CAMBI, Giovanni
Nacque a Firenze intorno al 1444 da Niccolò dei Cambi da Querceto; della madre conosciamo soltanto il nome, Margherita. Non va confuso con il cugino, figlio di Bernardo Cambi, suo omonimo, che visse all'incirca nello stesso periodo, ma politicamente militò in campo opposto e morì decapitato nel 1497. Appartenente ad una famiglia di mercanti, lavorò a partire dal 1470 a Bruges nella accomandita: "Bernardo Cambi ed Antonio da Rabatta", che lo zio aveva nella città fiamminga e nel 1480 vi si trovava ancora: "...a lloro dischrezione di salario". Durante questo periodo conquistò il favore dell'imperatore Federico III e del figlio Massimiliano; con quest'ultimo rimase in contatto anche negli anni successivi, quando la sua permanenza a Bruges si fece più discontinua e in seguito, all'epoca del suo rientro definitivo in patria, come ci testimoniano, tre documenti.
Il primo di questi è un salvacondotto rilasciato a Bruges il 12 sett. 1482 da Massimiliano al C. su sua richiesta; già allora egli veniva chiamato: "...fidelis et dilectus consiliarus noster". Il secondo è una lettera scritta da Vienna il 16sett. 1490, in cui Massimiliano gli domanda di recuperare per suo conto alcuni libri e quadri di gran valore, appartenuti al re d'Ungheria Mattia Corvino ed in quel momento a Firenze, nelle mani dei pittori tedeschi Alessandro e Raffaello Formoser. Anche da questa notizia si ricava che il C. godeva della piena fiducia di Massimiliano: il compito affidatogli era infatti molto riservato e la lettera costituisce l'unica prova del tentativo asburgico di impadronirsi dei beni del Corvino quando già fervevano i preparativi per l'incoronazione di Ladislao Iagellone successore designato. Il terzo documento è ancora una lettera, scritta a Linz il 30 genn. 1491, e contiene una lista di drappi e broccati che il C. doveva acquistare a Firenze per conto del principe. Tutti e tre i testi hanno il medesimo destinatario: "...al consigliere Giovanni Cambi in Firenze" e ciò ha fatto sorgere il problema se esse fossero dirette al figlio di Bernardo o al figlio di Niccolò; la questione appare risolta se si considera che alla data del 12 sett. 1482 il figlio di Bernardo si trovava quasi certamente a Pisa (vi si era recato la settimana precedente), mentre il figlio di Niccolò si trovava a Bruges per concludere un affare qualche mese prima del dicembre 1482, come risulta da altra fonte.
Verso il 1483 dovette rientrare definitivamente a Firenze, poiché l'anno dopo venne eletto tra i Priori. In seguito divenne uno dei più ferventi seguaci del Savonarola, tanto da esser considerato insieme con Giovan Battista Ridolfi, Domenico Bonsi, Iacopo ed Alamanno Salviati fra i capi del partito dei frateschi.
Nel 1497 sedette di nuovo tra i Priori e nella pratica che si tenne il 3 marzo dell'anno seguente fu tra coloro che si opposero alle pretese pontificie difendendo l'autonomia della città e l'operato del Savonarola, da lui definito: "tesoro da essere desiderato da ognuno"; il papa infatti aveva inviato il 26 febbraio due imperiosi brevi coi quali si ordinava di impedire la predicazione del frate. Il 26 luglio dell'anno precedente il C. aveva ricevuto una lettera di consolazione dal Savonarola per la malattia del figlio (di cui ignoriamo il nome, a meno che non sia quel Niccolò che è l'unico ad esser menzionato nei libri di amministrazione). I rapporti tra i due erano dunque stretti anche sul piano personale.
Il 9 apr. 1498 il Savonarola, durante gli interrogatori del processo, dichiarò che il C. era l'autore di una delle cinque lettere fatte scrivere per suo conto ad altrettanti sovrani in vista della convocazione di un concilio. Sulla base di questa accusa il C. venne convocato il 23 dello stesso mese e richiesto di esporre la sua versione dei fatti. Egli confermò di avere scritto una lettera all'imperatore, circa quaranta giorni prima, ma non su ordine del Savonarola, bensì di sua spontanea volontà: ben conoscendo infatti i gusti di Massimiliano e la sua cultura, aveva pensato di inviargli il libro Il Trionfo della Fede del predicatore fiorentino; dichiarò inoltre di aver aggiunto nella lettera alcune parole sul frate, sulle sue profezie, sul bisogno di rinnovamento della Chiesa e sulla necessità che l'imperatore ponesse rimedio a tanto male con la convocazione di un concilio, come già si era fatto nei tempi antichi. Narrò poi di aver portato la lettera al convento di S. Marco perché fosse tradotta in latino; tornato dopo tre giorni per riprenderla, gli fu detto che il padre Savonarola, vista la sua missiva, desiderava parlargli. Recatosi dal frate, costui gli aveva detto che aveva trovato la lettera di suo gradimento, ma che vi aveva apportato alcune modifiche ed accluso una copia di un'altra sua lettera al papa. Il C. non aveva opposto obiezioni ed alcuni giorni dopo, ritornato al convento, aveva trovato il testo tradotto in latino, lo aveva firmato ed affidato ai frati col compito di spedirlo.
In pratica il C. non smentì le accuse, ma, almeno a giudicare dalla copia che ci è restata del suo interrogatorio, cercò di giustificarsi: sottolineò cioè come scusante la grande fiducia che aveva nutrito nei confronti del frate e la convinzione che egli fosse un profeta, specificando però che ormai di tutto ciò si ravvedeva e chiedeva perdono. Dovette anche discolparsi per aver firmato la sottoscrizione da inviare a Roma ed affermò di averla firmata solo su sollecitazione altrui. Ricusò tuttavia ogni altro addebito per qualsiasi altra pratica si fosse svolta in S. Marco. Fra' Silvestro Maruffi, nella sua deposizione al processo il 25 aprile successivo, lo annoverò tra coloro che si recavano più frequentemente al convento di S. Marco, che parlavano spesso col frate incriminato e che erano reputati suoi amici, imputandogli anche di aver pronunciato la frase: "Se gli arrabiati hanno una Signoria a loro modo, e' ci caccieranno da Firenze!". Nonostante ciò, la sua dichiarazione di pentimento dovette essere sufficiente per farlo assolvere, poiché non risulta che egli sia stato condannato, né che la sua reputazione sia stata pregiudicata in qualche modo dal processo subito.
Null'altro si sa di lui dopo quest'episodio, se non che nel 1506 fu di nuovo scelto a far parte dei Priori.
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, Diarii, I, Venezia 1879, col. 951; Le lettere di Girolamo Savonarola, a cura di R. Ridolfi, Firenze 1933, p. 155; P. Villari, La storia di G. Savonarola e de' suoi tempi, II, Firenze 1910, pp. 125, CLXX, CCXXVIII, CCXXIX, CCLXVII; P. Ginori-Conti, Carte Cambi da Querceto (secc. XV-XVI), Firenze 1939, pp. 22, 37-41, 44, 48; G. Schnitzer, Savonarola, I, Milano 1931, p. 419; R. Ridolfi, Vita di G. Savonarola, Roma 1952, 1, pp. 313, 336; II, p. 205.