Gentile, Giovanni
Nato a Castelvetrano nel 1875 e morto a Firenze nel 1944, G. fu uno dei maggiori pensatori e storici della filosofia e della cultura del 20° secolo. La prima guerra mondiale rappresentò la maturazione della sua vocazione politica che trovò compimento nell’adesione al fascismo fino alla tragica conclusione della sua vita, quando fu ucciso in un’azione dei partigiani (ma l’episodio nella storiografia riceve ancora versioni non univoche). Come ministro nel primo governo Mussolini, fu autore della riforma della scuola nel 1924.
Diversamente da Benedetto Croce, G. non fu attratto dall’opera machiavelliana, che quindi non costituì una fonte importante del suo pensiero politico. Solo indirettamente scrisse sul Segretario fiorentino, recensendo nel 1918 (Religione e virtù in Machiavelli) e nel 1920 (Etica di Machiavelli) alcuni saggi di Francesco Ercole (→), e nel 1921 (Machiavelli e il tacitismo) la monografia di Giuseppe Toffanin, Machiavelli e il “tacitismo”: la “politica storica” al tempo della Controriforma. Allusioni notevoli a M. si registrano anche in altri suoi saggi, in particolare in quelli dedicati al Rinascimento: infatti la lettura gentiliana di M. va inquadrata nel giudizio su questa età, che risulta cospicuamente influenzato dalle pagine desanctisiane.
Per G., il Rinascimento assunse un significato ambivalente. Da una parte, aveva segnato l’apertura della modernità grazie all’esaltazione di una soggettività creatrice, emancipatasi dai vincoli teologici medievali, educata a una restaurazione dell’antico grazie alla filologia, non intesa quale mera erudizione tecnica ed esercizio ecdotico, ma come conquista del senso storico. Ancora, il Rinascimento nelle pagine di Marsilio Ficino aveva preannunciato quella idea di un conoscere intimamente connesso al fare, che sarebbe stata ripresa e sviluppata da Giambattista Vico. D’altra parte, evidenziava G., il Rinascimento aveva segnato un indifferentismo etico e religioso e un individualismo estetico espressi dalla figura del ‘letterato’, ben esemplificata da Francesco Petrarca, e la esclusiva ricerca guicciardiniana del proprio «particulare».
In questa prospettiva, M. si configurava come il teorico di uno Stato inteso come «opera d’arte». G., pur citando Jacob Burckhardt, in realtà mutuava tale definizione in un senso differente da quello attribuitogli dallo storico di Basilea. Per quest’ultimo, Stato come opera d’arte (era il titolo di una delle parti della Civiltà del Rinascimento) aveva significato una politica frutto del calcolo razionale. Invece, il filosofo italiano intendeva che il Rinascimento e M. avevano palesato una nozione artistica (secondo il suo concetto di arte) della politica, ossia espressione di un momento soggettivo, immediato, sentimentale, non razionalmente elaborato. Soprattutto, G. voleva affermare che M., fermandosi alla nozione dello Stato frutto di una creazione affrancatasi da remore teologiche, non aveva attinto a una visione etica della politica. In modo precipuo, il suo principe non risultava amalgamato alla vita del proprio popolo, ma era appunto un artista guidato solo dalla sua ispirazione e dalla sua volontà. Inoltre, G. rilevava nell’opera machiavelliana residui naturalistici nella presentazione della fortuna quale puro limite estrinseco. Mentre Ercole, elogiando M., lo faceva assurgere a teorico di uno Stato che si concretizzasse in un popolo e in una nazione, vera unità etica, etnica e psicologica, nell’ottica di G. (che, peraltro, respingeva la concezione di una nazione razzialmente, etnicamente, e dunque naturalisticamente interpretata, diversa dalla sua imperniata sulle tradizioni culturali e morali), la politica machiavelliana mancava di un respiro morale, relegando la religione a un uso strumentale. Nonostante queste riserve, il pensatore dell’attualismo riscattava M. dalla sua rubricazione sotto la figura rinascimentale del letterato in virtù del suo patriottismo; per quanto il Segretario non avesse elaborato una vera idea di patria e di nazione, quale espressione della eticità di un popolo.
Altre notazioni di G., che giovano a rischiarare il suo ritratto machiavelliano, sono riscontrabili in alcuni articoli scritti durante e dopo la Prima guerra mondiale e in un discorso del 1924 su Tommaso Campanella. Nei primi, egli associava Heinrich von Treitschke e Otto von Bismarck a M., in quanto accomunati da una visione dei rapporti umani basata solo sulla forza e non illuminata dai valori morali. Il teorico e il politico tedesco non risultavano, però, completamente assimilabili a M., poiché avevano esasperato il suo realismo, facendolo degenerare in un individualismo nazionalistico e nell’angusto egoismo di un popolo.
D’altro canto, nel discorso campanelliano G. chiariva ancora meglio la propria interpretazione di Machiavelli. Colui che, a suo giudizio, nella tradizione politica italiana aveva meglio prefigurato la visione autentica dello Stato si era dimostrato proprio Campanella: questi, in effetti, compendiando nel suo pensiero la positiva eredità di M. e di Girolamo Savonarola, era pervenuto alla concezione dello ‘Stato etico’, superando profeticamente le aporie della moderna politica, scissa fra privato e pubblico, individuo e popolo, potere e morale.
Bibliografia: Guerra e fede, Firenze 1919, poi a cura di H.A. Cavallera, Firenze 19893; Dopo la vittoria, Firenze 1920, poi a cura di H.A. Cavallera, 1989; Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze 1920, 19553; Studi sul Rinascimento, Firenze 1923, 19683; Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 2 voll., Firenze 1990-1991.
Per gli studi critici si vedano: G. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna 1998; A. Scazzola, Giovanni Gentile e il Rinascimento, Napoli 2002; G.M. Barbuto, Machiavelli e i totalitarismi, Napoli 2005.