D'ANDREA, Giovanni
Nacque a Napoli il 29 apr. 1776, unico figlio del marchese Francesco Saverio e di Maria Gaetana Ranuzzi dei conti di Porcetta.
Ben presto si dedicò allo studio del diritto, cui abbinò i classici greci e latini, la storia, l'economia politica, il pensiero del Vico. Dopo aver esercitato alcuni anni la professione forense, nel 1803 fu nominato giudice della Gran Corte della Vicaria, nella quale si distinse (secondo lo Spada, un suo biografo molto apologetico) per conoscenza e capacità d'interpretazione del diritto, per fermezza e per solerzia. L'avvento del dominio francese rappresentò un fatto traumatico per il D., sia per la sua fedeltà verso i Borboni, sia per la sua religiosità, che gli impediva di approvare l'introduzione del divorzio. Così, quando nel 1808 venne promosso giudice del magistrato d'appello, il D. si dimise da ogni incarico e si ritirò in una villa in campagna. Qui si dedicò a studi sull'agricoltura e sulle api e alla traduzione delle Storie di Tacito, che però non riuscì a completare e a portare avanti in modo soddisfacente: egli stesso definì la traduzione molto mediocre e non degna di essere data alle stampe.
Nel 1815, con il ritorno a Napoli della dinastia borbonica, il D. ritornò alla vita pubblica come direttore generale delle Poste, carica che ricoprì con la consueta diligenza per cinque anni, segnalandosi anche per la redazione di una sorta di codice con tutte le norme relative al servizio postale.
Dopo il congresso di Lubiana, che pose fine al governo costituzionale nel Regno delle Due Sicilie, Ferdinando I nominò il 23 marzo 1821 un governo provvisorio, includendovi il D. come direttore delle Finanze. Egli ricoprì questo incarico per poco più di un anno: nel giugno dell'anno successivo tornava a prendere le redini del Regno L. Medici, che assumeva su di sé anche la carica di ministro delle Finanze.
Il breve periodo in cui il D. diresse l'amministrazione finanziaria fu comunque molto importante. Il Regno, infatti, si trovava sull'orlo della bancarotta: il Banco delle Sicilie, le ricevitorie delle imposte e qualsiasi risorsa erano esauriti; i debiti erano enormi; forti spese si rendevano necessarie per il mantenimento dell'esercito austriaco di stanza nel Regno. Di fronte a tale situazione il D. agì in modo efficace. Per diminuire le spese vennero unificati alcuni uffici pubblici e fu accorpata all'erario l'amministrazione dei Ponti e strade; per rinsanguare le finanze statali si fece ricorso a un grosso prestito con la Banca Rothschild. Le misure prese dal ministero delle Finanze non furono però frutto esclusivo del D'Andrea. Questi, diligente ed onesto funzionario, ma non eccelso uomo politico o brillante economista, si limitò - come osserva il Cingari -a richiamare in vita il bilancio predisposto dal Medici per il 1820 e a seguire l'indirizzo di politica finanziaria di un valente funzionario del ministero, C. Caropreso, fedele seguace del Medici, ammesso per queste sue qualità alle discussioni del Consiglio di Stato.
Tale giudizio sull'operato e le attitudini del D. è confermato dall'economista e geografo contemporaneo L. Giustiniani, secondo il quale ben poche erano le decisioni che il D. fosse in grado di prendere (Maturi), e d'altra parte è confermato anche dall'incertezza e dall'inazione manifestate in varie importanti questioni economiche che si presentarono nel secondo periodo in cui diresse il ministero delle Finanze, dal 1830 al 1841. All'avvento al trono di Ferdinando II, infatti, il D. venne richiamato a ricoprire l'antico incarico, dopo un secondo periodo di ritiro a vita privata durato otto anni. Dal marzo 1831 abbinò l'incarico di ministro delle Finanze con quello ad interim di ministro degli Affari Ecclesiastici. Il ministero delle Finanze da lui presieduto portò avanti diverse iniziative, che però erano l'esecuzione della politica fiscale inizialmente innovativa del re o la continuazione dell'azione intrapresa dal Medici. Così portò anche la sua firma il provvedimento che nel 1831 riduceva l'imposta sul macinato del 50%, mentre fu il principale promotore del ripulimento dell'acquedotto Claudio, iniziato dal Medici nel 1826 e completato tra il '32 e il '34, e della costruzione del ponte in ferro sul Garigliano realizzato tra il '28 e il '32.
La più rilevante iniziativa del D. riguardò l'importante questione del Tavoliere di Puglia, un'antica proprietà demaniale legata alla pastorizia transumante.
Già nel periodo francese si era proceduto all'affrancamento dei canoni pagati dai contadini e pastori al fisco e alla liberalizzazione della cultura delle terre, che prima non potevano essere coltivate per oltre un quinto. L'esperimento era stato però disastroso per la difficoltà che i nuovi censuari avevano incontrato nel riscattare le terre e probabilmente anche per questo motivo - oltre che per vocazione restauratrice - nel 1817 era stato deciso il ritorno all'antica situazione. Nel 1831 il D. promosse un dibattito sull'argomento chiedendo il parere ad intendenti, magistrati ed economisti. Quasi tutti - con alcune differenze sui tempi e sui modi - si dichiararono favorevoli all'affrancamento dei canoni e al dissodamento dei terreni; i loro interventi vennero pubblicati su iniziativa del D. in una Raccolta di memorie e di ragionamenti sul Tavoliere di Puglia (Napoli 1831), ma bastò l'intervento a sfavore del professore d'economia all'università, A. Longo, per scoraggiare l'iniziativa, nonostante il parere favorevole del D'Andrea. Questi, come tutto il governo, finì per attuare la politica del rinvio o del compromesso, deludendo le attese e le richieste di gran parte dell'opinione pubblica di modernizzazione dello Stato.
In particolare il D. restò estremamente legato al fiscalismo della politica finanziaria, che non gli consentì di prendere iniziative che avrebbero privato le casse dello Stato di una cospicua entrata (anche se spesso solo teorica, per la difficoltà dei censuari del Tavoliere di pagare i canoni). Non diverso fu il suo atteggiamento nei confronti della Banca del Tavoliere, un'iniziativa di uomini d'affari pugliesi, napoletani e stranieri per il credito agrario ai censuari attanagliati dall'usura. Dopo l'approvazione reale dello statuto nel 1834, governo e magistratura contestarono l'atto costitutivo della Banca e la sua iniziale attività, per la mancanza dell'avallo governativo. Il D. nominò perciò in due riprese, nel '37 e nel '38, un commissario governativo, ma continuò nella sua politica "tortuosa ed elusiva" (Giura) sia di fronte alle richieste di controllo ed intervento formulate dai capitalisti, sia nei confronti dello stesso commissario, al quale non furono mandate le direttive più volte richieste. È probabile che tale atteggiamento, che provocò la definitiva caduta dell'iniziativa, fosse dovuto, più che ad incapacità del D., all'influenza che andarono esercitando su di lui - in un primo momento favorevole alla Banca - i funzionari del Banco delle Due Sicilie e quant'altri tra gli uomini di governo erano per un'estrema centralizzazione del credito.
Il D. non fu quindi in grado di attuare riforme in materia economica e finanziaria, sebbene negli anni Trenta si diffondesse sempre più nel Regno un movimento di rinnovamento e modernizzazione dello Stato. Fu invece l'uomo politico della normale, ma corretta, amministrazione, capace di estinguere i debiti dello Stato e perciò meritevole di ottimi apprezzamenti da parte dei contemporanei, anche se di tendenze liberali. Ciò è ben sintetizzato in un giudizio (riportato dal Niccolini) espresso nel 1854 da Carlo Troya: "Trovò le finanze oberate: pagò con esattezza i pesi dello Stato: tolse talune imposizioni; procurò i fondi per varie opere pubbliche, non contrasse alcun nuovo debito: ritrovò il corso delle iscrizioni del debito pubblico consolidato al 68, le lasciò al 106: lasciò ducati 2.200.000 circa di deposito nella cassa di Tesoreria: fatti compiuti che superano ogni elogio". Tale azione, quella ancor più improntata verso la normale amministrazione come ministro degli Affari ecclesiastici, con provvedimenti di scarso rilievo, per lo più volti a restituire alla Chiesa proprietà e prerogative perse negli anni precedenti, fu troncata da morte improvvisa il 31 marzo 1841 a Napoli.
Bibl.: Non mancano biografie, orazioni funebri, elogi e brevi ricordi, retorici e apologetici del D., pubbl. dai contemporanei. Della gran parte non è il caso di far cenno; utili sono solo l'ampia biografia, ma apologetica e prolissa di P. Spada, Della vita del march. G. D.,Napoli 1842 (Poi rist. in Giornale arcadico, CXIX[1850], pp. 178-256), e la memoria accademica di N. Niccolini, Della vita del march. G. D., Napoli 1856, anch'essa però retorica e piena di inutili riferimenti classici. Dalla biografia dello Spada sono tratte e riportate acriticamente alcune sommarie notizie nel Diz. del Risorgim. nazionale, II, pp. 827 s. V anche F. Ercole, Gli uomini politici, I,Roma 1941, p. 420. Giudizi e notizie sull'operato nel periodo 1821-22 sono in P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, a cura di N. Cortese, III, Napoli 1969, pp. 289, 304, 319 s.; W. Maturi, Il Principe di Canosa, Firenze 1944, p. 174; G. Cingari, Problemi del Risorg. meridionale, Messina-Firenze 1965, p. 12; Id., Mezzogiorno e Risorgimento. La restaur. a Napoli dal 1821 al 1830, Bari 1970, pp. 24, 43, 142. Sul D. negli anni Trenta si soffermano: R. De Cesare, La fine di un Regno, I,Roma 1975, pp. 248, 272; G. Talamo, Napoli da Giuseppe Bonaparte a Ferdinando II, in Storia di Napoli, IX, Napoli 1970, pp. 90, 103; L. Parente, Ideologia politica e realtà sociale nell'attività pubblica di M. De Augustinis, in Arch. stor. per le prov. nap., XI (1973), pp. 39 s., 55, 89; R. Colapietra, La grande polemica ottocentesca sul Tavoliere di Puglia, in Rass. di polit. e storia, VI (1960), 74, pp. 27, 31; V. Giura, La Banca del Tavoliere. Una storia ignorata, Napoli 1967, ad Indicem. Suentrambi i periodi si sofferma sommariamente L. Bianchini, Storia delle finanze delle due Sicilie, Napoli 1971, pp. 494, 536, 548.