergi, a un Eschilo manoscritto procuratogli da Vettori (sarebbe stato invece Cola Bruno a fargli avere "due Xenophonti"), ai contatti con personaggi quali Bartolomeo Cavalcanti, Pietro Alcionio, Ludovico Martelli, Ciriaco Strozzi, Francesco Campana.
A Roma, tuttavia, il L. tornava nel 1523, quando si trovò a dover fronteggiare una situazione piuttosto difficile, per problemi di salute e per restrizioni economiche, come attestano due lettere di Bembo a Giovanni Antonio e Manfredo di Collalto del novembre 1525. Impossibilitato ad assumere una qualche stabile sistemazione a Roma, si risolse ad accettare l'incarico di maestro personale di lettere classiche dell'abate Lorenzo Bartolini, al cui seguito si spostò tra Toscana e Romagna. Nella Pasqua del 1526 si trovava a Dovandola, nei pressi di Forlì, e tra l'autunno e l'inverno si trasferì a Padova, sempre al servizio di Bartolini (così in una lettera di questo a Pietro Aretino del 20 genn. 1529). Qui, grazie a una intensa attività di precettore privato, consolidò la sua posizione economica e poté inserirsi nell'ambiente umanistico padovano, all'ombra della prestigiosa tradizione universitaria, con la stima e la protezione di Bembo. A ciò, probabilmente, il L. dovette l'incarico di precettore dei due figli di Angelo Gabriele, l'antico sodale messinese di Bembo (che ne riferisce in una lettera ad Alessandro de' Medici dell'aprile 1535), mentre alle lezioni del L. su autori greci come Aristotele o Demostene partecipavano personaggi del calibro di Ludovico Beccadelli, Aonio Paleario, Bernardino Maffei, Cosimo Gheri, Daniele Barbaro (con i quali si stabilì un vero e proprio sodalizio, rievocato dal L. in un'epistola in esametri a Beccadelli; a questo e a Gheri, peraltro, sono dirette alcune lettere del L. degli anni 1533-36, in Onorato, pp. 164-173).
Unica testimonianza conservata di tale magistero è una Expositio in Theocritum (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambrosiano, R.102 sup.), che raccoglie cinque lezioni (datate a partire dal 2 maggio 1533) sui primi versi del I idillio teocriteo, e documenta un metodo solidamente ancorato agli aspetti lessicali e grammaticali del testo, commentato anche con il ricorso ad auctores quali Virgilio e Orazio.
Questa fervida occupazione di insegnante privato, tuttavia, non si affiancò mai a un impegno didattico pubblico, per il quale al L. pure non erano mancate le opportunità. Già intorno al 1530 Bembo e Niccolò Leonico Tomeo gli avevano proposto di assumere la cattedra di lettore di greco e latino a Padova, dove sino al 1524 aveva insegnato Romolo Amaseo (secondo quanto attesta la lettera di Bembo ad Alessandro de' Medici del 15 apr. 1535); il L. aveva rifiutato la proposta in ragione degli obblighi verso l'abate Bartolini (del fatto che il L. fosse "disposto a non volere questi carichi", sempre in rapporto alla medesima trattativa, riferisce anche una lettera di Cola Bruno ad Agostino Landi del 15 dic. 1528). Una seconda occasione sfumò alla fine del 1532, quando fu bocciata la proposta del rettore del Ginnasio patavino Sebastiano Foscarini di affidare la lettura di greco al L. in sostituzione di Lazzaro Bonamico, che continuò a mantenerla fino al 1552.
In quegli stessi anni, peraltro, l'ambiente padovano dovette sollecitare nel L. interessi filosofici e speculativi, rivolti in specie all'opera di Aristotele (già frequentata d'altronde negli anni romani, come documentano i prestiti ricevuti, presso la Biblioteca Vaticana, dell'Ethica nel 1518 e della Logica nel 1526), che egli andava approfondendo accanto ai suoi tradizionali studi oratori, come riferisce lo stesso Bembo in una lettera a Sadoleto del 26 ott. 1532. Forse egli aveva seguito negli anni 1527-31 le lezioni del Tomeo, cui dedicò una lunga ode in cui lo elogia come fedele interprete di Platone e di Aristotele; e a quella scuola, verosimilmente, risaliva la conoscenza di Reginald Pole, con cui intrattenne rapporti di amicizia (nell'epistolario del Pole si conserva una lettera del L. datata 30 dic. 1536), e cui avrebbe dedicato un carme (nel ms. Clm. 485 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, cc. 89v-93v). In virtù di questa applicazione agli studi filosofici negli anni padovani, del resto, il L. fu interpellato, insieme con il Bonamico e lo stesso Pole, sul De laudibus philosophiae di Iacopo Sadoleto (secondo quanto documenta una lettera di Paolo Sadoleto a Bembo del 22 nov. 1535).
Da Padova il L. sarebbe ripartito nei primi mesi del 1536, forse a seguito della morte di Bartolini (compianto nel carme Ad Laurentium Bartholinum iam mortuum, databile tra 1536 e 1540), per trasferirsi il 27 marzo a Mantova, al servizio del duca Federico II Gonzaga come precettore del figlio Francesco per 300 scudi annui più spese di vitto e alloggio. Il nuovo incarico, comunicato dal L. a Vettori già in una lettera del 13 febbr. 1536 e preannunciato al duca da Gerolamo Gabbioneta il 24 gennaio, giungeva a seguito di una trattativa condotta dal benedettino Gregorio Cortese, che ne informava il cardinal Gasparo Contarini in una lettera dell'8 marzo 1536; ancora il 16 dello stesso mese Cortese riferiva a Federico Gonzaga che il L. era invitato a insegnare anche a Roma. La nomina ufficiale a praeceptor perpetuus, insieme con il conferimento della cittadinanza onoraria di Mantova, si ebbe il 12 aprile, e già nel giugno - secondo una notizia di Gabbioneta al duca - il fanciullo si mostrava "tanto savio che fa stupir messer Lampridio", e il maestro ne incentivava i progressi facendogli leggere un "libretto […] de ditti de philosophi et imperatori ed altri signori" (così in una lettera a Vettori del 4 genn. 1537).
Tale si era ormai consolidata la fama del L. quale precettore in lettere classiche, che lo stesso Bembo (il quale non per caso gli aveva già sottoposto nel 1532 il De recte instituendis liberis di Sadoleto) decise di affidargli il dodicenne figlio Torquato, che a tale scopo faceva trasferire a Mantova nel giugno del 1537, informandone Beccadelli con lettera del 6 luglio 1537. Ma in questo caso l'insegnamento si rivelò meno efficace e a Torquato, che pure dava prova di imparare, recitando dinanzi a Gregorio Cortese i primi due idilli di Teocrito e le prime due bucoliche virgiliane (lettera di Cortese a Bembo del 30 giugno 1538), il padre inviava la ben nota epistola del 10 novembre in cui, mentre richiamava il figlio ai suoi doveri, esprimeva un maestoso giudizio sul precettore: "Io vorrei udire che attendesti ad imparare più volentieri che non fai, e che pigliasti quel frutto dello aver m. Lampridio a maestro, che dei; pensando che hai tu più ventura che tutto il rimanente de' fanciulli della Italia, anzi pure di tutta l'Europa, i quali non hanno così eccellente e singolar precettore e così amorevole, come hai tu".
La vicenda rafforzò il legame del L. con Bembo, il quale, elevato a cardinale il 24 marzo 1539, si avvaleva del L. quale referente presso la corte mantovana: così il 10 giugno 1539 Bembo mandava i saluti ai duchi per il suo tramite, e anche Bartolomeo Ricci chiedeva al L. di intercedere presso il duca riguardo la causa di un suo parente. Ad angustiare la vita del L. a Mantova, serenamente assestata tra studi e insegnamento, sopraggiunsero, nell'aprile 1539, una lite verbale con Paride Mondino, procuratore fiscale e membro della corte, quindi, dall'ottobre dello stesso anno, una malattia che lo costrinse a letto e a sospendere le lezioni per un mese. La malattia lo colse di nuovo nella primavera del 1540 e stavolta lo portò alla morte, a Mantova, il 4 giugno 1540.
Fu sepolto nella chiesa di S. Andrea a Mantova; ricevette l'epigramma funebre del bibliotecario della Vaticana Fausto Sabeo, mentre Pietro Mirteo compose l'iscrizione tombale. La fortuna del L. poeta fu in buona parte postuma, affidata all'edizione dei Carmina curata da Ludovico Dolce per i tipi del Giolito nel 1550, dove insieme con le poesie di G.B. Amalteo erano pubblicati trentanove carmi del L. (ventiquattro odi in metro pindarico, sette in metro oraziano, tre epistole in esametri e cinque epigrammi); quindi all'edizione stampata a Cremona nel 1575 (presso C. Draconi), e soprattutto alla sezione a lui dedicata nella grande antologia curata da Giovanni Matteo Toscano edita a Parigi nel 1576 (Carmina illustrium poetarum Italorum, cc. 83v-152v), dove il corpus lampridiano assomma a quarantadue carmi, cui andranno aggiunti sedici estravaganti (per una dettagliata recensio cfr. Onorato, pp. 142-161; cui andrà integrato Biblioteca apost. Vaticana, Reg. lat., 1593, cfr. Parenti). A tale produzione il L. dovette lavorare nel corso dell'intera vita, dai primi anni romani sino alla morte. Si tratta di liriche a carattere per lo più encomiastico, connesse a occasioni funebri, nuziali o celebrative, ma vi figurano anche taluni carmi di argomento mitologico (il De Venere et Cupidine fugitivo, imitazione di Mosco in endecasillabi faleci; l'In candorem Veneris, in distici elegiaci) e di materia amorosa (tra essi il più noto In rosas, quarum spinis puella fuerat contacta, in faleci). Tra i nomi dei destinatari, che testimoniano l'ampiezza delle relazioni del L., si possono annoverare personaggi di rilievo politico (Francesco Sforza, Enrico VIII, Giulio e Alessandro de' Medici, Federico II Gonzaga), ecclesiastico (Leone X, Paolo III, i cardinali Reginald Pole, Lorenzo Pucci, Matteo Schinner, Ercole Rangoni, Gian Matteo Giberti, Andrea Corner, Giovanni Ruffo Teodoli) e letterario (tra gli altri: Antonio Tebaldeo, Baldassarre Castiglione, Pietro e Celso Mellini, Battista Casali, Lazzaro Bonamico, Pietro Bembo, Vittoria Colonna, Giano Lascaris, Ludovico Beccadelli, Pietro Corsi, Bernardo Trebazio Angeli). Particolarmente significativa, in ordine alla poetica del L., l'epistola in 328 esametri al poeta Latino Giovenale de' Manetti, dove tra l'altro egli difende il proprio pindarismo dalle critiche dei detrattori, orazianamente consapevole dell'audace opzione in favore di un "novum carmen". Tra i contemporanei che manifestarono stima per la sua poesia, oltre al già menzionato Giraldi, andranno annoverati Bartolomeo Ricci (che nel De imitatione lo esaltava come unico a osare l'imitazione di Pindaro), il poeta Nicolò d'Arco (che rispedendo le odi del L. al corrispondente Annibale Litolfo, le definiva "rarum opus atque inusitatum"), Marco Antonio Flaminio e Celio Calcagnini (autore di un elogiativo carme Ad Lampridium). Oltre ai manoscritti e alle edizioni citate, componimenti del L. si trovano in: Delitiae CC Italorum poetarum huius superiorisque aevi illustrium, a cura di R. Ghero [J. Gruytere], I, s.l. [ma Francoforte] 1608, pp. 1271-1384; Carmina illustrium poetarum Italorum, a cura di T. Buonaventuri - G.G. Bottari, VI, Florentiae 1720, pp. 1-81, 410; I. Sannazzaro, Poemata…, Patavii 1751, pp. 128-141; B. Castiglione, Poesie volgari, e latine, a cura di P. Serassi, Roma 1760, pp. 162 s.; Ode di Benedetto Lampridio cremonese a Bernardino Trebazio vicentino, trad. di B. Morsolin, in Nozze Cogollo-Girotto, Vicenza 1863, pp. 17-25; Antologia della lirica latina in Italia nei secoli XV e XVI, a cura di E. Costa, Città di Castello 1888, pp. 107-109; E. Legrand, Bibliographie hellénique…, I, Paris 1885, pp. 130 s.; Poeti estensi del Rinascimento, a cura di S. Pasquazi, Firenze 1966, pp. LII s.
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